Vai al contenuto

Le regioni storiche e tradizionali

    Le regioni storiche e tradizionali

    Nel territorio della Campania è possibile distinguere anche un certo numero di regioni storiche e tradizionali, che hanno avuto in determinati periodi una grande importanza politica e amministrativa ed hanno lasciato tracce nella letteratura. I nomi di alcune di esse sono scomparsi dall’uso comune ed hanno pertanto conservato — per i dotti — il significato che avevano avuto un tempo; quelli di altre invece, sono stati applicati successivamente a spazi più ristretti o più ampi ed hanno assunto un nuovo significato geografico, manifestando una maggiore vitalità.

    Tra le regioni storiche un posto di primo piano spetta alla Campania Felix, termine che presso i classici indica la pianura compresa tra il Màssico, i rilievi preap-

    penninici, il Vesuvio o i Lattari e il mare. Gli autori che l’hanno usato posteriormente gli hanno attribuito il significato ristretto che ebbe nei tempi antichi, per metterne in risalto l’eccezionale fertilità e la prosperità economica. Nell’uso comune la pianura è chiamata ora Terra di Lavoro, sebbene questo nome abbia più specificamente un contenuto amministrativo e sia stato applicato dal Medio Evo alla provincia in cui è compresa la maggior parte del Piano Campano. Non è sufficientemente noto quando il nome di Campania Felix sia stato sostituito da quello di Terra di Lavoro, nonostante ci sia un « innegabile nesso logico tra i due termini, che nel primo presuppone una spontanea rigogliosità della terra, nel secondo l’operoso travaglio dell’Uomo » (De Francesco), per ricavare la meritata ricompensa al sudore versato per coltivarla.

    Il nome di Terra di Lavoro (Terra Laboris) ha origini medioevali e si ricollega nel significato ai Campi Leborini, che, secondo Plinio, corrispondevano alla regione fle-grea dei Greci, cioè al territorio compreso tra le vie consolari che collegavano Cuma e Putèoli con Capua. Nel Medio Evo l’espressione Terra Lìburis o Liburia indicava il territorio a sud del Clanio (Regi Lagni), compreso tra il Mar Tirreno, l’Agro Napoletano e le colline flegree. Si divideva in due parti : Massa Patriensis nella sezione occidentale, intorno a Literno e al lago di Patria, e Massa Atellana nella sezione orientale, dove Atella fu il centro più fiorente fino alla fondazione di Aversa (sec. XI).

    Quando Riccardo, conte di Aversa, assunse il titolo di principe di Capua, nella seconda metà del secolo XI, cominciò la fortuna del nome, che ereditò il significato di quello di Campania Felice, ormai migrato verso nord, per indicare il territorio tra il Garigliano e il Tèvere (Campania Romana), del quale faceva parte l’Abbazia di Montecassino ancora nel secolo XII.

    Vari autori (Pellegrino, Giannone, Gribaudi) fanno risalire ai tempi del principe Riccardo l’applicazione del nome al territorio di Capua, ma il De Francesco nota che già in alcuni documenti del secolo X ricorreva l’espressione Terra Liburis per indicare centri abitati con relativi agri del principato di Capua, onde distinguerli da altri che non ne facevano parte. Successivamente essa, con la variazione del termine Liburis in Laboris, fu applicata al territorio che entrava a far parte del dominio di Capua.

    Non è improbabile — ci si consenta una timida congettura — che l’origine del nome si debba mettere in relazione con la costruzione della nuova città di Capua sulle rive del Volturno (856), in sostituzione dell’antico capoluogo della Campania Felix, semiabbandonato e ruinato dopo l’assalto dei Saraceni dell’841, e con la formazione di una nuova entità politica.

    Con i Normanni e con lo sviluppo di Aversa c’erano ulteriori ragioni perchè avesse fortuna la nuova denominazione. Infatti Ruggero II, dividendo il regno in giustizierati (1139), creò pure quello di Terra di Lavoro, che inglobava anche estesi territori fuori della Pianura Campana, dalla Penisola Sorrentina all’alta valle del Liri e ai confini dello Stato. La ripartizione amministrativa normanna rimase pressoché invariata fino alla riforma napoleonica. La Terra di Lavoro formava un solo giustizierato con il contado del Molise; ma la loro separazione, sebbene non si sappia quando sia avvenuta, non si può ritardare oltre il periodo aragonese.

    Sotto gli Svevi il suo governatore risiedeva periodicamente a Capua e a Napoli; ma questa città, perduta l’indipendenza, fece parte della vasta provincia non certo con funzioni di preminenza fino al periodo angioino, quando riprese, insieme con i casali, l’autonomia amministrativa.

    La Terra di Lavoro ha il suo nucleo storico nel Piano Campano, e al territorio compreso tra il Màssico e gli orli settentrionali dei Campi Flegrei il nome va attribuito nel suo significato specifico. L’applicazione di esso alla provincia di Capua prima, di Santa Maria Maggiore (ora Capua Vètere) e di Caserta poi, risale ai secoli addietro ed ha ricevuto definitiva sanzione con la creazione della provincia di Napoli: il termine ha assunto in tal modo un significato amministrativo, seguendo le vicende territoriali della provincia, ma ha continuato a conservare il significato geografico tradizionale col quale viene ancora molto spesso usato.

    Vedi Anche:  la pianura campana

    Importanza storica notevole ha avuto in Campania il Sannio (Safinim in osco-sannita, donde il latino Samnium), che nei tempi antichi corrispondeva al territorio delle stirpi sannitiche e abbracciava una vasta regione appenninica, compresa grosso modo tra le dorsali preappenniniche, tirreniche ed adriatiche, e tra i monti dell’Abruzzo e i Picentini. Al centro sorgeva il grande massiccio del Matese, alla sua periferia erano la valle del Sangro, dove Alfedena era il capoluogo dei Sanniti Caraceni, quella del Biferno con la città di Boiano, capoluogo del Sannio Pentro, il versante sinistro della valle del Volturno con i noti centri di Isernia e di Alife, le valli del Calore e dei suoi affluenti, dove Benevento occupava una posizione di primo piano nella sezione caudina e irpina del vasto territorio.

    Sotto i Romani conservò la sua individualità, sebbene avesse subito delle mutilazioni marginali, ma il ducato longobardo di Benevento, riunendo in un grande organismo politico i territori del Sannio e delle regioni circostanti, fece andare in disuso il vecchio nome della vasta regione intorno al Matese. Questo è stato riportato nell’uso con la costituzione della provincia di Benevento per indicarne il ristretto territorio, mentre la provincia di Avellino è stata chiamata Irpinia, sebbene non ci sia perfetta corrispondenza tra il territorio abitato dagli antichi Irpini e la nuova unità amministrativa. I due termini hanno avuto un considerevole successo e ricorrono nell’uso comune. In seguito all’abolizione della provincia di Caserta, si è tentato di ricomporre l’unità del Sannio a sud del Matese, ma con effimeri risultati: non può un artifìcio ricreare una coscienza che la storia ha cancellato da molti secoli, sebbene sia doveroso sforzarsi di dare alla provincia una maggiore armonia interna sulla base di fatti reali, geografici ed economici, piuttosto che di semplici ricordi.

    Nel Medio Evo la ripartizione politica dell’Italia meridionale portò alla creazione dei principati, che hanno conservato un significato amministrativo fin dopo

    L’Alento, il principale torrente del Cilento.

     

     

    l’Unità d’Italia. Essi sono poi caduti completamente in disuso. Il nome di principato risale ai tempi di Arechi II, duca di Benevento, che assunse nel 774 il titolo di principe. Sebbene il territorio longobardo si fosse diviso in due principati nell’839, non mancarono tentativi per nullificarlo, i quali ebbero una certa fortuna nel corso del X secolo. Perciò il territorio longobardo, che andava dal litorale tirrenico al Golfo di Taranto e al Gargano, durante la massima espansione (secolo VIII), continuò con la conquista normanna ad essere indicato col nome di principato, ma entro limiti molto più ristretti, e costituì il terzo giustizierato del regno. Ed una amministrazione unitaria ebbe con i primi angioini, sebbene il territorio si indicasse col duplice nome di Principato e Valle Beneventana.

    La divisione di esso in due unità amministrative si fa risalire ai tempi di Carlo II d’Angiò (1297). Allora si formarono il Principatus Citra Serras Montoni, cioè il Principato al di qua delle Serre di Montoro, corrispondente al territorio a sud dei Picentini, e il Principatus Ultra Serras Montoni, cioè il Principato al di là delle Serre di Montoro, che corrisponde al territorio tra il Matese e i Picentini, ad eccezione della Valle Beneventana, che era passata da tempo sotto il dominio pontificio. Alcune zone di confine tra i due principati furono presto oggetto di contestazione, tanto che nel 1299 ^ re dovette, con apposito diploma, fissarne i limiti. Da allora le due province a sud e a nord di quell’importante gruppo montuoso si chiamarono l’una Principato Citra o Citeriore, l’altra Principato Ultra o Ulteriore. In alcuni autori si continua ad indicare fino al secolo scorso come territorio dei Picentini la pianura tra Salerno ed Eboli, nella quale scorre il fiume che ha preso il nome dall’antica Picentia, città dei Picentini, i cui resti son venuti alla luce presso Pontecagnano. La denominazione di Monti Picentini data al massiccio irpino è molto recente ed ha avuto notevole fortuna.

    Regione storico-tradizionale si può considerare anche il Cilento (da Cis-Alentum = al di qua dell’Alento). Il nome indicava in origine il piccolo territorio alla destra dell’Alento, che culmina nel Monte Stella. Ricorre in documenti benedettini del 994 e si riferiva alle terre intorno ad Agròpoli e a Castellabate, possedute dall’Abbazia di Cava dei Tirreni. Questo territorio terminante con Punta Licosa fu a lungo conteso nel Medio Evo tra Bizantini e Longobardi, per la sua importanza strategica, e fu occupato dai Saraceni probabilmente nell’821, al tempo della loro prima apparizione lungo le nostre coste. Essi, scacciati dalla penisola nell’846 dalle forze congiunte di Napoli e degli altri ducati costieri, vi ritornarono nell’882, ma la sconfitta sul Garigliano nel 915 li costrinse ad abbandonare di nuovo questo lembo del Cilento, in modo definitivo. La concessione di esso ai Benedettini deve coincidere con quegli anni o essere non molto posteriore. I monaci allora chiamarono Cis-Alentum il loro possesso per distinguerlo dalle contee vicine di Cornuti (ora Vallo della Lucania) e di Capaccio, che erano sull’altro versante dell’Alento. Il nome ebbe maggiore estensione e molta fortuna nei secoli successivi, col formarsi e con l’estendersi della Baronia del Cilento, che durò fino al 1552, rimase nell’uso anche quando la baronia fu divisa in feudi minori e lo è tuttora per indicare la regione montuosa tra la pianura del Sele e il Golfo di Policastro.

    Vedi Anche:  Condizioni climatiche tipi di tempo vegetazione e fauna

    La ripartizione amministrativa della Campania in età moderna.

    All’alba dei tempi moderni le unità politico-amministrative della nostra regione erano cinque: Napoli e Casali, Terra di Lavoro, Principato Citeriore, Principato Ulteriore, Benevento e sua valle. Alcune di queste superavano ampiamente i limiti

    La ripartizione amministrativa testé ricordata rimase pressoché invariata fino agli inizi del secolo scorso, quando il governo francese fece notevoli innovazioni nella struttura amministrativa delle regioni meridionali.

    Il territorio di Napoli e Casali si affacciava al mare dal Sarno a Fuorigrotta e comprendeva il versante sud-occidentale del Vesuvio, la valle del Sebeto, ricca di orti, la sezione orientale dei rilievi flegrei, con Pianura, Soccavo e Marano, e un tratto della pianura frutticola a nordest di essi, fino a Grumo, Frattamaggiore, Arzano ed Afra-gola. Aveva una superficie di circa 325 kmq. ed accoglieva una popolazione molto cospicua, di 570.029 abitanti nel 1789, distribuita in ragione di 1754 ab. per kmq.

    La provincia di Terra di Lavoro si estendeva dai confini dello Stato al Vesuvio, dai massicci della Meta, del Matese e del Taburno al mare dei golfi di Gaeta, di Napoli e di Salerno. Essa infatti comprendeva anche le isole di Pròcida, Vivara ed Ischia e la sezione della Penisola Sorrentina ad occidente della dorsale del Faito. Questo era un territorio completamente separato dal resto della provincia, in quanto la valle del Sarno e Castellammare di Stabia appartenevano al Principato Citeriore. Era collegato per via mare con l’opposta sponda del Golfo per mezzo di frequenti servizi marittimi e gravitava su Napoli, di cui però non faceva parte amministrativamente.

    del Tusciano e del Melandro. Comprendeva anche l’isola di Capri, che era rimasta legata ad Amalfi sin dal Medio Evo.

    Il Principato Ulteriore era delimitato ad ovest e a sud da un confine naturale, che partendo dal Taburno seguiva quasi sempre lo spartiacque tra gli affluenti del Calore e dell’Òfanto e i tributari dei Regi Lagni, del Sarno, del Picentino, del Tusciano e del Sele. Dalla Sella di Conza il confine seguiva l’Ofanto e includeva quasi tutta la sezione meridionale dell’Appennino Sannita fin quasi alle ultime dorsali del Subappennino Pugliese. I comuni di Rocchetta Sant’Antonio e di Accadìa erano le propaggini più orientali del Principato Ulteriore, che ebbe per capoluogo Mon-tefusco fino al 1806. Questa cittadina era in una posizione più centrale, anche se meno favorevole, rispetto alla provincia, che comprendeva quasi tutta la valle del Sàbato e l’alta e media valle del Calore, raggiungendo lo spartiacque col Fortóre e le pendici sud-orientali del Matese.

    Il possesso pontificio di Benevento era incluso nel Principato Ulteriore e abbracciava la bassa valle del Sàbato e zone contermini, sulla sinistra del Calore, ed un territorio quasi uguale sul lato destro del fiume, ma pressoché disabitato.

    L’occupazione francese portò alla divisione dell’Italia meridionale in 13 province (1806), che furono ripartite a loro volta in distretti. Allora si formò la provincia di Napoli con territori sottratti in gran parte a quella di Terra di Lavoro e in minor misura a quella di Principato Citeriore. Essa abbracciò, oltre al territorio di Napoli e Casali, le isole di Ischia e di Pròcida, il territorio di Castellammare di Stabia, la sezione estrema della Penisola Sorrentina, i Campi Flegrei, la pianura immediatamente a nord di essi e il Vesuvio. Capri, assegnata alla provincia di Napoli nel 1806, ne entrò a far parte nel 1809, dopo che il Murat riuscì a sottrarla al controllo inglese. In tale occasione la provincia di Principato Ulteriore ebbe come capoluogo Avellino e perdette alcuni territori di confine passati al Molise e alla Capitanata. La Terra di Lavoro si ridusse sensibilmente di superficie per i territori ceduti a Napoli e si vide trasferire il capoluogo da Capua a Santa Maria Maggiore, la città che nel 1862 assumerà il nome attuale di Santa Maria Capua Vètere.

    Col riordinamento amministrativo conseguente alla restaurazione borbonica (legge i° maggio 1 Si6, n. 360) molte delle modificazioni territoriali avvenute sotto il governo francese vennero accolte e la rettificazione dei confini con la Puglia e con la Basilicata fu mantenuta. La provincia di Terra di Lavoro trasferì nel 1818 il suo nuovo capoluogo a Caserta, la città prediletta dai Borboni.

    L’Unità d’Italia portò ad una nuova ripartizione provinciale e a sensibili modificazioni nei confini della regione e delle singole province. Il fatto più notevole fu la creazione della provincia di Benevento col territorio pontificio, con i circondari di Cerreto, Cusano e Guardia Sanframondi (Matese), di Solopaca (bassa valle del Calore), di Sant’Agata dei Goti e di Airola (valle dell’Isclero), sottratti alla provincia di Terra di Lavoro, con quelli di Basèlice, Colle, Pontelandolfo, Morcone e Santa Croce di Morcone (valli del Tàmmaro e del Fortore), sottratti al Molise, e con quello di San Bartolomeo in Galdo (valle del Fortore), tolto alla Capitanata. Il Principato Ulteriore cedette ad essa parte della media valle del Calore e della Valle Caudina ed ebbe in compenso ampliamenti verso oriente (Accadìa, Greci, Savignano, Orsara) ai danni della Capitanata, verso sud (Montoro, Calabritto, Caposele, Senerchia) a spese del Principato Citeriore e verso ovest (valli di Làuro e di Baiano), a danno della Terra di Lavoro. La provincia di Napoli acquistò Agèrola.

    Vedi Anche:  Formazione geologica il rilievo montagne e pianure

    Il Molise, come compenso per le mutilazioni subite a favore della nuova provincia, ebbe dalla Campania il versante destro dell’alto bacino del Volturno, cioè i mandamenti di Castellone e di Venafro. E non sono ancora del tutto cessate le rimostranze delle popolazioni contro tale distacco dalla Campania, alla quale sono legate, molto più che al Molise, da profonde ragioni storiche, geografiche ed economiche. Di conseguenza la provincia di Terra di Lavoro uscì notevolmente ridotta di estensione in seguito alla nuova ripartizione amministrativa. Con l’Unità d’Italia le denominazioni tradizionali di Principato Citeriore e di Principato Ulteriore vengono presto abbandonate; le province di Benevento e di Avellino si chiameranno dalle città loro capoluoghi e riesumeranno i nomi di Sannio e di Irpinia; quella di Caserta conserverà il nome di Terra di Lavoro.

    I limiti amministrativi fissati nel 1861 sono rimasti invariati fino al 1927, quando con l’abolizione della provincia di Caserta (Decreto-legge 2 gennaio 1927), la Campania ha perduto una sezione molto considerevole del suo territorio, che ha riacquistato solo in piccola parte successivamente. In quella occasione la provincia di Napoli si estese fino al Garigliano e al Preappennino, mentre quella di Benevento aggregò la media valle del Volturno. Nel secondo dopoguerra la ricostituita provincia di Caserta (Decreto-legge 2 giugno 1945) potè riassorbire i territori ceduti al Molise e al Sannio, ma non tutti quelli passati alla provincia di Napoli. Questa trattenne l’Agro Acerrano, Mariglianese e Nolano e potè in tal modo estendersi fino alle prime pendici dei monti calcarei di Nola.

    Davvero strana la storia di Terra di Lavoro! Era grande come un’intera regione, con vari centri cospicui (Cassino, Gaeta, Capua, Caserta, Aversa, Pozzuoli, Sorrento) ed ha finito con l’essere soppressa per un certo periodo e poi ricostituita entro confini molto ristretti, che forse non saranno ancora definitivi.

    Negli ultimi due decenni non si sono verificate altre modificazioni nei limiti e nella superficie delle varie province. Di esse la più vasta è quella di Salerno (4923 kmq.), cui seguono in ordine le altre di Avellino (2801 kmq.), di Caserta (2639 kmq.), di Benevento (2061 kmq.) e di Napoli (1171 kmq.).

    Non si può dire che tale ripartizione della Campania sia razionale, nè che i confini delle province vengano a coincidere con quelli delle aree gravitazionali verso i loro capoluoghi. La provincia di Napoli è soffocata entro angusti limiti e, pur dopo l’acquisto del circondario di Nola, sente il bisogno di allargarsi. Di essa dovrebbero entrare a far parte sia la sezione del Piano Campano a sud dei Regi Lagni, sia alcune valli del Preappennino incluse nella provincia di Avellino un secolo addietro, sia una parte della valle del Sarno. Si comporrebbe in tal modo un’unità geografico-economica con limiti meglio definiti e si consentirebbe la preparazione di più concreti piani provinciali di sviluppo economico.

    Non meno bizzarri sono i confini delle province di Avellino e di Benevento tra loro e con quelle vicine. Il comune di Sant’Arcangelo Trimonte, incluso nella provincia di Benevento, appartiene a quella di Avellino, e il comune di Pannarano, inglobato in questa, appartiene alla provincia di Benevento.

    Parecchie sono tuttora le isole amministrative appartenenti ai comuni: io nel territorio provinciale di Salerno, 9 in quello di Napoli, 6 in quello di Benevento, 5 in quello di Caserta e 4 in quello di Avellino.

    I capoluoghi rispetto ai territori provinciali non occupano sempre una posizione centrale, sebbene costituiscano per lo più il centro economico delle loro province.

    Nel secondo dopoguerra è cresciuto notevolmente il numero dei comuni col riaffermarsi dello spirito autonomistico locale; ma, a causa dello spopolamento di vaste zone della regione e delle diminuite entrate, i bilanci di molti di essi sono fortemente deficitari. I limiti comunali sono spesso irrazionali e bizzarri, ma il loro esame ci porterebbe molto lontano. L’applicazione di una politica programmata non può trascurare di provvedere anche a qualche ritocco dei confini nell’alta valle del Volturno a favore della Campania e ad una migliore ripartizione amministrativa del nostro territorio, sebbene ad essa ostino gretti antagonismi personali o di gruppi e profonde ragioni storiche e tradizionali, che sovente prevalgono sulle considerazioni economiche.