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Il clima e la vita vegetale e animale

    Il clima e la vita vegetale e animale

    Se la Sardegna presenta, rispetto alle altre regioni italiane, motivi di profonda originalità nei riguardi della costituzione e struttura del terreno e delle forme dei rilievi, non ne ha altrettanta rispetto alle condizioni del clima che ha caratteri sostanzialmente simili a quelli di altre regioni marittime prospicienti il bacino occidentale del Mediterraneo. Ma questi caratteri climatici vanno precisati adeguata-mente vista la loro profonda influenza sul regime dei corsi d’acqua, sui suoli, sulla vegetazione spontanea e coltivata e quindi sull’economia agricola e pastorale dell’isola, che sono poi le attività basilari. La posizione geografica, l’insularità e il rilievo costituiscono i fattori principali di differenziazione climatica.

    I fattori del clima

    Per la sua posizione la Sardegna, pur trovandosi in piena area mediterranea, subisce da un lato l’influenza di masse d’aria portate dai venti occidentali di origine atlantica e dall’altro quella delle masse d’aria tropicali provenienti dall’Africa settentrionale, cui si aggiungono limitate incursioni di aria fredda artica. Sono appunto gli spostamenti stagionali di queste masse d’aria e le traiettorie dei cicloni a determinare i tipi di tempo. Infatti nell’autunno e nell’inverno allorché pervengono sull’isola masse d’aria temperata umida atlantica, richiamate dalle basse pressioni sul Mediterraneo, si ha un peggioramento del tempo e un periodo di piogge di varia durata, pur con un aumento della temperatura; invece con l’afflusso di aria fredda settentrionale si ricollegano i periodi di tempo bello, con atmosfera limpida, ma con basse temperature. Anche l’aria umida e tiepida mediterranea porta giorni nuvolosi, con temperatura mite e moderata umidità. Dall’autunno alla primavera l’isola è interessata dai cicloni che si spostano attraverso la penisola iberica verso il Tirreno seguendo la via del 40° parallelo che è la meno frequentata delle tre grandi traiettorie cicloniche del Mediterraneo occidentale. Poiché le piogge sono apportate quasi esclusivamente da queste perturbazioni, si spiega la relativa scarsità di precipitazioni di cui soffre la Sardegna. Durante l’estate l’aria tropicale invade il Mediterraneo portando temperature elevate che provocano le maggiori punte di calore, e un regime d’alte pressioni che sottraggono la regione mediterranea al grande flusso dell’aria oceanica e causano un marcato e prolungato periodo di siccità.

    L’insularità della regione e la breve distanza dal mare di ogni parte del suo territorio (nessun punto del quale dista dalle coste più di 53 km.), determina un clima marittimo che è particolarmente mite nella regione costiera, con elevata temperatura media e piccola escursione termica, e che non assume vero carattere continentale neppure nelle contrade montuose più interne. Infine la distribuzione e l’entità del rilievo e la sua disposizione in senso meridiano, perpendicolarmente cioè alla direzione della traiettoria più seguita dai cicloni, contribuisce ad apportare differenziazioni climatiche sensibili tra le varie parti dell’isola.

    Infatti, mentre la parte occidentale è aperta alle correnti atmosferiche tiepide e umide che possono penetrare profondamente nell’interno, specie lungo la Valle del Tirso, il versante orientale riceve attenuato il benefico influsso dei venti occidentali e non gode molto di quello del Tirreno perchè, data la compattezza che vi ha il rilievo e la sua vicinanza alle coste, l’influenza del mare penetra scarsamente nell’interno. Inoltre le direttrici principali del rilievo producono effetti di varia natura sui venti e, principalmente, una loro deviazione in vario senso.

    La temperatura

    Per quanto riguarda la temperatura, si deve dir subito che il suo andamento annuo non presenta caratteri originali rispetto a quello d’altri paesi mediterranei. Infatti la particolare posizione dell’isola e la sua lontananza dai continenti fanno sì che essa goda di un tipico regime termico mediterraneo, senza eccessi di caldo e freddo in quanto le acque marine, raggiungendo la temperatura massima nelle prime settimane dell’autunno e quella minima in primavera, attenuano i freddi dell’inverno e mitigano i calori estivi. Giungono pure attenuate le incursioni di aria fredda settentrionale, sicché tutto sommato nella stagione invernale la temperatura rimane relativamente elevata eccettuate le zone montane, il che costituisce la caratteristica più importante del clima sardo.

    Per tutte queste ragioni la temperatura media annua ha valori notevoli compresi per la maggior parte dell’isola tra 18° e 14°e inferiori solo nelle parti più elevate della Barbàgia e della Gallura. Infatti diverse località costiere e dell’interno hanno I7°,6, ma, aumentando l’altezza, la temperatura media diminuisce fino ai 12°,7 di Désulo, sul Gennargentu, a 920 m. di altezza, e ai 10°,5 della Val Licciola sul Limbar a 1010 metri. Per valutare appieno questi dati si deve ricordare che Palermo, a latitudine minore, ha 17°,9, press’a poco come Cagliari, e Napoli ha solo 10°,5 come Olbia. Sulla distribuzione pianimetrica della temperatura, la latitudine ha scarsa influenza, tanto è vero che c’è poca differenza tra il comportamento termico dei due estremi dell’isola (Sassari 10°,8; Cagliari I7°,6). Più importante è l’azione del rilievo, per quanto l’influenza moderatrice del mare intervenga a frenare l’entità della diminuzione, calcolata in circa 1/2 grado per ogni 100 m. di altezza.

    Ma queste temperature medie esprimono assai imperfettamente le condizioni reali, sia perchè non danno idea dei massimi e dei minimi termici, sia perchè mascherano il comportamento della temperatura durante l’anno e cioè il regime termico. Per quanto riguarda le temperature minime, si deve dire che la loro media annua è superiore a io° in tutte le zone costiere e di pianura e diminuisce alquanto in quelle interne di montagna, ove oscilla tra 7° e 9°. Nei singoli mesi invernali si hanno però, naturalmente, valori più bassi che raggiungono il minimo nel gennaio e nel febbraio, cioè nei mesi più freddi: a Cagliari 6°,4 e a Désulo appena i°,3 nel gennaio. Le regioni interne e di montagna hanno dunque inverni più freddi (specie il Gennargentu e il Limbara), ma non rigidi, per effetto della notevole insolazione che si verifica in molti giorni asciutti e luminosi; durante la notte però l’irradiazione è più forte e la temperatura scende, sicché temperature minime di 2° e 3° sotto zero sono frequenti ed eccezionalmente si possono verificare minimi assoluti di — 7° e — 8°. Invece i valori negativi sono rari nella zona costiera ed anzi la media invernale e quella del mese più freddo lungo il litorale meridionale sono tra le più elevate d’Italia, superate solo talvolta dalle stazioni litoranee della Sicilia.

    Le temperature medie massime si verificano nel luglio e nell’agosto nella fascia costiera e nelle zone interne della Sardegna meridionale, ove le medie estive superano i 30°. Ma i massimi assoluti (40°~42°) si notano nelle località poste sugli altopiani interni e soprattutto in quelle separate dal mare dall’ostacolo del rilievo.

    L’escursione termica diurna presenta ovunque i valori più alti nell’estate: da 8° a 10° sulla costa e da 14° a 16° nell’interno, e non è tanto influenzata dall’altitudine quanto dalla distanza dal mare, che ne fa diminuire gradatamente l’influenza miti-gatrice, e dall’esposizione rispetto ai venti.

    Il regime termico, cioè l’andamento delle condizioni termiche nel corso dell’anno, offre alcuni aspetti caratteristici. Dopo le basse temperature del gennaio e del febbraio, si nota un certo innalzamento delle temperature medie nel mese di marzo, in cui però le notti sono ancora rigide e sopraggiungono spesso irruzioni di masse d’aria fredda che provocano minimi assoluti negativi. Questi stessi eventi possono verificarsi anche in aprile, ma più rari e attenuati, sicché questo mese è il primo nel quale la maggior parte delle stazioni, ad eccezione di quelle più elevate, registra una temperatura superiore ai io°. Il primo annuncio della stagione calda si ha nel maggio talvolta con brusche ondate di caldo, ma possono ancora aversi ritorni di freddi assai dannosi per la vegetazione e specialmente per i pascoli.

    Così il mese di maggio presenta una straordinaria incertezza nelle condizioni termiche, che variano sensibilmente da un anno all’altro. In complesso la primavera appare come una stagione piuttosto fresca e poco sicura, guardata con apprensione sia dagli agricoltori che dai pastori.

    Isoterme di gennaio (medie del periodo 1926-50).

    La vera stagione calda ha inizio nel mese di giugno, in cui la temperatura media si eleva fino ai 20° e oltre, tranne che nelle regioni montuose. Il mese più caldo può essere luglio o agosto, ma in entrambi la temperatura supera i 20° anche sulla montagna. Il verificarsi del massimo in agosto si osserva di frequente sulla costa occidentale; il che costituisce un’altra prova, insieme alla minore escursione termica ed allo spostamento al febbraio del mese più freddo, che l’influenza del mare è più marcata in questo versante. Tutta la Sardegna meridionale ha nell’agosto una temperatura superiore ai 25°, ma si deve tener presente che sia la temperatura media estiva che quella del mese più caldo eguagliano quelle che nella penisola italiana si registrano lungo il litorale tirrenico tra l’Argentario e il Golfo di Salerno e che Cagliari ha temperature estive inferiori a quelle della Calabria litoranea e della Sicilia orientale. Il resto dell’isola ha nell’agosto temperature inferiori a 25°, sicché si può affermare che la Sardegna è tra le regioni italiane meno calde d’estate. Si pensi infatti che la media delle massime nell’agosto a Sassari non arriva a 30° e a Cagliari giunge a 31°, contro 31,2 a Foggia, 30,8 a Roma e 30,9 a Firenze.

    Isoterme di agosto (medie del periodo 1926-50).

    Fino all’autunno inoltrato la temperatura si mantiene elevata tanto che quella media del settembre è superiore a quella di giugno e quella dell’ottobre e talvolta del novembre supera la corrispondente di maggio, specialmente nella parte occidentale che pertanto assume talvolta anche aspetti steppici. Se dunque le temperature elevate sono piuttosto tardive, durano però a lungo, tanto che si abbassano sensibilmente solo nella seconda metà di novembre, pur rimanendo le medie di questo mese superiori a io° in quasi tutte le regioni. E solo col mese di dicembre che si entra nell’inverno vero e proprio come è anche testimoniato da vari proverbi:

    ed anche:

    Dai Nadale in cudda ia, friddu, famine et charestia;

    Dai Nadale in susu, friddu et famine pius.

    Andamento della temperatura durante l’anno in quattro stazioni caratteristiche: i, Cagliari; 2, Santa Giusta; 3, Buitei; 4, Désulo (medie del periodo 1926-50).

    Riassumendo, le condizioni termiche della Sardegna presentano i seguenti caratteri: inverni per lo più miti, tranne che nelle regioni elevate, primavere capricciose, estati moderatamente calde, autunni con persistenza di temperature elevate.

    I venti

    Gli aspetti termici sfavorevoli sono accresciuti dai venti, che hanno una parte assai importante nel clima della Sardegna ed hanno notevole influenza sulla vegetazione e sull’insediamento umano. Essi infatti soffiano con frequenza elevatissima e sono in rapporto sia con fatti della circolazione generale che con eventi locali perchè, come si è detto, l’isola si trova lungo la traiettoria delle correnti aeree occidentali che spirano dalle zone anticicloniche dell’Atlantico e dell’Europa sud-occidentale verso i centri di bassa pressione mediterranei.

    Mentre gli altri elementi del clima sardo presentano notevoli variazioni da un anno all’altro, i valori di frequenza e di direzione dei venti non cambiano molto. L’isola dunque è flagellata dai venti per la maggior parte dell’anno, tanto che i giorni di calma sono piuttosto rari, non superando talvolta 30 giorni all’anno, come alle due estremità dell’isola, o addirittura solo 20 giorni, come a Capo Sant’Elia, vicino a Cagliari. Predominano largamente in tutte le stagioni i venti occidentali e soprattutto quelli del IV quadrante che rappresentano da soli il 45% di tutte le osservazioni anemometriche dell’anno. Su tutti domina il maestrale, che soffia violentemente da nordovest provenendo dal Golfo del Leone e abbattendosi sull’isola in tutte le stagioni, ma soprattutto nell’inverno. Porta perciò temperatura variabile, bassa in inverno, elevata nell’estate quando porta a Sud e specialmente a Cagliari ondate di calore; in ogni caso dissecca il terreno, provoca un’intensa evaporazione diminuendo i benefici delle piogge e danneggia la vegetazione. Nelle parti più battute, infatti, lo sviluppo degli alberi è impedito assai ostacolato e le piante subiscono notevoli deformazioni che piegano fortemente i loro tronchi e la chioma verso il sudest, tanto che, in mancanza di bussola, possono offrire un valido mezzo di orientamento.

    Lungo la parte occidentale dell’isola e specialmente alle sue estremità è assai frequente e violento anche il ponente, che porta le piogge — bentu bosanu (di Bosa) battit abbas — e che raggiunge la frequenza massima alla Maddalena e a Capo Testa, prospicienti le Bocche di Bonifacio, a Capo Sparavento e Capo Teulada, all’estremità meridionale, e nella parte occidentale dove soffia pure il libeccio, apportatore di piogge. La tramontana e il grecale, invece, sono assai meno frequenti e poco umidi, freschi d’estate, freddi d’inverno quando portano i giorni limpidi e luminosi del gennaio. Essi causano, comunque, durante tutto l’anno delle gradevoli parentesi che interrompono i lunghi periodi in cui imperversano il maestrale oppure i venti meridionali. Questi costituiscono il secondo flagello della Sardegna, dove lo scirocco e il cosiddetto levante sono assai temuti, soprattutto nella parte meridionale e sud-orientale. Quivi, in effetti, i venti del II quadrante spirano di frequente ma si tratta per lo più di brezze marine o di correnti richiamate dal passaggio di depressioni ordinarie nelle parti settentrionali dell’isola o nel Mar Ligure. Il vero scirocco, caldo e deprimente è assai più raro ed ha origine più lontana, essendo costituito da masse d’aria calda, desertica richiamata verso nord dalle depressioni che seguono il margine settentrionale africano. Il vento, che all’origine è asciutto, passando sul mare si carica di umidità e porta alla Sardegna aria pesante, tiepida, umida, talvolta torbida per polveri desertiche, che spira per tre o sei o nove giorni di seguito deprimendo uomini e animali e apportando danni alle colture, specie se sopravviene nella primavera avanzata, quando la fioritura può essere disturbata o le spighe subire la ben nota « stretta ». Fenomeni analoghi si possono verificare col levante che, mentre sulla costa orientale è fresco e umido, nelle parti interne, discendendo dai rilievi, acquista un certo carattere di foeìm e arriva nel Campidano e nella Valle del Tirso caldo e asciutto provocando danni che giustificano la qualifica di « maledetto » che gli si suol dare.

    Frequenza dei venti (medie del periodo 1941-50).

    Albero deformato dal maestrale nella Nurra.

    Le piogge

    Il regime dei venti ha soprattutto importanza per i suoi rapporti con le precipitazioni le quali, in ambiente mediterraneo, costituiscono l’elemento climatico essenziale da cui dipendono i caratteri della vegetazione come gran parte dell’attività e della vita dell’uomo. Ora le precipitazioni in Sardegna sono costituite da piogge cicloniche che sono in rapporto col passaggio delle depressioni barometriche che provengono da occidente e investono l’isola una prima volta tra la fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno e una seconda volta tra la seconda metà dell’inverno e il principio della primavera. Ne consegue che, mentre le regioni mediterranee meridionali, come gran parte della Sicilia stessa, hanno le piogge raccolte nell’inverno, la Sardegna presenta due periodi piovosi, cadenti l’uno tra l’autunno e il primo inverno e l’altro tra la fine inverno e la primavera. Essi sono separati da un periodo di minori precipitazioni che si verifica per lo più nel gennaio, d’onde il nome di « secche di gennaio » che gli si suole attribuire. Tale comportamento, peraltro, varia assai da un anno all’altro, sicché si deve dire che l’elemento essenziale e più costante che la Sardegna ha in comune con gli altri paesi mediterranei, è la presenza di una lunga stagione asciutta coincidente con l’estate e che va da maggio a settembre.

    Vedi Anche:  Densità ed emigrazione della popolazione

    Caratteri generali delle piogge sono i notevoli scarti dalla media dei singoli totali annui, un elevato indice di intensità e un’irregolare distribuzione stagionale.

    Gli scostamenti dalla media annua sono tali che la quantità di pioggia di qualche anno può superare il doppio della media o esserne inferiore della metà. Se scostamenti di tale entità non sono frequenti, scarti del 25% e del 30% si verificano in tutte le località e devono essere considerati come normali per il regime pluviometrico della Sardegna.

    Orosei, ad esempio, che per il periodo 1926-50 ha registrato una media di 540 mm., ha avuto 680 mm. di pioggia nel 1935 e 279 nel 1937. Nuoro, nell’in-terno, con una media di 689 mm., ne ha ricevuti 391 nel 1926 e 1278 nel 1930. Désulo, stazione montana, con media di 1187,3 mm., ha avuto 700 mm. di pioggia nel 1932 e 1700 nel 1930.

    L’intensità oraria delle precipitazioni, cioè la quantità di pioggia che cade nell’unità di tempo e che esprime la loro violenza, raggiunge ovunque dei valori elevatissimi sicché esse hanno in buona parte carattere temporalesco; in particolare sul versante occidentale l’intensità è superiore a quella di ogni altra parte d’Italia. Piogge violente a carattere di rovescio sono frequenti soprattutto nella prima fase della stagione piovosa, quando possono verificarsi dei nubifragi che in poche ore danno da 100 a 150 mm. di pioggia, quantità questa che può rappresentare per alcune stazioni metà delle precipitazioni della intera stagione invernale e 1/5 del totale annuo. Un simile evento si è verificato appunto in Ogliastra nell’ottobre del 1951, provocando una rovinosa alluvione.

    Quanto alla distribuzione mensile e stagionale, notiamo che le prime piogge cadono per lo più nel mese di settembre con rovesci talora assai violenti e improvvisi. Ma anche l’inizio della stagione piovosa presenta delle anomalie frequenti, in quanto talvolta anticipa alla fine di agosto e nella prima decade di settembre, e si può avere allora, dopo la siccità estiva, un secondo periodo arido che si protrae fino a novembre. Altre volte invece ritarda addirittura alla metà di novembre e in tal caso durante sei mesi dell’anno, dalla fine di    maggio a novembre    si    ha    una lunga    stagione arida con un apporto insignificante di precipitazioni.

    Tale forte irregolarità è assai dannosa sia alle colture che ai pascoli, specie se si considera che la pratica dell’irrigazione,    che pure sarebbe indispensabile per vaste superfici, non ha ancora in Sardegna la necessaria diffusione.

    Le piogge del primo autunno cadono su un terreno completamente arido per il lungo periodo della siccità estiva, sicché, data anche la temperatura ancora elevata, si ha intensa evaporazione e le piogge non sono pertanto molto utili alla vegetazione e all’agricoltura e non fanno innalzare le portate dei corsi d’acqua. Nei mesi di novembre e dicembre la caduta delle piogge diviene più regolare e i totali mensili si elevano. Il mese più piovoso è dicembre per la quasi totalità delle stazioni (in media 13 giorni piovosi su 31), ma in qualche anno il maggior apporto di precipitazioni si ha in novembre, come spesso accade nelle zone costiere occidentali, oppure in gennaio, come frequentemente si registra nelle zone montane.

    Dopo il notevole apporto dei mesi di novembre e dicembre si ha una forte diminuzione delle precipitazioni sicché la stagione delle piogge è interrotta da un periodo la cui durata, che in media è di 3 o 4 settimane, è in relazione col particolare andamento pluviometrico di ogni singolo anno. Tale periodo costituente le « secche di gennaio » cade sempre nell’inverno, sia pure in diversi momenti : più frequentemente tra la fine di gennaio o la prima decade di febbraio, raramente nelle prime settimane di marzo. Esso costituisce veramente una piccola stagione a sé, caratterizzata da scarsa nebulosità, grande trasparenza dell’aria e da temperature medie che, pur essendo fra le più basse dell’anno, sono pur sempre miti; sicché in complesso è questo uno dei momenti più favorevoli e salubri dell’anno. Se però la siccità invernale si protrae per molte settimane, le portate dei corsi d’acqua si riducono al livello di quelle estive e i terreni si inaridiscono con grave danno per le colture che risentono assai anche del ritardo di questo periodo asciutto.

    Andamento delle precipitazioni durante l’anno in quattro stazioni caratteristiche (media del periodo 1926-50) (da Pinna).

    Tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera si ha generalmente una ripresa della piovosità. Questa seconda fase, che comprende i mesi da febbraio a maggio, raggiunge il suo massimo in febbraio o marzo e va gradatamente estinguendosi col sopraggiungere dei primi calori estivi. Il volume delle precipitazioni non differisce sensibilmente da quello del trimestre ottobre-dicembre e per tutta l’isola si può valutare pari al 35% delle piogge dell’anno.

    È importante notare che le piogge primaverili sono in generale più regolari di quelle autunnali e quindi assai più benefiche: ciò è vero soprattutto per il febbraio e per il marzo, il quale tuttavia presenta una certa variabilità e cioè talvolta siccità desiderata dagli agricoltori (Marzu siccu, massaru riccu), tal’altra piogge favorevoli ai pascoli e quindi ai pastori al che, appunto, accenna l’altro proverbio:

    Acqua e bentu annada de sarmentu

    Acqua e soli annada de liori

    L’irregolarità aumenta assai in aprile tanto che mentre in alcuni anni si possono avere in questo mese precipitazioni superiori a quelle di ottobre, in altri cadono solo pochi millimetri di pioggia. Ciò ha conseguenze tanto più gravi in quanto le precipitazioni di aprile sono le più utili alle colture, per le quali rappresentano l’ultimo apporto considerevole di acqua prima della siccità estiva. La maggiore utilità è dovuta anche al fatto che le piogge primaverili sono meno violente di quelle del primo autunno e l’evaporazione è assai minore sicché vengono assorbite in maggior quantità dal terreno.

    Andamento delle precipitazioni durante un anno tipico (1931-32) per le quattro stazioni precedenti.

    Col mese di maggio, mentre aumenta la temperatura media, diminuisce la quantità di precipitazioni e si inizia la forte inflessione che è propria dei mesi estivi, durante i quali si toccano i valori più bassi delle piogge che solo raramente si accom-gnano a fenomeni temporaleschi. Per tutta la Sardegna luglio è il mese meno piovoso sia in quanto dà il minor apporto di piogge (di poco superiore all’i% del totale annuo) sia perchè presenta il minor numero di giorni piovosi.

    Durante il periodo della siccità estiva i terreni si inaridiscono e i corsi di acqua, dato il generale regime torrentizio, si riducono a livelli bassissimi; solo i maggiori e pochi altri, alimentati da abbondanti acque sotterranee, hanno un flusso perenne: i rimanenti, che sono la maggior parte, si asciugano.

    I grafici della distribuzione mensile delle piogge, costruiti coi valori medi del trentennio (1921-50), mettono chiaramente in risalto la quasi totale siccità dei mesi estivi, i due massimi di precipitazione che si verificano alla fine dell’autunno e dell’inverno e la maggiore altezza delle piogge autunnali rispetto a quelle primaverili; e rendono evidente infine che il decorso annuo delle precipitazioni è uniforme in tutte le località dell’isola, in quelle centrali e settentrionali più umide, come in quelle meridionali meno piovose. Il confronto dei grafici basati sui dati medi con quelli riferentisi a un solo anno (il 1931-32), mette in evidenza il notevole scostamento dalla media che normalmente si verifica, tanto è vero che mentre nei grafici costruiti con i valori medi del trentennio, il periodo asciutto dell’inverno è appena accennato, dato che esso può verificarsi in momenti diversi dalla stagione invernale, in quelli riferentisi ad un solo anno, le « secche di gennaio » sono assai marcate.

    L’esame della distribuzione delle precipitazioni nell’isola, che si può fare utilizzando la carta apposita, mette anzitutto in evidenza l’importanza essenziale che ha su essa il rilievo, in quanto le zone con maggior quantità di piogge corrispondono alle regioni più elevate e ai principali gruppi montuosi. Si ha dunque, come avviene di solito, un aumento delle precipitazioni con l’altezza per cui la piovosità, che lungo la costa ascende in media a 563 mm., si accresce notevolmente entro i primi 500 m., innalzandosi fino a 767 mm. in media, e soprattutto oltre i 900 m.f ove si superano in genere i 1000 mm. di piogge.

    A queste quote si hanno anche abbondanti precipitazioni nevose; la copertura di neve ha una durata media di 3 mesi nelle zone comprese tra 1200 e 1500 m., di 5 mesi per quelli tra 1500 e 1800 m. ; a quote inferiori, da 400 m. (altitudine minima alla quale la neve cade in ogni singolo anno) fino a 1000 m., il manto di neve ha durata di pochi giorni o poche settimane. Non si hanno però dei dati precisi sulla durata e l’estensione della copertura nevosa.

    In secondo luogo si osserva una notevole differenza di comportamento tra le regioni orientali e quelle occidentali in quanto i monti vicini alla costa occidentale hanno, in genere, piogge più abbondanti delle rimanenti zone montane, a parità di altitudine, perchè le precipitazioni sono per lo più portate dalle depressioni provenienti da occidente. Ecco perchè per lo più su ogni gruppo montuoso l’altezza delle precipitazioni sui versanti occidentali supera quella sui versanti orientali e le regioni a ridosso dei rilievi occidentali hanno minor quantità di piogge. Così il Campidano meridionale, trovandosi a ridosso dei monti dell’Iglesiente, sui quali si ha notevole condensazione, ha un apporto di piogge molto scarso (400 mm.).

    Nel versante occidentale una zona con piovosità intorno a 900 mm. all’anno si allunga da nord a sud, dai monti di Villanova fino al margine settentrionale del Campidano e riprende più a sud in tratti con oltre 1000 mm. annui nei monti dell’Iglesiente e del Sulcis.

    Nel versante orientale le zone di alta piovosità si trovano sui maggiori rilievi e soprattutto sul massiccio del Gennargentu, nelle cui parti più elevate si superano i 1300 mm., e sui monti della Gallura dove sulle zone alte del Limbara cadono oltre 1350 mm. di pioggia all’anno, massima piovosità riscontrata in Sardegna. Le valli dei tre maggiori fiumi, Tirso, Coghinas e Flumendosa non ricevono forti quantità di piogge (da 700 a 750 mm.) in quanto rappresentano delle aree depresse rispetto ai rilievi che le inquadrano.

    Le pianure e i lembi di costa bassa sono in generale zone di scarsa piovosità. In particolare lungo tutta la pianura del Campidano non si hanno piogge in quantità superiori ai 600 mm. annui: il Campidano centrale ne riceve in maggior copia (580 mm.); a nord la media è di 500 mm. lungo tutto l’arco del Golfo di Oristano, ma a sud, nel Campidano di Cagliari e in limitate zone della costa meridionale e occidentale, si registrano valori ancora più bassi: 400 mm. e anche meno (385 mm. al Capo Carbonara). Se poi consideriamo che in queste pianure si hanno pure le temperature più elevate dell’isola e che perciò in esse l’evaporazione assume dei valori molto forti, comprendiamo quale difficoltà ciò costituisca per la pratica dell’agricoltura. Eppure le zone pianeggianti sono costituite da terreni che per la loro natura sarebbero suscettibili di un intenso sfruttamento mediante svariate colture.

    La media generale delle precipitazioni per l’intera isola risulta di 775 mm., pari al 75% della media calcolata per tutta l’Italia, per cui si può valutare che cadano sulla Sardegna oltre 18 miliardi di metri cubi d’acqua. Nel complesso tale quantità sarebbe sufficiente, ma la sua sfavorevole distribuzione nello spazio e nel tempo la rende inadeguata ai bisogni dell’uomo. E necessario pertanto utilizzarla adottando il criterio di conservare le acque di pioggia in eccedenza della stagione umida in appositi serbatoi per utilizzarla nel periodo arido e di convogliare una parte dell’acqua che cade nelle zone montane per le colture dei bassopiani.

    Profili pluviometrici secondo tre sezioni. Dall’alto in basso: nella parte settentrionale, centrale e meridionale dell’isola.

    Distribuzione delle precipitazioni annue (media del trentennio 1921-50).

    L’aridità e i tipi di clima

    Ai fini pratici, dunque, più della quantità delle piogge è importante considerare quanta parte da essa rimanga disponibile per la vegetazione e acquista così particolare significato la determinazione del grado di aridità in base al rapporto tra la quantità annua delle precipitazioni e la temperatura media. Considerando questo indice di aridità, appare anzitutto che nessuna località dell’isola anche nelle estreme condizioni di aridità ha valore inferiore a 14 (Capo Carbonara, Capo Sperone), e naturalmente aumentando l’umidità via via che si passa dalla pianura alla montagna si trova quivi il grado di aridità minore (77 a Val Licciola, sul Limbara). Il Limbara, il Gocéano, il Màrghine e il Gennargentu sono le parti con maggiore umidità, mentre le regioni più aride sono quelle che si affacciano sui Golfi di Oristano e di Cagliari, la costa sud-occidentale del Sulcis con le isole di San Pietro e Sant’Antìoco, la Nurra e la piana di Orosei, sicché ogni loro sviluppo agricolo è condizionato da un’accurata irrigazione.

    Carta dell’indice di aridità.

    Andamento della temperatura e delle precipitazioni atmosferiche in alcune località caratteristiche (le linee tratteggiate indicano la temperatura media annua; le colonnine in grigio il totale annuo delle piogge).

    E’ utile sintetizzare i dati e le considerazioni sulla temperatura e le precipitazioni e l’aridità istituendo con questi elementi diversi tipi climatici sono i seguenti:

    1. Un primo tipo, che possiarri definireo sub-tropicale, presenta le seguenti caratteristiche: nessun mese ha temperatura media inferiore a io°; la media annua è di almeno 17° e vi sono 4 mesi con temperatura media pari a 20°. Le precipitazioni annue oscillano tra 500 e 700 mm. e l’indice di aridità tra 15 e 20. Una varietà semiarida di questo tipo presenta una quantità di pioggia inferiore a 500 mm.( sicché il valore dell’indice di aridità rimane tra 10 e 15.
    2. Un tipo temperato caldo ha temperatura media tra 15° e 16°,9; media del mese più freddo tra 6°, 5 e 9°,9; da tre a quattro mesi con temperatura superiore a 20°. Le piogge oscillano tra 500 e 800 mm. e l’indice di aridità tra 20 e 30.
    3. Un tipo subumido ha media annua di temperatura tra n° e 15°; la media del mese più freddo varia tra 4° e 6°,4; da uno a tre mesi la media mensile è superiore a 20°. Le piogge oscillano tra 800 e 1200 mm. annui e i valori dell’indice di aridità tra 30 e 45.
    4. Un tipo umido ha media annua tra io° e io°,9; la temperatura del mese più freddo è inferiore a 4° e in nessun mese la media mensile raggiunge i 20°. Il totale annuo delle piogge supera i 1100 mm. e l’indice di aridità è maggiore di 45.

    La vegetazione

    Le particolari condizioni di suolo e di clima della Sardegna hanno esercitato influenza determinante sul mantello vegetale che proprio dalle peculiarità di quelle condizioni trae la sua caratteristica fisionomia. Bisogna tuttavia ricordare che gli aspetti più originali della flora sarda hanno base storico-geologica in quanto il quadro floristico attuale è formato da elementi rappresentativi derivanti in parte da un’eredità di epoche passate in cui le condizioni del clima e i rapporti con le aree continentali contigue erano alquanto diversi rispetto a quelli attuali.

    Anzitutto sarà bene osservare che in poche altre regioni europee i quadri vegetali naturali hanno estensioni così notevoli come in Sardegna: si pensi infatti che su 2,4 milioni di ha., solo poco più di un quarto è occupato da colture o prati artificiali mentre quasi i 3/4 sono coperti da vegetazione spontanea e cioè da boschi, da cespuglieti incolti produttivi e soprattutto da pascoli permanenti comprendenti da soli quasi la metà della superficie dell’isola. Stridente è da questo punto di vista il contrasto con quanto si verifica nell’Italia intera, dove oltre la metà della superficie è occupata da colture e neppure un quinto da prati e pascoli naturali. Tuttavia queste immense distese di paesaggi naturali non sono per la maggior parte nello stato originario, ma hanno subito l’azione distruttrice degli uomini e degli animali domestici, pecore e capre soprattutto: l’uno ha deforestato e incendiato, gli altri hanno degradato gravemente le macchie e i cespuglieti.

    Il carattere essenziale della vegetazione sarda è la sua mediterraneità, ma per la posizione dell’isola tra la penisola italica, l’Ibèria e l’Africa sono entrati a farne parte elementi diversi pervenuti attraverso ponti continentali scomparsi con la Tir-renide. Vi riconosciamo infatti l’elemento mediterraneo centrale o eumediterraneo, che ha dato il maggior contributo di specie; l’elemento mediterraneo occidentale, cui appartengono tra l’altro la Digitalis purpurea, la Clematis balearica e il Buxus balearica; l’elemento mediterraneo orientale di cui fanno parte la Satureja thymbra, il Laserpitium garganicum ed altre specie. Ma oltre che per questi caratteri intermedi, la flora sarda spicca per la mancanza di alcune specie, come il faggio e le conifere di alta montagna e per la presenza di numerose specie endemiche sue proprie (Hyacinthus fastigiatus, Genista Moristi, Genista Corsica), che si trovano per lo più in zone appartate dei rilievi granitici e calcarei e di alcune piccole isole. Il massiccio del Gennar-gentu è quello che ospita la flora più caratteristica, ma anche le cime più elevate del Limbara e del Sulcis hanno una vegetazione che porta i segni della sua vetustà e del suo isolamento.

    Ma dal punto di vista geografico hanno soprattutto valore gli aspetti complessivi che la vegetazione assume e che tanto influiscono sul paesaggio. Per questo lato due fatti colpiscono in modo particolare il visitatore anche più sprovveduto: la scarsezza e prevalente mediocrità del bosco e la grande diffusione, varietà e spesso esuberanza della macchia.

    Il bosco vero e proprio occupa una estensione assai modesta, solo 182.000 ha corrispondente al 4,8% della superficie utilizzabile, mentre nell’Italia intera tale percentuale si eleva al 19% circa. La Sardegna è in effetti per la maggior parte spoglia di alberi e questo è dovuto a cause fisiche e umane. In realtà i boschi sardi si sono venuti degradando col tempo soprattutto in rapporto con la pastorizia prevalente e invadente, sia per gli incendi appiccati sistematicamente dai pastori e che distruggono anche oggi dai 1000 ai 1500 ha. di boscaglia ogni anno sia per opera del bestiame brado, ma anche per l’intenso disboscamento durato fino ad epoca recente.

    Certo che già nel 1700 il Padre Gemelli e nella prima metà dell’800 Padre Angius notavano la povertà della foresta sarda, ma con tutto ciò il La Marmora ci assicura che press’a poco in questa stessa epoca un quinto della Sardegna era ricoperto da boschi fitti. Anche se è da ritenere che questi boschi fossero in buona parte formati piuttosto da boscaglie e macchie dense, è indubbio che nell’ultimo secolo, specie dopo il 1860 sono state apportate al patrimonio forestale sardo decurtazioni gravi in rapporto con l’attività mineraria, con la costruzione delle ferrovie e con lo sfruttamento disordinato per la produzione di carbone e per l’estrazione del tannino. Tuttavia bisogna riconoscere che l’estrema riduzione attuale della foresta è anche in rapporto con le sfavorevoli condizioni del clima con i venti violenti e gli asciuttori prolungati che hanno tormentato la vegetazione arborea e soprattutto hanno impedito la sua ricostituzione. Sicché a ragione è stato detto che i boschi sardi sono le ultime vestigia d’una foresta preglaciale sud-europea.

    Confrontando l’estensione delle vecchie aree boscate ricostruite sulla base dei fitònimi con quelle residue attuali, l’Asole ha dimostrato che il bosco era un tempo più esteso e si è conservato oggi solo nelle parti più elevate e più ancora nelle alte valli appartate e incassate, cioè nei punti più umidi ed anche meno accessibili all’uomo e al bestiame. Così si spiega il fatto che i residui della vegetazione arborea che doveva ricoprire quasi completamente i massicci del Gennargentu, del Limbara, della Punta Serpeddì e di altri gruppi montuosi, non si trovano sulle cime dei rilievi, ma ricoprono le vailette laterali, generalmente molto incassate. Là dove non esisteva questa possibilità di rifugio, come nell’altopiano del Sarcidano o sulla Giara di Gésturi, il bosco è andato distrutto ed è stato sostituito da una macchia di origine evidentemente secondaria, dovuta allo sviluppo dell’antico sottobosco rimasto allo scoperto.

    Le formazioni boschive, come la vegetazione in genere, variano per composizione e densità secondo la natura del suolo, le condizioni climatiche e l’altitudine, distribuendosi dal mare al monte. Nella fascia litoranea esse hanno ormai estensione assai modesta: la formazione più frequente è quivi costituita da olivastri (originari o inselvatichiti), lentischi, mirti, ginepri, cui si aggiunge qua e là il carrubo (Ceratonia siliqua) con la densa chioma intensamente verde e gli abbondanti baccelli dolci. L’associazione olivo-lentisco (costituente il climax Oleo-Lentiscetum) è la più caratteristica e l’olivo prende spesso il predominio formando vere selve specialmente nell’Ogliastra, che appunto da esse sembra aver preso nome. L’associazione olivo-carrubo (o climax Oleo-Ceratonion) è assai più limitata e ristretta alle parti più calde ed asciutte del litorale sud-occidentale.

    Più addentro, sulle colline sublitoranee e sulle basse montagne fino ad un migliaio di metri di altezza si stendono i boschi di Leccio (ìligi, èliche, Uccia), che sono ancor oggi, dopo la prolungata opera distruttiva esercitata dall’uomo, i più diffusi. Si tratta di una formazione caratteristica della regione mediterranea, il climax del Quercion ìlicis dei botanici, costituito dai lecci come specie arboree accompagnati ove più ove meno, secondo le condizioni ambientali, da uno strato arborescente inferiore con Corbézzoli e Filliree e da uno strato arbustivo a sottobosco aspro e intricato per la presenza del Pungitopo (Ruscus aculeatus) e di varie piante lianose come lo Smìlace (Smilax aspera), i Caprifogli, le Rose sempreverdi e l’Edera.

    Al margine inferiore la lecceta si arricchisce di Querce da sughero (Quercus suber, in sardo suergiu o urtigu) che sono più esigenti in fatto di calore e più resistenti all’aridità. Si tratta di piante tra le più pittoresche dell’ambiente mediterraneo, con una compatta chioma grigio-bruna e col tronco di color sanguigno per le periodiche decorticazioni. Esse formano in varie parti veri boschi più estesi delle leccete, il che avviene soprattutto in Gallura dove le sugherete sono state diffuse dall’uomo e non sono accompagnate perciò dal caratteristico sottobosco, anche perchè ne sono tenute libere per renderle accessibili durante lo sfruttamento che rappresenta un’importante attività. In complesso i boschi di querce da sughero costituiscono una variante della lecceta che trova le condizioni ambientali più favorevoli ad altitudini superiori ai 300-400 m. e che predilige i terreni granitici e quelli scistosi e silicei in genere di media o scarsa fertilità. La troviamo perciò diffusa, oltre che in Gallura, sugli altopiani nuoresi, sulle distese trachitiche del Logudoro e di Villanova Monteleone nonché in minor misura nell’Iglesiente.

    Con l’aumentare dell’altezza, la lecceta si impoverisce e si mescola con querce caducifoglie e cioè la rovere (Quercus lanuginosa e Quercus peduncolata, in sardo chercu e orròli) che domina sui rilievi centrali nel piano submontano dai 700 ai 1300 m., ma che è stata più colpita dalle distruzioni perchè ricercata per legname da opera e per traversine ferroviarie. Questo querceto misto, insieme alla lecceta, cui in genere si dà il nome di làndiri o padenti in Barbagia e nel Gerrei, e di litos o littu in Gallura, ha interesse perchè fornisce ghiande per l’alimentazione dei suini.

    Assai più circoscritto, sempre nel piano submontano, è il bosco di Castagni (ca-stangia) accompagnati da nocciòli, noci e più raramente da frassini, che occupa un migliaio di ettari, suddivisi tra le pendici del Gennargentu (Désulo, Aritzo, Gavoi, ecc.) e in minor misura sui fianchi del Monte Ferru (Santu Lussurgiu). Dai castagneti soprattutto i Sardi hanno tratto legname da opera per gli arredamenti casalinghi, per gli infissi, ecc., mentre oggi esso serve per la costruzione di botti, caratelli e per la produzione di oggetti intagliati (méstoli, talléri, ecc.).

    Manca, come si è detto, il Faggio che ha speciali esigenze di temperature e umidità e che invece è sempre presente nel piano montano inferiore dell’Appennino

    ed esistente anche in Corsica tra i 1300 e i 1800 metri. Ma esistono ancora al limite superiore delle leccete preziosi resti del bosco di Tasso (Taxus baccata) ultimi testimoni della foresta medio-europea che nell’èra terziaria copriva insieme ad altre conifere e con Agrifogli giganti i monti della penisola e del massiccio sardocorso. Questi resti dell’antico bosco di tassi, veri monumenti vegetali, sono stati segnalati in qualche valle del Gennargentu, ove sono misti ai castagni, in alcuni punti del Monte Ferru e soprattutto sul versante settentrionale dei Monti del Màr-ghine, a Badde Sàlighes.

    Per le particolari condizioni di suolo e di clima i boschi si arrestano ad un livello molto più basso di quanto comporterebbe la latitudine e inferiore a quello della Corsica.

    Un aspetto del mantello vegetale sui monti del Sàrrabus. Si noti la maggiore densità della vegetazione nel iondovalle.

     

    Nelle parti più elevate dei principali massicci e specialmente sul Gennargentu si trova, come sulle altre montagne sud-mediterranee, una modesta vegetazione culminale, formata da pulvini spinosi con Pruno prostrato (Prunus prostata), contorto e disteso sulle rocce, Ginestra di Corsica e Ginepro nano, insieme alla Digitale, alla Genziana e ad altre specie minori.

    Ma la formazione vegetale più estesa, più ricca e più vigorosa è la macchia, che domina e caratterizza il paesaggio sardo dal litorale a 800 m. di altezza e fino a 1000 m. nel Capo di Sopra e che si è in gran parte sostituita al bosco terziario, denso di lecci, di roveri e di alloro. Si tratta della classica formazione sempreverde mediterranea costituita da arbusteti che possono assumere grandi dimensioni, quando trovano condizioni favorevoli e cioè suolo profondo e versanti più freschi e riparati. Proprio secondo l’altezza delle piante si suole distinguere una macchia alta (la macchia-foresta del Béguinot) con piante arborescenti alte fino a 4-5 m. e una macchia bassa a grossi cespugli, non più alta in media 1,5-2 metri.

    Ma ben più significativa è la distinzione della macchia secondo la sua composizione, anche se questa è assai varia in quanto dipende da numerosi fattori edafici, climatici e storici tra i quali primeggia l’intervento umano, avendo questo determinato, secondo le modalità e l’entità con cui è avvenuto, diverse forme di vegetazione che vanno considerate come « stadi » di degradazione o di rigenerazione. Fatto sta che nella macchia, pur essendo essa costituita da un insieme di numerose essenze, si vede spesso una di queste prendere il sopravvento in particolari zone che assumono aspetti caratteristici per forme e colori della vegetazione. E da ricordare anzitutto la macchia di leccio dominante, aspetto poco degradato del bosco di leccio già descritto, contenente pure Corbézzolo (Arbutus unedo, in sardo olioni), il Lentisco, il mirto (murtas), la Fillirea (aliderru) e l’Alaterno (Rhamnus alaternus).

    Nei terreni silicei acidi, alquanto umiferi e in luoghi freschi e meno asciutti, tende a predominare il Corbézzolo fino a costituire una macchia a corbézzolo di aspetto inconfondibile in cui si trova anche l’Erica arborea (tùvara, scova), utilizzata qua e là (per es., in Ogliastra) per i suoi ciocchi ricercati per la fabbricazione delle pipe.

    C’è poi frequente la macchia a oleastro e soprattutto a oleastro e lentisco, aspetto degradato dell’Oleo-Lentiscetum: il Lentisco (Pistacia lentiscus, chiamato chessa nel Capo di Sopra e moddizzi nel Capo di Sotto) è più frequente perchè meno appetito dal bestiame ed è forse la pianta più utile della macchia in quanto, oltre al tannino delle foglie, fornisce olio dai frutti ed una resina odorosa, il cosiddetto «mastice di Chio », dai rami. Sembra che il Lentisco tenda a migliorare il suolo; certo è che la sua presenza è indizio di terreno adatto alla cerealicoltura tanto che in alcune zone dell’isola si stabilisce un’alternanza di coltivazioni di cereali, di pascolo e di rigenerazione del Lentisco, come avviene pure per il Cisteto.

    Meno frequente è la macchia a Euforbie (tua de monti), gialla nella fioritura e rosseggiante nell’autunno, accompagnata da oleastro ed Assenzio arboreo (Artemisia arborescens) riconosciuta come uno stadio di degradazione su pendii rupestri della formazione arborea Oleo-Ceratonion. E ridotta assai è la macchia a palma nana (Chamaerops humilis, in sardo sa pramma) prima diffusa in tutta la Nurra, nel Sinis e nelle isole sulcitane ed ora in regresso per l’avanzare delle bonifiche e per la raccolta che si fa delle foglie per ricavarne crine vegetale.

    Macchia degradata e discontinua sui graniti della Gallura presso Calangianus.

    Ma ancora ben presente è la macchia d’alloro (detto lauru nel Sud e loru nel Nord), che si trova in selve nell’Inglesiente tra Fluminimaggiore e Sant’Angelo e in arbusteti intorno a Oliena, in Gallura e nell’Anglona. Si tratta di un resi dito preglaciale formato da alloro dominante insieme ad altre essenze, a pungitopo e ad edera. Caratteristica è pure la macchia a oleandri (Nerium oleander in sardo leonaxi) presente con i suoi arbusti riccamente fioriti lungo il greto di molti torrenti, special-mente ad oriente dal Sàrrabus a Siniscola, insieme alla Quercia spinosa, alle Tamerici, al Lentisco e al Ginepro rosso (Juniperus oxycedrus). Quest’ultimo può prevalere fino a costituire la parte essenziale della macchia a ginepri che si trova in frammenti depauperati, considerati dal Béguinot come i resti di una vera foresta di Ginepri arborei (fino a 6-7 m. di altezza) intensamente sfruttata dall’uomo in passato per il legno pregiato che fornisce (usato un tempo anche per travi) e oggi ridotta ad arbusti perchè si rinnova con grande stento.

    Frequente e caratteristica in Sardegna è infine la macchia a cisto (Cistus monspe-liensis, villosus e salvifolius, chiamati in sardo murdegu o mudregu), costituente uno degli aspetti più suggestivi della vegetazione mediterranea con le distese di densi arbusti svariati in primavera da fiori bianchi o rosa e acutamente profumati. I cisteti prediligono suoli silicei e costituiscono una formazione secondaria che è espressione di una ricolonizzazione vegetale spesso avvenuta dopo gli incendi, dato che il Cisto è la prima pianta che rinasce per i suoi semi termoresistenti e persiste perchè risparmiata dal bestiame mentre le altre piante che spesso l’accompagnano (mirto, lentisco, fillirea, ginepro) sono per lo più assai danneggiate dal pascolo.

    Dopo quanto è stato detto, è possibile rispondere a un importante quesito e cioè fino a qual punto la macchia tipica sarda è originaria oppure derivata da una degradazione della foresta primitiva. Si deve riconoscere che una parte della macchia è secondaria ed è quella povera di specie e priva di essenze eliòfile (cisto, mirto, lavanda, ginepro): essa ha avuto origine dall’azione distruttiva dell’uomo ed è stata mantenuta da modificazioni recenti del clima e dalla degradazione continua causata dal bestiame. Ma vi sono vaste distese di macchia primitiva, la macchia alta e densa con specie eliofile basse, tanto più esuberante quanto più appartata, come nel Sulcis, nella Nurra e nell’Ogliastra meridionale.

    Una sughereta sui fianchi del Limbara.

    La lecceta nella Valle del Riu Longu intorno a San Gregorio.

    Paesaggio nei terreni granitici presso Dorgàli con olivastri arborei e una « pinnetta » pastorale.

    La degradazione accentuata della macchia su suolo roccioso o impoverito porta alla formazione di una magra e discontinua vegetazione a cespugli bassi (non superanti in genere il mezzo metro), disposti a cuscinetto o pulvino. E la cosiddetta garriga nome che in Provenza indica distese incolte con cespugli di Quercia spinosa (Quercus coccifera), specie che si trova anche in Sardegna pur non essendo molto frequente. Ma la fisionomia generale della formazione è analoga, monotona, squallida, con colori dimessi tranne che in primavera, quando è ravvivata da fiori vivaci come quelli dei Cisti, delle Ginestre e degli Elicrisi. Non si deve credere però che la vegetazione della garriga sia povera; anzi essa è assai ricca di specie resistenti all’aridità e al calore delle petraie calcaree o basaltiche ed ha aspetti multiformi come e più della stessa macchia in rapporto con le svariate condizioni di degradazione del suolo che influisce con la sua struttura fisica e col suo contenuto in humus, col suo spessore e con la sua stessa natura calcarea o silicea. Si osservano così numerose forme di transizione della garriga tra quelle più elevate assai vicine alla macchia, com’è il caso di molti cisteti di dimensioni ridotte, e quelle più degradate che in assenza di arbusti, preludono alla steppa.

    La garriga più comune e caratteristica è composta da radi cespugli di Quercia spinosa e poi da Cisti, da Rosmarino, Salvia, abbondante Asfodelo, Lavandula (Lavandula Stoechas), Fèrula (Ferula nodiflora), Erica (Erica multiflora), accompagnate da erbe svariate.

    Aspetto dell’altopiano basaltico coperto dalla garriga in Planargia tra Suni e Sindia.

    Il cisteto compatto in fiore del Planu su Mudregu presso Orroli.

    Ma le diverse condizioni edafiche fanno spesso predominare una di queste piante che dà alla garriga una fisionomia particolare. Tra i tanti tipi che si possono riconoscere ricordiamo anzitutto la garriga a cespugli di Quercia spinosa, che si sviluppa nella fascia litoranea e, a differenza delle altre regioni ove copre terreni calcarei, pare preferisca in Sardegna rocce silicee e sabbiose. Nettamente calcicole sono invece la garriga a Rosmarino (rosmarinu, zippiri), talvolta consistente in monotoni rosmarineti puri, e la garriga a Euforbie; mentre su suoli silicei si stende la garriga a Cisti che è una delle più diffuse, particolarmente estesa sulle alluvioni ciottolose del Campidano occidentale lungo la costa sulcitana e su molti ripiani delle montagne centrali. Piuttosto indipendenti dalla natura del suolo sono, infine, la garriga a Elicrisi splendente nella fioritura giallo-dorata e la garriga a Ginestre tra cui quella con Ginestra di Corsica che coi suoi cespugli spinosi a pulvino sale sul Gennargentu fino a 1600 m. e l’altra con Ginestra efedroide che ricopre vasti tratti del litorale.

    Garriga a palma nana nella Sardegna meridionale.

    In complesso la garriga sarda è una delle formazioni vegetali più ricca di piante aromatiche, pregne di essenze e di princìpi medicamentosi di non trascurabile interesse economico.

    Gli stadi più degradati della garriga costituiscono transizione a una formazione stepposa. Tale è la garriga a timo che si stende su colline e fianchi montani in un grigio tappeto che ricorda i « tomillares » della penisola iberica (tomillo = timo). Nelle regioni più povere calde e aride della costa meridionale e orientale si trovano tratti limitati di praterie a graminacee con breve ciclo vegetativo impropriamente chiamate steppe, riconoscibili sul promontorio del Sant’Elia, sulle dune costiere tra Muravera e Tortoli e altrove.

    Per quanto riguarda le formazioni colturali, i due soggetti più importanti e più diffusi sono l’olivo, che si spinge in media fino a 450-500 m. (ma sui Monti di Oliena fino a 650 m.) e la vite che cresce fino a 500 m. a nord e a 750 m. a sud.

    Vengono poi qua e là alberi da frutto svariati, tra cui il più diffuso è il pero (piras, pirastu se inselvatichito) e gli aranci, questi ultimi come coltura oasistica. Due piante americane, il Fico d’ìndia (Opuntia ficus indica, chiamata figu morisca) e l’Àgave, hanno trovato ambiente propizio e si sono naturalizzate servendo largamente come siepi, specie in regioni povere di pietre, come, per esempio, l’Orista-nese. Ambedue sono diventate elementi integranti del paesaggio botanico, specie nel Campidano e nel Sulcis.

    Il Fico d’india fornisce inoltre i frutti e i fusti carnosi per il bestiame e con le sue vigorose radici smuove il terreno.

    Da ricordare anche l’Eucalipto che si è largamente diffuso negli ultimi decenni per la formazione di fasce frangivento nelle zone di bonifica, come in quella di Arboréa e per la costituzione di boschi in zone pianeggianti poco fertili del Campidano mediano e occidentale allo scopo di ricavarne cellulosa.

    Infine il Pino d’Aleppo (Pinus halepensis) e il Pino domestico (Pinus pinea) che trovano condizioni ambientali assai favorevoli, sono stati diffusi a formare belle pinete in molte zone costiere e particolarmente nelle fasce litoranee di Santa Margherita di Pula, di Quartu, di Arboréa, di Porto Pino e di Santa Caterina di Pittinuri.

    La fauna

    Come la flora anche la fauna sarda presenta caratteri particolari che la distinguono nettamente da quella delle altre regioni italiane perchè anche più che sulle piante hanno influito sugli animali da un lato l’isolamento fisico della regione e dall’altro gli apporti provenienti dai continenti circostanti e pervenuti nell’isola per la sua speciale posizione attraverso antichi collegamenti interrottisi in epoche diverse.

    Anche dal punto di vista faunistico, dunque, la Sardegna è regione di commistione e di incontro di elementi diversi. Si spiega così il fatto che la fauna sarda, mentre presenta numerose specie endemiche e particolari che hanno affinità con forme viventi oggi in terre assai lontane, manca completamente di altre specie o addirittura di interi gruppi di animali che sono invece abbondanti nelle terre vicine e prima di tutto nel continente europeo.

    Peraltro la mancanza di alcune forme, viventi oggi nelle terre contigue, è dovuta alla loro estinzione avvenuta in Sardegna in varie epoche dell’èra quaternaria come attestano i loro resti, ad esempio, quelli del cervo e della marmotta. Ciò si è verificato in epoca più antica per la talpa, la lontra, l’orso, una specie di lupo, il tasso, lo scoiattolo e una bertuccia simile a quelle che si trovano a Gibilterra. E scomparsa invece in epoca recente un’altra scimmia affine alla bertuccia (Ophtalmomegas Lamarmorae) alla quale secondo alcuni si riferisce un passo di Procopio che, parlando della Corsica, afferma che in essa « nascono scimmie di aspetto simile a quello dell’uomo » e che sembra raffigurata in alcuni amuleti di bronzo degli antichi Sardi. Sono pure scomparsi un grosso roditore (Prolagus sardus) con aspetto e abitudini di lepre e mole di topo, vissuto insieme all’uomo neolitico ricordato da alcuni autori classici (è forse il Koniklos di Polibio) e persistito nell’isola di Tavolara fino al XVIII secolo nonché il cavallo selvaggio affine a quello esistente oggi nelle steppe dell’Asia centrale che, scomparso sul continente europeo in epoca preistorica, è rimasto in Sardegna fin verso il 1700.

    Ma molte altre specie mancanti nell’isola e presenti invece nelle terre circostanti, rappresentano delle vere lacune faunistiche in quanto non sono mai pervenute in Sardegna essendosi interrotti, soprattutto in conseguenza della scomparsa della Tirrenide, dei ponti continentali prima della diffusione di molti animali. Così si ritiene che quasi la metà delle specie di Mammiferi di cui la Sardegna è priva ed esistenti sul continente, non vi abbiano mai messo piede, anche se parecchie di esse sono arrivate in Corsica. Lo- stesso si deve dire di molti Rettili, Anfibi e Insetti nonché di alcuni Uccelli, per quanto questi, data la loro maggiore mobilità, presentino minori differenze rispetto alle altre forme europee. Peraltro è degna di nota la mancanza del passero comune (Passer domesticus Italiae), presente in Corsica, sostituito dal Passer hispaniolensis, come pure quella della Starna, della Cappellaccia, del Gufo, della Gazza, del Barbagianni e del Picchio. Lacune importanti sono fra i pesci d’acqua dolce quelli del Pesce persico, del Luccio, della Carpa e della Tinca, queste ultime però introdotte di recente in alcuni fiumi del Campidano e nello stagno di Cagliari. Dei Rettili, oltre all’Orbettino e al Ramarro manca soprattutto la Vipera, come ogni serpente velenoso, e fra gli Anfibi non esistono la Rana, il Rospo volgare (mentre esiste il Rospo verde) la Salamandra e i Tritoni comuni, anzi è da ricordare che la Sardegna è l’unica regione europea in cui manchino rappresentanti del genere Rana. Non si trovano neppure molte specie comuni di invertebrati, come il Granchio e il Gambero di fiume tra i Crostacei e il Maggiolino e il Cervo volante tra gli Insetti.

    Pertanto la fauna sarda attuale è costituita anzitutto da elementi suoi propri, (parte autoctoni e parte diffusisi dei vicini continenti) e inoltre da numerosi altri elementi provenienti dai paesi circostanti attraverso passaggi in varie direzioni. Dal ponte costituito, come altrettanti piloni, dalla Corsica e dalle isole dell’Arcipelago toscano, sono passati gli elementi europei occidentali, e da un probabile col-legamento con l’Africa settentrionale, son pervenuti altri elementi che si ritrovano in entrambi i paesi, mentre più problematico appare un raccordo con la penisola iberica attraverso le Baleari. Comunque il Dehaut, ritenendo che le cosiddette specie caratteristiche non sono altro che specie invecchiate e aventi l’ultimo rifugio nel massiccio sardo-còrso, assegna alla fauna delle due isole una facies iberico-africana, dovuta ad antichi collegamenti con le terre circostanti dell’Africa settentrionale e dell’Iberia. Pervenute nell’isola e rimastevi a lungo, tutte queste specie si sono via via evolute e modificate per diminuzione della statura, acquisizione di colorazione diversa e di altri caratteri particolari, il che ha portato alla formazione di varietà e specie endemiche assai numerose, ignote alla fauna continentale: si pensi che almeno un centinaio di specie endemiche si trovano fra i soli Insetti.

    Caratteristica è soprattutto la riduzione della statura, propria del resto di tutte le faune insulari, per cui gli animali viventi nell’isola sono più piccoli dei loro congeneri continentali, come si può facilmente constatare per il somaro, il minuscolo somarello sardegnolo (dinu, burriccu, molenti, bestiolu), nel cavallo, nella lepre, nel cinghiale.

    Fra i Mammiferi la più nota specie endemica è il Muflone (Ouis musimon, in sardo murvoni), magnifica pecora selvaggia con grandi corna semplici e ritorte nel maschio e quasi mancanti nella femmina. Esso si trova in piccoli branchi, oggi in numero ridotto, nelle parti più alte delle montagne centrali da Bitti al Sàrrabus, ed è assente in tutto il resto dell’Europa tranne la Corsica, ove esiste una specie affine si trova pure a Cipro e nell’Atlante marocchino. Piuttosto rari sono ormai il Cervo corsicano e il Daino, chiamato impropriamente cabriolu, ormai scomparso da tutto il continente e da tutte le altre isole e il Gatto selvatico (Felis lybica sardoa) diverso da quello italico per avere le orecchie munite di un ciuffetto di peli. Da ricordare sono invece il Cinghiale, con una varietà che alcuni considerano specie a parte, la Donnola dai piedi rossi (Mustela boccamela), la Màrtora assai ricercata per la pelle, una varietà di Volpe, il Ghiro (Pachiura etrusco) chiamato impropriamente Scoiattolo, e comunissimi la Lepre, di dimensioni più piccole di quella continentale perchè di diversa specie (Lepus mediterraneus) affine all’africana, e il Coniglio selvatico in tutto simile a quello europeo e frequente soprattutto nella Sardegna meridionale.

    L’avifauna presenta pure particolarità interessanti per quanto varie specie prima ritenute esclusive della Sardegna, siano state poi trovate anche altrove.

    Fra queste sono il Grifone, l’Avvoltoio nero e l’Avvoltoio barbuto, ormai scomparsi dal continente italiano e che si trovano sulle montagne, insieme all’Aquila reale, all’Aquila del Bonelli e al magnifico Falco della Regina (Falco Eleonorae) dedicato alla Giudicessa Eleonora d’Arboréa che ne riserbò a sè sola la cattura e l’uso come falco da caccia. Da ricordare è anche la Pernice sarda (Alectoris rufa) chiamata per-dixi, mancante nel resto d’Italia ma presente nell’Africa settentrionale, diffusa in tutta l’isola e principale preda dei cacciatori sardi e continentali che, insieme ai bracconieri, ne hanno ridotto assai il numero negli ultimi anni, come purtroppo è avvenuto per tutta la selvaggina stanziale.

    Abbondanti sono poi tutti gli uccelli di passo che proprio alla Sardegna si appoggiano nelle loro migrazioni e tra cui spiccano i Colombacci, le Quaglie, (dette circuri o trepedré), i Merli (meurra) e i Tordi (trudu) catturati a migliaia e particolarmente i Palmipedi e i Trampolieri che popolano in grandi stormi gli stagni costieri, frequentati fino ad epoca recente anche dai Fenicotteri (gente arrùbia) dalle lunghe gambe rosse.

    Mufloni.

    Il minuscolo asinello sardegnolo, prezioso ausiliario dell’uomo.

    Una delle foche viventi nella grotta del Bue Marino.

    Fra i Rettili, di cui l’isola è poverissima, sono specie caratteristiche la Tartaruga marginata (Testudo marginata) che raggiunge i 40 cm. di lunghezza e che manca nel resto d’Italia, alcune specie di Lucertole (Lacerta sarcloa, nel Gennargentu, e Lacerta Fitzingeri) e tra gli Ofidi un bel serpente giallo con macchie nere, lo Zamenis hippocrepis assente nella penisola e comune invece a Pantelleria e in Africa e una varietà particolare di biscia d’acqua (Natrix natrix Cetti).

    Anche tra gli Anfibi le specie caratteristiche non mancano: basta solo ricordare il Discoglosso (Discoglossus pictus), assente o rarissimo nel continente ma comune anche in Sicilia, il Tritone del Rusconi, lo Spelerpes fuscus, che si trova nelle grotte di molte parti d’Italia ma mai al di fuori di esse, come in Sardegna e varie altre.

    Anche degli Invertebrati la Sardegna presenta specie endemiche particolari e manca di interi gruppi che pure si trovano nelle terre vicine: non vi mancano però purtroppo, le Locuste o Cavallette che a intervalli invadono in fitti sciami coltivi e pascoli producendo gravi danni, come appunto è avvenuto nel 1946-47, quando hanno costretto ad una campagna antiacridica con sostanze tossiche che hanno provocato gravi danni alla selvaggina.

    La fauna marina non può avere, naturalmente, aspetti altrettanto originali, dato che i pesci che popolano le acque circostanti all’isola sono quelli comuni a tutto il Mediterraneo. E tuttavia anch’essa offre motivi interessanti sia per la presenza di alcune forme rare di Mammiferi marini, come una specie di foca (Monachus monachus) chiamata Bue Marino che si trova sulle coste rocciose orientali in grotte dette appunto « del bue marino », sia soprattutto per l’abbondanza e la grossezza delle specie, di cui molte pregiate e oggetto di pesca attivissima: dentici, orate, triglie, muggini tra i Pesci e le aragoste tra i Crostacei, si trovano soprattutto nelle acque settentrionali e orientali dell’isola, mentre lungo i litorali occidentali dal nord verso il sud si svolgono le migrazioni dei Tonni, che vengono catturati in buon numero, e si trovano estesi banchi di coralli, oggetto un tempo di pesca attiva.

    La fauna sarda ha dunque, più che in ogni altra regione italiana, un duplice motivo d’interesse: anzitutto dal punto di vista biogeografico, in quanto espressione di particolari vicende paleogeografiche e di determinate condizioni ambientali, e in secondo luogo sotto l’aspetto economico, in quanto dà luogo a due attività importanti, la caccia e la pesca, esercitate attivamente sia da Sardi che da continentali con notevoli riflessi antropogeografici, specialmente nei riguardi della pesca.

    Vedi Anche:  Rete idrografica, fiumi, laghi e serbatoi