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Brindisi, Foggia, Lecce, Tranto e Bari

    Le grandi città pugliesi

    Bari

    Oscure sono le origini della città, la quale oggi è la più importante della Puglia e, dopo Napoli, dell’Italia meridionale. Leggendaria è la sua fondazione, collegata però insistentemente con genti venute dal mare, ed incerto il significato del termine, che è stato interpretato come « casa, borgata, torre, muro, castello, nave, fiume ».

    Durante l’età classica Bari non ebbe particolare importanza, sebbene si ricordi sempre il suo porto come un notevole emporio, che però non poteva gareggiare nè con Taranto nè con Brindisi. Lenta ma progressiva è l’ascesa di Bari, e si collega con quel periodo di lotte che Longobardi e Bizantini condussero senza quartiere, i primi per assicurarsi le recenti conquiste, i secondi per mantenere almeno una testa di ponte nella penisola italiana.

    Rispetto ai grandi rivali, la posizione di Bari era di città di confine, ove non difficile poteva essere il passare da un padrone all’altro. Bari diventa così il centro nevralgico della nazionalità pugliese, ora alleata ora nemica delle potenze straniere attestate su questo molo d’Italia che è la Puglia, sempre fiera e risorgente più impavida da tragiche e sanguinose esperienze.

    E per tale motivo che Bari godeva fama di « abbondanza di militi » di « valore di militi », come si legge nell’elogio della città di Bari dettato, sembra, da Alfonso I d’Aragona.

    La ribellione contro i Bizantini ha una data remota (730 d. C.) e un nome, Teodoro: questi creò un ducato di Bari amministrativamente autonomo, ma politicamente alleato col ducato di Benevento. Già in questo periodo Bari ebbe libere istituzioni, e si oppose ai rinnovati assalti in forze dei Bizantini per rioccupare una posizione strategica così importante.

    Bari non riuscì tuttavia a resistere ai Saraceni, che, approfittando delle discordie dei duchi Longobardi e vendendosi ora all’uno ora all’altro, con dolo occuparono l’insigne città nell’848.

    Bari divenne di fatto la capitale saracena dell’Italia meridionale: un «sultanato» potente e temibilissimo, per la ferocia di alcuni capi, come Mofareg, al quale la pavida tradizione ha attribuito il sadismo di sgozzare 500 persone ogni giorno! Ma nel marzo dell’871 Sandan, dopo una serie di sconfitte dovette arrendersi, di fronte a truppe inviate dal Papa e dall’Imperatore, a soldati tedeschi, a flotte bizantine e schiavone. Giustamente scrive uno storico pugliese. S. La Sorsa : « Dalla strenua resistenza che i Mussulmani opposero a tanti nemici, si può rilevare come Bari fosse un centro notevolissimo di ricchezze economiche, e avesse una posizione militare di primissimo ordine. Essa era cinta di solide mura con torri e fortini, circondata da un largo fossato; possedeva buoni ancoraggi ed approdi, arsenali e cantieri, dove i Saraceni preparavano armi, macchine militari e navi per la difesa e l’offesa. Ludovico II la chiamava ” Capoluogo di un’altra Africa “, perchè essa era il centro più gagliardo della potenza araba in Italia».

    La città chiese ed ottenne la protezione bizantina, ribellandosi poi nell’888. Non possiamo seguire in dettaglio gli ulteriori avvenimenti, nei quali Bari figura sempre con posizione eminente e determinante, anche nel necessario basculamento di alleanze tra Bizantini, Longobardi e Saraceni.

    Di Bari è Melo, che si propose di scuotere il giogo bizantino ormai radicato nell’Italia meridionale, considerata colonia dell’impero d’oriente; a Bari inizia la rivolta che divampò improvvisa contro i Bizantini sconfitti in battaglie campali in Puglia e in Lucania. Ma la stella di Melo ebbe un rapido declino causato pure dalle numerose inimicizie interne.

    Nel ion Melo è nel Gargano, aspro e sicuro baluardo di libertà, dove inizia trattative con alcuni cavalieri normanni, pellegrini alla grotta dell’Arcangelo. Nel 1017 Melo, aiutato da schiere normanne infligge ai Bizantini le sconfitte di Arenula presso il Fortore e di Civita. Ma nell’ottobre del 1018, Melo fu sconfitto a Canne — come è stato già detto — ed una serie di avverse vicende lo condussero esule in Germania, ove morì a Bamberg nel 1020.

    Argiro, figlio di Melo, è un’altra figura in cui si immedesima la storia di Bari. Anche lui tenacemente antibizantino conduce una lotta senza quartiere, dalla quale alla fine desiste, quando forse si accorge di non poter liberare la patria, senza favorire le ambizioni normanne. Infatti i Normanni, chiamati in Italia come mercenari, anziché rientrare nei loro paesi di origine, si stanziarono definitivamente nelle terre occupate.

    I Normanni non tardarono a puntare su Bari e Roberto il Guiscardo vi entrava il 15 aprile 1071, dopo un lungo assedio. Con la caduta di Bari, tale è l’importanza della città, termina il dominio bizantino in Puglia.

    Naturalmente Bari si ribellò al Guiscardo nel 1079, ma fu rioccupata nel 1083 e sottoposta al pagamento di una gravissima indennità. Arcivescovo di Bari era Ursone alleato dell’aristocrazia barese e che parteggiava per i Normanni; per servire come diplomatico i suoi padroni, era quasi sempre assente da Bari. Suo rivale locale era Elia, abate del Monastero di San Benedetto, alleato della borghesia. L’abate Elia concepì il disegno di rapire e portare a Bari le sacre spoglie di San Nicola, il quale, passando da vivo in questa città aveva predetto che qui sarebbe stata la sua tomba.

    Tre navi baresi, seguendo le consuete rotte, giungono a Mira, nella Licia. Le ossa del Santo vengono rapite, e, dopo un viaggio di ritorno di quattro settimane, il 9 maggio 1087 sono accolte trionfalmente a Bari. Persino il papa Urbano II, nel 1089, si recò a Bari a venerare le sacre spoglie del Vescovo di Mira.

    Il castello svevo tra la vecchia e la nuova Bari

    A prescindere dal significato religioso dell’impresa, sarà opportuno ricordare che essa conferiva a Bari maggior prestigio politico di fronte a tutte le altre città pugliesi, e che la innalzavano alla stregua di Venezia, che si era impossessata delle spoglie di San Marco, di Genova (San Giorgio) e di Salerno (San Matteo), cioè di repubbliche marinare politicamente e commercialmente affermate nel Mediterraneo.

    Un altro grande avvenimento al termine dello stesso secolo, richiamò su Bari l’ansiosa attenzione della cristianità: il Concilio Ecumenico del 1098, che aveva per scopo l’unità della Chiesa. I tre punti fondamentali discussi furono i seguenti: riconoscimento da parte dei Greci del dogma cattolico della processione dello Spirito Santo, discendente oltre che dal Padre, anche dal Figlio; vertenza tra il re normanno Guglielmo il Rosso e Anselmo D’Aosta, arcivescovo di Canterbury; controversie tra l’abate di Montecassino e Ausone di Benevento.

    La religione cattolica fu molto rafforzata da tale concilio, in più fu confermato il prestigio della posizione personale dell’abate Elia. In sostanza era il prestigio della città che aumentava per la sua opera di ponte ideale tra Oriente ed Occidente.

    San Nicola (sec. XIII), nella basilica omonima di Bari.

    Bari, durante la prima Crociata, fu il porto pugliese di maggior traffico, il quale disponeva di gran numero di navi adeguate a lunghi percorsi e di vettovaglie. Esso era il centro di convergenza e di divergenza del commercio con l’Oriente e le misure baresi di grano erano usate su scala internazionale.

    Durante questo periodo Bari fu praticamente autonoma, purtroppo funestata dalle fazioni come avvenne nel noo circa, quando cruenti lotte si svolsero fra l’arcivescovo Riso e Argiro di Daniele. Queste discordie indebolivano la forza cittadina a tutto vantaggio dei Normanni; il re Ruggero doma ben due ribellioni ed alla fine patteggia la pace nel 1132. Ma di fronte ad una ulteriore ribellione, Guglielmo il Malo, succeduto al padre Ruggero, punisce la città nel 1156, distruggendola in gran parte, ma consentendo l’esodo degli abitanti.

    Bari, con inesausta vitalità, risorge dalle sue rovine e ancor più decisamente di prima è gelosa custode delle sue libertà. Gli oltraggiosi leonini di Federico II dimostrano quale inimicizia profonda esistesse tra Bari e l’impero. Vale la pena di trascrivere il dileggio che fu inciso nel marmo e collocato nella porta principale della città :

    Gens infida Barii Verbis tibi multa promittit, Quae vult impudens Statim sua verba remittit ; Ut nudos enses, Stude vitare barenses ; Si tibi dicunt « ave », Velut ab hoste cave.

    Tuttavia con gli Svevi, Bari ottiene franchigie e privilegi, e si avvia a riprendere il suo primato fra le città della Puglia sebbene imbrigliata dalla vigile autorità regia, ancor più pesante e pressante con gli Angioini. Una vita tranquilla ma in ombra, minata dal fiscalismo e dai soprusi. Tuttavia un magnifico esempio di forza seppe dare ancora Bari, quando chiuse le porte alle truppe brigantesche scatenate in Puglia dalla lotta tra Ungheresi ed Angioini.

    Ma le sue condizioni economiche erano ormai molto depresse, perchè non potè pagare alla regina Giovanna la « colletta » di 455 once, che fu ridotta a 200, e, successivamente a 100.

    Bari aragonese diventa il centro più importante di ribellione contro Ferdinando d’Aragona, auspice il duca di Bari, Giovanni Antonio del Balzo. Strangolato costui ad Altamura, dopo una serie di grossi rovesci, Bari si affidò alla clemenza di Ferdinando, che non fece vendetta e consentì invece a numerosi privilegi richiesti da quella università. Importante è soprattutto quello che affermava l’università di Bari in regio demanio (1452).

    Come abbiamo già osservato in altra parte di questo lavoro, i Veneziani approfittarono delle lotte antiaragonesi e poi franco-spagnole per insediarsi nei porti pugliesi dell’Adriatico, di Trani, Mola, Monopoli, Polignano, Brindisi, Otranto e Gal-lìpoli, che dovettero cedere alla Spagna nel 1508. In tale periodo Bari, governata dalla duchessa Isabella d’Aragona, ebbe modo di godere di tranquillità interna, anche se la decadenza commerciale e la situazione economica generale fossero disastrose. Bari in tutto il periodo di lotte che conducono all’affermazione del predominio spagnolo, ha una parte trascurabile, segno appunto della sua decadenza, mentre su Barletta e Trani si incentrarono gli avvenimenti maggiori.

    Nei secoli XVI, XVII e XVIII, Bari vede deperire il suo porto, ove persino la pesca è ostacolata dal fiscalismo opprimente della gabella. Peste e carestia afflissero la città: per la peste del 1650 morirono circa 12.000 abitanti!

    La rivolta antifiscale contro il malgoverno, ebbe il suo Masaniello locale in un marinaio: Paolo di Rebecco. Questi alla testa del popolo tumultuante, riusci ad ottenere momentanei vantaggi.

    Bari, seguendo le sorti del regno, e opportunamente cercando di salvare il salvabile e quindi non assumendo più posizioni di comando, passa dalla Spagna all’Austria e ai Borboni senza scosse troppo profonde e sanguinose. Il 7 maggio 1741, Bari riceve la visita del nuovo re Carlo di Borbone, in un delirio di popolo.

    La città ha maggior fortuna durante il periodo napoleonico, quando è tra le prime città a parteggiare per le nuove idee e per la Repubblica Partenopea, naturalmente superando una grande resistenza interna. Anche all’esterno si verificò un tentativo di irruzione nella città, ma i liberali seppero resistere vittoriosamente, mentre gran parte di altre località pugliesi si schieravano con i sanfedisti. L’atteggiamento barese riportò la città ad assumere quelle posizioni chiave, piene di rischio e di onore, che in altre circostanze l’avevano resa grande ed illustre.

    Il risveglio dell’antica virtù barese e la fedeltà repubblicana dimostrata nei momenti meno propizi, conseguirono per la città un immediato vantaggio, perchè fu dichiarata capoluogo regionale in sostituzione di Trani, che godeva di tale preminenza sin dall’epoca aragonese. Dai contemporanei ricaviamo che i Francesi dicevano che non v’era città in tutto l’ex regno di Napoli che meritasse più di Bari la loro attenzione, per essere quella che ha sofferto più delle altre, e che ha saputo ad ogni costo sostenere la libertà.

    La restaurazione borbonica confermò il rinnovato prestigio.

    Ferdinando II dal 1831 al 1847 visitò la città per ben quattro volte, interessandosi e provvedendo ai bisogni più urgenti. Egli fece dragare il porto, ingrandire le banchine, prosciugare la palude di Marisabella, fece aprire scuole elementari e professionali, si interessò della costruzione del cimitero, del macello, del teatro…

    Comunque la maturazione dei tempi nuovi condusse anche Bari ad acclamare all’unità d’Italia. I patrioti baresi si tenevano strettamente collegati con il Comitato di Altamura, nella impossibilità di agire a Bari, ove aveva stanza il generale borbonico Flores con un buon nerbo di truppe. Questi, infatti, a causa di pur pacifiche dimostrazioni pubbliche, fece portare i cannoni in piazza e stabilì picchetti armati.

    Ogni violenza fu evitata per l’intervento autorevole del liberale Domenico Sagarriga Visconti. Caduta Napoli, il governo provvisorio si trasferì da Altamura a Bari, mentre il Flores, dirigendosi verso il nord, preparava una onorevole capitolazione.

    Lo sviluppo demografico di Bari, come per tutte le altre città pugliesi, può essere approssimativamente documentato soltanto a partire dal secolo XVI. E da accogliersi con riserva la notizia che Bari avesse più di 50.000 ab. immediatamente prima della distruzione operata da Guglielmo il Malo (1156).

    Le numerazioni dei fuochi per scopi fiscali del secolo XVI, offrono dati di orientamento che possono già soddisfarci. Considerato ogni fuoco eguale ad una famiglia costituita da cinque persone, la popolazione barese in questo secolo non riesce a superare i 15.000 ab., come si desume dalla seguente tabella:

    Anni

    Fuochi

    Abitanti

    1532

    1557

    7.785

    1545

    2338

    11.690

    1561

    2165

    10.825

    1595

    2935

    14.675

    Bari era superata, alla data della rilevazione del 1595, dalla città di Barletta.

    In questo secolo l’aumento è notevolissimo perchè dal 1532 al 1595 è pari al-l’85%. Il Perotti attribuisce il fenomeno alla mirabile prolificità del popolo.

    Nel secolo successivo, il rilevamento del 1648 diede come risultato 2937 fuochi, pari a 14.685 abitanti. Con la numerazione compita nel 1669, il numero di fuochi scende a 2345, pari a 12.725 abitanti.

    La contrazione che si osserva nel secolo XVIII è determinata da un alleggerimento fiscale deliberato dal Viceré, in seguito alle rivolte che divamparono nel Regno di Napoli. A ciò si aggiunsero carestie ed epidemie, tra cui gravissima la peste del 1656.

    Il già citato Perotti ricorda una «nota d’anime» del 1736, sufficientemente informativa (anche se manca il numero delle monache):

     

    Uomini

    Donne

    Nella Parrocchia della chiesa cattedrale

    2107

    2176

    Nel rione del SS. Salvatore

    926

    I200

    Nel rione di San Giuseppe

    1399

    1403

    Nel rione di San Benedetto

    1242

    1245

    Nel rione dell’Ospitale

    1514

    1213

    Nel rione di San Giovanni

    1056

    1070

    Totale

    8244

    8307

    Aggiungendo al totale complessivo pari a 16.551 ab., 338 frati e preti, la popolazione barese era costituita da 16.889 unità.

    Il Perotti osserva che nell’anno seguente, 1737, la città fu numerata, per gli effetti fiscali, in 2475 fuochi, che secondo il nostro modulo, darebbe 12.375 abitanti. Forse, sulla base di questo confronto, possiamo essere autorizzati a considerare sempre in difetto la nostra approssimazione.

    Nel 1770 si calcola che la popolazione di Bari sia stata di 16.118 unità. Il movimento demografico barese è fino a tale data impostato su una staticità notevole, che viene finalmente rotta al termine del secolo come segue:

    Anni

    Abitanti

    1788

    18.191

    1795

    18.477

    1797

    18.760

    L’incremento prosegue con ascesa sempre più sicura, come è dimostrato dagli elementi statistici che si trascrivono da varie fonti:

    Anni

    Abitanti

    1801

    18.860

    1811

    18.009

    1813

    19.00

    1819

    18.937

    1829

    22.859

    1839

    25.317

    1849 .

    28.410

    1857

    31.183

    1861

    34177

    Col primo censimento del Regno d’Italia Bari, o meglio Bari delle Puglie, si classificava al 150 posto tra le città italiane. L’incremento prosegue con ritmo vivace (nel 1871, ab. 49.421; nel 1881, ab. 58.266), sì che nel 1901 la popolazione era più che raddoppiata con 72.346 ab., che classificavano Bari al 130 posto tra le città italiane. L’aumento della popolazione non ha avuto soste neppure quando dai centri minori folti stuoli di emigranti cercavano all’estero miglior fortuna, e Bari raggiungeva invece nel 1911 ben 95.574 abitanti. La cifra di 100.000 è superata nel 1921 (109.990 ab.), e solo dieci anni dopo la città ospita ben 141.762 abitanti. Col censimento 1951 Bari ha superato 250.000 ab. (250.189), mentre la popolazione di tutto il comune è di 268.183 abitanti. In questo secolo la popolazione è aumentata di circa cinque volte, eccitando problemi di urbanistica di soluzione spesso molto difficoltosa.

    La più antica topografia di Bari è determinata da una sporgenza costiera, che oggi è peninsulare, ma che forse per natura era insulare o comunque differenziata dal confinante retroterra da bassure acquitrinose. Qual fosse la parte della penisola che prima ospitò la popolazione, non è ancora possibile sapere. Il fatto che si trattasse di popolazione marinara induce ad intuire che lo stanziamento sia avvenuto nell’orlatura del seno più riparato e quindi nel settore orientale della penisoletta. Altri ritengono che sia stata occupata la cuspide più avanzata, protesa verso settentrione, ove una minuscola intaccatura costiera non più riconoscibile, può aver costituito il porto primigenio di Bari.

    Il Perotti afferma che il porto vecchio, oggi notevolmente manomesso, sia stato preceduto da un porto più settentrionale che intaccava più profondamente di quanto avvenga oggi la costa nordorientale della penisoletta. A questo avrebbe fatto seguito il Porto Vecchio che osserviamo ben delineato (cfr. n. 44) nella carta scenografica della città di Bari.

    Comunque dalla stessa veduta, si può ricavare che tutto il settore orientale, a nord e a sud di Sant’Antonio, fosse utilizzato come porto, e che pertanto la vita commerciale di Bari gravitasse lungo questo settore.

    Chi percorre l’angustia delle viuzze della Bari vecchia, è con notevole sforzo che può pensare ad un problena di ampliamento topografico dell’incoiato distribuito addirittura nei secoli. L’Amati che ha studiato di proposito questo argomento ritiene che l’area costruita per prima occupasse il quartiere di San Pietro, e che dal V al VII secolo dovesse essere costituita da poche case addossate ai conventi oggi di Santa Scolastica e di Santa Chiara.

    Veduta scenografica della città di Bari.

    Nella prima metà del secolo Vili un centro di cristallizzazione dell’abitato divenne il nuovo edificio dell’Episcopio di San Sabino.

    Il complesso edilizio della basilica di San Nicola attrae a sè le costruzioni dal secolo XI in poi; ma quest’area era già fabbricata, perchè nella curtis dominica si dovette procedere a delle demolizioni. Intanto si ricostruiva e si ricompletava, almeno dal 1131 il castello, che sorgeva nella parte opposta al porto, verso ponente. Nel secolo XV si forma il quartiere del porto vecchio.

    Bari, Basilica di San Nicola.

    L’interno della città, e cioè l’area compresa tra San Nicola e il Duomo, sarebbe andato riempiendosi di fabbricati civili e chiese dal secolo XVI al secolo XVIII. A questo secolo inoltre appartiene la terza serie dei fabbricati, che in tutto il settore meridionale ripete l’andamento della scomparsa cinta muraria.

    Ma già sin dal 1770 lo spazio edilizio difettava nella vecchia Bari, e la popolazione era costretta a costruire baracche nelle piazzette, nelle strade e nelle corti più ampie. Vie strette e tortuose, spesso cieche, con fabbricati a due o tre piani, collegati fra loro da archi che formano piccole gallerie, costituivano la caratteristica della città vecchia.

    Qualche piccolo largo, detto corte, era l’unico spazio dal quale la città ricavava un po’ di sole e di luce. L’addensamento della popolazione diventava di giorno in giorno maggiore, eccitando problemi di comodità, di abitabilità e di igiene di sempre più impossibile soluzione, se mai possa stabilirsi una gradazione nella necessità e nella impossibilità.

    La data del 25 aprile 1813 rimane memorabile nella storia urbanistica di Bari, perchè indica la fondazione del nuovo borgo e il riconoscimento tangibile dell’aspirazione a maggior destino, degno di una città ricca di patria virtù e onusta di storia politica, civile e militare sempre intensamente vissuta.

    Una corte di Bari vecchia.

    Le idee e i progetti per il nuovo borgo risalgono al secolo precedente, e riguardano principalmente l’ubicazione del medesimo. Alcuni opinavano che il sito migliore sarebbe stato ad occidente, sotto la protezione immediata ed efficace del castello, in caso di pericolo. Altri preferivano la zona orientale vantaggiosa per le comunicazioni, ma non del tutto salubre. Prevalse l’idea dell’ubicazione del Borgo a sud del vecchio centro, in area che presentava, tra i prò e i contro, il maggiore vantaggio. Il piano del Borgo, elaborato dagli ingegneri Viti e Palenzia, prevedeva sin dall’inizio una pianta a scacchiera, con isole rettangolari. La prima casa fu eretta dopo licenza ottenuta il 31 luglio 1816 e le costruzioni si susseguirono con maggiore intensità dopo il 1817, da quando il re aveva diminuito il canone di concessione. I risparmi e le ricchezze della città vecchia si riversano sulla nuova, producendo lavoro ed altra ricchezza, insieme con la comodità, l’igiene e il beneficio di poter finalmente godere nella propria casa del generoso sole di Puglia.

    Il tipo di fabbricato è in genere con un solo primo piano superiore; eccezionalmente la casa, oltre il pianterreno ha due piani superiori. Lo stile riflette un cubismo esasperato nella omogeneità e nettamente funzionale, evidentemente improntata a quella mentalità lineare e pratica tanto ammirevole nella popolazione barese. Ampie le camere con volta a padiglione, con porte-finestre aperte su spaziosi balconi con balaustre in ferro battuto, terrazzi ampi quanto l’area del fabbricato.

    Il febbrile ampliamento del borgo, il popolamento sempre maggiore — nel 1834 vi erano già 5000 ab. — indusse nel 1844 alla fondazione della chiesa di San Ferdinando. Il borgo quindi andava assumendo una propria fisionomia anche con l’indipendenza dei servizi rispetto alla città vecchia ed acquistava una propria individualità. Alla vigilia dell’unità d’Italia l’area fabbricata aveva raggiunto mq. 131.474.

    L’unità, immettendo Bari in un più vasto raggio di azione commerciale e conferendole la funzione di capoluogo amministrativo della Puglia, incrementò lo sviluppo edilizio. L’Amati osserva che le nuove costruzioni del Borgo occupavano nel 1890 già mq. 423.960. Di questi fino al 1858 erano stati occupati 131.474, con una media annua di 2921 mq. ; nei 32 anni dal 1859 al 1890 l’incremento medio annuo fu di mq. 9140. Sino al 1910 tale incremento medio annuo raggiunse l’altissimo valore di mq. 22.894. A questa data, l’area costruita aveva raggiunto a mezzogiorno la stazione ferroviaria edificata nel 1875, mentre i progressi a ponente e ad oriente rimanevano più limitati.

    A ponente si opponeva ad un rapido sviluppo, la presenza della strada ferrata per il porto, del cimitero e del pantano Marisabella. Ad oriente esisteva un vincolo per la zona riservata all’Orto botanico, ampia 48 moggia concessa in enfiteusi dal Comune nel 1858, alla Società Economica di Bari.

    Ma successivamente l’ampliamento edilizio di Bari è stato travolgente in tutte le direzioni. Superata la stessa stazione ferroviaria e l’ostacolo dei fasci di binari, al di là dell’Extramurale (oggi via Brigata Bari, via Giuseppe Capruzzi, via Guglielmo Oberdan), la città si è estesa per una profondità di oltre 1700 m., sviluppando un ampio emiciclo che ha come asse mediano il viale Conte di Cavour, che si collega al Borgo con il sottovia De Giosa. La pianta ad emiciclo di questa propagginazione urbana, è determinata dalla convergenza delle strade di campagna verso l’abitato, le quali hanno condizionato le direzioni del nuovo ampliamento. È, in sostanza, quella tradizionale raggiera di strade rurali che converge così caratteristicamente nei centri pugliesi, che ha ripreso il sopravvento, dopo essere stata brutalmente eliminata — e non intendo aggiungere se vantaggiosamente — dal primo progetto del piano regolatore del Borgo.

    Bari. Pianta attuale con sovrapposti i vari ampliamenti.

    Peraltro un turbamento o un ravvivamento alla monotona geometricità della Bari nuova è apportato da due direttrici a raggiera che si incontrano all’incirca a piazza Garibaldi: una è la via Napoli (tratto ormai urbano della strada Bari-Santo Spirito), e l’altra è la via Francesco Crispi (tratto urbano della strada Bari-Bitonto).

    Si tratta però di alterazioni di scarso significato, perchè la planimetria è sempre improntata all’isolato e a strade — che pur con orientamento diverso rispetto al più antico piano regolatore — si incontrano sempre ad angolo retto.

    Questa mentalità dell’isolato a figura geometrica si rivela e si ripete anche nel settore di levante, ove l’allineamento assiale è stato però imposto dalla linea di costa. Il lungomare Nazario Sauro e il corso Sonnino sono rigidamente paralleli.

    Da alcuni anni a questa parte l’ampliamento cittadino in superficie ha subito una flessione notevole, infatti molti costruttori hanno preferito e preferiscono attualmente abbattere il vecchio caseggiato di tufo calcareo e costruire palazzi in cemento armato, alti in media da 5 a 6 piani. Il volto cittadino va rapidamente cambiando, assumendo il tono e lo stile di una moderna metropoli. Nel Borgo si demoliscono le vecchie abitazioni e si costruisce rapidamente in cemento armato.

    Bari vecchia e Bari nuova.

    Nella città vecchia di Bari.

    La città va ancora ampliandosi, ma va soprattutto elevandosi, e più che in superficie ora aumenta in volume.

    La funzionalità cittadina, pur nella pluralità delle sue manifestazioni, consente di osservare alcune specializzazioni che ne individuano particolari settori, noti con la designazione generica di quartieri geografici. L’Amati riconobbe nove tipi di quartieri geografici, che mantengono ancor oggi le proprie caratteristiche pur con sfumature diverse.

    Il quartiere centrale e degli uffici si identifica con il Borgo primigenio, dalla Bari vecchia alla stazione, ed ha due notevoli appendici costiere: a levante quella del lungomare Nazario Sauro e a ponente quella del corso Vittorio Veneto. L’area

    portuale si estende perifericamente dal promontorio di San Cataldo al porto vecchio, che espleta la funzione di darsena. I quartieri industriali o di produzione risultano variamente distribuiti, ma sono tutti alla periferia della città geometrica, nella zona dell’Extramurale o dislocati verso ponente.

    I quartieri commerciali o di scambio, con magazzini di grossisti, sono anch’essi distribuiti di preferenza nell’Extramurale. La Fiera del Levante costituisce un singolare isolato quartiere commerciale.

    I quartieri residenziali non presentano varietà degne di nota, in quanto risultano per la maggior parte costituiti da blocchi di grossi edifici. Naturalmente ha un proprio carattere la città vecchia, che costituisce un tipo storico di quartiere residenziale.

    Una piccola Città giardino è nella penisoletta di San Cataldo. Il quartiere sanitario è sorto nell’Extramurale caratterizzato principalmente dal Policlinico e dall’Ospedale Sanatoriale Cotugno.

    Le direttrici del traffico presentano due ingorghi nei sottopassaggi ferroviari, ma vanno poi stemperandosi nella scacchiera cittadina, ove sono stati ristretti i marciapiedi per offrire maggior spazio alla circolazione. L’aumentato numero dei veicoli determina tentativi e soluzioni di snellimento, che però non si presentano ancora nella fase critica.

    Bari ripete quel contrasto planimetrico tipico delle città costiere pugliesi, con un esponente di superficie di gran lunga maggiore. Questa coesistenza è storia e v’è da augurarsi che gli sventramenti in atto nella città vecchia non alterino una eredità che dobbiamo salvaguardare, una volta assicurate le condizioni igieniche della popolazione che vi abita. Forse i problemi tecnici non sono così insuperabili da dover tutto abbattere, ma una città vecchia può sopravvivere con sagaci accorgimenti senza ucciderla per sempre, inesorabilmente, a colpi di piccone. Il passato ha qualcosa da dire e da insegnare per il presente e per l’avvenire, e non possiamo arrogarci il diritto di privare i posteri di un insegnamento e forse anche di una necessaria bellezza, per il solo motivo che noi non abbiamo saputo gustarla e siamo stati incapaci di conservarla.

    Brindisi

    Nell’aggetto peninsulare dell’unica insenatura biforcuta della costa pugliese, i Messapi fondarono una città alla quale diedero il sonante nome di Brindisi, che vuol dire « corna di cervo ». Ad esse gli antichi rassomigliarono la topografia del luogo. La notizia è tramandata da Strabone, che descrive accuratamente questo porto, che costituiva allora in Italia la soglia dell’Oriente.

    La conquista romana raggiunge Brindisi nel 267 a. C. : la città divenne Municipium ed ebbe diritto a coniare monete. Il frutto di questa politica di privilegio fu raccolto da Roma durante la guerra contro Annibale, specialmente dopo la battaglia di Canne. Brindisi diede asilo alle truppe superstiti e non capitolò di fronte all’assedio posto da Annibale, il quale, non riuscendo nel suo intento, si ritirò nella Campania. La fiera resistenza e i resti di mura megalitiche messapiche e romane, venute alla luce nella Corte Capuzziello, consentono di ritenere che tutta la città ne fosse sin da allora cintata.

    Altri ruderi di età romana rinvenuti entro la cinta muraria, come il foro, le terme, il lastricato della via Lata, le piscine limarie, pur non permettendo una esauriente ricostruzione della planimetria dell’abitato, inducono a ritenere che l’abitato fosse disimpegnato in tutti i suoi servizi e godesse di una piena funzionalità. Non poteva per altro essere diversamente dal momento che Brindisi, al termine della via Appia, era lo scalo immediato di Roma per raggiungere i suoi possessi orientali. In relazione alla potenza di Roma, Brindisi fu sonante di cantieri navali, ricca di traffico, fervida di attività economiche.

    Espressiva veduta prospettica della città di Brindisi in periodo spagnolo.

    Il commercio riguardava gli oggetti più svariati, ed Aulo Gellio, scrittore del II secolo d. C., si compiace di tramandare di avervi trovato persino libri usati, dei quali fece un grosso acquisto spendendo pochi soldi! Numerosi altri autori danno notizia di commercio alimentato dagli stessi soldati reduci dall’Oriente e ricchi di bottino; persino il mercato degli schiavi era sempre ben provveduto.

    Pompeo, Cesare, Cicerone, Augusto, Agrippa, Virgilio… diedero qui il primo o l’ultimo saluto alla patria. Qui trova riposo un mercante che ci ha lasciata una epigrafe del I secolo d. C., che, sebbene già menzionata (cfr. a p. 15), giova ricordare: « Se non ti reca molestia, o passeggero fermati e leggi. Ho spesso traversato il vasto mare su navi a vela; mi sono recato in molti paesi, ma questa è la mia estrema sosta e già me la predissero le parche il giorno della mia nascita. Qui ho dimesso i miei affanni ed ogni preoccupazione; non temo più le stelle, le burrasche ed il mare crudele, nè mi preoccupo che le spese possano superare i guadagni… ».

    Vedi Anche:  Usi, costumi, feste, tradizioni e dialetti

    La città di Brindisi e le fasi più caratteristiche del suo ampliamento.

    Brindisi è lo scalo di Roma verso l’Oriente ricco e favoloso, e solo da questa funzione trae ogni vantaggio. Nei confronti della Puglia era ed è un porto dal retroterra povero e limitato, insufficiente a sostenere rotte economicamente vitali. E in questa dimensione che va inserita la vicenda della grandezza e della decadenza di Brindisi, che possiamo classificare porto di celerità comodo solo per raggiungere importanti località terminali, alle quali esso rimane subordinato. Così tutto il traffico marittimo che dall’Oriente si svolge a Roma e che segue rotte costiere, o sempre in vista della costa anche nell’attraversamento del Canale di Otranto, trova in Brindisi il primo capace e sicuro porto naturale direttamente collegato con Roma mediante la regina viarum.

    Quando Roma perde il suo impero anche Brindisi è condannata ad un processo di irreparabile involuzione, ed il suo porto nonostante i grandi requisiti naturali, si adegua al rango di importanza secondaria esclusivamente circoscritta e localizzata.

    I barbari che sciamavano verso il sud, e poi i Bizantini e i Saraceni, devastarono Brindisi e il suo territorio.

    Brindisi. San Giovanni al Sepolcro.

    Brindisi. Castello aragonese (sec. XV).

    Incendi e saccheggi si ripetono a breve distanza di tempo, sino a quando i Normanni occuparono la città nel 1071 e la eressero a contea. La vita amministrativa e commerciale riprese allora il suo avvio e raggiunse una certa floridezza con Federico II, che salutava Brindisi «filici solis, ave, nostro gratissima cordi ». Un potente castello, edificato sulla sponda del seno di ponente, assicurava la pace ottenuta col prezzo di tanto sangue e di tanto sacrificio, e costituiva l’arsenale della squadra dell’Adriatico, spesso impegnata nella guerra di corsa contro i vascelli veneziani.

    Altro importante fattore di ripresa era determinato dagli accordi fra il Sultano e Federico II che consentivano i pellegrinaggi in Terra Santa, per cui Brindisi divenne il « porto dei pellegrini ». Nel mappamondo di Rainolfo Hyggeden del 1360 leggesi: « Apulia cuius metropolis est Brundision per istam navigatur in terram sanctam ». Ciò attesta che tale funzione fu espletata per molti secoli, anche quando tramontò la casa sveva e successe quella angioina.

    Carlo d’Angiò aveva infatti preso a cuore le sorti della città, ma purtroppo la concorrenza veneziana e l’intransigenza saracena impedivano a Brindisi di svolgere ulteriormente la sua ambita e proficua funzione di tramite con la Terra Santa.

    Quasi non bastasse, la città fu afflitta da una serie di sciagure: nel 1348 fu devastata dalla peste, nel 1352 fu saccheggiata da Ludovico I d’Ungheria, nel 1383 da Luigi d’Angiò.

    Durante gli Aragonesi si ritenne opportuno di fortificare il porto (1449) per evitare gli assalti improvvisi e feroci dei Turchi, e nel 1456 un terremoto distrusse gran parte della città. Dal 1496 al 1509, Brindisi insieme con Trani ed Otranto, fu occupata dai Veneziani.

    Gli Spagnoli, una volta assestato il loro dominio nell’Italia meridionale, apportarono tranquillità a Brindisi tanto provata da calamità di ogni genere, ma nulla fecero per rimuovere le ostruzioni che bloccavano il porto e ridare così alla città gli elementi fondamentali della propria esistenza. Al principio del Cinquecento il Galateo diceva di Brindisi : « grande città, grande solitudine ; questa città una volta molto popolata è ora quasi deserta per le sedizioni frequenti e per la pessima aria… ».

    Anche la malaria, infatti come per tante altre città costiere, ha dato il suo preponderante contributo negativo; qui l’occlusione della bocca del porto aveva ridotto i bacini interni a stagni pestilenziali.

    Al nome di Ferdinando IV, re di Napoli (Ferdinando I re delle Due Sicilie, dopo il 1816), è legato l’inizio della lenta ripresa di Brindisi dalla sua agonia plurisecolare. Il tenente colonnello del Genio, Andrea Pigonati, dal 1775 al 1778 rimosse le ostruzioni che impedivano l’accesso al porto interno e rese navigabile la bocca, che da lui conserva il nome di Canale Pigonati. Le vicende napoleoniche non arrestarono l’avviata ripresa.

    Ferdinando II promosse l’incremento di Brindisi concedendo per 10 anni l’esonero dal servizio militare a tutti i suoi abitanti. Nel 1844 entrava in vigore un «piano d’arte dell’opera del porto e della bonifica di Brindisi », a cui si aggiungeva, con enorme vantaggio per la città, l’istituzione dello scalo-franco.

    Ma soltanto la formazione dell’unità d’Italia e il collegamento ferroviario con l’Europa, ridiedero a Brindisi quell’hinterland e quella funzione che essa ha espletato nel periodo più florido della sua storia e che espleta oggi, attivamente. L’apertura del Canale di Suez polarizzò su Brindisi il traflìco celere per l’India, l’Australia e l’Estremo Oriente, sì che dal secolo scorso la città divenne il capolinea del servizio ferroviario in partenza da Londra e denominato: valigia delle Indie.

    Durante la prima guerra mondiale Brindisi fu la sede della flotta che operava nel basso Adriatico, e a Brindisi sbarcarono, dal novembre 1915 al febbraio 1916, ben 343.000 uomini, 27.000 quadrupedi, 338 pezzi di artiglieria oltre a materiale vario per circa 70.000 tonnellate.

    L’ascesa cittadina così tenacemente voluta dai suoi abitanti ebbe un degno riconoscimento ufficiale il 2 gennaio 1927, quando Brindisi fu proclamata capoluogo di provincia.

    Quanti fossero gli abitanti di Brindisi nel periodo di maggior splendore durante l’età classica, non è facile congettura. Tenuto conto dell’ampiezza della città, si può ritenere — con un’approssimazione da non scartarsi — che la popolazione si aggirasse sui 50.000 abitanti.

    Crollata con l’impero l’importanza di Brindisi, insidiata dai flagelli umani e naturali, la popolazione si ridusse enormemente. Il De Leo suppone che ai tempi del predominio saraceno nel secolo IX, gli abitanti fossero soltanto 3000. Abbiamo serio motivo di dubitare di tale dato, ma lo riportiamo a titolo informativo.

    Un’altra congettura statistica è offerta per l’anno 1269, quando i fuochi cittadini sarebbero stati poco più di 1000 (5000 abitanti). Leandro Alberti, che nel 1525 visitò Brindisi, la ricorda come città « molto male abitata e peggio edificata » con non più di 1900 fuochi (9500 ab.).

    La composizione etnica locale durante il Medio Evo risulta molto complessa, e desta forse meraviglia l’opinione che i Brindisini fossero più agricoltori che marinari e che il commercio marittimo fosse in mano di colonie abbastanza numerose di Genovesi, Pisani, Veneziani, Amalfitani, Ravellesi e Scalesi. Gli Ebrei abitavano nella « giudeca » presso la marina ov’è oggi via Tunisi, ed avevano tale importanza che il capo della comunità intervenne nel 1199 al patto d’accordo stipulato da Brindisi con Venezia a danno delle concorrenti Genova e Pisa. Ben 240 erano gli ebrei al termine del Medio Evo, quando la popolazione ammontava in totale a 4000 abitanti.

    Nel 1532 la città fu tassata per 863 fuochi, che corrisponderebbero a 4315 abitanti. Nel 1545 i fuochi ammontavano a 1206, pari a 6030 abitanti. L’incremento prosegue in tutto il secolo (1636 fuochi nel 1561,) e nel 1595 i fuochi sono 1948 pari a 9740 abitanti. Nel secolo successivo si riscontra dapprima una stasi (1946 fuochi nel 1648) e successivamente una diminuzione, perchè nel 1669 i fuochi tassati erano 1428 pari a 7140 abitanti.

    Su questa cifra da grosso villaggio impernia Brindisi la sua esistenza nei secoli XVIII e XIX, manifestando un incremento complessivo molto debole.

    Nel 1861 Brindisi ha 8403 ab. e si classifica al 2170 posto tra le città italiane; nel 1871 la popolazione aumenta a 12.138 ab., ma, per comprenderne l’esiguità bisogna ricordare che aveva meno abitanti di Ceglie Messapico. Tuttavia il ritmo diventa più vivace e nel 1901 con 20.981 ab. Brindisi si classifica all’84° posto tra le città d’Italia. Il costante incremento (1911, ab. 22.616; 1921, ab. 31.073; 1931, ab. 33.789) ha una buona punta durante gli anni della prima guerra mondiale per il movimento economico determinatosi nella città. Col censimento 1951 Brindisi ha raggiunto 51.705 ab. e il suo comune, in totale, 58.313 abitanti. Dall’unità d’Italia, la popolazione è aumentata poco più di 6 volte, superando forse il numero di abitanti qui presenti quando Brindisi era per importanza e per traffico il primo porto del mondo.

    La più antica Brindisi era forse ubicata nell’area in cui oggi sono il Duomo, il palazzo vescovile, il museo. Ivi infatti furono trovate tombe messapiche, le quali com’era costume di questo popolo, erano collocate entro il perimetro dell’abitato.

    Perimetro che era delimitato verso l’interno, dall’istmo di saldatura della penisola e che già i Messapi avevano definito e fortificato con mura megalitiche.

    Se qualche dubbio può sussistere relativamente a questa affermazione, cade ogni riserva per la città romana, degna di essere il porto di Roma verso l’Oriente. Le testimonianze archeologiche documentano che almeno durante l’impero la cinta muraria aveva l’ampiezza di quella medioevale e moderna, improntata sulla precedente.

    Nella ricerca particolare può sussistere qualche incertezza, ma nel complesso la topografia di Brindisi romana può ritenersi interamente acquisita.

    Innanzi tutto dobbiamo richiamare l’attenzione sul fatto che la collina era attraversata da un solco torrentizio, detto posteriormente « La mena », che divideva gran parte dell’abitato. Oggi « La mena » è stata ricoperta e non esercita più particolare caratteristica nell’area urbana.

    La via Appia proseguiva rettilinea verso il porto, di fronte al quale si arrestava bruscamente, sul ciglione di una scarpata alta circa io metri. Due maestose colonne costituivano le mete terminali della regina viarum, ed oltre ad essere fari di notte erano elementi di allineamento nautico durante il giorno. L’Appia aveva qui il suo termine ufficiale e monumentale, e forse anche simbolico, ma in realtà dalla Porta Mesagne, l’Appia formava un bivio, perchè si risolveva in due strade di circonvallazione, che, seguendo le mura, giungevano al porto. Sono queste le strade che Pompeo sbarrò conficcandovi grandissime travi con punte sporgenti (un esempio classico di sbarramento anticarro!) nel riuscito tentativo di ritardare la marcia delle legioni di Cesare.

    Brindisi. Fontana Tancredi

    Il foro trovavasi nell’area del nuovo mercato, al centro della città, come risulta da un’iscrizione colà rinvenuta e dedicata a Clodia Antianilla, giovanetta splendidissima, morta nel fiore degli anni. L’anfiteatro era ubicato fuori Porta Mesagne ed ancora sino al secolo XI se ne potevano vedere i ruderi. Lo smantellamento avvenne durante il periodo di Federico II, perchè le pietre furono utilizzate per la costruzione del castello. Numerosi ruderi riferibili a templi e a terme sono a più riprese occasionalmente venuti alla luce, dimostrando la grandezza e la persistenza dell’abitato romano. Sono state pure scoperte le necropoli brindisine.

    Brindisi. Porta Lecce

    Importante per la topografia della città romana è la individuazione della via Lata, che ancora ha conservato il suo nome attraverso i secoli. Esiste qualche rudere di età romana nella chiesa della Santissima Trinità, conosciuta normalmente con il titolo di Santa Lucia.

    Presso Porta Mesagne si osservano — purtroppo non conservate col decoro che loro spetterebbe — le piscinae limariae, ove si purificava per decantazione l’acqua potabile introdotta nella città mediante un acquedotto lungo circa io km., proveniente dalla località detta Pozzo di Vito.

    Un processo di involuzione topografica si riscontra per Brindisi, non appena i suoi traffici vengono meno per la caduta dell’impero di Roma e si susseguono i saccheggi barbarici. Brindisi fu rasa al suolo dai Saraceni nei due saccheggi dell’847 e dell’853.

    La ricostruzione avvenne ad opera dei Bizantini ed essa è legata al nome di Lupo Protospatasio. La superficie riedificata può all’incirca corrispondere a quella compresa tra corso Garibaldi, le Colonne, via Duomo con la sua continuazione a via Montenegro sino all’odierno mercato. Si tratta della parte più elevata della città, in posizione dominante e militarmente più utile. Brindisi ripeteva così la sua storia topografica ricominciando la sua esistenza dall’antico nucleo messapico. L’ampliamento proseguì interessando dapprima il rione di Santo Stefano, e poi il rione di Santa Eufemia, ricostruito dai Normanni.

    Un piano organico di sistemazione urbanistica si deve a Federico II, che fece riedificare la cinta muraria, costruire il castello sul Seno di Ponente, e rimettere in efficienza l’antico arsenale. Con gli Svevi è soprattutto il settore occidentale di Brindisi che viene in tale modo protetto e « pianificato ». Con gli Angioini si ricostruisce invece il settore orientale, ove era l’arsenale e dove fu edificato un altro castello, che venne circondato da 37 nuovi edifici. Gli Angioini completano il piano difensivo della città, mentre la preoccupazione di proteggere il porto e l’arsenale dimostra che Brindisi riprendeva il suo destino sul mare.

    Il Medio Evo brindisino, come evidente riflesso delle attività delle nostre repubbliche marinare, è un periodo di notevole incremento urbanistico, demografico ed economico. I quartieri si specializzano non solo topograficamente ma persino etnicamente, a cui corrispondono determinate professioni e mestieri. Troviamo Ebrei, Genovesi, Pisani, Amalfitani, Veneziani e Schiavoni e persino Ravellesi e Scalesi, come è stato detto nelle pagine precedenti.

    La situazione storica generale della seconda metà del secolo XV non è per nulla favorevole a Brindisi; infatti Alfonso d’Aragona, che ne aveva cacciato i Veneziani, per il timore di una rappresaglia aveva fatto ostruire completamente il canale navigabile dal Principe di Taranto. Il terremoto del 1456 distrugge in gran parte la città, contribuendo a spopolarla.

    Brindisi e, in primo piano, il castello iniziato da Federico II

    Il Galateo scriveva: «Magna urbs, magna solititelo!».

    Quadro tristissimo, confermato a più riprese da altri autori, come da H. Swin-burne nei suoi Travels in tivo Sicilies, ove nel 1777, Brindisi è descritta come città dalle strade strette e tortuose, dai fabbricati miserabili e fatiscenti, con nessuna chiesa o edifìcio degni di essere ricordati. Il Galanti, nel 1791, definisce Brindisi un aggregato di capanne!

    La ripresa edilizia di Brindisi ha inizio sul declino del secolo XVIII con la copertura della Mena, trasformata in strada, alla quale si diede il titolo di via Carolina, in onore della moglie di Ferdinando IV. Si procedette ad un riordinamento urbanistico e ad un risanamento igienico dell’area cittadina, decongestionando i sovraffollati nuclei tradizionali, ed obbligando il trasferimento nel settore meridionale della città di mulini, trappeti e concerie. Fu inoltre migliorata la viabilità soprattutto verso porta Lecce.

    Nonostante i miglioramenti di recente apportati, al tempo dell’unità d’Italia Brindisi era ridotta ad una larva di quella importante città classica che la gioventù d’Italia conosce sin dai banchi della scuola, ma, per la sua posizione geografica, era destinata ad un sicuro avvenire.

    Brindisi che si rinnova.

    La nuova Brindisi inizia con la inaugurazione della stazione ferroviaria, avvenuta il 25 maggio 1865. Il raccordo di questa con la stazione marittima fu effettuata mediante il corso Umberto, che oggi è divenuto l’asse fondamentale della città. Sventramenti e ampliamenti hanno dato decoro e funzionalità a tutto l’incoiato.

    In pratica però sino al 1927, anno in cui Brindisi divenne capoluogo di provincia, la città rimase chiusa entro la cinta dei suoi bastioni. Lo sviluppo ulteriore si è infatti avuto dopo tale data, con la creazione di un centro dignitoso nella piazza della Vittoria, abbellita con i nuovi palazzi dell’I. N. A., della Previdenza Sociale, della Posta, del Banco di Napoli, ecc. e con palazzi pubblici ancora in costruzione. Simultaneamente con questo rinnovamento edilizio nell’area urbana tradizionale, Brindisi, per la prima volta nella sua storia plurisecolare, si è ampliata oltre i suoi bastioni con quartieri residenziali. Il rione Cappuccini e il rione Commenda, con la planimetria concordata sulla antica via Appia, formano oggi, con viali magnifici, ampie strade e belle piazze, un degno coronamento moderno intonato dal duplice concetto del decoro e della funzionalità.

    Una città-giardino va sviluppandosi oltre il Seno di Ponente, con il rione Casale; basato sugli stessi criteri, ma quasi esclusivamente a villette, è il rione Paradiso.

    Brindisi. Monumento al Marinaio.

    Sempre nella stessa area di fronte al Castello Svevo, è sorto il villaggio dei Pescatori, che forse manifesta una esagerazione di riordinamento e di pianificazione urbanistica più estetizzante che funzionale. Qui sono stati alloggiati, in palazzi persino di cinque piani, i pescatori sfrattati dalle « Sciabiche », ora in corso di demolizione.

    L’antico rione extra murale di Perrino, oltre il Seno di Levante, rione di pescatori e di caprai che provvedevano all’approvvigionamento del latte, è stato riorganizzato topograficamente con moderni criteri e collegato alla città (Porta Lecce) con un’ottima strada.

    Oltre il Seno di Levante si estendono il cosiddetto « Punto Franco » e la « Nuova zona industriale » (Montecatini), che influiranno senza dubbio non solo nell’ampliamento cittadino, ma nell’infondere al medesimo una fisionomia economica industriale che oggi manca e che la città indubbiamente merita. Un’ansia di rinnovamento caratterizza Brindisi, ove il monumento al Marinaio, salvato dalle distruzioni dell’ultima guerra, rimane ancora non soltanto come simbolo ma come volontà di rinascita.

    Foggia

    Foggia si adorna del suo Tavoliere, che oggi è il granaio d’Italia. Ma quando sorse, acquitrini e prati e boscaglia formavano la cornice delle prime dimore, alle quali diede importanza il fortuito rinvenimento di un quadro ligneo, sul quale era dipinta l’immagine della Madonna. Siamo verso il iooo.

    Tre fiammelle vivide di bagliori splendevano sulle torbide acque della palude. A tal vista un giogo di buoi, invano pungolato, si arrestò e piegò gli arti anteriori dando così testimonianza di prodigio. Incuriositi, pastori e contadini vollero rendersi ragione di quanto accadeva, e rinvennero una vecchia icone (Icona vetere), opportunamente avvolta da tessuto di fattura greca, sulla quale era dipinta una Madonna: ad essa fu attribuito il titolo di Santa Maria de Fovea. Ospitata provvisoriamente nella vicina taverna del Gufo, la sacra immagine suggellava con la sua presenza l’inizio della vita storica di quel centro abitato.

    La taverna del Gufo, ove poi sarà costruita la chiesa di San Tommaso, è indizio di un gruppo di abitatori permanenti i quali erano qui giunti da Arpi, sopravvissuti alla loro antichissima città, ormai definitivamente prostrata dalle ripetute stragi e distruzioni operate dai Goti, dai Longobardi e dagli stessi Saraceni.

    Ubicata la taverna del Gufo nell’area attualmente occupata dalla chiesa di San Tommaso, possiamo fondatamente supporre che il più antico abitato foggiano si estendesse sull’attuale lieve dosso ov’è la chiesa dell’Addolorata. Il pantano, al quale la pia tradizione ha attribuito l’improprio termine di « lago », si estendeva nell’area all’incirca corrispondente a quella ora occupata dalla cattedrale, dall’episcopio e dalla piazzetta del Lago.

    Il laghetto doveva essere una pozza d’acqua o meglio una cavità con acqua, una fovea o fogia o foggia, come si dice anche in altre parti dell’Italia meridionale. Alla bonifica del luogo ed alla costruzione della chiesa di Santa Maria di Fovea provvide il normanno Roberto il Guiscardo intorno al 1050, con un interessamento ed un impegno che conferirono al centro incipiente dignità ed importanza, non solo per celeste favore ma per concreto terreno intervento.

    Con questi auspici Foggia entra nella storia. Gugliemo II detto il Buono, inglobando il tempio precedente, fece costruire nel 1179, una più ampia chiesa improntata alle fastose linee architettoniche della cattedrale di Troia. Questo monumento di fede e di stile romanico-pugliese fu gravemente danneggiato dal terremoto del 1731, che impose la quasi totale ricostruzione della chiesa.

    Foggia andava pertanto estendendosi manifestando una vivacità del tutto ignorata da altri centri periferici del Tavoliere, come Siponto, destinata a perire con l’ampliamento della platea sabbiosa costiera. Foggia, sin da questo periodo, è legata alla sua ubicazione al centro del Tavoliere, nel punto di convergenza dei tratturi e di riposo delle greggi. I Normanni favorirono e regolamentarono la transumanza, evidentemente perchè essa costituiva uno dei pilastri dell’economia dei propri organismi politici e perchè le tassazioni relative impinguavano direttamente le regie casse. Foggia è pertanto in naturale situazione di privilegio, ed alla città derivano positivi vantaggi d’ordine demografico e amministrativo.

    Federico II abbellì e fortificò Foggia durante i primi anni del suo impero agitato. Del suo palazzo imperiale rimangono soltanto un arco a foglie stilizzate, sorretto da due aquile ed una iscrizione piena di solennità e di ambizioso futuro: «A. Ab In-carnatione MCCXXIII M. Iuni XI. Ind. R. Dno. N. Frederico Imperatore R. Sep. Aug. A. Ili Et Rege Siciliae A. XXVI. Hoc Opus Feliciter Inceptum Est Prephato Dno. Precipiente». Intorno si legge: « Sic Fredericus Caesar Fieri Iussit Ut Urbs Fogia Regalis Sedesque Inclyta Imperialis sit. A. D. 1223 ».

    Foggia aveva chiuso le porte a Federico reduce dalla crociata; Foggia le chiude dinanzi a Manfredi dal quale però è assediata, presa e messa a sacco. Carlo d’Angiò conquistata l’Italia meridionale, dimostra di prediligere Foggia in modo particolare soggiornandovi a lungo e facendovi costruire una reggia, ove spirò nel 1285. La città seguì le vicende politiche dell’Italia meridionale partecipandovi più o meno direttamente, ma scarsamente dimostrando una propria iniziativa.

    Durante il periodo aragonese, la nuova regolamentazione fiscale della transumanza nel Tavoliere avvantaggiò più le casse dello Stato che la città di Foggia, ove tuttavia si manifestavano riflessi economici positivi. Sin dai primi anni della dominazione spagnola, nel 1507, Foggia fu dichiarata città di diretta dipendenza regia ed ottenne vari benefici, ulteriormente confermati ed aumentati da Carlo V.

    Ma circa un secolo di governo avido dei viceré di Spagna, induce Foggia a parteggiare per i moti iniziati a Napoli da Masaniello. La situazione economica è depressa, la città è in stasi demografica, le condizioni igieniche lasciano a desiderare. Un tremendo terremoto infierisce nella notte di martedì santo, 20 marzo 1731.

    Foggia nel piatto Tavoliere

    Il periodo di regno di Ferdinando II apportò alla città notevole beneficio per diretto interessamento del re, che vi si recava di frequente, specie in occasione della fiera di Foggia, ove « lo si vide più volte girare in mezzo al gran formicolio di animali nel Piano della Croce con l’uncino tra mano come ogni altro misero mortale, per la compera di cavalli delle migliori razze ».

    Dal 1807 Foggia era stata elevata alla dignità di sede vescovile, distaccandosi da Troia; nel 1855 fu aggregata alla nuova diocesi la città di San Marco in Lamis che prima faceva parte dell’arcivescovato sipontino (Manfredonia). Il primo vescovo di Foggia, Bernardino Maria Frascolla fece il suo ingresso solenne in città il 2 febbraio 1856; egli era canonico della cattedrale di Andria ed uomo «di acutissimo ingegno, di grande dottrina nelle materie teologiche ed insigne oratore ».

    Le prime notizie sull’entità della popolazione, anche per Foggia e sempre con adeguate riserve, possono desumersi dalle numerazioni dei fuochi effettuate a cominciare dal secolo XVI. Nel 1532, la città con circa 1285 ab. (257 fuochi) poteva considerarsi neppure un grosso villaggio; ma l’incremento è sempre positivo (266 fuochi nel 1545; 618 fuochi nel 1561), finché alla fine del secolo la città risulta tassata per 1000 fuochi (5000 ab.), per poi diminuire nella seconda metà per l’aggravata situazione economica e per le epidemie che causarono una forte mortalità. Nel 1669 Foggia era tassata per 1185 fuochi pari a 5925 abitanti!

    Nella numerazione fatta dalla Regia Camera nel 1737, Foggia persiste nell’esiguo numero dei fuochi (1144 corrispondenti a 5720 ab.). Al termine dello stesso secolo Giuseppe Maria Galanti, riportando i risultati di un censimento del 1788 ricorda che Foggia aveva 17.009 abitanti. L’incremento ha evidentemente inizio con i Borboni e prosegue con buon ritmo, perchè nel 1842 si contavano a Foggia 23.552 abitanti.

    Nel 1861 la popolazione ammontava a 32.493 ab. e si classificava al 160 posto tra le città d’Italia. L’aumento è stato continuo (34.181 ab. nel 1871; 36.852 ab. nel 1881; 48.931 ab. nel 1901), finché nel 1911, proprio negli anni del maggiore esodo degli italiani, Foggia registrava in quel censimento la forte cifra di ben 71.632 ab., classificandosi al 130 posto tra le città italiane. Da allora, per un ventennio, e cioè sino al 1931, la popolazione è andata diminuendo. E difficile ricercare le cause del decremento, perchè si possono avere motivi per dubitare dell’esattezza delle operazioni di censimento del 1911. Comunque la prima guerra mondiale e la depressione economica successiva, sono state cause che hanno stimolato l’emigrazione interna o anagrafica verso le città del settentrione, soprattutto Milano e Torino.

    Nel ventennio dal 1931 al 1951, nonostante che Foggia sia stata brutalmente sacrificata dalla guerra, l’aumento è stato notevolissimo perchè da 52.584 ab. si è passati a 84.891 abitanti. In poco meno di cento anni la popolazione di Foggia è quasi triplicata.

    Foggia tra tutti i capoluoghi di provincia della Puglia, è città senza tradizioni classiche, perchè le sue origini risalgono all’alto Medio Evo, e sono il risultato di una spontanea convergenza di famiglie nel cuore del Tavoliere. Depredate le maggiori città come Lucerà ed Arpi, coloro che non volevano o non potevano trovare scampo nel vicino Gargano, si rifugiavano qui fra boschi e paludi, vivendo di agricoltura e di allevamento, di caccia e di pesca. Una tremenda selezione naturale dovette essere effettuata dal morbo malarico sui superstiti di tante sventure, che attraverso il lavoro e la fede seppero ricostruire la propria dimora.

    Il primo nucleo del nuovo centro (San Tommaso) si ampliò durante i Normanni verso l’area della odierna cattedrale. Successivamente Federico II recinge la città di mura, vi costruisce il suo palazzo, apponendovi la nota epigrafe, tuttora conservata, nella quale si esalta Foggia come invincibile sede reale ed imperiale. Questo palazzo, che simultaneamente fungeva da castello, era ubicato presso Porta Arpi (Porta Arpana o Porta Grande). Oggi non è possibile ricostruirne con esattezza lo stesso perimetro! Un’altra singolare costruzione sveva era il castello o palazzo della Pianara a meno di 500 m. fuori di Porta Arpi. Esso fu costruito a fianco del tratturo Foggia-Candelaro, forse per esercitare un adeguato controllo in relazione al riordinamento fiscale della transumanza e della fiera di Foggia. E molto importante ricordare che lo stesso Federico II volle punire Foggia smantellandola delle mura, che egli aveva fatto costruire. Facile preda essa divenne nelle lotte fra guelfi e ghibellini.

    La Villa Comunale di Foggia.

    Gli Angioini mirano ad ampliare la città ad occidente della Cattedrale, ed il palazzo di Carlo I d’Angiò viene costruito nell’area in parte compresa tra la chiesa di Sant’Angelo e l’attuale corso Garibaldi. Indicazione, questa, ovviamente molto generica, sebbene le colonnine d’angolo della piazza della cattedrale costituiscano un buon riferimento topografico.

    Con gli Angioini, Foggia si amplia verso Porta Troia situata al termine occidentale della lunga via Arpi, asse fondamentale della città. I suoi rioni (pittagia) sono sei: Pittagium Palatii, S. Mariae, S. Tomae, Cambii, S. Angeli, Maniaporci. Non è possibile definire i limiti dei rioni, ma riconosciamo con sicurezza la distribuzione di alcuni di essi: ad occidente il rione Palazzo, che deriva il nome dal palazzo di Federico II; al centro quello di Santa Maria, detto così dal titolo della cattedrale; a nordovest quello di San Tommaso, forse la prima chiesa di Foggia; nel settore centro-meridionale il rione di Sant’Angelo. I rioni Cambium e Maniaporcum comprendevano i settori a sudest e a sudovest della città, ma non è possibile nè identificarli in particolare nè intuire il perchè della loro denominazione.

    Foggia e le fasi del suo ampliamento.

    Foggia non ebbe per secoli ampliamento topografico oltre il perimetro angioino, che, in pratica era definito dai tratturi: Foggia-Celano; Foggia-L’Aquila; Foggia-Campolato; Foggia-Òfanto, e dai tratturelli: Foggia-Camporeale; Foggia-Castel-luccio dei Sàuri; Foggia-Ascoli Satriano; Foggia-Ordona; Foggia-Tressanti-Bar-letta. L’incontro di queste importantissime arterie di comunicazione è la causa fondamentale e determinante dello sviluppo della città di Foggia.

    Presso il vecchio perimetro murario, chè le mura di Foggia o sono inglobate dalle abitazioni o sono scomparse, a via Manzoni, e proprio nell’area dei tratturi, è un monumento dall’alta base e dalla minuscola statua in onore di Filippo IV, che ricorda la restaurazione di quel trattura delimitato dalle mura cittadine. Il monumento risale al 1651, ed è detto «u pataffie » per la lunga iscrizione ormai quasi illeggibile.

    Pure nel suolo di un trattura, erano state scavate le fosse per il grano, consistenti ciascuna in una grande cavità cubica all’incirca di m. 5X5X5. Il Piano delle Fosse, oggi (i960) non ancora del tutto scomparso, fu riorganizzato nei suoi servizi il 1725. Sino al 1925 hanno atteso al lavoro di riempimento, di apertura e di svuotamento delle fosse le compagnie — oggi diremmo cooperative — di San Rocco e di Santo Stefano, disciolte in seguito all’introduzione di macchine aspiranti il grano.

    Ancora all’inizio del secolo XVIII Foggia occupa l’area che aveva nel secolo XIV. Fuori delle mura è sorta qualche chiesa, tra cui ricordiamo quella di San Giovanni, e qualche convento, tra cui molto importante per la sua ampiezza, quello dei Cappuccini. Ma, nel complesso, la piatta campagna circostante non ospitava immediate dipendenze cittadine.

    Il 20 marzo 1731, un terremoto catastrofico ridusse la città in un cumulo di macerie. Risorse Foggia rinnovata nel gravissimo lutto, con case generalmente a pianterreno, come si consigliava nell’epoca per precauzione antisismica. A questo periodo risale la demolizione totale dei maggiori edifici, e la ricostruzione della Cattedrale nelle forme conservate sinora. Pietoso monumento in ricordo delle vittime del terremoto è la chiesa delle Croci, caratteristica per le cinque cappelle antistanti allineate. La chiesa fu costruita in uno spiazzo compreso fra il convento dei Cappuccini e la città, e cominciò a polarizzare la nascita di un rione, il più povero di Foggia, detto « Le Croci ».

    Il terremoto del 20 marzo 1731 determinò la necessità di superare il vecchio recinto delle mura e la città si ampliò principalmente verso est, ove taluni edifici pubblici a carattere decorativo, come la Nuova Dogana, nell’attuale piazza XX Settembre e l’Orfanotrofio «Maria Cristina» in piazza Lanza, abbattuto intorno al 1935 per dar luogo al palazzo degli Uffici, costituirono direttrici di polarizzazione. Tra i preesistenti edifici che esercitarono identica funzione, si può annoverare il convento di San Pasquale.

    Nel settore nordoccidentale sorse il modesto rione Le Croci, che non figura in vedute cittadine anteriori al terremoto, e che, pertanto, non può affatto risalire a Federico II.

    La ricostruzione proseguì così alacremente che in pochi anni l’icona vetere della Madonna dei Sette Veli potè ritornare nel duomo. Ma è soprattutto dopo il periodo napoleonico che l’incremento urbano assume un notevole ritmo: nel 1820 si stabilì l’area cemeteriale, nel 1821 si procedette ai lavori di sterro per la villa, nel 1828 si inaugurò il teatro.

    Vedi Anche:  Territori e rilievi

    Foggia. Il viale della Ferrovia da piazza Cavour.

    L’unità d’Italia trovò Foggia in processo di ampliamento, che fu ulteriormente accelerato in tutto il settore orientale, che con pianta a scacchiera e con via assiale orientata verso nordest (corso Giannone-viale XXIV Maggio), manifesta come nuovo elemento di polarizzazione la stazione ferroviaria.

    Dopo la prima guerra mondiale è in questo settore che l’edilizia risulta maggiormente intensificata con l’inaugurazione di edifici pubblici (palazzo dell’Acquedotto Pugliese; palazzo delle Poste) e con edifici privati (palazzo Cicolella; palazzo Sarti, ecc.). Il primo palazzo « I.N.C.I.S. » (Istituto Nazionale Case Impiegati Statali) inaugurato nel 1930 a via Trieste, diede l’avvio all’occupazione edilizia dell’antico Piano delle Fosse. Intanto si procedeva all’assestamento dell’abitato antico, progettando il trasferimento di scuole e di uffici e la costruzione del palazzo del Governo e del palazzo del Podestà. Il pieno fervore di opere fu troncato dalla seconda guerra mondiale che mise a dura prova la città, causando le maggiori distruzioni nel quartiere presso la ferrovia e nell’area triangolare compresa tra corso Garibaldi, corso Cairoli e corso Vittorio Emanuele. La ricostruzione dopo questo disastro fu rapida, perchè la pianura invita all’ampliamento che è stato cospicuo in tutto il settore meridionale, disimpegnato dal viale Ofanto, dove sono stati costruiti i palazzi dell’I.N.A.-Casa, le case popolari e dove sono pure sorte graziose villette.

    La strada statale per Bari ha richiamato l’edilizia privata, che da corso Roma verso est, ha costruito in pochi anni un intero rione, con una chiesa di stile singolare: l’Immacolata Concezione con annessa Curia provincializia dei P. P. Cappuccini. In forma ed entità minore, anche le altre strade statali hanno esercitato un’azione attrattiva, meno che la statale Foggia-Manfredonia, presso la quale è il Cimitero.

    Foggia che si rinnova il convento dell’Immacolata dei Padri Cappuccini

    Proprio nell’interno della città ottocentesca, per colmare i vuoti della guerra sorgono arditi palazzi in cemento armato, mentre decorose costruzioni, come a Porta Arpi, rinnovano e ossigenano l’antico, rimarginando le ferite e le deturpazioni della crudeltà di ogni guerra, specialmente se indiscriminata.

    Lecce

    Le città italiane del versante adriatico, le quali presentano complessi edilizi improntati a forme di elegante architettura sono Venezia, Ascoli Piceno e Lecce. Ciascuna città ha una propria inconfondibile caratteristica; ma Lecce, in questo estremo lembo di patria, che si raggiunge soltanto come un lontano traguardo, esercita sul visitatore una suggestione indimenticabile anche perchè del tutto inaspettata. Lecce, bellissima, è una città che parla, canta, sorride e piange con le pietre carnicine dei suoi edifici barocchi, rivestiti dal ricamo di un abito da sposa.

    Lecce è città messapica (Lupiae), non forse una delle maggiori, ma abbastanza estesa, perchè i resti archeologici si ritrovano un po’ ovunque nell’area attualmente abitata.

    La tradizione letteraria trascura Lupiae e ricorda con frequenza Rudiae. Questo importante centro, distante da Lecce soltanto 2 km., patria di Quinto Ennio, ostacolava molto probabilmente lo sviluppo di Lecce.

    Il silenzio delle fonti storiche viene però sostituito dalla ancor viva voce dell’archeologia e l’anfiteatro romano di Lecce eretto nella prima metà del II secolo d. C., durante l’impero di Adriano, capace di 25.000 spettatori, è inoppugnabile testimonianza dell’antichità e del prestigio di Lecce in matura età classica. Anche il teatro romano, di recente scoperto presso la chiesa di Santa Chiara e restituito alla nostra ammirazione, denunzia una fiorente vita artistica, destinata a dare alla città un indiscusso primato regionale.

    Le invasioni barbariche non risparmiarono Lecce, che subì conseguenze tristissime e prolungate a causa delle lotte tra Bizantini e Goti, Bizantini e Normanni, che fecero di queste terre un quasi ininterrotto campo di battaglia per ben sei secoli, dal sesto all’undicesimo!

    Roberto il Guiscardo nel 1069 sgominò definitivamente i Bizantini ed iniziò il predominio della dinastia normanna, che favorì l’incremento urbano ed economico di Lecce (detta Lycea e Licium), pur attraverso tragiche lotte dinastiche.

    La contea di Lecce ebbe alterne vicende di grande fortuna e di profonda sventura. Effimero re di Sicilia fu Tancredi di Lecce: rivale ben degno di Enrico VI di Svevia, a lui sopravvisse ereditandone ogni diritto e donò nel 1195 la contea di Lecce a Roberto Visconti.

    La Contea passò poi alla casata di Brienne proveniente dalla Champagne, la quale difese sempre energicamente il proprio possesso mediante crudeli lotte. Nel 1205 Gualtiero di Brienne mosse persino alla conquista della Sicilia, ma fu catturato nel castello di Sarno dalle milizie imperiali tedesche. Gravemente ferito sdegnò ogni servile compromesso e lacerate le bende preferì morire da prode guerriero come sempre aveva vissuto.

    Ruderi dell’anfiteatro romano di Lecce.

    Gualtiero VI, ultimo dei Brienne, benvoluto dagli Angioini, ereditò dal padre il vano titolo di duca d’Atene e quello concreto di conte di Lecce. La sua vita così avventurosa da sembrare tutta un romanzo, gli serbò grandi soddisfazioni e grandi dolori a Napoli e a Firenze, in Grecia e in Francia. Morì nella battaglia di Poitiers del 1356, combattendo contro gli Inglesi, che avevano invaso il regno di Francia.

    Da allora la contea di Lecce passa a Giovanni d’Enghien che si preoccupò di condurre a termine le mura a difesa della città e di instaurare un benessere economico di cui si sentiva assoluto bisogno. L’opera fu proseguita dai figli Pirro e Maria d’Enghien; questa ereditò la contea in seguito alla morte del fratello, che non aveva lasciato figli, avvenuta nel 1384.

    Belle pagine di storia leccese, sono legate alla memoria di Maria, che andò sposa nel 1385 a Ramondello Orsini, e che promulgò gli Statuti della città di Lecce. Morto il marito nel 1406, dovette subito tener testa alle mire di Ladislao di Durazzo, re di Napoli che voleva impadronirsi del principato di Taranto e della contea di Lecce.

    Ladislao, sebbene sconfitto, riuscì nel suo intento sposando Maria d’Enghien nell’aprile del 1407. La regina divenne praticamente prigioniera degli intrighi di corte, del proprio marito e di Giovanna II, sorella di Ladislao e regina di Napoli dopo la sua morte, avvenuta nel 1414.

    Una serie di circostanze fece rientrare Maria d’Enghien nel diretto possesso della sua contea, mentre i figli contraevano matrimoni con potenti famiglie dell’epoca. Lecce trasse molto vantaggio dal ritorno della sua contessa, che per altri 30 anni, dedicò ogni cura per il benessere del proprio feudo.

    Accorta e sagace la politica aragonese riuscì a far rientrare nei domini regi e Taranto e Lecce mediante il matrimonio tra Ferdinando I e Isabella, ereditiera delle suddette città. Le sorti di Lecce seguono ormai direttamente quelle di tutto il regno sconvolto dalla guerra tra Francesi e Spagnoli e pacificato dall’opera di Carlo V che fece rinsaldare la cerchia muraria della città e ordinò, nel 1539, la costruzione del massiccio castello, che costituisce ancora uno dei più insigni monumenti storici della città.

    L’area urbana cittadina si rinserrava nel perimetro delle mura, sviluppandosi con vie anguste e tortuose, di tratto in tratto intaccate dal respiro delle « corti » o da quello più ampio, fortemente scenico di piazza del Duomo.

    La cinta fortificata dei Bastioni conservava le antiche porte: porta Napoli o porta Reale, porta Rusce (Rudiae), porta San Biagio e porta San Martino.

    A porta Napoli fu eretto un arco di trionfo in onore di Carlo V; esso è ancora ottimamente conservato ed è documento non solo della devozione verso il grande monarca, ma della innata tendenza estetica dei Leccesi, che, con gentilezza d’arte, vollero abbellire la inadorna e brutale linea che è propria di ogni fortificazione.

    Una pianta prospettica della città risale al Pacichelli ed è del secolo XVII. Lecce vi figura recinta di mura, ma con un abitato meno caotico ed affollato di quello che era in realtà. Queste mura non saranno superate che nel secolo XIX, quando ancora però si effettuavano nel centro storico sventramenti, demolizioni, ricostruzioni ed abbellimenti: lavori che non sono ancora terminati. Ricorderemo, ad esempio, soltanto il restauro del palazzo degli studi, già collegio dei Gesuiti, avvenuto nel 1845.

    Nel secolo XVI Lecce era la più popolosa città della Puglia e tale si è mantenuta sino al secolo XVII. Con la numerazione dei fuochi del 1532 Lecce fu tassata per 3711 fuochi, pari a 18.555 abitanti. Nel 1545 i fuochi superavano i 5000, nel 1561 superavano i 6000, fino a che nel 1595 ne furono numerati 6529, pari a 32.645 abitanti. Città, quindi, notevolmente affollata, viva e vitale; nello stesso anno Bari aveva 14.675 ab., Brindisi 9740 ab., Foggia 5000 ab. e Taranto 15.000 abitanti.

    Ma nel secolo successivo ha inizio un rapido processo involutivo, perchè la città annovera nel 1648 solo 4623 fuochi, pari a 23.115 ab. e continua la diminuzione sino a 3300 fuochi (16.500 ab.) registrati nel 1669.

    Lecce. Particolare del castello di Carlo V.

    Vecchia Lecce.

    Il secolo seguente stabilisce per Lecce il minimo di popolazione: 12.000 ab. (2400 fuochi nel 1737).

    Alla fine del secolo (1793), gli abitanti sono 13.790: cifra all’incirca stazionaria sino all’unità d’Italia. L’incremento ulteriore è rapido, e i trentamila abitanti — ma nel comune — risultano superati nel 1901, quando furono censiti 32.687 abitanti. Col censimento del 1951 risultano superati i sessantamila abitanti (63.831 nei comune), mentre la città, alla stessa data, contava 56.937 abitanti.

    Lecce. Fasi dell’ampliamento della città.

    L’incremento della popolazione è determinato soprattutto dall’eccedenza dei nati sui morti: eccedenza che è andata man mano aumentando dagli anni della guerra ad oggi. Punte di 860 unità annue di eccedenza (anno 1947), costituiscono valori ormai consueti e medie di normale significato per lunghi periodi, che affermeranno presto Lecce — a prescindere da altri elementi positivi come la scarsa emigrazione — tra le più popolate città della Puglia.

    Come ho altrove detto, la tradizione letteraria è stata molto avara di riferimenti verso la città di Lecce, che, almeno a giudicare dall’ampiezza dell’anfiteatro romano, doveva essere un centro abitato che si distingueva nettamente da tutti gli altri del Salento, ad eccezione di quelli costieri, Brindisi e Taranto. Vorrei però affermare che solo Lecce è effettivamente un centro di fioritura indigena, mentre gli altri due — a prescindere dalle stesse controverse origini — ebbero un’esistenza subordinata alla fusione mediata o immediata di popoli forestieri greci o romani.

    Il ritrovamento di tombe messapiche nell’area urbana di Lecce, proietta in un remoto passato le origini della città. Lupiae messapica — secondo alcuni autori, come il Bernardini — poteva essere compresa nel quadrilatero delimitato da una congiungente Porta San Biagio-Porta Ruggie a sud e la via Idomeneo a nord.

    La città romana avrebbe avuto un suo cardine in via Principe di Savoia e un suo decumano in via G. Palmieri. Questi riferimenti sono molto incerti, ma è sintomatico il fatto che, Lecce come Brindisi, presentino un nucleo topografico praticamente radiocentrico (di tipo messapico?) con il Duomo nell’area centrale, in contrasto con una giustapposta pianta a scacchiera di tipo romano.

    I fugaci cenni della tradizione letteraria su Lupiae inducono a ritenere che essa sviluppasse una funzione provinciale, offuscata dai centri « internazionali » di Taranto e Brindisi. II crollo di Roma e le invasioni per terra e per mare, che si riversarono sul Salento, fecero scomparire ogni traccia della città romana. Liccie viene ricordata come città al termine del secolo XI. Guidone riferisce taluni particolari sulla topografia di Lecce, che consentono di ritenere che nel secolo XII il centro della vita cittadina si andasse formando nella odierna piazza di Sant’Oronzo.

    A fianco della contea di Lecce fa man mano la sua comparsa ì’Universitas civi-tatis Licci, che assume una notevole importanza mercantile nei secoli dal XIV al XV. La composizione etnica leccese diventa complessa per l’apporto cospicuo di Ragusei, Albanesi, Greci, Ebrei, Genovesi, Fiorentini, pullulanti ove sono ricchi i mercati e fervono intensi i traffici.

    La città si amplia con un’edilizia fatta di corti : spiazzaletti con unico accesso sulla strada, definiti da case in genere a due piani, con scale esterne, con ballatoi di comunicazione, ecc. Nelle corti dei Mesagnesi si era stabilita la colonia albanese ; nella corte dei Campanella erano i Ragusei, i quali esercitavano l’usura sì che raguseo oggi, a Lecce, vuol dire usuraio.

    Nel 1543 Lecce fu recinta da mura bastionate, che si collegavano al castello. Forse in alcuni tratti si conservarono, restaurandole, mura romane, come dimostrerebbero i ruderi presso la porta Napoli.

    La cinta muraria definisce ormai per secoli l’area urbana di Lecce, mentre la topografia insiste sugli schemi già acquisiti o effettua modifiche di carattere particolare. Degna di nota è invece la trasformazione radicale operata nell’ambito cittadino da un febbrile rinnovamento edilizio, improntato alle linee e allo stile di un barocco pieno di eleganza e di gentilezza nei particolari, ma vibrante di forza e di spazi nell’arditezza della sua architettura.

    A chi riflette nelle cause di questo fenomeno, non può sfuggire la convergenza di diversi fattori, che hanno trovato un eccezionale ed armonioso equilibrio. Innanzi tutto la diffusione dello stile barocco, che accompagna l’affermazione politica della Spagna e che diventa «gusto» dell’epoca; in secondo luogo la tranquillità generale, determinata da situazioni in cui l’iniziativa autonomistica è immediatamente combattuta dal potere centrale; la moltiplicazione, nel fervore dell’antiriforma, di nuovi ordini religiosi che in Lecce trovano ferace sviluppo; l’insorgenza di una tranquilla borghesia estetizzante; la presenza della pietra leccese così tenera da poter essere tagliata con la sega da falegname.

    Lecce. Facciata del Seminario.

    Mentre per altre città pugliesi si rende impellente la costruzione del borgo, sin dai primi anni del secolo XIX, a Lecce non si manifesta ancora la necessità di superare le mura. Però, oltre le mura, motivi igienici avevano determinato la formazione dei viali (1824), e nel campo «Macello di Fuori» fu realizzata nel 1830 la villa cittadina. Nel 1822 era stato dignitosamente sistemato l’ingresso alla porta Napoli, con la erezione di un singolare obelisco.

    Episodica, l’espansione oltre le mura, anche se Gaetano Stella, nobile figura di scienziato e di cittadino, abbia contribuito a valorizzare — ad esempio con la istituzione dell’orto botanico — il perimetro extramurale. E nella seconda metà del secolo scorso, pure per la presenza della stazione ferroviaria che si pone il problema dell’ampliamento urbano. Ma sino al 1887 — ed abbiamo un chiaro documento con la pianta di quell’anno di Michele Astuti — solo un gruppo di isolati a sudest della città costituiva la prima compatta espansione dell’incoiato oltre le mura.

    I momenti più espressivi dell’incremento topografico sino alla prima guerra mondiale, sono la formazione del Borgo Idria a sudovest e l’ampliamento a sudest, ove è sorto il quartiere sanitario. Ancora verso est, tra il viale del Parco e via San Lazzaro nell’area del giardino Vernazza sorge un quartiere borghese. Anche a ridosso dei giardini pubblici (Fulgenzio), tra i giardini pubblici e il castello, l’edilizia occupa qualche spazio, intramezzato però da campi — specie oltre il viale Brindisi — che esprimono un ampliamento disorganizzato.

    Verso la stazione ferroviaria il viale dell’Unità Italiana, divenuto viale Stazione Ferroviaria, ed oggi, semplicemente viale della Stazione, i fabbricati si allineano compatti solo nel lato orientale. Oltre il viale Taranto, pochi edifici indicano una direttrice d’espansione verso occidente. Caratteristica è qui la formazione di via Arte della Cartapesta. Nel complesso Lecce ha un ampliamento extramurale molto modesto, gravitante soprattutto nel settore orientale, e inadeguato alle sue stesse esigenze di capoluogo di provincia. Importante in questo periodo (anno 1901) la scoperta dell’Anfiteatro Romano.

    Dopo la prima guerra mondiale la città di Lecce inizia un ampliamento a macchia d’olio, cioè egualmente intenso in tutte le direzioni. Il settore occidentale, trascurato in precedenza, viene opportunamente valorizzato con il restauro di porta Napoli, la costruzione del Campo polisportivo, la sistemazione a giardino dell’area compresa tra le vecchie mura e il viale Taranto, la edificazione della casa del Balilla, oggi sede dell’Università degli Studi.

    Come si osserva da questo elenco non si trattò solo di costruire ma pure di sistemare, di dare cioè alla periferia rusticana di Lecce una fisionomia cittadina. Questo programma si attuò in tutti gli altri settori periferici, ove si cercava di creare centri di attrazione e di richiamo, che, decongestionando il vecchio centro, dessero impulso all’impiego di capitali in costruzioni edilizie adeguate alle nuove esigenze. La costruzione del mercato rionale oltre porta Rusce, del palazzo delle Poste oltre il Castello, delle case dell’Istituto Nazionale Case Impiegati Statali lungo il viale Gallipoli, delle case popolari lungo il viale Brindisi, della casa del Mutilato, del palazzo degli Uffici, del Sanatorio nell’area del quartiere sanitario, costituivano centri di cristallizzazione, per la iniziativa privata, che non costruiva più in campagna, ma in aree già dotate dei servizi essenziali.

    Lecce. Piazza Vittorio Emanuele II con la chiesa di Santa Chiara.

    Nel 1934 viene elaborato ed approvato il « Progetto di massima del piano regolatore e di ampliamento della città » che è un dettagliato documento della situazione urbanistica di Lecce. Da questo progetto inizia il risanamento e la sistemazione del centro cittadino, la piazza Sant’Oronzo; i lavori sono ora in corso di ultimazione.

    Il periodo compreso tra le due guerre è caratterizzato da realizzazioni fondamentali, riprese e intensificate da alcuni anni. In particolare è la zona orientale di Lecce che va ampliandosi con viabilità ed edifici degni di una metropoli. Lo sviluppo è recentissimo, e chi scrive ha potuto assistere, nel breve ciclo di pochi anni alla nascita di nuovi rioni ed alla valorizzazione, anche venale, dei vecchi.

    Il Congresso Eucaristico Nazionale del 1956 ebbe come fulcro delle manifestazioni di massa l’area interposta tra i rioni Fulgenzio e San Lazzaro, ove si preparò la piazza ufficiale del Congresso (piazza Mazzini o dei Trecentomila). Ben presto i suoli circostanti si riempirono di cantieri e grandi palazzi in cemento armato fanno oggi rapidamente scomparire l’arida campagna. Più a settentrione il quartiere delle Case I. N. A. e il quartiere Santa Rosa, inaugurato nel i960, recingono completandolo, questo semicerchio edilizio che fa espandere Lecce verso oriente, verso il mare.

    Scorcio panoramico leccese.

    Come è stato detto e scritto il problema consiste ormai nel liberare la città vecchia artistica e storica dal carico enorme di abitanti e di traffico, e trasferire nei quartieri orientali il peso delle attività pubbliche di tutti i generi, in maniera da polarizzare le correnti più voluminose ed ingombranti.

    La città storica palpita nella piazza Sant’Oronzo, ove un cinquecentesco leone di San Marco va ad abbeverarsi nella conca dell’anfiteatro romano, mentre il palazzo della Banca d’Italia, del primo Novecento, esprime impassibile un necessario errore urbanistico. E qui che, per dare respiro e dignità al centro cittadino, furono demolite le « còcule » e inaspettatamente furono messi in luce i ruderi dell’anfiteatro romano.

    La piazza Sant’Oronzo è stata poi in parte inquadrata con palazzi di stile novecento maturo dagli ampi porticati, con architettura che contrasta con la tradizione locale, ed i lavori di sistemazione, iniziati da più di mezzo secolo, sono ancora in corso (i960).

    La statua di Sant’Oronzo, patrono di Lecce, è effigiata benedicente dall’alto della colonna che fu donata dai Brindisini e venne eretta in questa piazza dall’architetto Giuseppe Zimbalo nel 1666. Non tutti i Leccesi dimostrano entusiasmo per questa piazza, che ritengono svisata e deformata. L. Casarano scrive a proposito di tutte le innovazioni :

    La nuova Lecce (quartiere Santa Rosa).

    Lecce, nu si chiù tie, de neu si repezzata: case, palazzi, strie, tutta t’hanu cangiata. Lu core miu ‘nde freme, lu pensieri spaedha, ma ieu te ogghiu bene, pe mie si sempre bedha.

    Compromessi artistici leccesi tra romanico e barocco: la chiesa di San Nicolò e Cataldo.

    Lecce. Particolare della piazza del Duomo.

    Però piazza Sant’Oronzo esprime nella sua variata sintesi architettonica tutta la vita di Lecce, che ancora vi ferve con ritmo di esuberanza, e che non può essere sacrificata alla nostalgia dell’immobilismo, per giunta non sempre nè igienico nè estetico. La continuità storica si schiude con i volumi gradinati dell’anfiteatro romano, rimbalza nel palazzo del Seggio, si erge nella colonna di Sant’Oronzo lanciata verso il cielo come un grido di fede. Un’epoca nuova, quella umbertina, di generale assestamento amministrativo, riflette l’edificio della Banca d’Italia, espressione minore e tardiva di una Lecce che aveva zecca e coniava moneta pregiata. Prepotenti questi nostri anni, inquadrano la piazza con mattoni cotti sovrapposti in disadorne cortine; ma son palazzi che aderiscono a idee sociali rinnovate, e che nei portici realizzati per creare volumi di ombre, ospitano uffici e locali di trattenimento pubblico graditi alle generazioni che sorgono. E bene però non esagerare col rimodernamento del centro storico ed è opportuno un rigoroso divieto al piccone, quando non si tratti di bonifica igienica o estetica cittadina.

    Lecce. Facciata del Palazzo del Governo con la basilica di Santa Croce.

    Intatta, come l’ha tramandata il secolo XVII è la piazza del Duomo: armoniosa sinfonia planimetrica e volumetrica, di grande effetto scenico, ovunque luminosa ed esaltante il caldo colore della pietra leccese alla quale lo scalpello ha dato espressione di vita.

    Altre chiese, e soprattutto Santa Croce, esprimono un barocco prorompente, ma che piace. E un barocco sul quale ho già detto cose nuove e vecchie; una idea che mi è balenata al primo contatto con Lecce l’ho riservata per ultima: la genesi embrionale di questo barocco io la vedo nella trozzella messapica. Da quel popolo di ieri al popolo di oggi, nell’arco misterioso dell’inconscio, si è maturato uno stile che è espressione genuina di gentilezza di razza.

    Taranto

    E stato già detto che l’isola interposta fra i due aggetti peninsulari che dividono il Mar Piccolo dal Mar Grande è opera dell’uomo. Infatti il canale navigabile fu scavato nel 1481; e fu opportunamente sistemato nel 1886; prima di allora la città giaceva non su un’isola ma su un istmo peninsulare.

    Taranto fu fondata nel secolo VIII (forse anno 705 a. C.) dai cosiddetti Parthenii, cioè i figli nati a Sparta ad opera degli imboscati durante la guerra contro Messene, durata 19 anni. Privati dei diritti civili, in seguito ad una congiura non riuscita, sarebbero fuggiti dalla patria. Questa poco onorevole tradizione, riferita da Dionigi di Siracusa, sarebbe stata riveduta un secolo dopo, quando si disse che Parthenii erano i figli di prodi guerrieri, che avevano dovuto interrompere d’autorità la guerra contro Messene per dirimere le lagnanze delle donne spartane troppo a lungo abbandonate dai loro uomini. Terminata la guerra non si vollero riconoscere ai Parthenii i pieni diritti civili, per cui in seguito all’insuccesso di una congiura, essi furono costretti a trovarsi un’altra patria.

    Falanto guidò i Parthenii verso l’Italia meridionale, e qui ottennero dai Messapi e dagli Achei l’area su cui fondarono la città che, dalla locale denominazione messa-pica fu detta Taras, donde la voce latina Tarentum, da cui è derivato il nome attuale di Taranto.

    Naturalmente, come ogni colonia greca, anche Taranto mirò ad estendersi politicamente nel retroterra, ma nel 473 subì una tale sconfitta da parte di Messapi e Iapigi che Erodoto dichiarava che questa era la più grave disfatta che fosse stata inflitta a genti di stirpe greca.

    Per rilevare l’importanza di Taranto nell’antichità riferiamo le parole di un celebre storico, Polibio di Megalopoli, vissuto dal III al II secolo a. C. : « Tutta la costa d’Italia dallo Stretto e da Reggio sino a Taranto, per oltre duemila stadi, è importuosa, ad eccezione di quella di Taranto, che è volta verso il mar di Sicilia e guarda la Grecia. In quel tratto vi sono grandi nazioni barbare e città greche molto nobili, poiché ivi abitano i Bruzi, i Lucani, alcune stirpi Daune, i Calabri e molti altri. Nella costa sono le città greche di Reggio, Caulonia, Locri, Crotone, Metaponto, e Thurii.

    « Chi si reca in queste località dalla Sicilia o dalla Grecia, va necessariamente diritto al porto di Taranto e tutto il commercio ed ogni traffico con gli abitanti di quella parte d’Italia deve passare attraverso Taranto… Taranto è pure ottimamente ubicata rispetto ai porti dell’Adriatico, quantunque ne traesse più vantaggio nei tempi passati. Infatti dal promontorio della Iapigia sino a Siponto, chiunque dalle opposte sponde veleggiasse per l’Italia faceva capo a Taranto, e di questa città utilizzava il porto e il mercato, poiché non era stato ancora fondato l’emporio di Brindisi».

    Le parole dell’antico storico spiegano, in base alla situazione geografica, la formidabile potenza marinara di Taranto e le grandi ricchezze che vi furono accumulate mediante un fortunato commercio fiorente per secoli.

    Taranto infatti aveva la duplice funzione di punto di passaggio obbligato per le navi che si recavano dalla Magna Grecia nella madre patria (non si deve dimenticare che la navigazione era essenzialmente di cabotaggio), e nello stesso tempo era un grande emporio di raccolta e di distribuzione delle merci verso i Lucani e gli Apuli. Il suo retroterra era così molto più ampio di quello di ogni altra colonia greca situata nello Ionio, e possiamo ancor oggi definirlo con il grandioso emiciclo dei rilievi fisici ed ostacolanti del Gargano, dei Monti della Daunia, della Irpinia e dell’Appennino Lucano dalla Sella di Conza a nord sino al Monte Pollino a sud.

    Tutte le popolazioni di questa vastissima area risultano in relazione commerciale con Taranto, che ne è praticamente la capitale e su cui gravitano interessi di ogni genere. Come di solito avviene, dalle relazioni tra popoli diversi per civiltà possono scaturire contrasti che soltanto la violenza della guerra riesce a dirimere almeno momentaneamente. Eloquenti sono per tale aspetto, le asperrime lotte combattute da Taranto contro Lucani ed Apuli: lotte che rintuzzarono ogni velleità tarantina di far coincidere il suo ampio dominio commerciale con un’identica formazione statale. Taranto ripete le condizioni di tutte le grandi città marinare, che riescono a legare genti diverse con il vincolo del comune interesse commerciale, ma che non sono capaci di costruire una forte compagine statale continentale.

    V’è inoltre da osservare che le rivalità tra coloni greci ed indigeni erano complicate dalle forse più radicate discordie ed inimicizie esistenti tra le colonie greche, ciascuna delle quali, inevitabilmente, a discapito delle altre conduceva una accanita lotta di supremazia economica. Il particolarismo e il frammentarismo politico vigenti nella madre patria avevano tragici riflessi nelle colonie, come a distanza di secoli accadrà nella storia delle nostre Repubbliche marinare.

    D’altra parte queste città arricchite e raffinate disdegnavano la rudezza e l’austerità della vita militare, per cui spesso si doveva ricorrere a milizie mercenarie straniere quando la patria era in pericolo. Grave ma inevitabile debolezza anche questa, di fronte a popolazioni indomite e selvagge, sulle quali scarsamente agiva il prestigio della civiltà e del progresso. Taranto però, anche nelle armi, ha lasciato un celebre ricordo con la sua cavalleria, detta appunto « Tarantina ».

    Confuse ma incontrovertibili sono le notizie che la tradizione letteraria porge sulle lotte fra Taranto e le popolazioni indigene ed è stata già ricordata la clamorosa sconfitta subita dai Tarantini nel 473 ad opera di Messapi e Iapigi, alleati contro il comune nemico.

    Le lotte principali con i Lucani avvennero invece nel secolo successivo. La tradizione descrive questi indigeni, appartenenti alla stirpe sannitica, come molto rozzi ed incivili, usi a non servirsi di normale vestiario, a cibarsi di selvaggina e a vivere di brigantaggio. Taranto si rivolse nel 343 a. C. ad Archidamo III, spartano, per assoggettare queste indomite popolazioni. Archidamo combattè contro i Lucani e Messapi, cadde in battaglia il 2 agosto del 338 a. C. a Mandonio. Questa località, che secondo storici antichi e moderni sarebbe da identificarsi con l’attuale centro di Manduria, deve invece ricercarsi tra i fiumi Crati e Coscile, ove era una città detta Mendonja ancora nel secolo XII dopo Cristo.

    I Tarantini, a motivo della sempre più vigorosa pressione delle genti indigene, soprattutto dei Lucani, e dei Bretti (gli attuali Calabresi), chiamarono in loro aiuto Alessandro il Molosso, re dell’Epiro, zio di Alessandro Magno. Il Molosso giunto a Taranto verso il 336, assalì Brindisi e spinse le sue vittoriose azioni di guerra dal Salento al Gargano, occupando Siponto. Ma inimicizie sorte tra lui e Taranto, indussero il Molosso ad allearsi con Thurii, città nemica di Taranto, che gli consentiva di proseguire nella sua opera di lotte, che avevano il segreto scopo di costituire nell’Italia meridionale un proprio regno. Anche Alessandro il Molosso perdette cruen-temente la vita, nella Sila Grande, verso il 330 avanti Cristo.

    Alessandro il Molosso aveva stretto un trattato di alleanza con i Romani; ciò dimostra che la forza militare e l’influenza politica del nuovo popolo si andava ormai saldamente affermando e che non poteva più essere ignorata da chi giungeva e operava nell’Italia meridionale.

    Taranto continuò ad ingaggiare per la sua difesa soldati di ventura, e nel 314 a. C., venne in suo aiuto il principe spartano Acrotato. Questi, dopo alcune imprese, passò in Sicilia al servizio della città di Agrigento. Un altro mercenario, il principe Cleo-nimo, fratello di Acrotato, è a Taranto verso l’anno 303. Formato un esercito di ventimila fanti e duemila cavalieri, sconfisse i Lucani. Alleato poi con questi, assalì Metaponto incrudelendo sui vinti.

    Come al solito, concluse le spedizioni militari, i Tarantini desideravano liberarsi dei mercenari assoldati, i quali in veste di protettori aspiravano in realtà ad impadronirsi dei pubblici poteri. Cleonimo, al quale giunse la notizia della espulsione da Taranto mentre era impegnato ad impadronirsi dell’isola di Corfù, cercò invano di rientrare a Taranto con la forza e si diede a razziare tutto il Salento. È in questa circostanza — e siamo intorno al 302 a. C. — che truppe romane compaiono nel Salento. Secondo una tradizione il console Marco Emilio avrebbe costretto Cleonimo ad abbandonare l’Italia; secondo un’altra, Cleonimo era già lontano dal Salento quando giunse in Puglia il dittatore Iunio Babulco. Non dobbiamo dimenticare che Roma si era già saldamente insediata ai margini settentrionali della Puglia, avendo dedotto nel 314 a. C. una forte colonia latina a Lucerà. Nel 291 sarà dedotta la colonia di Venosa. Nuove tribolazioni e nuovi nemici si profilano quindi all’orizzonte economico e politico di questa nobile città della Magna Grecia, che difendeva con tanto accanimento il suo hinterland commerciale ed il suo prestigio politico.

    Vedi Anche:  Distribuzione popolazione

    Thurii, liberata dall’assedio delle popolazioni lucane dalle truppe romane, accolse nella sua città un permanente presidio di Roma (282 a. C.). Era questa una effettiva svolta storica perchè i Romani si inserivano per la prima volta con un’occupazione permanente nelle lotte tra gli italioti e tra italioti ed indigeni. Ma Taranto non poteva sopportare il fallimento di una politica di secoli, affermata su una rigida supremazia rispetto alle altre colonie greche dello Ionio e rispetto alle popolazioni indigene dell’Italia meridionale.

    Taranto: nella città vecchia

    I Romani avevano stipulato un trattato con i Tarantini secondo il quale non avrebbero oltrepassato con navi da guerra il Capo Lacinio. Ma l’essere giunti per terra sino al Golfo di Taranto, imponeva ormai un allacciamento anche per via di mare, che induceva e non rispettava più le clausole del trattato.

    Non è improbabile che i Tarantini, pur di mala voglia tollerassero queste infrazioni ; ma la misura giunse al colmo quando dieci navi da guerra romane, furono avvistate nel 282 a. C. presso la città di Taranto. La folla assalì le navi romane, delle quali quattro furono affondate ed una fu presa prigioniera. I Tarantini mossero poi contro Thurii, dalla quale scacciarono il presidio romano.

    La guerra tra Roma e Taranto, abilmente dilazionata, scoppiava ora, irreparabilmente. Taranto secondo l’usato costume, impiegò nella lotta truppe mercenarie. L’invito fu accolto dal re dell’Epiro, Pirro, che raggiunse Taranto con il suo esercito nella primavera del 280 a. C. Le vittorie di Pirro, proverbiali per la loro inconsistenza, avvennero ad Eraclea in Lucania e ad Ascoli Satriano in Puglia. A Malaventum, detta dai Romani Beneventum, Pirro fu disastrosamente sconfitto ed alcun tempo dopo abbandonò la stessa Taranto, lasciando nella rocca il suo fido generale Milone ed un proprio figlio.

    I Romani, infranta ogni ulteriore resistenza dei Sanniti, dei Lucani e dei Bretti, mossero verso Taranto. Simultaneamente una flotta cartaginese bloccò la città per mare. Milone si accordò con i Romani per aver salva la vita e gli averi, e nel 272 a. C. terminò Taranto la sua travagliata libera esistenza politica, non priva nè di gloria nè di epopea.

    Fu ritenuta buona occasione per scuotere il giogo, la battaglia di Canne (212 a. C.); ma pochi anni dopo (209) Quinto Fabio Massimo riconquistava Taranto e la dava al saccheggio. La punizione romana fu radicale e la città decadde anche per il sorgere e l’affermarsi di Brindisi, che aveva ospitato i Romani superstiti al disastro di Canne ed aveva respinto i vani assalti di Annibale. Strabone geografo della romanità (I secolo d. C.), ma greco dell’Asia Minore, quando descrive Taranto osserva che « la maggior parte della città che si estende nell’istmo (quella che oggi è la città insulare) è distrutta, e rimane soltanto quella che è presso la bocca del porto, dove è pure la rocca, ancora atta a dimostrare la decaduta bellezza di una insigne città… Poche vestigia di un passato splendore».

    La decadenza di Taranto diventa irreparabile ed è aggravata dalle fosche vicende dell’alto Medio Evo, quando le dominazioni barbariche si alternarono con quelle bizantine, con le occupazioni (dall’842 all’883) saracene e con i saccheggi saraceni (927).

    Finalmente anche Taranto potè godere di un periodo di tranquillità durante i Normanni che ne fecero un principato; seguendo le sorti generali passò agli Svevi

    ed agli Angioini. Ramondello Orsini fuse il principato di Taranto con la contea di Lecce, determinando una formazione politico-amministrativa di notevole entità, che alla sua morte (1406) ricadde, non senza lotta, nel dominio della corona. Tuttavia è solo nel 1463 che ciò avviene in forma definitiva.

    Un grido di allarme per tutta la cristianità fu la caduta di Otranto in mano ai Turchi (1480); temendo egual sorte per Taranto, Ferdinando I d’Aragona fece costruire il poderoso castello che ancor oggi osserviamo ergersi a valida egida della città vecchia, e fece scavare dal Mar Grande al Mar Piccolo il Canale navigabile, che isolò in tal modo la cuspide dell’istmo peninsulare, dando alla topografia del luogo l’aspetto attuale.

    Taranto seguì, non senza caratteri specifici di ostinata individualità, le vicende storiche che condussero alla supremazia spagnola nell’Italia meridionale. Consalvo di Cordova si impadronì della città con abile stratagemma, perchè fece trasportare per terra le navi dal Mar Grande al Mar Piccolo, verso cui la città non presentava opere difensive.

    Per la sua fedeltà agli Spagnoli durante le lotte con i Francesi, Taranto fu premiata da Carlo V con la costruzione dell’acquedotto. Il dominio spagnolo ebbe anche a Taranto i soliti caratteri di fiscalismo e di colonialismo. Con i Borboni la situa-

    Taranto. Castello aragonese.

    zione, anche se non di molto, migliorò, perchè si attese a lavori di ricostruzione e di sistemazione cittadina.

    Il periodo francese non portò a Taranto i sanguinosi avvenimenti esplosi in altre città principalmente per l’azione abile e colma di prudenza dell’arcivescovo Cape-celatro, che tuttavia rifiutò la carica di presidente del Comitato rivoluzionario. Il generale J. A. Macdonald ottenne dopo la vittoriosa battaglia di Wagram il titolo di duca di Taranto. La città aderì in seguito prontamente all’unità d’Italia e costituì una propria guardia civica l’8 settembre 1860.

    Nel 1882 la designazione di Taranto come piazzaforte, apportò nuova linfa di vita alla classica città, che di colpo assunse grande importanza nel quadro della vita della nazione. Durante la guerra etiopica e durante la seconda guerra mondiale la base navale fu particolarmente attiva, anche se non fortunata.

    Si tramanda che Taranto, ai tempi di Archita, avesse una popolazione di 300.000 abitanti. Questo numero così cospicuo non è affatto esagerato, considerando che la città occupava quasi tutta l’area attuale (ad eccezione del Borgo vecchio), e che gli stessi antichi ne ammiravano la grandezza definita da un perimetro di circa 15 km. Maestosa e formicolante di attività la vide così Platone, che visitò di persona questa appendice dell’Eliade innestata nel suolo d’Italia.

    L’occupazione cartaginese e la tremenda punizione romana portò ad una intuitiva diminuzione di abitanti, che possiamo dedurre dalla osservazione di Strabone, che notò ampi spazi abbandonati entro l’area ancora delimitata dalle antiche mura. Tale contrazione continuò a causa delle anzidette vicende storiche, sino al totale abbandono della località, per il saccheggio effettuato dai Saraceni. L’anno zero di Taranto coincide con questo luttuoso avvenimento, e la ripresa, voluta dai Bizantini, è incerta e stentata. In pratica dal secolo IX sino alla prima metà del secolo XIX, la popolazione di Taranto abitò esclusivamente nell’isola artificiale detta « la Città ». Questa sedimentazione demografica di ben dieci secoli può essere seguita soltanto, ed ovviamente con approssimazione, dal secolo XVI, da quando cioè, furono effettuati i rilevamenti dei « fuochi » nel regno di Napoli.

    Nel 1532 la città fu tassata per 2195 fuochi (10.975 ab.)> che aumentarono (2295 fuochi nel 1545) sino al 1561, quando si rilevarono 3865 fuochi corrispondenti a 19.325 abitanti. Da allora i fuochi si contrassero a 3000 (15.000 ab.) nel 1595, e tali si mantennero sino al 1648. Poi, soprattutto a causa della peste del 1656, si ebbe un forte crollo; nel 1669, infatti, furono registrati 1870 fuochi, pari a 9350 abitanti. L’andamento generale del fenomeno trova conferma nei registri parrocchiali consultati e ricordati dal Calia: mentre per il decennio 1581-90 si ebbe una media annua di 555 battesimi, per il decennio 1591-1600 essa scese a 444. Alle contrazioni per le nascite si unirono i prelievi di truppe e non dobbiamo neppure trascurare le accennate epidemie, che decimavano una popolazione la quale, ammucchiata e accatastata nei tuguri malsani della città insulare, offriva facile esca all’infierire del morbo.

    Secondo le indagini del Calia, un tenue incremento si ebbe nella seconda metà del secolo XVII, dopo il 1669, quando si giunse, alla fine del secolo stesso, a 12.600 abitanti. Cifra questa all’incirca stabile — nonostante una gravissima carestia — sino al 1725, e poi in graduale aumento.

    Nel 1803, secondo il Pacelli, Taranto aveva 17.253 ab.; nel 1811, essi erano circa 20.000; nel 1831, ancora 20.000; nel 1844, 17.476. Sul numero degli abitanti incide l’alta mortalità verificatasi in taluni anni. Comunque, nel periodo 1845-52 la media annua dei morti è di 844 unità, mentre quella dei nati è di 924. Questo tenue attivo porta la popolazione di Taranto, nel 1852, a 19.671 ab., e nel 1858 a 21.636 abitanti.

    Siamo giunti ormai al primo censimento del Regno d’Italia (anno 1861) che registra per la città di Taranto una popolazione pari a 19.105 abitanti. Dieci anni dopo la popolazione presente risulta di poco aumentata, perchè assomma a 20.547 abitanti. Ancora dieci anni dopo (1881) la popolazione è di 25.246 ab. con un incremento notevolissimo del 25%, mentre nello stesso periodo si registra per tutta la Puglia un incremento complessivo dell’i 1,8%.

    La causa è da ricercarsi nel maggior respiro assunto dalla città con il Borgo Vecchio (presso la stazione ferroviaria) e con il Borgo Nuovo, che andava ampliandosi in terraferma dal lato opposto, sì, che, decongestionando l’antico centro, miglioravano gradatamente le condizioni igieniche dell’incoiato. Sappiamo infatti di una notevole eccedenza media annua dei nati (1196) sui morti (785). Alla differenza positiva, pari a 411 unità, dobbiamo aggiungere una immigrazione media di 228 unità all’anno, per definire i dati del censimento.

    Natalità ed immigrazione sono quindi i fattori dell’incremento di Taranto, inserita nella compagine del Regno. Ma la prevalenza del secondo fattore è nettamente denunziata dal censimento del 1901, quando la popolazione presente fu registrata pari a 47.837 ab. nel centro e a 60.733 ab- comune, nel quale si verificava un aumento medio annuo di 1340 ab. pari, nel complesso, al 78,7%. Nello stesso periodo la Puglia registrava un aumento del 24,2% ; ma la s°la città di Taranto ebbe il cospicuo incremento dell’89,5%. Poiché l’eccedenza media annua dei nati nello stesso periodo era di 692 ab., abbiamo la palese dimostrazione che l’ulteriore eccedenza di 648 ab., per raggiungere la media di 1340, consisteva negli immigrati.

    I motivi di così rapido incremento che si traducono in una sensibile anomalia dell’indice medio di aumento, vanno ricercati negli avvenimenti dianzi descritti, per cui dal 1882 Taranto divenne la seconda piazzaforte d’Italia, e polarizzò l’afflusso di notevoli masse di lavoratori. Peraltro v’è da segnalare che nello stesso censimento la popolazione presente nel comune supera quella residente (60.331 ab.), denunziando, sia pure con brevissimo scarto, una popolazione avventizia e fluttuante, tipica manifestazione di dinamismo economico.

    Dieci anni dopo (censimento dei 1911) la popolazione censita presente nel comune è di 69.278 (residente 69.911 ab.), con un incremento del 14,1%. La flessione rispetto al periodo precedente è molto sensibile, ma l’incremento è ancora cospicuo, perchè nello stesso periodo, in Puglia, esso è dell’8,3%. L’immigrazione cade quasi totalmente, essendo l’eccedenza media annua dei nati di 835 unità, mentre l’incremento medio annuo complessivo è di 854 unità. Nella città si registrarono 55.292 ab. con un aumento del 15% rispetto al censimento precedente.

    Taranto. Nel cuore della città vecchia.

    Taranto. Incontri ancora frequenti.

    Taranto, sostanzialmente risorta a grande città per la sua base navale, poteva trarre ogni vantaggio soltanto dalla intensa utilizzazione della medesima. La guerra libica e la prima guerra mondiale ridiedero a Taranto un’importanza di primo piano, che ebbe i suoi immediati riflessi nel numero degli abitanti del comune censiti nel 1921, pari a 103.866 ab. presenti (105.520 ab. residenti). Taranto raggiungeva 87.071 ab. con un aumento del 57%: fenomeno eccezionale per i tragici avvenimenti del decennio, durante i quali l’aumento della popolazione in tutta la Puglia fu solo del 2,5%.

    Ovviamente, concluso il periodo bellico, il ritmo dell’incremento della popolazione si attenua rientrando nella normalità. Infatti nel 1931 la popolazione presente nel comune è di 105.946 ab. con un incremento complessivo del 19%, mentre la Puglia, pur in ripresa, registra un incremento del 13,6%. Anche da Taranto si comincia ad emigrare, sebbene in lieve misura (2589 emigrati e 2382 immigrati). Ma il fenomeno è sintomatico di un disagio di un organismo eccessivamente cresciuto in funzione di elementi che d’un tratto vengono a mancare. Il lavoro si fa sempre più scarso e la mano d’opera cerca nuovi sbocchi. Nella città, nel 1931, sono 89.936 abitanti.

    Taranto. Edifici della città nuova.

    Come Taranto si è sviluppata nei secoli.

    La guerra etiopica è alla sua conclusione quando si svolgono le operazioni di censimento del 1936, e si registra per il comune di Taranto una popolazione presente di 137.515 ab. e residente di 117.722. E evidente che la particolare situazione storica dell’Italia in quel periodo, ha alterato in misura notevole il risultato delle registrazioni, ma rimane pur sempre valida e riconfermata l’osservazione che l’intensa utilizzazione della base navale conferisce a Taranto il motivo fondamentale della sua esistenza.

    Nel 1936 la città di Taranto, con i suoi 103.306 ab. rientra nel novero delle città italiane superiori ai 100.000 abitanti.

    Nel 1951 la popolazione tarantina è di 146.745 ab., mentre quella del comune è di 168.941. La città segnala un ritmo febbrile di incremento, pure dopo che sono venuti a cadere i motivi che sono alla base della sua floridezza economica. Taranto è comunque una delle poche grandi città italiane che hanno oggi una popolazione superiore di più di sette volte rispetto a quella ivi abitante alla data dell’unità d’Italia.

    La città bimare si presenta oggi nettamente distinta in tre parti: verso settentrione è il Borgo: al centro adagiata su tutta l’isola artificiale è la «città Vecchia»; verso mezzogiorno oltre il canale artificiale, è la «città Nuova», che era detta pure Borgo Nuovo agli inizi del nostro secolo.

    La più antica Taranto si estendeva nell’aggetto peninsulare che costituisce il diaframma di separazione tra il Mare Grande e il Mare Piccolo, non esistendo — come è stato più volte ripetuto — il canale navigabile. Circondata e delimitata dal mare, per tre quarti, era definita a terra, nel suo perimetro corrispondente al periodo di maggiore estensione, da una muraglia con fossato lunga circa 2 km. Qui infatti la città si estendeva sino all’attuale chiesa di Santa Lucia e le opere difensive, dette « il Canalone », si sviluppavano dalla Masseria Collepazzo a Montegranaro, formando un gomito presso la Salinelle e passando per la Masseria del Carmine e la Torre d’Ayala.

    Sulla particolare topografia interna di Taranto non abbiamo precise notizie, a prescindere dalla netta separazione esistente tra l’acropoli — situata nell’attuale città vecchia — e la città propriamente detta, estesa nella odierna area della città nuova. L’acropoli fu ancor più nettamente distinta mediante le opere di fortificazione realizzate da Annibale per assediare il presidio romano ivi arroccato e nello stesso tempo per difendere la città da ogni eventuale sorpresa effettuata dai Romani.

    Lo stesso Livio ci informa, attraverso le parole di Annibale, dei più salienti aspetti topografici di Taranto. Annibale, avrebbe detto ai Tarantini: «Avete una città che si estende in pianura, con strade pure piane e abbastanza larghe che diramano in ogni direzione. Per quella strada che attraverso il centro dell’abitato congiunge il Mar Piccolo (portimi) col Mar Grande (mare) potrei con dei carri trasportare le navi di grandezza non eccessiva ». Così nella città passarono al secco dal Mar Piccolo al Mar Grande quelle navi che erano destinate ad assediare i Romani anche per mare, e ad impedir loro di ricevere ulteriori rinforzi. Taranto dalle ampie strade era la città residenziale; l’acropoli era invece la sede militare, sacerdotale e degli uffici pubblici. Maestoso vi si innalzava il tempio a Nettuno, preceduto da un grandioso intercolumnio, mentre templi minori, a Venere ed alla Vittoria, racchiudevano il mistero della fede degli uomini, conservando vivo il ricordo di antiche gloriose vicende avvolte ormai in un’atmosfera di confuso passato.

    Numerosi ruderi di età romana (ruderi del teatro rinvenuti in un avvallamento dell’odierno Mercato coperto; di terme tra il Lungomare e il viale Virgilio, di abitazioni nel giardino dell’Istituto Immacolata, presso la rada di Santa Lucia, presso l’Arsenale, ecc.) dimostrano che la vita era ancora fervida nella città residenziale. Ma la tradizione letteraria ne misura la ormai scarsa entità. Strabone, nel I secolo dopo Cristo scrive : « Per quanto il Golfo di Taranto sia importuoso nella maggior parte, presso la città omonima è grandissimo e bellissimo. Dalla parte più interna dell’insenatura si protende un istmo verso il mare aperto, così che la città giace in una penisola e da ambedue le parti si possono facilmente porre in secco i navigli nella bassa spiaggia. Il suolo della città non è impervio e si innalza un poco presso la rocca.

    Il vecchio muro ha un grande circuito: ora la città che si estende nell’istmo è in gran parte distrutta, e rimane soltanto quella che è presso la bocca del porto, dove è pure la rocca, e dimostra l’ancor viva bellezza di una insigne città. Taranto ha una palestra molto elegante e un foro di adeguata grandezza, dal quale si innalza una colossale statua di Giove, la più grande dopo il colosso di Rodi. Tra il foro e le bocche del porto è l’acropoli, con scarse vestigia del passato splendore: molte cose, infatti, o depredarono i Cartaginesi o portarono via i Romani, tra cui il colosso in bronzo di Ercole, opera di Lisippo, consacrato nel Campidoglio da Fabio Massimo, che prese Taranto ».

    L’incoiato tarantino subisce durante l’età romana un processo di involuzione, accelerato dalle invasioni barbariche, e infine dalla distruzione della città operata dai Saraceni nel 927 dopo Cristo.

    Taranto, la « città bimare ».

    I Bizantini ricostruirono Taranto limitandola all’area dell’antica acropoli nel 967 d. C., durante l’impero di Niceforo Foca. L’acropoli venne cinta di mura a levante ove pare sia stato costruito un castello, venne opportunamente difesa con terrapieno dal mare, e infine fu congiunta a settentrione con la sponda antistante mediante un ponte a cinque arcate.

    Fu restaurato l’acquedotto romano detto del Triglio, e fu un’altra volta introdotta in città l’acqua potabile.

    Taranto, di nuovo testa di ponte di una civiltà del Levante, riprese in funzione di rinnovati traffici, ad affermarsi tra i maggiori centri pugliesi, rimanendo però chiusa nella cinta della sua acropoli. Le trasformazioni urbane furono effettuate entro tale ambito. Nel 1404 Ramondello Orsini edificò una cittadella a difesa del ponte, mentre nel 1481 gli Aragonesi costruirono nella parte di sudovest quell’armonioso castello che oggi dicesi Castel Sant’Angelo.

    Porta Napoli da una parte e Porta Lecce dall’altra, erano gli sbocchi continentali della città, chiusa da un muraglione verso il Mar Grande, e sempre difesa ma aperta sul Mar Piccolo, ove ferveva la vita del porto militare, peschereccio e mercantile.

    Taranto. La città vecchia sul luogo dell’acropoli, vista da settentrione.

    Taranto. Il canale artificiale tra la città nuova (a sinistra) e la vecchia.

    Quattro erano le vie che da Porta Napoli si dirigevano a Porta Lecce, e delle quali si conserva ancora la direzione generale del tracciato: la strada delle Mura (oggi corso Vittorio Emanuele); la strada della Marina (oggi via Garibaldi); la strada Maggiore (oggi via Duomo) e la via di Mezzo che ha conservato la sua antica denominazione.

    Su queste quattro arterie si innestano trasversalmente circa 140 vicoli, spesso cosi stretti da consentire il passaggio di una sola persona alla volta. Molti e tortuosi i vicoli ciechi, dimostrazione non solo di una edilizia caotica, ma di utilizzazione intensiva dello spazio sempre più ristretto in confronto dell’aumentato numero degli abitanti, che per diversi motivi non potevano costruire le proprie dimore fuori delle mura. Questo secolare addensamento, superato già da tempo il normale limite di carico, trovò una soluzione nel secolo scorso, quando divenuta anche Taranto città del regno d’Italia, caddero molti di quegli ostacoli che sino allora avevano impedito il così necessario ampliamento della città.

    Il Lungomare di Taranto.

    Dal 1862 al 1865 fu progettato il piano regolatore Conversano, che previde un grosso borgo oltre il ponte di Porta Napoli, ove si costruiva la stazione ferroviaria, e un borgo minore oltre Porta Lecce. Entro la città vecchia opportuni sventramenti prevedevano una piazza antistante alle nuove costruzioni del Palazzo del Governo e del Municipio.

    Mentre il Borgo oltre Porta Napoli polarizzato dalla ferrovia, iniziava la sua vita, oltre Porta Lecce nessuno voleva costruire. Non bisogna dimenticare in proposito la struttura della popolazione attiva, formata in gran parte da pescatori e da artigiani, che non trovavano alcuna convenienza economica nell’abbandonare la città vecchia per trasferirsi praticamente in campagna. Infatti nell’area di espansione prevista, e che era soltanto parte di quell’area residenziale greca e romana alla quale si è accennato, vi erano soltanto poche costruzioni, tra cui il convento di San Pasquale, le carceri vecchie (Museo Nazionale), l’Orfanotrofio (ove si costruì il palazzo degli Uffici), il convento di San Giovanni di Dio, il convento di Sant’Antonio di Padova (Carcere Giudiziario).

    Comunque nel 1869 la città nuova ebbe il suo primo edificio, prospiciente il fossato che la divideva dalla Città Vecchia. Ma l’impulso determinante per l’ampliamento si ebbe dopo il 1883, quando fu iniziato l’Arsenale Militare, che chiamò intorno a sè una densa folla di maestranze.

    La città nuova si avvantaggiò pure della costruzione del ponte girevole inaugurato il 22 maggio 1887. Da allora la città nuova articolata in una scacchiera di strade, si amplia delimitata ai fianchi dai due mari, su un fronte unico compatto.

    All’incirca sino al 1890 il fronte aveva raggiunto l’attuale via De Cesare; agli inizi di questo secolo era raggiunta via Crispi, mentre gli isolati si addensavano in maniera particolare nelle vie Amedeo, Mazzini, Di Palma, Pitagora e Anfiteatro, parallele all’asse longitudinale della pianeggiante penisola.

    L’intenso ritmo costruttivo andò attenuandosi negli anni successivi, con una certa ripresa, però, a cominciare dalla guerra di Libia, e dalla prima guerra mondiale. Il fronte unico di avanzata si frammentò lungo talune direttrici orientandosi principalmente verso l’ingresso all’Arsenale e poi sviluppandosi lungo l’attuale via Cesare Battisti.

    Dopo la prima guerra mondiale ci si preoccupò della edilizia della città nuova, e in corrispondenza del Mar Grande, si costruì il nuovo Lungomare (Lungomare Vittorio Emanuele III); si curò l’edilizia con palazzi imponenti di privata abitazione, ai quali si unirono edifici destinati a servizi pubblici, come il Palazzo del Governo, delle Poste e Telegrafi, della Banca d’Italia, ecc. Lungo questo fronte a mare lo sviluppo urbano è ancora in atto e si allinea secondo il tracciato di via Virgilio sino alla Torre d’Ayala.

    Un’altra direttrice segue la via Cesare Battisti, che è l’inizio delle strade statali n. 7 e 7 ter, e che ha attirato ai suoi margini numerose costruzioni, le quali hanno tratto immediato beneficio da un piano stradale già definito come arteria fondamentale di questa zona.

    Taranto ha assunto il carattere di grande e l’aspetto di bella città, ricca non solo di passati ricordi ma di suggestioni attuali e di concrete promesse future. Queste vanno realizzandosi giorno per giorno, con il dimensionamento delle attrezzature industriali e delle strutture sociali alla realtà odierna della vita nazionale ed internazionale. Il dinamismo con cui Taranto ha sempre saputo ottimamente rispondere a nuove esigenze nell’orbita di orizzonti così vasti, conferma per questa città pugliese una vitale e non tramontata funzione storica più ampia dei confini della patria. V’è da augurare a Taranto — e di riflesso quindi a tutti i popoli del mondo — un ulteriore incremento di benessere sui fondamenti operosi della pace generata dal trionfo della giustizia.

    Conclusione

    L’agricoltura è la pietra d’angolo della economia pugliese. Questa identica e generica affermazione risulta valida per altre regioni d’Italia, ad esempio per le Marche. Ho stentato alle prime prese di contatto con tali regioni a comprenderne le differenze, mentre le somiglianze formali positive e negative balzano vive ed immediate. In ambedue le regioni si osserva infatti il latifondismo a fianco dell’eccessivo frazionamento della proprietà, la necessità di emigrazione interna ed estera per il supero di braccia nei centri e nelle campagne, i pochi padroni e i molti non abbienti… Mentre queste somiglianze sono di superfìcie, le differenze sono di fondo, e si notano anche dal punto di vista psicologico tra il piccolo proprietario pugliese e quello marchigiano. Ambedue laboriosi e parsimoniosi, attaccati alla propria terra, ma inquieto il primo e sempre pronto a nuove esperienze, mentre tranquillo è il secondo, praticamente pago del sufficiente di oggi.

    La inquietudine del primo non è senza fondamento. Egli, infatti, non abita nella sua casa isolata in campagna come il contadino marchigiano; egli svolge una vita maggiormente inserita nella collettività, nella quale è costretto ad inquadrarsi, evidentemente rinunziando ad una parte di sè, che viene occupata e regolata dalla collettività. Non si tratta di inconscio, ma di adeguamento reso necessario da un impianto economico tradizionale.

    Infatti il contadino marchigiano vive in un podere che gli offre un margine di indipendenza economica per tutti i generi di prima necessità: grano, vino e grassi. Questi elementi indispensabili li ha sia il piccolo proprietario sia il mezzadro. La formula magica che tutto risolve è il « podere ». Il proprietario pugliese non ha il podere, ma ha la vigna nell’area comunale in cui tutti hanno la vigna, ha l’oliveto ibidem, ha il mandorleto ibidem; ha l’orto ibidem, e può anche aver tutto in un unico corpo, ma difficilmente ha la casa in campagna organizzata economicamente per vivere soddisfacendo in massima parte al proprio fabbisogno. La realtà è che in

    Puglia manca il podere, e che la costituzione del medesimo comporta autorità ed oneri che soltanto lo Stato può eventualmente affrontare.

    Il proprietario coltiva per vendere, perchè in genere la sua terra è a monocoltura, anche quando ha appezzamenti con prodotti diversi. E una ferrea legge economica alla quale il proprietario non può sottrarsi, se non vuol vedere immediatamente scemare il suo reddito. Egli fa parte di uno spontaneo consorzio di viticultori col suo vigneto, imposto dalla attitudine agropedica dei suoli di quella determinata zona; fa parte di uno spontaneo consorzio di pastori per quel suo appezzamento nella Murgia Alta pietrosa…

    Ecco la grande uniformità delle principali forme di utilizzazione economica dei suoli pugliesi, che scaturisce dalla mancanza del podere. Se il vigneto va male, e c’è convenienza economica a sostituirlo col tabacco, è tutta una zona — non il singolo appezzamento del proprietario — che cambia indirizzo colturale con estrema rapidità. Il tendone dà prodotti qualitativamente migliori? Tutta una zona innalza il tendone, con una emulazione tra i singoli proprietari che, al profano come è lo scrivente, dà la sensazione di una precipitosa e dannosa rivalità. Produrre meglio e di più è sempre stato un pregio dell’agricoltore pugliese, principalmente per vendere di più.

    Ad uno di essi, ad Adelfia, chiedevo che necessità avesse di trasformare la sua vigna da ceppo in tendone, mentre la sua cantina era piena di vino invenduto e pochi giorni prima, in seguito a crisi di sovrapproduzione, erano morti a San Donaci due braccianti in dimostrazioni di piazza. « Sono costretto — mi rispose — a seguire il progresso per aver sempre la possibilità di vendere ». Se il vino non si vende, l’uva da tavola è ancora richiesta…

    In sostanza la coltivazione pugliese è a indirizzo orientato ed orientabile in funzione dei mercati. E un bene questa duttilità, ma rende l’agricoltura pugliese un po’ episodica e disorganica. « Non sappiamo più cosa seminare », mi diceva un conduttore diretto di Mesagne, che si sentiva già parte integrante del Mercato Comune Europeo.

    « Ho venduto le scorte di bestiame — mi si confidava a Ripalta — per comprare le macchine. Ho avuto un aumento nella produzione unitaria del grano, anche un miglioramento di qualità, ma il mercato acquista poco o non paga bene. Sono stato consigliato a cambiare tipo di coltivazione; ma adesso le macchine chi me le compra? ».

    Non si tratta di tentativi più o meno riusciti, ma di una impostazione economica agraria che ha i suoi pregi e i suoi difetti, con la massa grigia di bracciantato in aumento e in fermento. È stato scritto che l’agricoltura pugliese è « dinamica », e con molta chiarezza il conte Giusso scriveva : « Nelle sue iniziative il Pugliese è più audace che coraggioso: spesso pone a repentaglio tutta la sua fortuna pur di estendere le colture, che egli reputa più remunerative, è sobrio in casa, è largo nello spendere per estendere, migliorare e trasformare le sue terre fino al punto di svellere ulivi e mandorli, per piantare la vigna. Il Pugliese più che un agricoltore è un industriale (ed infatti coloro che prendono in affitto le terre in Capitanata si chiamano ‘industriosi di campi’), che non si ostina nelle colture antiche e tradizionali, ma, se gli torna, le muta quando si avvede che l’antico prodotto non va più, precisamente come fa un fabbricante di tessuti, che, allorquando un genere non è più di moda, ne cerca un altro, e se ha bisogno di nuovi ordigni e di nuove macchine, le compra e non bada a spesa ».

    L’agricoltura concepita come industria non dà luogo però alla elaborazione industriale ed all’affermazione dei prodotti agricoli. Purtroppo in Puglia siamo ancora lontani da tale organizzazione economica, ed ogni attività industriale figura con una incidenza molto scarsa. In tal senso anche le iniziative di recente avviate, hanno un carattere del tutto sperimentale, sebbene presentino elementi di concreta positività futura. Il commercio, attraverso difficoltà di ogni genere, pur senza trascurare l’Occidente, si rivolge al Levante. Posizione guida è assunta lungo questa direttrice, esaltata dalla tradizione e di portata nazionale, dalla città di Bari.

    Comunque la Puglia ha dato e continua a dare il suo fattivo contributo, al progresso italiano. Le sue istanze e la sua volontà di miglioramento, espresse dalle grandiose realizzazioni che quotidianamente ne trasformano il volto, meritano l’approvazione di tutto il popolo italiano. Quest’ansia di rinascita e di redenzione della terra, che permea l’attuale vita pugliese, può essere considerata come il più bel capitolo della sua storia, come la prova che ancora si può avere fiducia nell’avvenire dell’umanità.