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Densità ed emigrazione della popolazione

    Il popolamento e la sua evoluzione

    Le vicende del popolamento

    Gli storici, basandosi in verità su elementi assai tenui, ritengono che al principio dell’èra volgare la popolazione deirisola si aggirasse sui 300.000 abitanti cui corrisponde una densità media di 12 ab. per kmq. Pur con questa popolazione di tanto inferiore a quella attuale, la Sardegna appariva in età antica più popolata di quanto non lo sia ora, nel confronto con le altre regioni italiane, in quanto si vàluta che l’Italia continentale contasse allora non più di 6 milioni di abitanti e che la Sicilia ne avesse soltanto 600.000. Si può ammettere che per tutta l’età romana non si sia verificato in Sardegna un incremento demografico notevole e che la distribuzione della popolazione e la densità dei centri abitati quale si presentavano nella tarda età imperiale non abbiano subito delle modificazioni importanti anche dopo la caduta dell’Impero romano, perchè come è stato già ricordato, le invasioni barbariche non investirono la Sardegna con l’intensità che si verificò nei vicini continenti.

    La breve occupazione dei Vandali, come quella dei Bizantini, non apportò modificazioni importanti nella struttura demografica ed economica dell’isola.

    Quando però sul principio del secolo VIII ebbero inizio le plurisecolari scorrerie degli Arabi e poi dei Saraceni che per secoli si abbatterono sulle coste dell’isola, ebbe inizio la graduale diminuzione del numero degli abitanti e soprattutto avvennero delle modificazioni profonde nella distribuzione della popolazione, in seguito allo spopolamento delle regioni costiere e delle pianure anche per il progressivo aggravarsi della malaria e per l’addensarsi della popolazione nelle zone interne e più elevate.

    Le lotte scoppiate tra Genova e Pisa per il predominio economico e politico in Sardegna, se portarono ad un graduale impoverimento dell’isola, non ebbero gravi conseguenze sull’entità e la distribuzione della popolazione dato che le due repubbliche si combatterono soprattutto sul mare.

    Le condizioni della Sardegna divennero più gravi quando su di essa si affermò airinizio del XIV secolo il dominio degli Aragonesi che dopo aspre e lunghe guerre istituì, come si è visto, un rigido sistema feudale a favore di stranieri. A questi sconvolgimenti economici e politici si aggiunsero gravi epidemie di peste, da quella violenta del 1348 a quella del 1376 e al tremendo morbo del 1403, nonché la forte ripresa della malaria che causò l’ulteriore spopolamento di coste e pianure onde moltissime ville e villaggi furono abbandonati dai loro abitanti e successivamente andarono distrutti.

    La diminuzione del numero degli abitanti non fu però continua, ma ebbe dei momenti di particolare gravità in occasione di pestilenze, carestie o altri eventi, così che al primo computo della popolazione indetto nell’isola dal governo aragonese (1483) si contarono appena 150.000 abitanti con una densità di soli 6 abitanti per kmq. E la cifra più bassa che si conosca per la popolazione sarda, ma si può ritenere che sia anche la più bassa raggiunta, essendosi indetto quel censimento in uno dei periodi più tristi della storia della Sardegna. Secondo uno studio del Loddo-Canepa, dei 673 centri abitati esistenti in Sardegna al principio del XIV secolo, ben 305 andarono distrutti nei tre secoli successivi, cifra eccezionale, anche se la maggior parte di questi centri scomparsi erano di piccola entità.

    Intorno alla metà del XVII secolo, una certa tranquillità nelle vicende politiche favorisce il graduale aumento della popolazione e il risorgere di molti centri abbandonati. Nel 1603, in occasione del secondo computo per «fuochi» eseguito dal governo spagnolo, si contarono nell’isola 266.700 ab. (11 per kmq.) e ad un terzo computo fatto dopo 75 anni, nel 1678, il numero era salito a 301.680. Appena un decennio dopo però, a causa di gravi carestie ed epidemie, i fuochi erano ridotti a 61.645 (247-78o ab.). Verso la fine del secolo si ebbe tuttavia una sicura ripresa confermata da un’ultima numerazione spagnola che accertò la presenza di 66.768 fuochi (270.000 ab. cioè 11 per kmq.), epoca dalla quale si ebbe successivamente un aumento costante.

    L’incremento della popolazione si affermò e progredì già durante il XVIII secolo, dopo il passaggio dell’isola al Piemonte per effetto dei provvedimenti presi dal governo piemontese per risollevare l’economia della Sardegna. Particolari effetti sulla distribuzione della popolazione ebbe la notevole opera di colonizzazione guidata che ebbe inizio con la cessione delle terre spopolate a chi si fosse assunto l’obbligo di coltivarle e con l’invito rivolto a coloni italiani e stranieri a trasferirsi in Sardegna.

    A questa colonizzazione guidata si aggiunse quella spontanea da parte di pastori e agricoltori sardi nella Nurra, nella Gallura e nel Sulcis.

    Il primo censimento indetto dal governo piemontese (1728) rivelò che la popolazione della Sardegna era già salita a 309.994 ab.; il che significa che solo al principio del XVIII secolo l’isola riacquistò all’incirca il numero degli abitanti che aveva in età romana. Alla metà del secolo, nel 1751, il secondo censimento piemontese riscontrò 360.932 ab. e il terzo, effettuato nel 1782 ne trovò 436.759 cui corrispondeva una densità di 18 ab. per kmq.

    L’aumento della popolazione continuò senza interruzione, se pur con ritmo diseguale, durante tutto il secolo XIX; infatti se al censimento del 1824 si registrarono nell’isola 461.976 ab., verso la metà del secolo, nel 1846, al 5° ed ultimo censimento piemontese, il loro numero era salito a 543.207 e la densità a 22,5 ab. per kmq. Questo aumento si spiega cogli ultimi notevoli miglioramenti apportati nell’isola dal governo piemontese, con le opere di colonizzazione da questo intraprese con tanto coraggio, coi maggiori contatti che esso aveva reso possibili tra le popolazioni continentali e quelle isolane e col generale progresso dell’economia.

    In complesso, nei 133 anni intercorrenti tra il primo censimento piemontese e il primo italiano, cioè sostanzialmente durante l’unione al Piemonte, l’incremento medio annuo era stato del 6,7 per mille nettamente superiore a quello verificatosi nel periodo spagnolo, dal 1483 in poi, che fu solo del 4,3 per mille.

    Il primo censimento dell’Italia unita, eseguito nel 1861, trovò nell’isola abitanti 588.068 con una densità di neppure 25 ab. per kmq., ma dieci anni più tardi essi erano già 636.660, essendosi innalzato l’indice di incremento a 8,2 per mille.

    Lo sviluppo demografico continuò negli ultimi decenni del secolo scorso, sebbene si fosse sviluppata una certa emigrazione, dovuta a un diffuso disagio economico soprattutto in rapporto con la depressione dell’economia vinicola per l’infestione fillos-serica e alla rottura dei rapporti commerciali con la Francia. Cosicché la popolazione, raggiunti i 682.000 individui nel 1881, era salita all’inizio del 1900 a 791.754 (censimento del 10 febbraio 1901) e la densità era così passata da 28,4 a 33 ab. per kmq. L’aumento si mantenne ancora sensibile fin verso il 1914 tanto che al censimento del 1911 si registrarono 852.407 ab., con un incremento medio annuo del 7,6 per mille. Ma la prima guerra mondiale, con la forte mortalità per cause belliche e per il rincrudimento della malaria e la diminuzione delle nascite, segnò una netta battuta d’arresto, tanto che al i° dicembre 1921 si contarono nell’isola appena 866.681 individui con l’esiguo incremento medio annuo dell’1,6 per mille.

    L’incremento della popolazione sarda.

    Nel dopoguerra si aprì una nuova fase per la demografia sarda: la vigorosa ripresa della bonifica, il miglioramento delle condizioni economiche e il forte aumento della natalità provocarono un ingente e rapido incremento demografico (12,2 per mille tra il 1921 e il 1931 e un massimo del 12,6 per mille tra il ’31 e il ’36) che portò la popolazione a 973.125 ab. nel 1931.

    Il censimento del 1936 rivelò che la Sardegna ne quinquennio intercorso aveva finalmente superato il milione di abitanti (1.034.686 ab. e densità 42,7).

    Pertanto si deve constatare che in un secolo circa, tra il 1838 e il 1936, il numero degli abitanti della Sardegna si raddoppiò; ma, mentre nella prima metà di questo periodo l’accrescimento fu modesto, nella seconda metà divenne assai cospicuo tanto che per 4/5 si è verificato dopo l’Unità d’Italia e per 1/3 tra il 1921 e il 1936.

    Alla data del censimento del 1951 sono stati censiti 1.269.438 ab. residenti nell’isola, con un incremento medio alquanto inferiore a quello del periodo precedente (11,3 contro 12,6 per mille) per gli sconquassi provocati dall’ultimo conflitto. Successivamente, infatti, si è avuta una certa ripresa che ha portato la popolazione sarda a 1.419.362 ab. riscontrati dall’ultimo censimento del 1961 cui corrisponde l’accrescimento annuo dell’11,7 per mille.

    Così la Sardegna contiene oggi appena 1/35 circa della popolazione italiana, classificandosi per numero di abitanti al 13° posto tra le regioni d’Italia ed è, insieme al Trentino-Alto Adige, trascurando la piccola Val d’Aosta, la regione meno popolata, con appena 59 ab. per kmq.

    Questa grave scarsezza di popolazione, dovuta essenzialmente alle sfortunate vicende storiche, economiche e sanitarie, è stata a sua volta, secondo molti autori, una delle principali cause del tardivo e inadeguato sviluppo dell’isola.

    Si tratta, in effetti, di un circolo vizioso rotto solo di recente da massicci interventi esterni che hanno agito con iniziative di ampio respiro volte da un lato a migliorare le condizioni sanitarie e dall’altro a favorire le attività economiche mediante apporto di ingenti capitali.

    Il movimento naturale della popolazione e remigrazione

    Le vicende demografiche della Sardegna sono state sempre soprattutto in rapporto, come s’è detto, col movimento naturale per il quale l’isola ha un comportamento di spicco rispetto alle altre regioni italiane e profondamente diverso dalla media nazionale. Attualmente infatti la nostra regione è quella che, pur avendo la più bassa nuzialità (7 per mille contro l’8 dell’Italia intera), ha conservato per la sua alta fecondità un elevato indice di natalità (intorno al 23 per mille contro una media italiana del 18,4 nel 1962) per cui è preceduta solo dalla Campania, Calabria e Puglia e ha visto deprimere la mortalità a valori minimi (8 per mille di contro a 10 dell’Italia intera), specie dopo la scomparsa della malaria e la riduzione della mortalità infantile e della tubercolosi. Di modo che l’incremento naturale della popolazione mantiene forte entità (15,7 per mille, contro appena 9 della media nazionale) ed è solo di poco inferiore a quello della Calabria e della Campania.

    Tradotti in cifre assolute tali coefficienti significano che l’aumento naturale annuo della popolazione è di circa 21.000 individui, risultanti da un numero di nati di 32-33.000 unità da cui sono da togliere oltre 11.000 morti.

    Non è stato, peraltro, sempre così. Infatti, una scorsa alla serie degli indici demografici dell’ultimo secolo permette di constatare che, mentre fin verso il 1915 la loro entità si aggirò sostanzialmente sulla media italiana (32-33 per mille per la natalità, 21-22 per la mortalità e intorno all’11 per l’eccedenza) accompagnandone la ben nota, progressiva diminuzione, dal primo dopoguerra la Sardegna si comportò in modo sempre più differente da quello dell’intera Italia e della maggior parte delle altre regioni. Mentre queste ultime, cioè, videro diminuire progressivamente il valore dei tre indici alle esigue cifre attuali — con la sola fallimentare parentesi bellica e la successiva momentanea ripresa — la Sardegna ha mantenuto le sue posizioni con alte natalità e mortalità più accentuata fino al secondo conflitto mondiale, superato il quale i due indici si sono andati flettendo: sensibilmente quello della natalità, passata dal 27 per mille del 1925 al 23,4 del 1961, ma più nettamente quello della mortalità dimezzatosi in 15 anni (dal 14,5 al 7,7 per mille), sicché il tasso di incremento raddoppiatosi rispetto alla fine dello scorso secolo, è rimasto su posizioni elevate, pur accennando ad un lieve declino (da 16,2 a 15,7 per mille ab.).

    È da notare per inciso che, se la natalità degli illegittimi si aggira sulla media italiana (2,3 per mille), oltre il 90 per cento degli illegittimi stessi viene riconosciuto dai genitori. E facilmente prevedibile che la constatata diminuzione dell’eccedenza procederà perchè, mentre la mortalità ha raggiunto ormai il valore minimo non più suscettibile di sensibile riduzione, la natalità dovrebbe continuare, sia pur lentamente, a contrarsi. Si è verificato insomma, nell’ultimo dopoguerra, un cambiamento importante del regime demografico isolano: mentre fin verso il 1945 la popolazione sarda aveva un movimento naturale a regime antieconomico con forte natalità e forte mortalità, proprio dei gruppi economicamente e socialmente poco progrediti, successivamente, per il progresso economico e sanitario conseguito, il regime demografico ha preso netta tendenza verso un tipo economico. Il ritardo con cui questo cambiamento è avvenuto rispetto all’Italia centro-settentrionale, è in rapporto con l’attardamento insulare e non solo sotto l’aspetto economico sociale, ma anche — e fortunatamente — in senso psicologico e morale.

    Distribuzione della densità della popolazione nel 1861.

    Distribuzione della densità della popolazione nel 1951.

    Tuttavia le caratteristiche demografiche presentano differenze sensibili nelle tre province isolane e più che per la mortalità, che ha valori abbastanza livellati, per il quoziente di natalità che, pur essendo ovunque in diminuzione, raggiunge i livelli massimi nella provincia di Cagliari (col 24 per mille circa), cui seguono quelli della provincia di Nuoro (21,6) e infine quelli della provincia di Sassari, dove la natalità è minore (21,4). Varia in conseguenza il quoziente di incremento naturale, che dal 16,7 per mille del Cagliaritano, scende a meno di 14 nel Sassarese.

    Questa particolare distribuzione deH’incremento naturale è il fattore principale dei differenti caratteri che hanno avuto ed hanno nell’isola le variazioni quantitative della popolazione.

    Infatti l’emigrazione, a differenza di quanto è avvenuto in altre regioni italiane, è stata fino ad epoca recente assai scarsa, sicché non ha apportato modificazioni notevoli al quadro della popolazione. Ciò perchè i Sardi, dato il loro attaccamento alla terra natale e la bassa densità di popolazione, non hanno mai sentito il pressante bisogno di emigrare. Basta considerare che nell’ottantennio 1871-1951, la perdita complessiva per emigrazione è stata solo di 129.000 unità con una media di 1600 all’anno.

    Iniziatasi nella prima metà del secolo scorso con correnti di qualche consistenza verso l’Africa settentrionale (Algeria e Tunisia soprattutto) che portarono alla formazione di colonie etniche a Tunisi, Algeri e Bona, l’emigrazione fu assai limitata

    Andamento degli indici demografici dal 1871 al 1961 (medie quinquennali).

    fino agli ultimi anni dello stesso secolo (con un massimo di 265 individui nel 1886), allorché la grave crisi dell’agricoltura causata prima dalla chiusura del mercato francese e poi soprattutto dall’infestione fillosserica sviluppatasi tra il 1883 e il 1910, provocò un cospicuo aumento degli espatri, saliti bruscamente a 2500 e 2700 individui nel 1896 e 1897. Ebbe inizio allora il periodo migratorio più notevole, intensificatosi assai dal 1906, quando la fillossera raggiunse e distrusse i floridi vigneti del Campidano, e che durò fino allo scoppio del primo conflitto mondiale : si verificarono appunto in queirepoca, come del resto si ebbe — ma con intensità ben maggiore — nel resto d’Italia, le punte massime degli espatri, con 11.659 unità nel 1907, 10.663 nel 1910, 12.274 nel 1913. Tranne che in alcune annate, e soprattutto nel 1910 e nel 1913, quando prevalse l’emigrazione transoceanica, la maggior parte degli emigranti si diresse verso gli altri paesi del Mediterraneo e in minor misura verso l’Europa occidentale e verso le Americhe. Dopo la parentesi della guerra, l’emigrazione riprese alquanto, ma dopo un massimo di 6621 individui nel 1920 scese alla modesta aliquota di 2-3000 unità fino al 1927 (1041 persone) dopo il quale venne praticamente a cessare riducendosi a poche decine di persone. Dal 1955 però si è avuta una netta ripresa (5683 individui nel 1957), causata sempre da motivi economici, sicché le partenze sono salite a quasi 10.000 individui all’anno, specialmente dalle province di Cagliari e Sassari, indirizzate per i due terzi verso la Germania occidentale, la Francia e la Svizzera.

    Gli espatri sono avvenuti particolarmente nell’Iglesiente-Sulcis, nel Sarcidano, neirOristanese, nel Logudoro, il che è motivo di preoccupazione essendosi così verificata una decurtazione della disponibilità di mano d’opera necessaria per lo sviluppo dell’agricoltura e dell’industria, già iniziato, ma attualmente il numero degli emigrati sembra sceso a 4000 unità circa.

    Si noti che la Sardegna si trova oggi al penultimo posto tra le regioni italiane per numero di espatri verso paesi extraeuropei che sono stati appena 215 nel 1961 e 108 nel 1963. E da notare poi che, oltre ad essere assai limitata, l’emigrazione sarda è stata anche povera, in quanto formata essenzialmente da braccianti e minatori, sicché non ha portato all’isola i benefici dei quali godettero altre regioni meridionali.

    Influenza maggiore ha avuto senza dubbio lo spostamento di molti Sardi verso le altre regioni italiane. Si tratta però di trasferimenti malamente precisabili per la scarsità e la lacunosità della rilevazione statistica. Tuttavia, osservando nei censimenti la differenza tra il numero dei Sardi residenti in Sardegna, ma temporaneamente assenti, e quello dei Sardi censiti in altre regioni, Assunto Mori potè ricavare il numero di quelli che avevano lasciato definitivamente l’isola: essi erano 17.135 nel 1901, 24.812 nel 1921 e 39.147 nel 1936, in gran parte funzionari, militari e domestici. Nel 1951 tale cifra era salita a 45.047, cioè più che raddoppiata in un cinquantennio, ma occorre considerare che il loro numero è certamente superiore a quello espresso nelle statistiche e che negli ultimi anni il flusso migratorio verso altre regioni italiane è considerevolmente aumentato.

    Varie parti della Sardegna centro-meridionale e specialmente le zone minerarie, quelle montane e quelle allora malariche, nonché alcune parti del Sassarese con agricoltura povera, hanno dato il maggior numero di partenti uomini e donne (queste come domestiche) direttisi per lo più verso la Liguria, la Toscana, il Lazio, dove Romane accoglie buona parte; ma ultimamente l’attrazione maggiore è stata esercitata dai grossi centri industriali dell’Italia settentrionale, dove si trovano oggi oltre 100.000 Sardi. Si calcola che in complesso, nel decennio 1951-1961 abbiano lasciato l’isola 119.000 individui il che ha provocato in molti villaggi una grave diminuzione della popolazione.

    Alla scarsa emigrazione si è accompagnata fino ad oggi un’assai più modesta immigrazione dalle altre regioni italiane, tanto che il censimento del 1931 trovò in Sardegna ogni cento persone solo 3,4 nate in altro compartimento. Tale proporzione è di poco inferiore a quella media dell’Italia meridionale (3,8% contro il 10,7% dell’Italia settentrionale), ma si deve considerare che le altre regioni meridionali e insulari non attirano immigrati per la loro forte densità demografica, il che non si ha invece in Sardegna. Tuttavia, con l’andar del tempo si sono infiltrati neH’isola gruppi di individui provenienti dalle altre regioni italiane circostanti, i quali, pur avendo in genere modesta consistenza numerica, rivestono particolare interesse per aver contribuito al ripopolamento delle coste, rinsanguando i paesi già esistenti e talvolta formandone di nuovi, costituenti delle vere colonie etniche.

    Il gruppo più importante è costituito indubbiamente da Siciliani, trasferitisi da tempo nella parte meridionale dell’isola e che, secondo la Terrosu Asole, conterebbe oggi non meno di 20.000 persone. Iniziatasi in tono minore almeno fin dal secolo XVII, epoca alla quale risale la costituzione di una colonia siciliana di commercianti in un quartiere di Cagliari, l’immigrazione siciliana crebbe assai con lo sviluppo deH’industria mineraria e in particolare di quella carbonifera. Alcune migliaia di Siciliani, in gran parte minatori e artigiani, si sono trapiantati infatti dal 1936 in poi anzitutto a Carbonia e nei centri vicini e in minor numero nell’Iglesiente, provenendo sia direttamente dalla Sicilia sia nel dopoguerra dalla Tunisia e dalla Francia.

    Meno numerosa, ma assai attiva, è la colonia di Siciliani che si è costituita nelle campagne intorno a Cagliari e che è formata prevalentemente da agricoltori in proprio dediti alla coltura degli ortaggi e degli agrumi. Pochissimi invece sono i Siciliani dediti alla pesca, rappresentati da un piccolo nucleo che lavora nelle tonnare del Sulcis e risiede a Carloforte e a Calasetta.

    Soprattutto di pescatori sono formati altri gruppi con elementi pervenuti a cominciare dal secolo XVII ma soprattutto nell’Ottocento, in una prima fase dalla Liguria direttamente o di rimbalzo — come il gruppo di Carloforte — poi dalla Toscana e successivamente dal Napoletano. Da qui hanno avuto origine appunto attivi pescatori di corallo, aragoste a pesce azzurro pozzolani, torresi, e ponzesi ancor oggi ben distinguibili. Si calcola che oltre un migliaio di famiglie di pescatori, per 4/5 napoletane si sia in questo modo stanziata in diversi centri del litorale sardo e specialmente ad Alghero, a Carloforte, a Cagliari, a Golfo Aranci, a Porto Torres e a La Maddalena a costituire piccole ma interessanti colonie etniche cui si è aggiunto nell’ultimo dopoguerra il gruppo di pescatori Giuliani stanziatosi a Fertilia. Ma molti altri Napoletani esercitano attività commerciali nei principali centri dell’isola.

    Vedi Anche:  Lineamenti e forme del rilievo

    Per ultimo si sono aggiunti alquanti agricoltori veneti ed emiliani nelle due zone di bonifica di Fertilia e di Arboréa: in quest’ultima essi hanno formato un gruppo consistente e omogeneo.

    Infine si sviluppano nell’isola delle migrazioni interne che da una decina di anni a questa parte hanno assunto una certa importanza. Si tratta di spostamenti di una parte della popolazione verso le zone di bonifica, verso i litorali e soprattutto verso le principali città. Sia pure con un certo ritardo, ha preso infatti consistenza un popolamento di litorali, dove il numero degli abitanti è negli ultimi decenni più che raddoppiato, e un urbanesimo che ha attratto e attrae un numero sempre maggiore di rurali e paesani soprattutto verso Cagliari, Sassari, Núoro, Oristano, Olbia, Porto Torres, che hanno avuto perciò un forte e rapido aumento di popolazione, come vedremo più oltre.

    Le variazioni recenti della popolazione

    L’incremento naturale della popolazione e in via del tutto subordinata l’emigrazione e le migrazioni interne, disformemente distribuiti e verificatisi con fluttuazioni sensibili specialmente negli ultimi sessantanni, hanno provocato com’è naturale delle variazioni importanti della popolazione con aumenti o diminuzioni di entità localmente assai diversa. Confrontando i censimenti successivi e ricavando la media annua degli aumenti e delle diminuzioni di popolazione nei singoli comuni, si possono puntualizzare le situazioni verificatesi in vari periodi, che è importante considerare per rendersi conto della situazione attuale come punto di arrivo di una pluridecennale dinamica demografica. Così era stato possibile accertare che già alla fine del secolo scorso si erano verificati decrementi sensibili in molti Comuni del Sassarese pur con agricoltura redditizia, per il disagio causato dalla rottura delle relazioni commerciali con la Francia e viceversa si era notato un incremento demografico nelle regioni pastorali e in particolare in quelle votate all’allevamento ovino o da esso conquistate. Altre parti con popolazione in aumento erano i Campidani e la regione mineraria dell’Iglesiente.

    Nel periodo 1911-1921, il numero dei Comuni con diminuzione di popolazione crebbe sensibilmente fino a comprendere oltre i 2/5 del totale sia per effetto delle perdite in rapporto col primo conflitto mondiale, sia a causa delle disagiate e in parte conseguenti condizioni economiche. Si venne precisando allora il paradossale contrasto che vede regioni fertili in via di spopolamento e regioni relativamente povere con popolazione crescente. Il cartogramma costruito in proposito dall’Asole mostra chiaramente che i decrementi si distribuivano lungo una fascia quasi continua che, partendo dall’Anglona e dal Logudoro giungeva attraverso la Planargia, il Gocéano

    e parte del Montiferru, al Campidano di Oristano da dove proseguiva per la Marmala e la Trexenta, fino al Gerréi con diramazioni da un lato all’Ogliastra marittima e dall’altro allTglesiente settentrionale. Qui si ebbero le diminuzioni più gravi che furono provocate dalla disoccupazione conseguente alla chiusura di numerose miniere avvenuta nell’immediato dopoguerra; ma per le altre parti il depopolamento e la stasi (che interessò oltre la metà dei Comuni) fu dovuta alle perdite causate dalla guerra e dalla epidemia di spagnola, nonché a migrazioni interne e ad emigrazioni causate dalla disoccupazione diffusa nelle principali zone agricole italiane. Circa un terzo dei Comuni presentava un netto incremento demografico, particolarmente notevole nel Campidano di Cagliari, in quello di Oristano, nel Sulcis, nel Nuorese e in minor misura in Gallura e nella Nurra.

    Variazioni della popolazione nel periodo 1951-61.

    Dopo questo momento di crisi demografica, la situazione andò via via migliorando, come fu riscontrato dai censimenti del 1931 e del 1936, sicché il secondo conflitto mondiale, malgrado abbia avuto per l’isola ripercussioni assai gravi non tanto per le distruzioni belliche (eccetto Cagliari e Olbia) quanto per lo sconvolgimento e l’interruzione delle linee di comunicazione interne ed esterne, non riuscì ad arrestare l’aumento delle popolazioni nella grande maggioranza dei Comuni. Infatti solo 24 di essi nelle zone più povere o di emigrazione tradizionale (Planargia, Montiferru, Comuni isolati della Barbàgia centrale e Nuorese), manifestarono un decremento e generalmente non grave. Scomparsa tra il 1936 e il 1947 la fascia di Comuni in decremento, il quadro demografico ha mostrato un notevole equilibrio quantitativo, messo in evidenza sempre dall’Asole : le ricche zone agrarie si ripopolarono con una intensità superiore in media al 100 per mille e così pure le zone minerarie, tra le quali soprattutto quella del Sulcis con formazione di nuovi centri abitati e del nuovo comune di Car-bonia, sorto nel 1938. Forti incrementi si verificarono pure nei Comuni con territori in via di bonifica (Campidano di Oristano, Baronie), con centri industriali, con scali marittimi e con le città principali per un incipiente urbanesimo. Anche le zone pastorali continuarono ad accrescersi numericamente sia pure con minore intensità. In complesso oltre la metà dei Comuni ebbero incrementi oscillanti tra il 100 e il 300 per mille e quelli in precedenza statici si ridussero da 200 a 49, cioè a poco più di un sesto del totale.

    Il censimento del 1961 ha permesso di constatare una ulteriore sensibile modificazione della situazione, in quanto il quadro delle variazioni di popolazione avvenute nel decennio 1951-61 ha segnato un parziale ritorno alle condizioni di trenta anni prima, dimostrando così che il generale miglioramento riscontrato nel quindicennio precedente era da mettere in rapporto con le normali, effimere leggi della demografia bellica e post-bellica. Il confronto dei relativi cartogrammi mette in evidenza che sono nettamente ricomparse le aree contigue di spopolamento del Mei-logu e del Sassarese, dell’Anglona, dell’altopiano trachitico di Villanova, del Monti-ferru-Planargia, del Màrghine e di una frazione della Parte Usellus cui si sono aggiunti il Montacuto, povero e segregato, la media Valle del Tirso, l’alta Marmilla e l’alta Trexenta e la parte mineraria del Sulcis, in crisi come altri Comuni minerari del Gerréi e dell’Iglesiente (minimo a Fluminimaggiore con 303 per mille). I decrementi sono per lo più inferiori al 100 per mille tranne che per il Meilogu e una parte del Sassarese, dove sono compresi tra il 100 e il 200 per mille per la doppia influenza della crisi dell’agricoltura tradizionale e dell’attrazione della città con una certa emigrazione. Miglioramenti importanti, peraltro, si possono notare per la parte orientale ove quasi tutti i Comuni barbaricini, nuoresi, ogliastrini presentano incremento continuo e di accresciuta entità (per lo più superiore al 100 per mille).

    Densità della popolazione nel 1961.

    Questo del resto si nota pure per i Campidani, quasi ovunque in forte incremento, particolarmente notevole nel Campidano di Cagliari e in quello di Oristano ove si supera assai anche il 300 per mille con massimi a Decimomannu (425 per mille), a Cagliari (327) e a Pula (395).

    Fatto importante è, dunque, la formazione di numerose aree periferiche di forte incremento di cui le principali sono appunto quelle di Cagliari e di Oristano, alle quali si aggiungono quelle del basso Sulcis, del basso Flumendosa, di Tortoli, di Orosei, di Olbia e della Nurra, zone tutte di bonifica e di valorizzazione recente con popolamento in pieno sviluppo, come avviene del resto in tutti i Comuni litoranei tranne poche eccezioni, come quella di Arboréa la cui bonifica è in via di ridimensionamento. Airinterno spicca il forte incremento del comune di Nuoro (399 per mille) dovuto al notevole aumento della popolazione cittadina.

    In complesso, prendendo per riferimento la situazione del 1911-21, il numero dei Comuni con popolazione in diminuzione si è ridotto nel periodo 1951-61 a poco più di 1/3 del totale (ma per metà dei Comuni con decremento minimo), mentre il numero di quelli in aumento è salito a 2/3 circa dell’insieme ed è salita anche l’entità degli incrementi essendo triplicato il numero dei Comuni con incremento superiore al 200 per mille. Così la precedente fascia longitudinale in via di spopolamento si è ridotta a una vasta chiazza raccolta a comprendere quasi tutta la parte nord-occidentale dell’isola, esclusi Sassari e la Nurra e la zona di Macomèr.

    Ma il comportamento delle tre province è assai diverso sia per l’incremento medio annuo della popolazione, massimo per quello di Cagliari (12,8 per mille) medio per Nuoro (10,3), minimo per Sassari (8,9) anche in rapporto con le constatate differenze del movimento naturale e di quello migratorio, sia per numero dei Comuni con popolazione in aumento e per l’entità dell’aumento stesso. Si pensi infatti che, mentre per le province di Cagliari e Nuoro press’a poco i 3/4 dei Comuni vedono aumentare la loro popolazione, nella provincia di Sassari essi sono poco più di 1/3 e per contro i 2/3 circa sono in via di spopolamento, che è generalmente piuttosto accentuato. Ciò perchè l’ampia zona di decremento, già constatata in precedenza, si trova per la maggior parte nella provincia di Sassari.

    Tutto sommato, peraltro, il bilancio è largamente positivo, sicché la popolazione dell’isola intera continua ad aumentare a ritmo ancora assai sostenuto. Le variazioni di popolazione già avvenute e in atto, dipendono in realtà sia dalle migrazioni interne sviluppatesi nell’ultimo decennio, sia da un processo di ridistribuzione della popolazione nell’isola, analogo a quello che si nota in quasi tutte le altre regioni italiane con varia intensità e articolato su tre direttrici fondamentali sviluppatesi in diversa proporzione: urbanesimo, popolamento o ripopolamento dei litorali, discesa della popolazione dai monti e dai colli alle sottostanti pianure bonificate e in via di profonda trasformazione dopo la scomparsa della malaria.

    La densità della popolazione e la sua distribuzione

    Al censimento del 1951, la Sardegna aveva una densità media di 52,9 abitanti per kmq., la più bassa tra quella delle regioni italiane, insieme all’altra del Trentino, situazione che è stata confermata dal censimento del 1961, per quanto la densità sia salita a 59 ab. per kmq.

    Naturalmente le tre province si comportano anche per questo aspetto in modo assai diverso, essendo minima la densità nell’aspra provincia di Nuoro (39 ab. per kmq.), alquanto inferiore alla media nella provincia di Sassari (51) e massima in quella di Cagliari (81). Ma, pur nell’ambito di ciascuna provincia, le differenze di densità sono assai più forti.

    Esaminando la carta della densità costruita dal Pinna sulla base dei dati del 1951, colpisce subito il forte contrasto esistente per questo aspetto tra la parte occidentale e quella orientale, che appaiono separate dalla linea corrispondente a 50 ab. per kmq. e che va con percorso tortuoso dal Golfo dell’Asinara a quello di Cagliari.

    Si osserva in particolare che su quasi tutta la parte orientale dell’isola si hanno non solo dei valori sempre inferiori alla media, ma si ritrovano anche le zone in cui si raggiungono i più bassi valori assoluti. Infatti tutta la parte centro-orientale della Gallura (esclusa la zona litoranea), l’altopiano di Buddusò e la zona del Monte Albo hanno densità compresa tra 15 e 25 ab. per kmq. appena, perchè si tratta di regioni in gran parte montuose, povere, quasi esclusivamente a pascolo e in minor parte a bosco. Un’altra estesa zona con densità inferiore a 25 ab. per kmq. occupa quasi tutto il versante sud-orientale dell’isola, cioè la parte orientale del Gennargentu, l’alto bacino del Flumendosa, l’Ogliastra (eccettuata la sua parte centrale) e il Sàr-rabus. Anche questa è una regione quasi ovunque montuosa che comprende le zolle calcaree sovrastanti il Golfo di Orosei, dove i Comuni di Urzulei e Talàna hanno le più basse densità di tutta l’isola (11 e 12 ab. per kmq.) e più a sud un’estesa zona scistoso-granitica nell’Ogliastra, nel Gerréi e nel Sàrrabus, regioni nelle quali l’ambiente naturale è ostile per la mancanza quasi totale di terreni coltivabili e perfino di buoni pascoli.

    Al di fuori di queste zone tutta la metà orientale della Sardegna ha densità di popolazione compresa tra 25 e 50 ab. per kmq.; due zone di maggiori densità si trovano in corrispondenza di Nuoro (oltre 75 ab. per kmq.) e della piana di Tortoli (90 ab. per kmq.). La zona di Nuoro si trova in una regione meno aspra di quella che la circonda e la densità elevata è in relazione con le maggiori possibilità che vi ha l’agricoltura (oliveti, vigneti) e in parte anche con lo sviluppo della città di Nuoro, dopo che il centro venne elevato a capoluogo di provincia. L’Ogliastra costiera ha un’altra plaga ad agricoltura intensiva nei colli di Lanusei, il che ne spiega l’elevata densità che però rapidamente si abbassa appena dai colli si sale sui monti circostanti.

    Invece ad occidente della linea di 50 ab. per kmq. le densità sono nettamente più elevate ed anzi si trovano da questo lato tutte le parti con oltre 75 ab. per kmq. mentre relativamente ristrette vi sono le aree con basse densità. La prima di esse si trova nella parte nord-occidentale e corrisponde all’altopiano di Villanova dove, nonostante l’altitudine modesta, la sola utilizzazione possibile è il pascolo permanente. Segue nella parte mediana il versante occidentale del Montiferru con contigua la penisola del Sinis. Un’altra zona poco popolata si estende lungo la parte meridionale del litorale del Golfo di Oristano col basaltico e nudo piano di Santadi e si continua a sud a comprendere la parte nord-occidentale dei Monti dell’Iglesiente aspri e brulli. Altra parte a densità molto bassa (meno di 25 ab. per kmq.) è quella centromeridionale del Sulcis e dei Monti di Capoterra, dove l’utilizzazione del suolo è assai estensiva e soprattutto a pascolo sicché la popolazione si è spostata di recente da un lato verso la zona mineraria dell’Iglesiente-Sulcis e dall’altro verso il Campidano, le due zone contigue di maggiori possibilità e di forte attrazione.

    Estesi e importanti sono invece i distretti ad elevata densità (oltre 100 ab. per kmq.). C’è anzitutto quello sassarese, con centro a Sassari che si stende fino a Porto Torres, l’Anglona e parte del Logudoro: si tratta di una zona che, costituita in gran parte dai fertili terreni calcarei marnosi, ha coltivazioni intensive di orti, vigneti e oliveti e che conosce un’attività industriale e commerciale in continuo sviluppo. L’incremento recente della popolazione, che qui è maggiore di quello medio dell’isola, prova che la vita economica vi attira una parte della popolazione delle zone vicine. Verso occidente la Nurra, per quanto meno densamente popolata, ha visto un notevole incremento in questi ultimi anni, soprattutto in seguito ai grandi lavori di trasformazione fondiaria. In una piccola zona circostante alla città di Alghero, attivo centro peschereccio e turistico, la densità supera ancora i 100 ab. per kmq.

    Il Campidano di Cagliari è l’altra zona di forte addensamento della popolazione, anzi la più estesa ed importante dell’isola: ricca di orti, vigneti, colture svariate, ha avuto anche in passato un’elevata densità, nonostante la malaricità che l’ha tormentata fino a pochi anni fa. Ma la forte densità è dovuta oltre che alla fertilità del terreno, anche alla presenza della città capoluogo dell’isola, che con la sua economia complessa ha costituito e costituisce un nucleo di forte attrazione per la popolazione della Sardegna centro-meridionale. Fertilità di terreni, vicinanza al capoluogo, facili comunicazioni hanno permesso anche la formazione di altri grossi centri assai vicini tra loro tra cui più importanti Quartu, Monserrato e Pirri. La densità, che supera i 100 ab. nel Campidano di Cagliari, rimane elevata (tra 75 e 100) in tutta la rimanente parte della pianura, soprattutto nel Campidano centrale con le contigue regioni della Trexenta e della Marmilla, nelle quali la fertilità dei terreni e la posizione in pianura o su morbide ondulazioni hanno portato da tempo ad una utilizzazione del suolo più intensa che altrove e perciò anche a più denso popolamento. Nel Campidano di Oristano, in una zona peraltro non molto ampia, i valori di densità superano ancora i 100 ab. per kmq., perchè si tratta di una parte che, come il Sassarese, è in via di rapido sviluppo economico e demografico.

    Nella parte costiera dell’Iglesiente e del Sulcis il forte addensamento della popolazione si deve quasi esclusivamente allo sviluppo dell’attività mineraria. Il territorio dell’Iglesiente infatti, dal punto di vista agrario è assai povero e non si presta a utilizzazioni proficue. Il Sulcis ha maggiori possibilità agricole, ma i suoi terreni di pianura sono ancora in corso di bonifica e di trasformazione agraria.

    Menzione particolare va fatta delle isole che circondano la Sardegna; di esse solo le maggiori hanno dei centri abitati e sono più o meno densamente popolate; delle rimanenti le più piccole sono del tutto disabitate e le altre, come Tavolara e Molara presso il Golfo di Olbia, Santo Stefano, Spargi, Ràzzoli, dipendenti da La Maddalena, ospitano stabilmente solo pochi abitanti.

    Tra le maggiori, Sant’Antioco ha una densità di 115 ab. per kmq. perchè l’isola ha visto la sua popolazione aumentare costantemente in quest’ultimo cinquantennio per lo sviluppo dell’agricoltura, della pesca e dell’attività del porto di Sant’Antioco Ponti, creato dal 1938 per l’imbarco del carbone del Sulcis. La vicina isola di San Pietro, interamente occupata dal comune di Carloforte, ha una densità ancora maggiore (145 ab. per kmq.) per la sua vivace economia agricola e peschereccia creata dall’attivo nucleo ligure.

    La Maddalena è fra tutte la più densamente popolata (555 ab. per kmq.) nonostante abbia un territorio quasi interamente roccioso; ma la cittadina si è sviluppata per cause del tutto artificiali, essendo sorta con la creazione della importante base navale. Nell’Asinara, la seconda per estensione fra le isole adiacenti alla Sardegna, la popolazione complessiva è di appena 833 ab., e la densità perciò non supera i 16 ab. per kmq. Ma a Caprera, dove risiedono solo 114 ab., la densità è di appena 7,1. In nessun’altra isola risiedono stabilmente più di 100 abitanti. In complesso gli abitanti delle isole adiacenti alla Sardegna erano 33.000 nel 1961.

    La distribuzione della popolazione sarda è in chiaro rapporto col rilievo. In linea di massima, gli abitanti si addensano nelle parti più basse e in particolare si constata che nella zona compresa tra o e 100 m., la cui superficie rappresenta appena 1/5 di quella totale, si raccolgono i 2/5 della popolazione e che oltre metà degli abitanti risiede a quota inferiore a 200 m.; poco più di 1/5 vive ad altitudine compresa tra 200 e 400 m. e meno di 1/4 a quote superiori a 400 metri.

    Un esame più attento rivela però che il numero degli abitanti non diminuisce gradualmente con l’altezza tanto è vero che, considerando la popolazione insediata a quote superiori a 300 m., si vede che se fra 300 e 400 m. vivevano nel 1951 106.397 ab- (8,3% del totale) e fra 400 e 500 m. se ne trovavano 96.709 (7,6%), nella fascia successiva, tra 500 e 600 m., si saliva nuovamente a 126.105 ab. (9,9%). Più in alto poi i valori riprendono a diminuire rapidamente: il 5,5% risiedeva tra 600 e 800 m. e appena l’1,5% a quota superiore agli 800 metri. L’altitudine media alla quale viveva la popolazione sarda era allora di 242 metri.

    Naturalmente, varia in conseguenza la densità della popolazione per le varie zone altimetriche, in quanto i valori più elevati (100,4 ab. per kmq.) spettano ovviamente alla zona più bassa; ma passando alla zona soprastante (100-200 m.), la densità si riduce a meno della metà. Nelle fasce altimetriche comprese tra 200 e 500 m., la densità si mantiene quasi invariata su valori che di poco superano i 40 ab. per kmq., cioè nettamente inferiori alla media, ma nella fascia successiva, tra 500 e 600 m., la densità risale fino a 69,4 ab. per kmq. Oltre i 600 m. la densità scende subito a valori piuttosto bassi, sempre al di sotto dei 25 ab. per kmq.

    Nella distribuzione altimetrica della popolazione della Sardegna possiamo dunque riconoscere due principali aree di addensamento: una prima rappresentata dalla fascia litoranea, in cui più numerosa è la popolazione, più fitti i centri abitati e più elevata la densità e una seconda, compresa tra i 400 e i 600 m. di altitudine, generalmente ben abitata anche in conseguenza della ben nota morfologia a ripiani del rilievo, che sono più sviluppati appunto in questa fascia altimetrica.

    Vedi Anche:  L'attività industriale e commerciale

    Però nelle diverse parti dell’isola si verificano condizioni molto diverse e talora perfino opposte, sicché la curva che rappresenta la distribuzione altimetrica della popolazione in Sardegna, deve considerarsi solo come una media dovuta alla compensazione delle variazioni altimetriche che nelle diverse regioni dell’isola si presentano con caratteri molto differenti, pur potendosene riconoscere alcuni ricorrenti con notevole frequenza.

    Si nota più in particolare quel che prima si è detto e cioè che la zona altimetrica relativamente più bassa non è sempre la più popolata, come invece si constata nella maggior parte delle regioni italiane. E presente, invece, con maggiore frequenza, una zona di concentrazione della popolazione nelle fasce di media altitudine oltre la quale si scende subito a valori molto bassi. E ciò non solo per la prevalenza in Sardegna delle forme tabulari favorevoli all’insediamento umano e all’insorgenza di centri abitati, ma anche per l’influenza delle vicende storiche che hanno contribuito a determinare l’addensamento della popolazione in queste zone elevate e l’abbandono delle parti più basse, per motivi di sicurezza e di salubrità.

    Distribuzione altimetrica dei valori percentuali della popolazione nei quattro anni indicati.

    Distribuzione della popolazione e della densità secondo la distanza dal mare.

    Sull’addensamento della popolazione interviene anche in una certa misura Vazione del mare data la natura insulare della regione, che si è fatta e si fa sentire, sia pure in diverso grado ed in diverso senso, su tutte le parti del territorio.

    Esaminando il modo con cui varia la densità della popolazione col progressivo allontanarsi dalla costa, si può constatare una grande analogia tra lo schema della distribuzione della popolazione secondo la distanza dal mare e quella secondo l’altitudine del rilievo. Infatti le più popolate sono le zone litoranee, con valori di densità superiori alla media, come già si è notato per le fasce altimetriche più basse ; si trova poi una brusca diminuzione tra i 15 e i 25 km. di distanza dalla costa e successivamente di nuovo un forte popolamento tra i 25 e i 30 km., che ha riscontro in quella zona di addensamento della popolazione tra i 500 e i 600 m. di altezza già notata in precedenza. A distanze maggiori la popolazione riprende a diminuire e quindi si hanno valori di densità sempre bassi ed inferiori alla media.

    In particolare la fascia litoranea entro i 5 km. dal mare, anche escludendo le isole minori, accoglie da sola circa un terzo della popolazione sarda e in complesso, entro una distanza non superiore a 15 km. dal mare risiedevano, nel 1951,722.284 ab. che rappresentavano quasi i tre quinti del totale. La parte rimanente della popolazione si trova a distanza maggiore, distribuita in modo quasi uniforme tra le varie zone fino a 40-45 km., fatta eccezione per la fascia di 25-30 km., che da sola accoglie quasi un decimo della popolazione sarda. In complesso tra i 15 e 30 km. dal mare risiedevano, nel 1951, 313.213 ab., poco meno di un quarto del numero complessivo, mentre nelle parti più interne si scendeva a un quinto appena e cioè a 240.526 abitanti.

    Lo stesso andamento ha rispetto alla distanza dal mare la densità della popolazione, in quanto la zona litoranea aveva oltre 84 ab. per kmq. (quasi una volta e mezzo quella media dell’isola nel 1951), mentre le fasce tra 5 e 10 e tra 10 e 15 presentavano valori di poco superiori alla media; poi la densità si flette, ma torna oltre la media in quella parte compresa tra 25 e 30 km. per poi scendere ai valori minimi nelle zone successive e specialmente tra 45 e 50 km. di distanza dal mare.

    L’attrazione del mare non si è però esercitata in egual misura nei quattro versanti principali in cui si può dividere il litorale della Sardegna: gli abitanti si addensano lungo la costa solo nella parte meridionale e occidentale, mentre nella parte settentrionale e orientale rimane piuttosto scarsa in confronto a quella che risiede nelle zone interne. Spicca su tutti il versante meridionale dove circa metà della popolazione risiede nella zona fino a 5 km. dal mare, e ciò non solo per la presenza della città di Cagliari, ma anche perchè sbocca proprio qui su ampio fronte il Campidano, su cui l’attrazione del mare si esercita intensamente per l’attività portuale ed industriale, per la possibilità di esercitare la pesca in acque vicine e lontane prospicienti questo litorale, e per la presenza di belle spiagge che hanno favorito lo sviluppo dell’attività balneare e l’industria del forestiero.

    Il versante orientale tirrenico, come si è già visto, è poco popolato e, pur vivendo un quarto della sua popolazione a meno di 5 km. dalla costa, ha pochissimi centri abitati a contatto col mare, tanto che fino ad un paio di chilometri dalla costa si trovano vaste zone quasi spopolate, e addirittura disabitato è in gran parte il litorale fra il Capo Carbonara e il Capo Bellavista. La presenza di coste alte e dritte difficilmente accessibili, la mancanza di porti, la scarsa pescosità del mare su cui si affaccia il litorale tirrenico della Sardegna sono le cause della debole attrazione che il mare vi ha esercitato. Nel versante settentrionale solo un sesto circa della popolazione vive nella zona più vicina al mare, e oltre a ciò nella fascia immediatamente successiva (5-10 km.) il numero degli abitanti si riduce ancora a metà. Infatti le coste del Golfo dell’Asinara e le zone sub-costiere della Nurra e della Gallura occidentale sono ancor oggi poco popolate. Notevole invece il numero di abitanti della zona tra 10-15 km in cui è situata la città di Sassari, e di quella tra 15 e 20 km entro cui sorgono numerosi piccoli centri.

    Infine il versante occidentale ospita nella zona costiera circa un quarto della popolazione totale, ma l’insediamento umano nella zona propriamente litoranea è assai disforme, in quanto accanto a tratti di costa in cui la popolazione si affittisce come allo sbocco del Temo e nell’ampia falcatura del Golfo di Oristano, se ne hanno altri scarsamente popolati o del tutto disabitati, come lungo le scoscese fronti litoranee del paese di Villanova, dell’Arburese e del Malfidano. Tuttavia è la costa occidentale che offre le maggiori possibilità di popolamento perchè il mare antistante è assai pescoso e le coste sono per estesi tratti facilmente accessibili. Numerosa è anche la popolazione della contigua zona di 5-10 km. (quasi 90.000 ab.). Il graduale popolamento del litorale, già iniziatosi da qualche decennio con l’insorgenza di molti piccoli centri nuovi, è la prova della forte attrazione esercitata dal mare in questa parte dell’isola.

    Però conta assai notare che la distribuzione della popolazione sarda in rapporto alla distanza dal mare, ora descritta in base ai dati del censimento del 1951, è notevolmente cambiata rispetto a quella ancora di mezzo secolo fa, quando si constatava che la fascia litoranea non era la più popolata, com’è invece oggi. Ciò perchè nel frattempo, si è verificato un graduale ripopolamento delle zone litoranee, dimostrato dal fatto che mentre nel 1861 la popolazione della fascia entro 5 km. dalla costa rappresentava solo un quinto di quella complessiva, nel 1911 essa era già salita ad un

    quarto e a tale data metà della popolazione viveva a meno di 15 km. dal mare, e i tre quarti entro i 30 km. Venti anni più tardi, nel 1931, questo fenomeno si presentava ancora più accentuato finché nel 1951 risultò insediato, sempre entro i 5 km. dal mare, quasi un terzo della popolazione dell’isola. Complessivamente la distanza media della popolazione dal mare è passata da 19,6 km. nel 1861 a 16,6 nel 1951, e si è verificato dunque un notevole, progressivo avvicinamento al mare, non più considerato un nemico, come in epoca medievale, poiché con la raggiunta sicurezza e salubrità delle coste si è mostrato fonte di prosperità per lo sfruttamento delle risorse che offre, sia con la pesca, sia con i traffici, sia soprattutto con l’attività ricettiva.

    Per ultimo tra le condizioni naturali che influiscono sulla distribuzione della popolazione occorre tener conto della natura geo-litologica del terreno. L’influenza di questo fattore si esplica anzitutto per le qualità proprie delle rocce stesse e del tipo di suoli che da esse hanno origine, e poi per il diverso comportamento delle rocce nei riguardi della circolazione delle acque (numero delle sorgenti, fittezza del reticolo idrografico) e della stabilità del terreno. Pur tenendo conto delle interferenze esercitate dal fattore altimetrico e dalla presenza di città, colpisce subito la bassa densità della popolazione sui terreni granitici e sugli scisti, di gran lunga inferiore a quella che si ha su ogni altro terreno, per la loro ben nota sterilità e per la mancanza per vaste estensioni granitiche di una coltre detrítica coltivabile. E interessante osservare che la densità della popolazione ha valori pressoché uguali sopra le due formazioni, cioè appena 28 ab. per kmq.

    La densità è bassa anche sui terreni calcarei mesozoici, peraltro poco estesi, tanto che le parti dell’isola in cui essi sono diffusi (Sardegna centro-orientale, dintorni del Golfo di Orosei) sono le più spopolate, anche per i loro caratteri altimetrici e morfologici.

    Alquanto inferiore alla media (42-43 ab. per kmq.) è anche la densità sui terreni vulcanici, trachitici e basaltici, specie tra il Golfo di Oristano e quello dell’Asinara, che accolgono in complesso una popolazione pari a poco più di un sesto di quella complessiva dell’isola.

    La densità presenta invece valori superiori alla media nelle formazioni cambriche (arenarie, calcari, scisti) considerate nel loro insieme, sia perchè singolarmente occupano una superficie molto piccola e sono tra loro variamente frammischiate, sia perchè presentano la caratteristica comune della mineralizzazione. La densità relativamente elevata (69,8) non si deve infatti a particolari vantaggi che questi terreni possono offrire rispetto ad altri dal punto di vista dell’utilizzazione del suolo, quanto piuttosto alla presenza di minerali di piombo e zinco che li accompagnano e che hanno dato luogo ad intensa attività mineraria.

    Anche l’elevata densità sui calcari e i conglomerati eocenici, estesi soprattutto nel Sulcis, si deve all’attività mineraria connessa alla presenza dei giacimenti carboniferi ivi esistenti. Sono quasi spopolati invece i terreni eocenici della Sardegna sudorientale.

    Valori ancora più elevati della densità di popolazione (oltre 92 ab. per kmq.) si riscontrano nelle alluvioni quaternarie, su cui risiede poco meno di un quarto della popolazione sarda. Tale valore però, non si presenta uguale in tutte le zone alluvionali e infatti si è già visto che il Campidano presenta densità maggiore di quella delle altre zone litoranee, prese nel loro insieme, alcune delle quali, del resto, nonostante presentino terreni di buona fertilità, rimangono ancora oggi scarsamente popolate. Nella stessa pianura del Campidano la parte orientale, più fertile perchè il terreno alluvionale vi è formato in gran parte dalla disgregazione di calcari miocenici, è più densamente popolata di quella occidentale dove le alluvioni derivano in prevalenza dalla disgregazione di rocce granitiche.

    Ma i valori massimi della densità (140 ab. per kmq.) corrispondono ai calcari marnosi miocenici, che danno terreni molto fertili e ben coltivati. E vero che su queste formazioni rocciose si trovano le due più importanti città della Sardegna, Cagliari e Sassari, che fanno aumentare assai il valore della densità, ma sta di fatto che anche escludendo questi due centri maggiori, la densità sui terreni marnoso-arenacei miocenici rimane pur sempre nettamente superiore alle altre.

    La composizione e le condizioni della popolazione

    Mentre nel complesso della popolazione italiana e in quella delle singole regioni — tranne forse la Val d’Aosta — il numero delle donne supera nettamente quello degli uomini, in Sardegna avviene il contrario: si ha cioè un’eccedenza di uomini pari a 1010 maschi circa per ogni 1000 femmine, contro 959 della media italiana. A questo particolare comportamento contribuisce senza dubbio il carattere dell’emigrazione che, mentre nelle altre regioni è rilevante e interessa soprattutto gli uomini, in Sardegna, almeno fino a pochi anni fa, è stata limitata ed ha interessato in larga misura la popolazione femminile. Anche per questo aspetto, peraltro, le tre province sarde si comportano diversamente perchè, mentre Cagliari e soprattutto Nuoro hanno il numero dei maschi superiore a quello delle femmine, a Sassari i due sessi sono praticamente in equilibrio: più precisamente i maschi hanno prevalso fino a pochi anni or sono tanto che il censimento del 1951 ne ha contati secondo la proporzione così ricordata; ma nel 1961 la situazione è già risultata invertita sia pure di pochissimo, proprio per influenza dell’emigrazione, più notevole nel Capo di Sopra.

    Anche riguardo alla struttura per età, la popolazione sarda si distingue da quella media italiana e da quella di molte altre regioni, demograficamente più evolute, perchè ha avuto fino ad epoca recente variazioni relativamente piccole. Infatti le classi più giovani, fino a 14 anni di età, hanno rappresentato per oltre un sessantennio, cioè dal 1871 fino al 1936 circa 1/3 (33,6%) dell’intera popolazione (mentre per l’intera Italia erano passate dal 32,5 al 30,6%) e dal canto loro le classi anziane di oltre 60 anni di età, si sono mantenute, per lo stesso periodo, sul 7,8% del totale tranne un certo aumento verificatosi tra il 1921 e il 1931.

    Ma dopo il 1951 la contrazione progressiva del numero dei nati e la rapida diminuzione della mortalità hanno causato un relativo invecchiamento della popolazione, mantenutosi però fino ad oggi inferiore a quello medio italiano e ancor più a quello di molte altre regioni. In effetti il censimento del 1951 ha trovato la percentuale dei ragazzi ridotta al 30,8%, ma nettamente superiore a quella media nazionale scesa a 24,4% e a quella del Piemonte e della Liguria contrattasi al 17,6% circa; e quella degli anziani aumentata dal 7,2 all’11,2% e avvicinatasi così alla media nazionale, pari al 12,2%. Anche la popolazione nelle età adulte — dai 15 ai 59 anni — ha flesso la sua entità dal 59,2 al 58% del totale sardo, rendendo così più basso il rapporto tra popolazione produttiva e popolazione improduttiva. Naturalmente le province sarde partecipano in misura diversa al processo di invecchiamento in rapporto con la loro differente dinamica demografica: Cagliari ha il maggior numero di giovani e il minor numero di anziani, Nuoro sta sulla media e Sassari invece presenta una proporzione di giovani assai minore (25,9%). Anche per questo aspetto il Capo di Sopra somiglia di più alle regioni dell’Italia centrale e settentrionale con caratteri demogeografici più evoluti.

    La scarsa proporzione di persone in età produttiva, influisce in parte sulla bassa percentuale della popolazione attiva, che secondo il censimento del 1951 costituiva solo il 34% della popolazione di oltre 10 anni di età: per poterne valutare l’esiguità, si deve pensare che la media nazionale era del 41,2%, che nel Piemonte essa raggiungeva il 48,3% e che perfino nella Basilicata era del 46% circa! Le cause di questo fatto, tanto più notevole ove si consideri l’elevato grado di ruralità della popolazione sarda, sono varie. Anzitutto la scarsissima partecipazione femminile all’attività economica svolta fuori della casa, tanto che nel 1951 appena il 9% delle donne risultava dedita ad attività produttive e facevano parte della popolazione attiva solo 15,4 donne ogni 100 uomini della stessa categoria, contro 33,5 dellTtalia intera. Per quanto queste cifre esprimano in maniera inadeguata la partecipazione femminile al lavoro agricolo e alle attività artigianali domestiche, sta di fatto che il lavoro femminile è scarsamente utilizzato per effetto delle remore imposte ancor oggi da usi e costumi tradizionali, per le limitate occasioni di lavoro connesse con la scarsa entità delle industrie manifatturiere e per i caratteri stessi dell’attività agricola che viene svolta per lo più lontano dalle dimore rurali, essendo queste raccolte nei paesi mentre le campagne sono in gran parte spopolate. Bisogna aggiungere però che anche la parte attiva della popolazione maschile è relativamente scarsa il che denota, secondo un’indagine del « Centro di cultura e di documentazione », un notevole grado di sottoccupazione e una crisi strutturale per cui non tanto è alto il numero degli individui in cerca di prima occupazione, quanto piuttosto quello dei piccoli o piccolissimi proprietari che si adagiano nella loro condizione accontentandosi di magre rendite, oppure di coloro che gravano a lungo sulla famiglia cercando di conseguire un titolo di studio per assicurarsi l’avvenire.

    Un sommario esame della composizione professionale della popolazione attiva al Censimento demografico del 1961, pur mostrando la considerevole evoluzione verificatasi dal 1951, quando all’agricoltura e alla pastorizia era addetta oltre la metà degli attivi, dichiara pur sempre la netta predominanza delle attività primarie (agricoltura e pastorizia) praticate dal 37,7% del totale considerato attivo contro il 31% delle industrie e il 31,4% delle altre attività.

    Ma nelle tre province la situazione è assai diversa: quella di Nuoro presenta la più netta fisionomia agricolo-pastorale, col valore massimo del 45,8% e ad essa seguono quella di Sassari, e molto alla lontana quella di Cagliari che raggiunge solo il 32,8% di ruralità.

    Quest’ultima ha quindi struttura economica più varia, col 33,6% degli abitanti attivi dediti ad attività industriali (in gran parte estrattive) e il 33,6% ad attività terziarie (commercio, amministrazione, servizi vari). Sebbene questi dati del 1961 siano approssimativi e malamente paragonabili con quelli di dieci anni prima, è indubbio che la struttura professionale della popolazione sarda, pur essendosi sensibilmente evoluta, si distingue ancora nettamente da quella media nazionale, che vede il 28,9% della popolazione in condizione professionale occupato nel settore primario, il 40,4% nel settore secondario e il 30,7% in quello terziario. Ciò significa che pur essendo, dunque, la situazione alquanto migliorata, nella maggior parte dell’isola la popolazione vive essenzialmente di agricoltura e di pastorizia e, eccettuate alcune zone della provincia di Cagliari, ancora nel 1961 non aveva occasioni per svolgere attività industriali che andassero oltre Tartigianato o la piccola industria. E di questo daremo precisazione e ragione più oltre, parlando della fisionomia economica della regione.

    Queste pur sommarie considerazioni permettono di rendersi conto del carattere delle condizioni economiche generali della popolazione sarda quali risultano dalla entità del reddito e dalla struttura dei consumi. Considerando il reddito medio, cioè il valore dei beni e dei servizi prodotti secondo i calcoli fatti dal Tagliacarne, ancora nel 1963 la Sardegna si classificava assai indietro nella graduatoria per regioni con

    288.000 lire a persona, in quanto solo Sicilia, Abruzzo, Puglia, Basilicata e Calabria presentavano redditi inferiori, assai distanti dalla media nazionale che era di 398.400 lire e soprattutto da quella delle regioni settentrionali, che raggiungeva il massimo in Lombardia con 568.000 lire. Ma la posizione della Sardegna era in realtà assai peggiore perchè il calcolo è fatto rapportando i beni prodotti al numero degli abitanti residenti il che può falsare in peggio i risultati per le regioni di forte emigrazione, queU’emi-grazione che invece in Sardegna è scarsa. Naturalmente le tre province sarde s’inscrivevano con un reddito alquanto diverso: massimo nella provincia di Cagliari (312.484 lire per ab.), medio in quella di Sassari (288.257 minimo in quella di Nuoro (che ha le minori risorse). Si tenga conto però che per quanto gli abitanti di molte province avessero un reddito unitario assai superiore (Milano, 747.000 lire), la situazione sarda era paragonabile a quella di varie province della stessa Italia settentrionale (Belluno, 299.000 lire) e di quella centrale (Perugia, 292.000 lire) in cui l’attività agricola è preponderante rispetto a quella industriale. E d’altra parte occorre dire che si deve procedere con grande prudenza nel confronto tra valori per regioni a struttura economica diversa e che risultano dalla considerazione di aspetti assai eterogenei.

    L’entità e la struttura dei consumi familiari sono indici più sicuri di quelli monetari per accertare le diversità regionali del tenore di vita e le condizioni economiche. Orbene, da un’indagine del «Centro di cultura e documentazione» è risultato che i consumi prò capite di generi alimentari primari sono nettamente inferiori alla media italiana. Così il consumo delle carni, che nel 1955 era di 22 kg. prò capite per tutta l’Italia, giungeva in Sardegna a soli 17 kg., costituiti in gran parte da carni poco pregiate, equine e soprattutto ovine in relazione con la prevalente economia agro-pastorale dell’isola. Inoltre è eccezionalmente basso il consumo dei prodotti ittici in rapporto con la tradizionale ritrosia dei Sardi per il mare e con la deficiente organizzazione della conservazione e distribuzione del prodotto. Ad appena metà della media nazionale ascendono i consumi prò capite dei grassi animali e perfino dei latticini e dei formaggi (2,23 contro 5,50 kg.) che però può dirsi non comprendere, per difetti di rilevazione, una certa aliquota di auto-consumi dei piccoli produttori agricoli e dei pastori. E noto infatti che per buona parte della popolazione l’alimentazione si basa sul pane (che vi partecipa con una percentuale superiore alla media nazionale), sui legumi e sui latticini: il ben noto gioddu, l’iogurth sardo, e i saporiti formaggi. Anche per le bevande alcooliche e per i servizi domestici (gas ed energia elettrica), il sottoconsumo sardo rispetto alle medie nazionali è assai netto. Si tenga conto, però, che la situazione cambia molto a seconda che si considerino i capoluoghi di provincia e gli altri Comuni.

    Vedi Anche:  Zone e città della Sardegna Settentrionale

    In complesso si deve riconoscere che la popolazione sarda, malgrado dei progressi sensibili che si sono verificati dall’anteguerra ad oggi nell’entità e nella struttura dei consumi, con un continuo miglioramento della loro composizione qualitativa e della posizione delle due province di Sassari e di Nuoro, ha un livello di consumi ancora basso sia in senso relativo che, soprattutto, in senso assoluto, in quanto la razione alimentare media dei Sardi ha un tasso energetico che supera di poco le 2700 calorie contro una razione normale di 3200. Questo dato risulta però dalla combinazione di situazioni molto diverse anche in famiglie appartenenti alle stesse categorie meno che per gli assegnatari delle zone di bonifica la cui razione si aggira sulle 3000 calorie: tra i contadini si passa dalle 3450 calorie giornaliere di Aggius alle 2600 di Elmas; tra i pastori dalle 3942 pure di Aggius alle 2207 di Meana ma valori minimi impressionanti si raggiungono tra gli artigiani dove si scende a 2344 e perfino a 1670 calorie!

    Ma la effettiva entità del livello di vita è data piuttosto dai consumi non alimentari (consumo di energia elettrica, livello della motorizzazione, densità degli apparecchi radiotelevisivi, spesa per tabacchi e spettacoli) per i quali la Sardegna ha posizioni assai arretrate e in particolare la provincia di Nuoro occupa, insieme a Potenza, l’ultimo posto con un indice di 34 (fatto uguale a 100 quello dell’Italia) contro 180 di Milano e 166 di Roma. E da rilevare, però, che progressi sensibili sono stati fatti negli ultimi tempi: basti pensare che il consumo di energia elettrica per illuminazione e applicazioni domestiche è passato dal 14,3% del totale nel 1948 al 21,1% del 1958 e al 27,4% del 1961, che il numero dei motocicli in circolazione è salito da 1588 a 55.100 nel 1961 e quello delle autovetture da 3723 a 33.819.

    La limitata gamma dei consumi che fino a pochi anni or sono si offriva e in parte ancor oggi si offre alla popolazione e la tradizionale parsimonia, spiegano la relativamente elevata entità del risparmio: infatti se in senso assoluto essa è modesta (12.000 lire per ab. all’anno contro 25.000 lire della media nazionale), non è trascurabile in senso relativo, in quanto su 1000 lire di reddito prodotto se ne risparmiano 56 contro 87 del Piemonte.

    Espressione dei basso livello di vita complessivo è la cattiva condizione delle abitazioni, comprovata dal fatto che l’apposita indagine eseguita sulle case rurali prima della guerra passata ha trovato che circa un quarto di esse doveva essere demolito o aveva necessità di grandi riparazioni. Ma anche nelle città una parte non trascurabile delle abitazioni era nelle stesse condizioni e, a parte i quartieri nuovi ricostruiti, numerose sono quelle costituite dai sóttani, posti al piano terreno o negli scantinati, parzialmente sotto il livello delle strade, in cui alla comprensibile grave insalubrità si aggiunge la deficienza dei servizi igienici e un deleterio sovraffollamento. A proposito di quest’ultimo fenomeno, si tenga presente che su 258.698 abitazioni censite nel 1951 in Sardegna, un terzo è stato riconosciuto affollato e un quarto sovraffollato, cioè con stanze occupate in media da più di due persone ciascuna!

    La povertà diffusa, il prevalere dell’agricoltura e della pastorizia col conseguente prematuro avvio al lavoro di molti ragazzi al di sotto dei 10 anni (almeno un quinto dei quali sfugge all’obbligo scolastico), la scarsezza delle scuole e delle vie di comunicazione, l’incuria si riflettono inevitabilmente sull’istruzione pubblica e prima di tutto sull ’analfabetismo. Difatti, il censimento del 1951 ha trovato 241.000 analfabeti o semianalfabeti, corrispondenti al 22% della popolazione di oltre 6 anni di età, contro una media italiana del 12,9%. Pertanto, malgrado il notevole miglioramento verificatosi rispetto al 1931, quando la percentuale degli analfabeti era ancora del 35,9%, la situazione era ancora poco buona, specialmente nella provincia di Cagliari che aveva ed ha la posizione peggiore in confronto di Nuoro e soprattutto di Sassari. Oggi le cose sono indubbiamente migliorate e si afferma che la percentuale degli analfabeti è scesa alla media italiana, ma si deve considerare che alla rilevazione sfugge il notevole contributo dell’analfabetismo cosiddetto « di ritorno » e che nelle scuole elementari la percentuale dei ripetenti è forte ed è forte anche quella della dispersione degli scolari che per oltre la metà non riescono a portare a termine la scuola elementare. Non ci si deve quindi meravigliare se l’analfabetismo effettivo è molto più elevato di quello indicato dai dati ufficiali e dalla stessa Inchiesta parlamentare sulla miseria: basterà dire che un’indagine eseguita pochi anni or sono dal Marotta su 14.000 giovani di leva delle classi 1930-31 e 1932 ha trovato il 41,4% di analfabeti tra quelli della provincia di Núoro, il 40,6% tra quelli della provincia di Cagliari e 32,5% tra quelli della provincia di Sassari! L’analfabetismo nelle sue diverse forme è dunque ancora notevole e ciò è grave anche perchè è nota la sua influenza sul livello mentale medio.

    Altra carenza si riscontra nell’istruzione tecnica, tecnico-professionale e scientifica, mentre quella umanistica è la più seguita, segno forse di un’aspirazione da parte delle masse rurali a evadere da un mondo tradizionale povero e angusto.

    Sta di fatto che tra le scuole medie superiori predominano nettamente quelle classiche, con 22 Licei ginnasi frequentati nel i960 da 5658 allievi mentre solo 5 sono i Licei scientifici con 1333 allievi e 14 gli Istituti Magistrali con 4332 allievi. Per contro solo 9 sono gli Istituti Tecnici commerciali e femminili con 4402 allievi e per geometri con 2022 allievi, appena 2 gli Istituti Tecnici agrari con 792 allievi, 2 quelli industriali (tra cui l’Istituto minerario di Iglesias) con 1180 allievi, 3 i nautici, con 543 allievi e 5 gli Istituti di istruzione artistica oltre al Conservatorio di musica di Cagliari; infine solamente 10 sono le Scuole tecniche e professionali con 1954 allievi.

    La netta prevalenza per gli indirizzi umanistici si rafforza negli studi superiori, che si svolgono nelle due Università di Cagliari e di Sassari. La più antica è quella di Sassari, istituita nel 1617 ma preceduta fino dal 1562 da uno «Studio generale» dei Gesuiti, che ha 6 Facoltà ed è stata frequentata nel 1960-61 da 1368 studenti; poco più recente (l’istituzione è del 1620), ma più importante, quella di Cagliari, articolata su 9 Facoltà con 4380 studenti. Orbene, oltre i 4/5 degli studenti erano iscritti alle Facoltà umanistiche e appena 327 a quella di Ingegneria e 466 a Medicina! Vero è che numerosi sono i giovani sardi che preferiscono frequentare Università del Continente, in particolare quelle di Roma, Pisa, Napoli e Torino ed è questo un gran bene perchè permette loro di istruirsi e di formarsi in una società più vasta ed evoluta di quella dell’angusto ambiente insulare che d’altra parte ha bisogno per il suo progresso di un’osmosi continua con le correnti di pensiero e con i fermenti culturali nazionali ed europei. Del resto, questa migrazione dei giovani studiosi verso i maggiori centri culturali del Continente non è che la continuazione di un fenomeno iniziatosi da gran tempo e cioè prima del secolo XVII, quando la Sardegna non aveva ancora i suoi Istituti di alta cultura. In un primo tempo i giovani della classe agiata vennero educati a Pisa e a Genova, poi, all’epoca del dominio spagnolo, a Salamanca, Madrid e Valenza, pur continuando ancora ad affluire alle Università italiane, e infine a Torino nel periodo dell’unione al Piemonte, sicché in complesso i contatti con gli ambienti culturali italiani non sono mai venuti meno.

    Quando poi si è detto che la Sardegna possiede due biblioteche pubbliche principali, annesse alle due Università ed eroganti intorno a 4000 prestiti e che vi si pubblicano due giornali quotidiani più diffusi insieme a due minori, alcuni settimanali cattolici, due riviste letterarie mensili e tre meno importanti, senza contare alcune pubblicazioni periodiche scientifiche a cura di Facoltà universitarie, avremo completato il quadro culturale dell’isola che ha per fulcri le due maggiori città e che, senza essere trascurabile, è certo suscettibile di ulteriore miglioramento.

    Lo stato sanitario e la malaria

    Condizioni naturali sfavorevoli, specie riguardo alla natura del terreno e alla scarsezza e irregolarità delle risorse idriche, insieme al prevalere di un basso tenore di vita, all’ignoranza e trascuratezza diffusa e a un’insufficiente attrezzatura assistenziale e ospedaliera, si uniscono a determinare condizioni sanitarie preoccupanti che vanno tenute nel debito conto per rendersi ragione sia dell’attuale stato della popolazione, sia dell’arretratezza dell’isola. Le sfavorevoli condizioni sanitarie sono responsabili, anzitutto dell’elevata mortalità persistita fino ad una decina di anni fa e che, oltre a mietere numerose vittime tra i bambini in tenera età, incideva largamente sugli adulti per prevalente effetto di due malattie sociali per cui la Sardegna aveva un triste primato in Italia: la malaria e la tubercolosi, cui si unisce, a degradare notevoli strati della popolazione, il tracoma.

    Parliamo anzitutto della malaria perchè, se è vero che dal 1952 nessun caso primitivo di questa malattia è stato più denunciato dopo la grande campagna antiano-felica iniziata nel 1946, è altrettanto vero che il « morbo palustre », ha gravato sull’isola per quasi 30 secoli come una cappa di piombo, decimando o comunque debilitando gravemente la popolazione, sia nei caratteri somatici che in quelli psichici, influendo sul popolamento tanto nella distribuzione che nel modo di vita delle genti, indirizzando e deprimendo le condizioni economiche e contribuendo come fattore essenziale della geografia umana a fissare caratteristici e tristemente noti paesaggi. D’altra parte la malaria in Sardegna è da considerare « silente ma non estinta » come si leggeva nella relazione fatta pochi anni or sono dal « Centro regionale antimalarico e antinsetti», finché permarranno — sia pure in regioni ristrette — condizioni idrotelluriche favorevoli allo sviluppo dell’Anopheles labranchiae, vettrice della malaria, sicché si richiedono ancor oggi, a diciassette anni dall’inizio della campagna antianofelica, sorveglianza continua e tempestivi interventi per impedire la ripresa e la diffusione dell’endemia.

    Trovata già dagli eserciti romani nel III secolo a. C., non solo nelle pianure, ma anche nelle vallate interne, secondo un ben noto passo di Strabone, la malaria, frenata in un primo tempo dallo sviluppo dell’agricoltura, tornò ad aggravarsi in epoca imperiale e poi ancora nel travagliato Medio Evo, quando anche Dante ricordava nella sua Commedia :

    «di Valdichiana tra ’1 luglio e ’1 settembre

    e di Maremma e di Sardigna i mali ».

    Ma nel ’700 e più nell’800, col lento ma continuo sollevarsi delle condizioni dell’isola, con l’intensificazione dell’agricoltura e col diffondersi dell’uso del chinino, la situazione migliorò alquanto, rimanendo peraltro ancor grave all’epoca dell’Unità d’Italia, quando la Sardegna si presentava col triste primato della maggiore morbilità e mortalità per malaria. A quell’epoca oltre un terzo dei decessi era appunto causato dalla malaria, mentre essi erano in media per l’Italia appena 59 su 1000; all’inizio del nostro secolo i decessi per malaria erano del 252 per mille, ma alla vigilia del primo conflitto mondiale l’indice era sceso a 76,7 per effetto delle provvidenze sanitarie adottate e per l’inizio delle opere di bonifica. La trascuratezza del periodo bellico e post-bellico fece risalire la mortalità per malaria, tanto che nel triennio 1920-22 essa fu del 97,5 per mille contro appena 12 dell’Italia intera. La vigorosa opera di bonifica e la campagna antimalarica intrapresa nell’interguerra contrasse l’indice a 15 per mille circa nel periodo 1938-39 con 13.862 casi di malaria primitiva ogni 100.000 ab. nel 1940 contro ben 108.812 del 1925 (circa 2/5 di tutti i casi verificatisi in Italia). Ma di nuovo le vicende belliche e post-belliche agirono in senso negativo facendo raddoppiare la mortalità e aumentare nel 1942 a 21.862 i casi di malaria primitiva che, per quanto successivamente ridottisi, furono ancora di oltre 10.000 nel 1946. Si deve avvertire, però, che i dati riguardanti la morbilità e special-mente quelli degli anni di piena endemia, sono assai inferiori al vero, perchè le popolazioni rurali erano largamente colpite, tanto che in molte località pressoché tutta la popolazione infantile era affetta dal morbo ed era molto raro che si potesse raggiungere l’età adulta senza averne sofferto.

    La malaria in Sardegna era dunque pandemica, cioè colpiva quasi tutta la popolazione, ed era questo uno dei suoi caratteri più preoccupanti perchè si traduceva nella perdita di 20 o 30 giornate di lavoro per ogni individuo e quindi dai 2,5 ai 3,5 milioni di giornate lavorative per l’intera popolazione attiva. Inoltre la malaria infieriva per quasi tutto l’anno, con una stasi di soli tre o quattro mesi, e con forme particolarmente gravi con complicanze a carico del fegato, della milza e dei polmoni, preparando così il terreno alla tubercolosi. Pensando che tale stato di cose è durato per alcuni millenni, si comprende facilmente quanto la malaria cronica abbia inciso sulla morfologia delle genti sarde, che ha subito un progressivo immiserimento, ed anche sulla sua psicologia, in quanto provocava, come dice il Pais, una « decadenza irrimediabile della volontà individuale, la diminuzione delle iniziative di gruppo ed anche un’ostilità manifesta per tutto ciò che esce dal quadro stretto delle tradizioni, della persona, della famiglia, per entrare nel dominio delle maggiori imprese e delle organizzazioni collettive ».

    Questa è stata dunque una delle principali cause dell’arretratezza e dello stato di prostrazione dell’isola, sicché presupposto essenziale per l’evoluzione e lo sviluppo del paese era l’eradicazione del secolare flagello mediante una vigorosa campagna condotta con metodi più moderni. Questa campagna fu intrapresa appunto nel 1946 da un apposito Ente, l’E.R.L.A.A.S. (Ente regionale lotta antianofelica Sardegna) con l’assistenza tecnica e finanziaria della fondazione Rockefeller, ed è consistita nella distruzione degli anofeli malarigeni mediante ampie e ben distribuite irrorazioni di DDT, effettuate minutamente per oltre un triennio, fino al 1949, dopo di che il compito di sorvegliare e combattere il residuo anofelismo per impedirne il ritorno offensivo, fu assunto dal «Centro Regionale Antimalarico e Antinsetti», che opera tuttora. L’attività di questo Centro, che si giova dell’opera di ben 2000 dipendenti e che ha esteso il controllo anche alle acque salmastre, è stata utilissima in quanto ha fatto ridurre i settori positivi, cioè con tracce di anofeli vettrici, da 151 quanti erano ancora nel 1951, a poche unità localizzate in punti ben definiti della Nurra e della Gallura, sicché dal 1952 ad oggi non si è più registrato un solo caso di malaria primitiva in tutto il territorio della Sardegna, evento questo di incalcolabile portata per la redenzione e per le fortune dell’isola.

    La tubercolosi però continua a mietere vittime relativamente numerose. Raggiunto il suo culmine nel periodo 1910-1923 con oltre 150 morti per 100.000 ab., la mortalità per tubercolosi, in seguito alle numerose provvidenze adottate, si è ridotta oggi ad un terzo circa, ma è pur sempre una delle principali cause di decessi, dopo le malattie di cuore e quelle dovute a lesioni del sistema nervoso centrale. Caratteri particolari che la tubercolosi presenta in Sardegna sono: l’incidenza maggiore sul sesso femminile, mentre nel resto d’Italia avviene il contrario; la diffusione precoce della malattia, che colpisce i bambini con la stessa rapidità e frequenza proprie un tempo delle grandi città; e infine la diffusione nell’ambiente rurale, colpito press’a poco come quello urbano. Ciò è conseguenza anzitutto del gran numero di abitazioni malsane, non solo nelle parti vecchie e sovrapopolate delle città, ma anche nell’ambiente rurale, dove gran parte della popolazione vive non in case coloniche sparse nelle campagne, ma in gruppi di case mal costruite, con pochi ambienti mal ventilati, umidi e male illuminati che offrono scarso riparo dalle intemperie. A queste condizioni antigieniche degli alloggi, si aggiunge, come si è visto, un’alimentazione insufficiente e inadeguata, specie nel settore artigiano e tra i contadini e i pastori delle zone ad agricoltura più povera.

    Aspersione di disinfestanti per la lotta antianofelica da parte dell’apposito « Centro Antinsetti ».

    Altra malattia sociale che affligge la Sardegna è il tracoma che, ancora nel 1940, secondo un’inchiesta eseguita dalla Direzione generale della Sanità, era diffuso in tutti i Comuni, con un totale di 84.000 adulti e 7000 alunni tracomatosi, per la maggior parte residenti nella provincia di Cagliari, mentre in quelle di Sassari e di Nuoro, con territorio montuoso più esteso, la malattia è meno frequente. Oggi, per effetto di una serie di provvidenze in atto già da alcuni anni, la situazione è alquanto migliorata specialmente nella provincia di Cagliari, dove la malattia è in netto regresso, ma i tracomatosi sono ancora molti e nettamente superiore alla media italiana è, perciò, il numero dei ciechi.

    Soprattutto nelle zone montuose è invece diffuso il gozzismo che presenta una localizzazione caratteristica, essendone raccolti i principali focolai nel Montiferru (Santu Lussurgiu, Cuglieri, Scano), in Barbàgia (Tonara, Aritzo, Désulo, Ulàssai, Mamoiada ecc.) e nell’Ogliastra (Àrzana, Lanusei) cui si aggiungono a nord i focolai isolati di Oschiri e Buddusò. Osservando però che il noto rapporto tra gozzismo e montagna soffre notevoli eccezioni e che invece ben 67 dei 73 Comuni ove si riscontra la malattia sono situati in territori vulcanici o che del vulcanismo hanno subito gli effetti, il Desogus ha ripreso la teoria geologica del gozzismo ed ha avanzato l’idea che esso sia prodotto da un fattore di ordine fisico, legato alle acque per influenza su questa delle rocce eruttive in cui scorrono e probabilmente per la loro radioattività.

    Meritano infine di essere ricordate alcune forme morbose caratteristiche dei paesi sub-tropicali e soprattutto il favismo, stranissima malattia così chiamata perchè colpisce individui predisposti che abbiano ingerito o anche solo inalato sostanze provenienti dalle fave che, com’è noto, sono largamente coltivate in quasi tutte le parti dell’isola e soprattutto nelle zone cerealicole di pianura e di collina, dove si riscontra infatti il maggior numero di casi. Si tratta di una malattia a carattere allergico, di patogenesi ancora sconosciuta, che causa gravi condizioni anemiche ed ha molti punti di contatto con l’anemia mediterranea, altro fattore di debilitazione per le genti sarde.

    In definitiva, scomparsa la malaria, incidono oggi sullo stato sanitario della popolazione, oltre alle diffuse condizioni di pauperismo, le condizioni igieniche poco buone a causa della scarsezza dell’acqua, pur essendo gli acquedotti numerosi, della rarità delle fognature (esistenti forse solo in un terzo dei Comuni) e dell’insalubrità delle dimore, tanto è vero che la mortalità per malattie infettive e parassitarle è in Sardegna più elevata di quella media italiana (37,7 contro 33,6 per 100.000 decessi). Conta anche, senza dubbio, la persistente insufficienza dell’assistenza sanitaria, per lo scarso numero di ambulatori, preventori e ospedali, dato che nel 1950 c’era nell’isola un posto letto per ogni 266 ab. contro una media nazionale di 1 a 177.

    Da tutto quello che si è detto, appare chiaro che, se molto è stato fatto nell’ultimo decennio, moltissimo resta ancora da fare, specialmente nel campo dell’istruzione, dell’educazione e della assistenza, per elevare le condizioni sociali delle genti sarde almeno al livello medio nazionale.