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Il popolo e i suoi usi e costumi

    Il popolo e i suoi usi e costumi

    In una regione, come la Campania, dove sono venute a contatto e si sono insediate nel corso dei secoli popolazioni, diverse per lineamenti somatici e per cultura, provenienti da oriente e da occidente, dal continente e dalle terre d’oltremare, era naturale che avvenisse non solo un mescolamento tra i gruppi etnici, ma anche un successivo inserimento dei nuovi apporti etnologici nella cultura tradizionale.

    Questi raramente hanno conservato pressoché inalterati i caratteri tradizionali, e comunque in ristrette zone montane, fuori dalle vie seguite dalle migrazioni umane e dalle pecore transumanti periodicamente dalle montagne alle pianure. A tal proposito si possono ricordare soprattutto le conche del Matese e del Monte Marzano, le valli del Cilento, l’alto bacino del Calore Irpino e, inoltre, alcuni centri dell’interno, tra cui in primo luogo Greci, che deve il nome alla presenza di una colonia albanese di rito cattolico greco, la quale è immigrata in Campania nella prima metà del secolo XVI ed ha conservato lingua, costumi, tradizioni e pratiche religiose.

    Nella maggior parte della regione, invece, non si è trattato di una semplice associazione dei nuovi apporti culturali ai vecchi o di una successiva stratificazione dei primi sui secondi, in cui gli uni conservassero le caratteristiche originarie fondamentali e gli altri la propria fisionomia, bensì di un’intima fusione di essi attraverso la profonda rielaborazione degli elementi estranei nella cultura locale, la quale si è andata arricchendo in tal modo di nuovi motivi ed assumendo forme sempre più complesse ed interessanti.

    L’esame dei caratteri somatici principali ci consente di distinguere un tipo nettamente prevalente, meglio conservato nelle zone collinari e montane, a causa del loro maggiore isolamento. Le caratteristiche principali di tale tipo appenninico sono una statura non molto alta, un colorito della pelle bruno, talvolta di notevole intensità, una dolicocefalia ben marcata, una faccia alta e stretta ed un cranio poco ricurvo posteriormente, capelli lisci, non raramente ispidi, e generalmente perenni, obesità limitata.

    Il biondismo non è raro specie in alcuni centri della pianura, e forse meno in città che in campagna, se si escludono alcune zone del Piano Campano dove costituisce senza dubbio un’eredità normanna. Aversa, come è noto, fu creata dai Normanni che affluirono numerosi nella Pianura Campana nel secolo XI e vi si stanziarono. A tal proposito si può ricordare che gli abitanti di Làuro, presso Sessa Aurunca, sono chiamati con l’epiteto di laurisi pili russi, per il colore dei loro capelli.

    Abbastanza diffuso è il tipo con colorito chiaro, capelli castani, dolicocefalia poco accentuata, faccia non molto alta, calvizie abbastanza diffusa. Si potrebbe considerare il tipo misto, derivato da maggiori mescolamenti e quindi meno puro.

    Di solito la popolazione della Campania collinare e montana presenta una limitata tendenza alla pinguedine e all’obesità, forse anche per una vita più attiva, per il tipo di alimentazione, oltre che per caratteri etnici, mentre quella della pianura e delle città, vuoi per la vita sedentaria, vuoi per l’alimentazione, vuoi per altre ragioni, tende ad ingrassare. Le donne in particolare sin da età relativamente giovane assumono l’aspetto di matrone per l’esuberanza delle loro forme, che in breve giro

    di anni diventano un peso tale da opprimere ed ostacolare i movimenti, specie quando lo sviluppo della carne non è stato accompagnato da un conveniente irrobustimento delle ossa. Passano la loro vita in gran parte sedute nei cortili o sugli usci e sui marciapiedi, a riposarsi dopo i brevi periodi di lavoro o a fare commercio di piccole cose oppure a chiacchierare e a creare intrighi e malintesi, che di frequente sfociano in liti in cui si azzuffano mamme e figlie e amiche e si strappano i capelli a vicenda ed in cui talvolta sono implicati anche gli uomini. Non vi è vicolo dei quartieri popolari di Napoli e delle minori città della pianura in cui non capiti di assistere frequentemente a scene del genere.

    Il popolo della Campania, e di Napoli in particolare, è legato alle tradizioni, che vuol conservare a tutti i costi, come mostrano vari avvenimenti storici legati al rispetto o al vilipendio delle sue concezioni e dei suoi sentimenti. Ciò non significa che non abbia risentito gli influssi innovatori, diventati più frequenti nei tempi moderni, ma che si è fatto suggestionare meno dai facili successi di alcuni movimenti di pensiero, rivelando una notevole saggezza e conservando il suo più volte millenario patrimonio culturale.

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    L’uso del costume tradizionale è ormai scomparso in quasi tutta la regione, e il processo di rinnovamento si è accentuato specialmente in questi ultimi decenni. Esso si era conservato più a lungo nelle zone montane appartate, come in alcuni centri del Monte Marzano (Buccino), della Catena della Maddalena (Caggiano) o del Matese (Gallo, Valle Agrìcola, Cerreto Sannita, Pontelandolfo) e di alcune dorsali dell’Appennino Sannita (Bisaccia, Calitri, Greci). Per gli uomini l’uso del costume è cessato già ai primi del nostro secolo anche nelle zone ricordate, per le donne si è protratto più a lungo e perdura tuttora nel Matese (Gallo, Valle Agrìcola) e a Greci, e talvolta è da mettere in relazione con la presenza di gruppi etnici immigrati. Gli abitanti di Greci sono albanesi, quelli di Gallo sono ritenuti bulgari, e quindi discendenti dai seguaci di Alczeco, accolti nel VII secolo d. C. nel territorio di Isernia e vissuti per secoli isolati in quella conca alta del Matese.

    Comuni a tali costumi sono le camicie bianche ricamate, i nastri, le cinghie, i ciondoli, le borchie, i bottoni dorati, i grembiulini bianchi e le tovaglie merlettate per il capo. Non raramente le gonne sono di colore diverso secondo che la donna sia nubile, maritata o vedova.

    Tra i più caratteristici e bei costumi delle varie province bisogna ricordare quelli di Gallo per la Terra di Lavoro, di Cerreto Sannita e di Pontelandolfo per la provincia Sannitica, di Greci, Bisaccia, Calitri e Montecalvo per l’Irpinia, di Contursi, Buccino e Caggiano per la provincia di Salerno. I pittoreschi costumi sorrentini e capresi sono stati ormai smessi e si usano solo per rievocare ai forestieri, con la tarantella, un aspetto del folclore locale.

    Il ciclo della vita.

    Per quanto riguarda le costumanze, ci si limiterà a ricordarne soltanto alcune relative al ciclo della vita. I figli sono di solito parecchi, nel passato anche una dozzina o di più, per cui molte sono le famiglie numerose, sebbene in questi ultimi tempi si tenda a limitare il numero di essi. « Meglio ricchi di carne, che di danaro » affermavano orgogliose le mamme di tali famiglie patriarcali, in cui però il danaro

    mancava qualche volta a tal punto da crearvi una vera miseria, che assicurava solo pochi cenci per vestire e un povero tugurio per abitare. Il primo figlio maschio prende il nome del nonno paterno, la prima figlia femmina dalla nonna paterna, poi si accolgono i nomi degli altri nonni e successivamente quelli degli zii. Venuto alla luce il nuovo rampollo si manda un fratello maggiore o un cugino a dar la notizia ai vari parenti, i quali sogliono far la gioia dei portatori della lieta novella con un regalo in danaro.

    Il piccolo nato trova qui come altrove presso i genitori e i parenti gli appellativi più strani; per lui la madre implora la benedizione divina e trova le cantilene più adatte per farlo addormentare. Chiede perciò anche l’intervento dei Santi, perchè gli diano un sonno tranquillo e lo rendano buono. E il Santo invocato è diverso da un luogo all’altro, secondo la devozione degli abitanti del posto o delle regioni vicine.

    Infatti nella zona orientale dell’Irpinia si ricorre soprattutto a San Nicola, che è protettore di Bari e molto venerato in Puglia: è un esempio dell’influenza religiosa della regione confinante.

    La mamma personifica il sonno e chiede che giunga su un cavallo bianco adornato a festa, perchè il bimbo si addormenti; ma nella Penisola Sorrentina ricorre di frequente l’immagine del sonno su un cavallo dalla sella dorata, che si invita a venire via mare per fare più presto e per non sbagliare destinazione. Anche in questo caso la posizione geografica influisce sulla immaginazione della mamma, che pensa spontaneamente a un viaggio sull’elemento che s’innalza fino all’orizzonte, a prescindere dalla capacità di percorrerlo da parte del mezzo di trasporto considerato.

     

     

    Il bimbo cresce, diventa un ragazzo e cambia i denti. Nell’Appennino Sannita (Sant’Angelo dei Lombardi) i ragazzi buttano il dente caduto sul tetto e chiedono che al posto di quello storto caduto ne cresca uno diritto; nella Penisola Sorrentina essi lo depositano in uno stipite, domandando una zappella nuova in cambio della vecchia.

    Gli anni passano e la ragazza comincia a sospirare per qualche giovanotto e sfoglia le margherite per indovinare se la persona dei suoi sogni le vuole bene. Prima delle nozze nelle regioni interne e nel Cilento il corredo della sposa viene portato dalle donne del parentado o dalle amiche alla casa dello sposo. Nella Penisola Sorrentina tale cerimoniale è semplificato, in quanto si provvede alla compilazione di « una lista dei panni » alla presenza dello sposo e dei parenti anziani. Qui il corteo

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    nuziale è accompagnato dalla chiesa alla casa con lanci di confetti e di soldi ed è preceduto da una frotta di ragazzi, che gareggiano nella raccolta dei confetti e delle poche monete davanti ai piedi degli sposi. Nel Cilento il corteo si conclude a casa con lanci di biscotti, di monete e di grano; a Grottaminarda esso passa sotto festoni di coperte al centro dei quali sono attaccati con fiocchi dei cestini, nei quali i parenti degli sposi depongono qualche obolo.

    A Greci perdurano il costume albanese e il rito greco. La madre dello sposo cinge le teste degli sposi con un nastro di seta sulla soglia della porta di casa e porge loro il pane, mentre il padre offre il vino in un bicchiere che poi viene rotto. A Villamàina la suocera sparge il grano sulla nuora in segno di fecondità.

    Qui ci limitiamo a ricordare alcuni esempi tratti da varie parti della regione, per dare una idea della forza delle tradizioni e della diversità delle costumanze, perchè un esame esauriente esula dalla nostra competenza e dal nostro campo di studio.

    Il ciclo della vita si chiude con funerali sfarzosi a Napoli e dintorni, dove apposite imprese provvedono alle pompe funebri. Alti carri neri, riccamente lavorati, tirati da varie coppie di cavalli con guidatori in cilindro, portano i resti mortali al cimitero.

    A Greci perdurano ancora l’uso della lagrimazione : le donne intorno alla bara, prostrate sui loro morti, ne bagnano le mani ed il viso con le lagrime; in altre parti dell’interno il cadavere è posto nel mezzo di una stanza e i familiari ripetono ad alta voce le virtù e i difetti dell’estinto, accompagnandosi con nenie (Calitri). Nel Cilento il lamento funebre assume toni drammatici al momento del trasporto, specialmente se la morte ha colpito una persona giovane (Laurito). Si pratica, inoltre, il digiuno durante il tempo in cui il morto è in casa e si lascia spento il focolare per gli otto giorni successivi, nei quali i congiunti del morto ricevono i pasti dai parenti. Lunghi sono i periodi di lutto nella pianura e nelle zone collinari o montane, ma nelle città e nelle aree più evolute si tende a ridurre notevolmente il tempo da vestire in nero, anche nel popolo.

    I giovani, vissuti qualche tempo lontano dal paese, si mostrano generalmente alieni dal praticare in tali circostanze lamenti e lagrimazioni, che sono manifestazioni esteriori di dolore, anacronistiche e spesso forzate, quando avvengono per estinti non legati ad essi da stretti vincoli di sangue.

    Il sacro si mescola al profano.

    II popolo campano appare molto ligio alle pratiche religiose; ma sono oltremodo diffusi i pregiudizi e le superstizioni e grande è la tolleranza verso le concezioni religiose degli altri, anche nell’ambito della medesima famiglia. La religione si mescola di frequente alla superstizione e il culto assume spesso sfumature profane ; con le feste

    religiose si vuole onorare la Madonna o i Santi, ma si mira per lo più a trarre motivi per svaghi, leciti ed illeciti, per consumare lauti pranzi e per fare abbondanti libagioni. La ricorrenza religiosa è passata bene solo quando il corpo rimane soddisfatto.

    Comunque la « tolleranza per le idee, i sentimenti ed i fatti altrui è una caratteristica del popolo napoletano, ed è pur lodevole, quando non va oltre certi limiti » (Epifanio). Allo spirito di tolleranza per le idee e i fatti degli altri si associano una grande umanità e una straordinaria solidarietà con il prossimo che soffre o che ha bisogno di aiuto e di assistenza, un entusiasmo per gli eventi eccezionali, che spiega l’affluenza di ingenti masse di popolo esultante in occasione delle visite di personaggi illustri, i quali rimangono stupiti del calore e della simpatia con cui sono accolti.

    Tuttavia questo popolo, che applaude spontaneamente, è portato di frequente a superare i limiti della legalità e del decoro, col consenso o con la tolleranza degli organi di governo locali e nazionali. Esso «vive nella strada più che nella casa e la trasforma in bottega e se ne serve per tutto come della casa sua » (Epifanio), specie nelle vie strette, dove per di più le case sono unicellulari e prive di conforto.

    Vedi Anche:  I laghi

    A Napoli in particolare l’accattonaggio diventa petulante, l’abusiva occupazione del suolo pubblico è fatto molto comune, non solo per svolgervi i piccoli commerci, che spesso rasentano la disonestà, ma anche per riversarvi l’acqua dei lavatoi, oggetti inutili o rifiuti. Pure gli spazi lasciati liberi dai parcheggi a pagamento hanno trovato numerosi guardiani di automobili, che se li sono ripartiti non sempre di buon accordo e che assumono figura ed atteggiamenti analoghi a quelli dei posteggiatori autorizzati, reclamando talvolta la mancia con tale insistenza come se il servizio fosse stato richiesto o come se si fosse occupato un suolo di loro proprietà.

    L’autorità consente questo ed altro, commerci illeciti e contrabbando, sporcizia nelle strade, nei vicoli e nelle piazze, i piccoli abusi dei diseredati e quelli grandi dei ricchi e dei potenti, e fa il più gran male morale e materiale al popolo, che continua a vivere di espedienti, talvolta sotto il controllo di potenti guappi e camorristi, e alla città, che non riesce ad associare alle incomparabili bellezze naturali un decoro e una funzionalità interna adeguati ai tempi moderni.

    Il malocchio è l’influsso malefico di persone invidiose su bambini e bestiame, e giustificava malesseri passeggeri e malattie, quando la medicina non riusciva a spie-

    garli; esso viene scongiurato con esorcismi, che sono un misto di sacro e di profano. Anche gli spiriti, impersonati nelle campagne dal monacello, prendono possesso di alcune case e fanno sentire la loro presenza di notte attraverso varie manifestazioni ai nuovi inquilini.

    La fattura, opera di invidiosi e di malevoli, che si avvalgono spesso di intermediari, era ritenuta fino a pochi anni addietro di una efficacia inesorabile, secondo quanto ci hanno tramandato oralmente i nostri nonni. Per evitare la tragedia finale bisognava intervenire con tempestività e recuperare l’oggetto della persona colpita, che era servito per creare il maleficio. Nella Penisola Sorrentina tale oggetto era spesso un limone, in cui si infilavano aghi o fili di ferro per accelerarne il deperimento, al quale si sarebbe accompagnato di pari passo l’aggravarsi del male della persona presa di mira, che sarebbe stata inesorabilmente condannata, se il limone fosse

     

     

    stato gettato in luoghi inaccessibili o nel mare. L’uso di esso è in stretta relazione con la coltura largamente praticata nella Penisola, i cui frutti sono disponibili in ogni periodo dell’anno, e non ricorre dove la coltura manca.

    Anche le streghe sono all’ordine del giorno, e ancor più lo erano nei tempi passati. Da Benevento volano di notte, a guisa di arpie, verso i più lontani lidi della Campania ed oltre, penetrano nelle case o ne osservano l’interno attraverso i vetri delle finestre, talvolta di loro iniziativa, talvolta richiamate a molte miglia di distanza da persone iniziate nella lettura di libri incomprensibili e si nascondono, d’estate, nei noci frondosi, tanto abbondanti nella nostra regione, con particolare riguardo alla Penisola Sorrentina.

    La leggenda è nota sin dall’alto Medio Evo ed ha superato i confini regionali e nazionali. Essa è legata al famoso noce di Benevento, sotto il quale i Longobardi praticavano il culto ai loro dèi con danze sfrenate, dopo di aver attaccato all’albero la pelle di un caprone, ma dopo la loro conversione al Cristianesimo il noce, demoniaco agli occhi dei cristiani, fu abbattuto per opera di San Barbato (Rotili). Nella fantasia dei cristiani il caprone era il diavolo e i guerrieri urlanti nelle loro orge notturne al lume delle fiaccole erano donne malefiche danzanti. La leggenda continuò per un millennio, arricchendosi di nuovi motivi, finché nel ‘600 ebbe la versione definitiva che qui riportiamo. Nella valle del Sàbato presso Benevento si riuniscono di notte migliaia di streghe guidate da demoni, le quali prese dalle orge devono essere almeno una volta al mese adultere e omicide e devono seminare continuamente malefici e destare odio nel prossimo.

    Poeti, scultori, scrittori e musicisti sono stati ispirati in Italia e all’estero dalla leggenda delle streghe (ianare), che ha acquistato grande notorietà. Da ciò il timore delle mamme che fossero esse a deformare i bimbi nelle culle, attribuendo alla loro perversità la spiegazione del terribile male della poliomielite, che la scienza solo recentemente è riuscita a combattere con efficacia.