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L’attività industriale e commerciale

    L’attività industriale e commerciale

    I giacimenti minerari

    Se l’attività artigianale è stata in tutte le epoche largamente praticata, le industrie hanno avuto in Sardegna scarso e tardivo sviluppo per la mancanza di capitali, per la scarsezza di mano d’opera e per la deficienza di energia e di iniziativa. Ancora nel 1961, infatti, solo il 31% della popolazione attiva era occupato nelle industrie (contro oltre il 40% della media nazionale) e neppure una metà di questa aliquota era addetta alle industrie manifatturiere, con un numero di operai tra i più bassi d’Italia. Eppure nell’isola esistono risorse svariate e importanti, e prima di tutto cospicue ricchezze minerarie per cui essa è famosa fin dall’antichità.

    Infatti i massicci cristallini e metamorfici della Sardegna meridionale — Iglesiente, Sulcis e Sàrrabus — e della Nurra contengono numerosi depositi metalliferi, tra cui predominano largamente quelli complessi di piombo argentifero e zinco, con galena, blenda e calamina, che sono i più ricchi d’Italia. Si trovano pure giacimenti di antimonio, arsenico, rame, manganese ed anche di ferro. Inoltre abbondano minerali non metalliferi e soprattutto il caolino, barite, fluorite, talco, steatite, nonché combustibili fossili, di cui il più noto e il più abbondante è il carbone del Sulcis. La Sardegna è perciò la regione italiana che ha la maggior varietà di risorse del sottosuolo ed è superata solo dalla Toscana per valore complessivo della produzione, che si aggira in media su una trentina di miliardi di lire (tra produzione mineraria, metallurgica e delle cave); poco inferiore, quindi, a quello delle colture erbacee. Tuttavia 1 attività mineraria sarda è stata rivolta sino alla metà del secolo scorso essenzialmente allo sfruttamento dei giacimenti di piombo argentifero.

    Concessioni, permessi di ricerca e miniere sono assai numerosi (circa 200) e, come appare chiaramente dalla carta, si addensano soprattutto nella parte sud-occidentale dell’isola (Iglesiente, Arburese, Fluminese e Sulcis), che è la più importante zona mineraria d’Italia, mentre altri minori distretti di attività sono quelli intorno a Villasalto, Villaputzu e Furtei in provincia di Cagliari; intorno a Gadoni, Aritzo, Seùi, Orani, Tertenia, Làconi e Nurallao in provincia di Nuoro e limitatamente alla Nurra occidentale in provincia di Sassari.

    Gli attenti studi svolti da nostri valenti geologi, tra cui il Novarese, il Cavinato, il Taricco e il Vardabasso, hanno dimostrato che i giacimenti metalliferi che si trovano in seno ai massicci paleozoici sardi, sono in stretto rapporto con l’intenso metamorfismo prodotto dalla salienza dei magmi granitici e con le numerosissime intrusioni di rocce filoniane porfiriche — dai diabasi delle prime fasi ai porfidi quarziferi e al quarzo delle ultime fasi metallogeniche — verificatesi nel Carbonifero con l’oroge-nesi ercinica e prolungatesi fino all’inizio del Permico. Ma i tipi e le condizioni dei giacimenti sono svariatissimi per la diversa direzione e intensità delle spinte, per la differente natura delle rocce incassanti (scisti, calcari, dolomie), per le sconnessioni prodotte dal ripetuto riaprirsi di fratture posteriori al corrugamento ercinico e per la varia entità delle erosioni, delle alterazioni e dei fenomeni idrotermali successivi. In particolare negli scisti e nei graniti dell’Arburese e di una parte del Fluminese e negli scisti del Nuorese e della Nurra si hanno tipici filoni di frattura con galena e blenda distinte o mescolate in varia proporzione accompagnate da poca calcopirite e pirite, come si ha appunto nei grandi giacimenti di Montevecchio, Ingurtosu e Gennamari ; negli scisti della Sardegna centro- e sud-orientale si trovano filoni di galena con argento, blenda e antimonio a costituire un lungo fascio che attraversa il Sàrrabus per 35 km. parallelamente al piede settentrionale del massiccio dei Sette Fratelli, ma che dal 1912, per l’isterilimento dei filoni argentiferi, non si ha più convenienza a sfruttare.

    Invece nelle grandi masse calcaree e dolomitiche del Fluminese, dell’Iglesiente e del Sulcis si trova una gran varietà di giacimenti, tra cui importanti i filoni di galena molto argentifera, i depositi di galena a medio e basso tenore d’argento disposti a colonne entro i calcari e in vene entro le dolomie, quelli di galena mista a blenda e gli ammassi di calamine (silicato e carbonato di zinco), derivanti dall’ossidazione delle blende, che sono spesso di natura concrezionare e di varia forma in quanto hanno riempito grotte e cavità. Tipici tra questi giacimenti piombo-zinciferi sono quelli assai cospicui di Monteponi e di Buggerru, quelli del gruppo del Malfidano (Nébida, Masùa, Monte Agruxiau), quelli di San Giovanni, Malacalzetta e molti altri. A quanto sembra i giacimenti filoniani dell’Arburese, entro fratture del granito e degli scisti, sono da considerare derivanti da circolazioni idrotermali profonde, attivatesi da giacimenti primari misti di profondità, forse per disturbi tettonici causati dall’orogenesi alpina. Si deve, quindi, fare una distinzione fra i giacimenti di solfuri misti primari, ercinici, e i giacimenti secondari originatisi in epoca posteriore da circolazioni idrotermali profonde che provocarono anche la differenziazione dei diversi solfuri metallici. Si verificò infine una serie di processi di ossidazione dei solfuri ad opera di acque vadose che provocarono l’emigrazione dello zinco allo stato di calamina entro grotte e fessure nei calcari e nelle dolomie.

    Distribuzione delle miniere e delle cave.

    Anche nelle formazioni eruttive terziarie e precisamente nelle trachiti si trovano limitati ammassi di solfuri, specialmente nella Sardegna nord-occidentale: quelli di piombo e di zinco hanno minima importanza, mentre qualche consistenza hanno quelli di rame e di manganese, in altre parti dell’isola.

    I giacimenti piombo-zinciferi sardi sono formati dunque, da un insieme di vari minerali. In particolare, nell’Iglesiente i minerali di piombo contengono in varie proporzioni argento allo stato di solfuro (in media se ne trovano 320 g. per tonnellata di minerale al 55-60% di piombo) mentre nelle blende il contenuto in argento è per lo più trascurabile. Ciò spiega l’insufficienza dell’ordinario trattamento di lavaggio meccanico e la necessità di arricchire e separare i diversi solfuri in impianti di concentrazione e di flottazione differenziale, assai costosi per consumo di energia elettrica e di reattivi chimici. E questi impianti si rendono sempre più necessari per il progressivo impoverimento delle mineralizzazioni in corso di coltivazione (2,8% per il piombo e 4,4% per lo zinco) e per la valorizzazione di depositi poveri finora trascurati. Si aggiunga che, avendo i giacimenti un caratteristico andamento sub-verticale, le lavorazioni si sono sviluppate pure in senso verticale e hanno raggiunto profondità notevoli (fino a 180 m.) in cui le prospettive sono ridotte, l’associazione dei minerali si sposta in senso zincifero, il tenore in metallo diminuisce e le miniere scendono nella zona delle falde acquifere permanenti. Nonostante ciò, i tecnici hanno valutato che i giacimenti in corso di sfruttamento dei minerali piombo-zinciferi sardi, offrono riserve per buon numero di anni, ma più per lo zinco che per il piombo: tali riserve sono riferibili per metà all’Iglesiente e al Fluminese e per il resto all’Ar-burese. Relativamente migliori sono le prospettive per i tre giacimenti di stibina (solfuro di antimonio) nei calcari devonici del Gerréi, intorno a Villasalto e Ballao, e per quelli di arsenopirite di Baccu Locci nel Sàrrabus.

    I giacimenti di solfuri misti danno anche pirite, tratta soprattutto dalla miniera di Campo Pisano presso Iglesias, per separazione dalla blenda mediante flottazione.

    I giacimenti ferriferi sono sparsi e vari, ma complessivamente di consistenza non trascurabile. Il primo ad essere riconosciuto (1870) e il più importante è quello di San Leone, a 18 km. ad occidente di Cagliari, costituito da magnetite di segregazione magmatica con quarzo, che dà un minerale a medio tenore e alto contenuto in silice. Noti e sfruttati più di recente (1916) sono anche i depositi della Nurra al Monte Canaglia, costituiti da carbonati provenienti da alterazione di un nucleo centrale di magnetite negli scisti paleozoici. Altro giacimento di magnetite è quello di Giaccurru, trovato di recente nell’area metamorfica di Aritzo-Gadoni in Bàrbagia, che però è di difficile coltivazione economica per le impurezze del minerale e per la sua sfavorevole ubicazione. Anche non considerando le aree limonitiche dell’Iglesiente e altri depositi minori, i tre campi suddetti consentono disponibilità di 19 milioni di tonnellate accertate e probabili e 17 milioni possibili, cioè un totale di 36 milioni di tonnellate, offerte però per quasi due terzi dal solo giacimento di San Leone.

    Invece, dei giacimenti di rame, esaurito quello di Calabona (Alghero) e conclusa negativamente l’attività a Sa Duchessa (Domusnovas), rimane di qualche pur modestissimo significato quello di Funtana Raminosa (Gadoni), costituito da calcopirite mista ad altri solfuri in relazione genetica con intrusioni dioritiche entro calcari e scisti silurici.

    Di limitata consistenza sono pure i depositi di bauxite trovati di recente nella Nurra (intorno a Olmedo e altrove) entro i calcari cretacei molto disturbati e frammentati, il che rende difficile e onerosa la ricerca e la coltivazione.

    Tra i giacimenti di minerali non metalliferi sono anzitutto da ricordare quelli di combustibili fossili, rappresentati oggi, essendo ormai esaurito quello antracifero a Seúi, solo dal bacino carbonifero del Sulcis (o di Gonnesa-Bacu Abis), che si stende per 640 kmq. dagli appoggi paleozoici, contro i quali affiora ad oriente la formazione carbonifera, fino al mare di Porto Vesme verso cui si immerge. Consiste in un pacchetto di strati di età eocenica spesso dai 30 ai 60 m., distinto in fasci che assicurano una potenza utile media di 6-7 m. e, in complesso, riserve per oltre mezzo miliardo di tonnellate di combustibile. Peraltro la coltivazione del giacimento è resa difficile dalle notevoli differenze dello spessore degli strati e dalla loro disposizione assai irregolare per i frequenti e notevoli accidenti tettonici (faglie e pieghe in varie direzioni) che impongono ardui problemi alla coltivazione e ostacolano la meccanizzazione degli impianti. Altro svantaggio è costituito dalla qualità del minerale estratto, un grezzo povero che è necessario trattare in impianti di arricchimento per avere così un carbone (il cosiddetto carbone Sulcis) di modesto potere calorifico e per di più con alto contenuto in zolfo (8%) ed elevata percentuale di ceneri.

    Sono infine da ricordare i giacimenti di barite, che si presentano in numerose località, dispersi in tasche del calcare metallifero cambrico dell’Iglesiente oppure miste a fluorite nei filoni quarzosi entro gli scisti silurici; i depositi di fluorite pura di Monreale presso Sàrdara, di Tertenia in Ogliastra e di Silius nel Gerréi; i depositi di caolino a Furtei-Serrenti nel Campidano, Romana e Cossoine in provincia di Sassari, derivanti da alterazione delle traclìiti o trachiandesiti e dei loro tufi; e le lenti e vene di talco e steatite in quel di Orani, a occidente di Nuoro, al contatto tra calcari e graniti o entro questi ultimi.

    Come si vede, i giacimenti sono numerosi e per vari minerali ancora cospicui, ma per alcuni di essi e soprattutto per il settore di maggior valore, che è quello del piombo argentifero, il ritmo dello sfruttamento è tale che, per mantenerlo ancora abbastanza a lungo, occorrono continui perfezionamenti tecnici e attente prospezioni minerarie. Limitate per un certo periodo per fronteggiare la congiuntura sfavorevole, le ricerche sono state ora vigorosamente riprese con un vasto programma a breve termine cui partecipano le tre maggiori società minerarie e stanno esplorando sia la zona marginale verso il Campidano, sia il Paleozoico non affiorante, esteso in profondità e che contiene cospicue mineralizzazioni costituenti, secondo alcuni, riserve per almeno una ventina di anni di attività.

    Le vicende dell’attività estrattiva

    Coltivate già in epoca nuragica e più ancora dai Fenici e dai Cartaginesi, le miniere sarde fornirono in abbondanza minerali di piombo e argento e dettero vita ad una fervida attività metallurgica. Con i Romani lo sfruttamento minerario si intensificò assai, come è provato dai ruderi delle istallazioni fusorie e dai grandi depositi di scorie piombifere che si trovano nell’Iglesiente, nell’Arburese e nella Nurra (ove sorsero pure veri centri minerari come Sulcis, Plumbea e Ferrarla).

    Dopo la lunga stasi durata dall’invasione vandalica fino a tutto l’alto Medioevo, l’attività mineraria cominciò a riprendere nella seconda metà dell’XI secolo e si sviluppò assai nel XIII, per opera dei Genovesi nella Nurra e soprattutto dei Pisani nell’Iglesiente, dove sorse il centro minerario di Villa di Chiesa. Qui fu dettata ad opera dei conti della Gherardesca la legislazione mineraria, contenuta nel famoso « Breve di Villa di Chiesa », che organizzò giuridicamente la ricerca e lo sfruttamento delle miniere, codificando tra l’altro il principio della libera attività mineraria, al posto del sistema della regalia, prima vigente. Durante la dominazione pisana, e soprattutto nel suo ultimo periodo, il lavoro minerario fu svolto intensamente e con grande perizia, tanto che nella miniera di Monteponi i pozzi scesero fino a 140 m. di profondità e si arrestarono solo al livello permanente delle acque. Sorsero fonderie di piombo e argento, ma buona parte del minerale era portato a Pisa per la lavorazione.

    La dominazione aragonese determinò il decadimento dell’attività mineraria e metallurgica, soffocata con l’applicazione gretta del principio di demanialità del sottosuolo e lo stesso avvenne in epoca spagnola, pur con sporadici e momentanei tentativi di ripresa durante il XVI secolo e nella prima metà del XVII da parte di impresari sardi e continentali, cui seguì un’assoluta inattività fino al 1720, passaggio dell’isola allo Stato sabaudo. Rinacque allora l’interesse per l’attività mineraria e il Governo ne stimolò la ripresa affidando lo sfruttamento delle miniere di piombo e argento (a Monteponi, San Giovanni, Nébida, Masùa e Montevecchio) a concessionari generali contro il corrispettivo di un canone sui prodotti. Per loro iniziativa furono fatti affluire in Sardegna numerosi minatori e fonditori tedeschi che migliorarono la coltivazione delle miniere e diedero vita alla fonderia di Villacidro, che si aggiunse ad altre sorte presso Iglesias e nel Fluminese.

    La ripresa in gestione diretta delle miniere da parte dello Stato con l’instaurazione del lavoro a regìa si risolse in un insuccesso e in una crisi prolungata che si attenuò solo dopo il 1830 con una certa ripresa dovuta allo sviluppo industriale e al progresso metallurgico dell’Italia da un lato e dall’altro al miglioramento delle conoscenze sulla reale consistenza e sulle caratteristiche delle risorse minerarie sarde prima per opera del La Marmora e poi per gli studi degli ingegneri Mameli e Baldracco.

    Andamento della produzione mineraria e dell’impiego di mano d’opera dal 1850 al 1960.

    Lo sviluppo moderno dell’attività mineraria sarda ebbe inizio nel 1848 con l’estensione all’isola della legislazione mineraria piemontese, col ricorso all’iniziativa privata sostenuta dal progresso tecnico e in particolare con l’impiego intensivo degli esplosivi. Risale appunto al 1848 l’attuale concessione di Montevecchio e al 1850 la concessione di Monteponi, ma ad esse altre seguirono in rapporto con lo sviluppo prodigioso, vera « epoca eroica », dell’industria del piombo e dell’argento. In quell’epoca ci si incomincia a interessare anche di altri prodotti minerari, dato che del 1853 sono le concessioni per combustibili fossili di Bacu Abis e di Terras Collu, primi nuclei di coltivazione del bacino carbonifero del Sulcis, e del 1854 una concessione per minerali di ferro e un’altra per minerali di rame. La legge mineraria del 1859 che sanzionava l’indipendenza fra le proprietà del soprasuolo e quella del sottosuolo e disciplinava i rapporti fra lo Stato e i privati concessionari valse a dare ulteriore, cospicuo incremento all’industria estrattiva. Si svilupparono gli impianti meccanici nelle miniere, furono potenziate le fonderie, sorsero le prime laverie per l’arricchimento dei minerali poveri e misti e soprattutto ebbe inizio nel 1865 lo sfruttamento dei cospicui giacimenti di calamine, la cui produzione doveva ben presto raggiungere importanza pari e talvolta superiore a quella delle miniere argentifere. Una vera «febbre delle calamine» investì la Sardegna, sicché, già nel 1870. nonostante la flessione delle quotazioni dei metalli, si estrassero ben 92.000 tonn. di minerale di zinco contro solo 25.000 di minerale di piombo. Dal 1871 l’estrazione dei combustibili fossili divenne sensibile, ma si mantenne modesta finché non venne stimolata dalla prima guerra mondiale.

    Veduta del complesso minerario principale di Montevecchio.

    Altra flessione si ripetè nel periodo di crisi 1890-99, durante il quale però, se molte miniere poco redditizie vennero chiuse, gli impianti di quelle maggiori furono potenziati con l’applicazione dell’energia elettrica e della perforazione meccanica e con la costruzione di una nuova fonderia per il piombo a Monteponi, in sostituzione di quelle vecchie e inadeguate. Una nuova flessione dei prezzi del piombo e dello zinco verificatasi nel 1908-10, indusse il governo ad una politica protettiva dell’in-dustria piombo-zincifera nazionale, mediante l’istituzione di dazi anche sull’espor-tazione dei minerali onde favorire il loro afflusso alle fonderie di Monteponi e di Pertùsola (La Spezia). Si ebbe così una ripresa che raggiunse il massimo nel 1913, sia per la produzione che per l’esportazione dei minerali: infatti a quel tempo era inviata all’estero la totalità dei minerali di zinco e gran parte di quelli di piombo e si era creato così un sistema di integrazione economica tra miniere sarde e fonderie dell’Europa settentrionale, specialmente belghe. Perciò durante il primo conflitto mondiale, si verificò una profonda flessione dell’estrazione di questi minerali che si prolungò fino al 1921, mentre venne stimolata la produzione dei minerali di ferro di San Leone e della Nurra, dell’antimonio, del manganese, del rame e dei combustibili fossili.

    La ripresa post-bellica fu vigorosa anche per importanti miglioramenti tecnici (primo impianto di flottazione a Ingurtosu, prima officina per l’elettrolisi dello zinco a Monteponi nel 1928 e officina per il trattamento elettrolitico delle blende sarde a Crotone). Ma la crisi economica del 1929-31 ebbe riflessi notevoli sulla produzione, anche se le aziende reagirono sul piano tecnico, sorrette dalla politica autarchica del governo, con la costruzione della grande fonderia di San Gavino (1932) per i minerali piombo-argentiferi di Montevecchio e dell’impianto elettrometallurgico di Porto Marghera (1936); sorsero anche i grandi impianti per lo sfruttamento su vasta scala del bacino carbonifero del Sulcis, in cui fu fondata e si sviluppò la città mineraria di Carbonia. Pertanto nel 1939-40 furono raggiunti i massimi assoluti nella produzione dei minerali di piombo e zinco (69.519 tonn. di minerali di piombo contenenti 43.494 tonn. di piombo e 24.000 kg. di argento, e 178.451 tonn. di minerali di zinco contenenti 76.600 tonn. di metallo); massimi assoluti raggiunsero pure i combustibili fossili (1.296.000 tonn. di carbone Sulcis e 25.500 tonn. di antracite e molti minerali non metalliferi).

    Ma il secondo conflitto mondiale provocò prima la concentrazione delle attività nelle produzioni interessanti lo sforzo bellico (carboni fossili e minerali metalliferi), poi un decremento generale e dal 1945 il crollo dell’industria estrattiva, mentre il livello delle acque risaliva nelle miniere dell’Iglesiente.

    Fin dal 1945, peraltro, ebbe inizio la ripresa che è stata rapidissima per le miniere di carbone, più lenta per quelle piombo-zincifere, la cui produzione però è tornata sulle posizioni prebelliche e le ha spesso superate, pur essendo le aziende da qualche tempo in difficoltà per il flettersi delle quotazioni.

    In complesso, dunque, l’andamento della produzione mineraria è stato assai irregolare, soprattutto negli ultimi 50 anni, in rapporto con i due conflitti mondiali, le crisi economiche, l’autarchia e le oscillazioni delle quotazioni sui mercati esteri, come appare dal diagramma. E, in rapporto con le variazioni della produzione, ha subito fluttuazioni considerevoli anche il numero complessivo degli operai, accresciutosi assai con la piena valorizzazione del bacino carbonifero, anche con immigrazioni dal continente. Il numero degli addetti raggiunse il massimo assoluto di 23.700 unità nel 1950, ma in sèguito è andato costantemente diminuendo, fino a ridursi a circa 9000 operai, per effetto della meccanizzazione e dei perfezionamenti tecnici adottati nelle miniere e per il ridimensionamento su nuove basi dello sfruttamento del bacino carbonifero.

    L’attività mineraria attuale

    I minerali metalliferi costituiscono dunque il nucleo essenziale della produzione mineraria sarda e tra essi quelli di piombo e zinco predominano come sempre di gran lunga, tanto da comprendere da soli i tre quinti del valore complessivo dei minerali estratti e da assorbire oltre la metà della mano d’opera addetta alle industrie estrattive. Dal canto loro i minerali non metalliferi comprendono il 40% del valore globale della produzione, ma questa aliquota è costituita per oltre 3/4 dal carbone Sulcis. L’apposita tabella indica chiaramente la quantità e il valore dei singoli minerali estratti secondo i dati medi del triennio 1959-61 e permette di fare alcune considerazioni anche in rapporto con la produzione nazionale complessiva.

    Comunque i minerali estratti corrispondono a 33.500 tonn. di piombo, a 78.000 di zinco e a 15.000 kg. di argento fino. Lo sfruttamento delle miniere piombo-zincifere, cui attendono circa 4500 operai, ha fornito in media negli ultimi anni sulle 65.000 tonn. di minerale di piombo argentifero (ma solo 41.000 nel 1963) con una netta tendenza alla diminuzione dopo che nel 1959 è stato toccato il massimo assoluto di 69.900 tonn., già raggiunto nel 1940. Senonchè, mentre in quest’ultimo anno la produzione sarda di minerali di piombo rappresentava il 92,6% di quella nazionale, oggi questa proporzione è scesa a poco più dell’8o%, costituendo pur sempre il grosso della produzione italiana.

    La quasi totalità della produzione è fornita da una quarantina di miniere appartenenti a tre gruppi industriali: la Monteponi e Montevecchio, fusesi nei 1961, la Pertùsola e l’A.M.M.I.-S.A.P.E.Z. (Soc. An. Pb e Zn), di cui le prime sono le più vecchie (avendo celebrato da qualche tempo il centenario della loro fondazione) ed anche le più importanti per la potenzialità e la complessità degli impianti e per numero di operai (circa 2000 unità ciascuna). La Montevecchio ha cinque miniere intorno al centro di Gennas Serapis (tra cui quelle di Sant’Antonio e Piccalinna) e produce una metà delle galene argentifere sarde, lavorate nel vicino stabilimento metallurgico di San Gavino, e un terzo della blenda, spedita attraverso il porto di Cagliari in continente per essere trattata quasi tutta a Porto Marghera.

    La Monteponi ha varie miniere intorno a Iglesias, tra le quali spicca quella di Campo Pisano, dalla quale si ricava la terza parte dello zinco prodotto in Italia: in particolare le calamine povere ferrugginose sono trattate nell’impianto elettrolitico che produce zinco e cadmio, mentre la blenda e le calamine ricche calcinate, imbarcate a Porto Vesme, sono lavorate in parte a Vado Ligure e in parte inviate all’estero. Invece i minerali di piombo vengono quasi tutti lavorati nella grande fonderia di Monteponi, che produce circa un quarto del piombo nazionale.

    Alla Società Pertùsola fanno capo le importanti miniere di Gennamari, Ingurtosu, San Giovanni, Argentiera e Buggerru, sbocco del Malfidano, che impiegano un migliaio di operai e producono galena, blenda e calamina imbarcate in parte a Cagliari e in parte nei vicini caricatoi di Piscinas, Portixeddu e Buggerru. Da qui i minerali di piombo sono inviati alla fonderia di Pertùsola (La Spezia) e gran parte di quelli di zinco allo stabilimento di Crotone, mentre una modesta aliquota viene esportata. La Società S.A.P.E.Z. esercisce principalmente le due miniere di Masùa e Monte-cani, che producono più che altro calamine, imbarcate al caricatolo di Porto Flavia. Infine l’A.M.M.I. controlla le miniere di Acquaresi, Nébida e Monte Agruxiau, i cui minerali, imbarcati a Cagliari, sono in parte esportati e quelli zinciferi trattati a Ponte Nossa.

    L’industria del piombo e dello zinco offre, dunque, un quadro complesso, poderoso e tecnicamente efficiente, che ha saputo superare le condizioni sempre più difficili connesse con l’impoverimento delle mineralizzazioni, con l’opportunità di valorizzare depositi poveri non facilmente arricchibili e con la necessità di ridurre i costi. Basti pensare che oltre il 90% della quantità dei minerali estratti deve subire l’arricchimento in una trentina di costosi impianti di flottazione differenziale, i quali consumano la metà dell’energia elettrica impiegata nelle miniere, nonché la separazione dei minerali mediante liquido denso in moderni impianti sink and jìoat che ha reso sfruttabili intere zone di miniere prima trascurate. Assai onerosa è pure l’eduzione delle acque, cui attende un apposito Consorzio, resa indispensabile dalla necessità di abbassare il livello delle acque permanenti nel bacino dell’Iglesiente che condiziona da quasi un secolo soprattutto l’attività delle miniere del gruppo Monteponi.

    Un certo interesse economico ha conquistato dal 1927 la produzione di pirite, come sottoprodotto di alcune miniere di solfuri misti e, soprattutto dal 1939, di quella di Campo Pisano, dalla quale si estraggono intorno alle 10-20.000 tonn. del minerale usato dalla Monteponi per la fabbricazione dell’acido solforico occorrente all’impianto di elettrolisi dello zinco.

    Invece la produzione di calcopirite nell’unica miniera rimasta attiva, quella di Funtana Raminosa, in cui lavorano un centinaio di operai, è ridotta ad appena 1500 tonn. o poco più.

    Maggiore interesse ha la produzione della stibina, localizzata in tre miniere del gruppo A.M.M.I. nel Gerréi (Su Suergiu, Martalai e Corti Rosas), tra cui più importante è quella di Su Suergiu, presso Villasalto, dove si trova un apposito stabilimento metallurgico. Negli impianti lavorano un centinaio di operai e si ricavano circa 2000 tonn. di minerali, cioè la totalità della produzione italiana, da cui si ottengono 250-300 tonn. di antimonio nonché prodotti derivati.

    Particolare significato per la produzione di arsenico ha lo sfruttamento del giacimento di solfuri di Baccu Locci, presso Villaputzu, da cui una trentina di operai, oltre a galena, estraggono in media 3000-3500 tonn. di arsenopirite, che viene lavorata in continente ad Apuania e fornisce la totalità della produzione nazionale di arsenico.

    Importanza maggiore ha l’estrazione dei minerali di ferro che per numero di operai e per quantità e valore della produzione viene al secondo posto dopo quella dei piombo-zinciferi. Iniziata un secolo fa in misura ridotta nella miniera di magnetite di San Leone, essa si sviluppò, sospinta dalle necessità del primo conflitto mondiale, con l’utilizzazione del giacimento della Nurra, fino a raggiungere nel 1918 le 146.000 tonnellate. Si verificò poi una lunga stasi che ebbe fine nel 1936 con un rapido aumento che nel 1940 portò la produzione a 160.000 tonn., tratte quasi tutte dalla miniera della Nurra; ma le sopravvenute difficoltà belliche provocarono la rapida crisi dell’industria. Nel 1952 però, essa risorgeva mediante l’intenso sfruttamento del campo di San Leone da parte della Società Breda e poi della Ferromin, e delle modeste aree limonitiche dell’Iglesiente sfruttate dalla Fiat. La produzione è aumentata celermente per il rapido incremento della domanda interna fino a raggiungere nel 1958 il massimo assoluto di 414.000 tonn., corrispondente ad 1/3 del totale nazionale, ma si è poi flessa per gli elevati livelli dei costi e per la caduta dei noli marittimi che hanno reso sempre più competitivi sul mercato italiano i minerali transoceanici. Così nel 1963 sono state estratte solo 158.000 tonn. di minerali (1/6 della produzione nazionale) scavate da 175 minatori per la maggior parte in San Leone, che invia per ferrovia propria a Cagliari, e poi nella miniera di Canaglia nella Nurra, che invia pure per ferrovia a Porto Torres per l’imbarco, ma che ultimamente è stata chiusa.

    Infine scarsa e saltuaria entità ha la produzione dei minerali di manganese che, raggiunto il massimo durante l’ultimo conflitto (5725 tonn. nel 1940) con la valorizzazione onerosa dei depositi nell’isola di San Pietro (Capo Becco e Capo Rosso) è oggi ridotta a 500-600 tonn. annue.

    I minerali non metalliferi

    I minerali non metalliferi, prescindendo dai combustibili fossili, hanno acquistato negli ultimi tempi importanza considerevole in rapporto con la crescente richiesta dovuta al moltiplicarsi dei loro usi. Infatti, tranne sporadiche e saltuarie iniziative, risale al 1935 l’impianto di una razionale e cospicua estrazione del caolino, delle argille per refrattari, della barite, del talco e steatite e appena al 1949 l’inizio di una significativa produzione di fluorite, divenuto oggi il minerale più ricercato e di maggior valore.

    Per quanto riguarda il caolino, il massimo della produzione raggiunto nel 1939 con 65.000 tonn. dà un’idea delle possibilità del campo di Furtei-Serrenti, che fornisce caolino refrattario. Oggi, dopo la paralisi bellica e la successiva ripresa, si producono nell’isola 30-35.000 tonn. del minerale da parte della Società S.A.N.A.C. che esercisce le principali miniere: quella di Furtei-Serrenti dà caolino da refrattari tavolta ferrugginoso inviato a Cagliari, dove in parte è impiegato nella fabbrica di refrattari della stessa società e in parte è esportato, mentre quelle di Laconi e di Romana forniscono modeste quantità di caolino ceramico bianchissimo, inviato in continente e usato per la fabbricazione di isolatori elettrici. Per l’industria dei refrattari servono pure le argille refrattarie che si traggono dal cospicuo giacimento di Nurallao in quantità considerevole e ognor crescente (85.000 tonn. nel 1962), nonostante la non felice ubicazione dei depositi, e per la maggior parte esportate via Cagliari. Pure crescente, ma assai inferiore (13.000 tonn. sempre nel 1962) è la produzione di argille smettiche, quasi tutte esportate perchè molto usate in svariate industrie, come pure quella della bentonite, il cui sfruttamento è solo agli inizi.

    Ben altra importanza ha la barite, la cui produzione ebbe un primo forte incremento nel 1935, collegato col suo uso nell’industria del litopone e, dopo la stasi bellica, una rapida ripresa determinata dall’esportazione verso l’Europa occidentale della barite da riduzione. La quantità estratta dalle otto miniere poste quasi tutte nell’Iglesiente e dove lavorano 300 o 400 operai ha raggiunto 77.000 tonn. nel i960, ma si è ridotta nel 1963 a 59.000, pari a oltre metà della produzione italiana; ma essendo le possibilità sarde tecnicamente notevoli, pur disperse in numerosi centri produttivi, l’industria della barite si presenta sana, nonostante la variabilità della produzione in conseguenza del basso valore del minerale e delle frequenti oscillazioni cui è soggetto.

    In pieno e costante sviluppo è la produzione della fluorite, assai richiesta sul mercato internazionale per il suo alto tenore in fluoro. Dalle quattro miniere del Flu-minese, del Sàrrabus e di Sàrdara (ove lavorano 500 operai) si è giunti ad estrarre nel 1963 oltre 48.000 tonn. di fluorite (quasi un terzo del totale nazionale), inviate in gran parte all’estero attraverso il porto di Cagliari.

    Infine merita un cenno la produzione del talco e della steatite, che si effettua principalmente nella regione di Orani da parte di oltre 200 operai, i quali ricavano sulle 30.000 tonn. di minerale che rappresentano un terzo della produzione italiana e che sono esportate in continente.

    I combustibili fossili

    Il giacimento carbonifero del Sulcis, scoperto nel 1851, costituisce senza dubbio risorsa importante, il cui sfruttamento, peraltro, è stato in rapporto con condizioni non tanto economiche quanto politiche e sociali. Nella seconda metà del secolo scorso e fino al primo conflitto mondiale, l’attività mineraria si esercitò sugli affioramenti agli appoggi della formazione negli scavi a giorno di Bacu Abis e di Terras Collu, ricavando quantità non superiori per lo più alle 25.000 tonn. annue, che non subivano alcun arricchimento. In sèguito la produzione venne incrementata dalle necessità belliche, raggiungendo un massimo di 83.000 tonn. nel 1918 e si flesse poi fino alle quote iniziali data la concorrenza del carbone estero per la crisi economica. Dopo il 1934, però, in clima di economia autarchica, l’intervento statale promosse la realizzazione delle opere per la prospezione e la valorizzazione intensa del bacino carbonifero, costituendo a questo scopo l’Azienda Carboni Italiani e la Società Carbonifera Sarda o Carbosarda. Per effetto dei poderosi mezzi impiegati e dell’afflusso dal continente di abbondante mano d’opera, salita a ben 15.000 unità, la produzione crebbe rapidamente fino a toccare già nel 1940 il massimo assoluto di 1.296.000 tonn., ottenuto dalle nuove miniere di Cortoghiana, di Sirài e soprattutto di Serbariu, che nei tempi più recenti ne ha fornito la maggior parte. Questa fervida attività ha avuto vistosi riflessi antropici, tra cui l’insorgenza di nuovi villaggi e dei due grossi centri di Cortoghiana e di Carbònia, divenuta il maggior centro minerario della Sardegna e dell’Italia, nonché la costruzione del nuovo porto di Sant’Antìoco-Ponti dove il carbone viene imbarcato insieme ad altri minerali ed in cui quindi si è sviluppato un traffico così intenso da superare talvolta quello di Cagliari. Si noti che, intanto, l’impoverimento del minerale grezzo, che non sviluppa più di 4200-4500 cal., aveva reso necessario l’impianto di laverie per un adeguato arricchimento in modo da ottenere carbone mercantile (costituente una metà del grezzo ed erogante 6000-6500 calorie a kg.) separato dai misti, da utilizzare solo localmente, e dagli sterili accumulati in grosse discariche all’esterno.

    Vedi Anche:  Zone e città della Sardegna Meridionale

    Abbattimento meccanizzato del carbone in una galleria della miniera di Serbarìu, presso Carbònia.

    Per il potenziamento della produzione e per l’esaurimento di alcuni dei vecchi impianti, era stato già predisposto un programma di apertura delle nuove miniere di Serrucci e Cortoghiana Nuova, poste nella parte centrale del bacino con un approfondimento progressivo dei pozzi fino ad oltre 500 metri. Questo appunto è stato realizzato nel dopoguerra, dopo le difficoltà e la stasi del periodo bellico, che fecero cadere la produzione nel 1943 a sole 317.000 tonn., anche per l’impossibilità del suo trasporto in continente.

    La ripresa, avviata fin dal 1945, è stata relativamente rapida, tanto che dopo soli tre anni la produzione era tornata quasi al massimo prebellico, ma effimera perchè con il ripristino dei traffici regolari si è fatta brutalmente sentire l’artificiosità di un’industria basata su strutture economicamente non sane, che ha messo in crisi il bacino carbonifero in quanto ha provocato non solo la flessione della produzione su quote stabilizzatesi sulle 700.000 tonn. con enormi passività, sanate da massicci interventi statali, ma anche uno stato di grave disagio di ordine sociale. Infatti, allorché la cessazione del protezionismo autarchico ha aperto il campo alla concorrenza economica, la Carbosarda si è vista costretta ad un ridimensionamento dell’attività basata sulla razionalizzazione e meccanizzazione dell’estrazione che, aumentando il rendimento unitario, ha permesso la drastica riduzione della mano d’opera, passata gradualmente da 17.000 dipendenti alle attuali 2000 unità lavorative. Al risanamento dell’attività mineraria nel bacino carbonifero del Sulcis ha partecipato con cospicui interventi la C.E.C.A. allo scopo di arginare le ripercussioni socio-economiche della riconversione industriale, contribuendo alla qualificazione e al trasferimento degli operai ad altra attività e al finanziamento di nuovi ordinamenti produttivi. Il senso di questo ordinamento è indicato dal fatto che, non sopportando il carbone Sulcis spese di trasporto, si impone la sua utilizzazione in loco, il che si era già cominciato ad attuare con una parte del combustibile, mediante la costruzione delle due grosse centrali termoelettriche di Santa Caterina e di Porto Vesme. La soluzione del problema del bacino carbonifero è stata individuata nell’utilizzazione integrale di 2-3 milioni di tonn. di carbone a bocca di miniera per la produzione massiccia di energia elettrica in una supercentrale, in parte già in attività, capace di produrre circa 4 miliardi annui di kWh, successivamente aumentabili, sì da fornire l’energia necessaria non solo per lo sviluppo industriale dell’isola (e prima di tutto per nuove industrie progettate intorno alle miniere come quella dell’alluminio, delle ferroleghe, degli azotati, ecc.) ma anche per la produzione di un cospicuo supero da esportare. Pertanto, la limitata produzione attuale (571.000 tonn. nel 1963) che rappresenta pur sempre circa metà della quantità e un terzo del valore dei minerali scavati in Sardegna, è destinata prossimamente ad accrescersi molto, semprechè non sia troppo forte la concorrenza degli olii minerali.

    La zona mineraria Sulcitana e Carbònia con le fasi del suo ampliamento.

    Impianti di estrazione, lavaggio e deposito del carbone Sulcis alla bocca dei pozzi Serbami presso Carbònia.

    I prodotti delle cave, le acque minerali e le saline

    Alla produzione mineraria, si aggiunge quella non trascurabile delle cave, costituita da materiali svariati e abbondanti per un complesso di 3,7 milioni di tonnellate del valore di 2,7 miliardi di lire. Le rocce più utilizzabili sono i basalti e le tra-chiti, soprattutto nella parte occidentale dell’isola, abbondanti calcari, usati per oltre metà per calce e cemento, argille, sfruttate di frequente per l’industria dei laterizi e terrecotte, e in modo caratteristico il granito, scavato in una trentina di località situate lungo la costa gallurese e soprattutto nell’isola de La Maddalena, le cui cave erano in passato assai note, ed anche a Capo Carbonara.

    Un certo interesse ha lo sfruttamento delle ossidiane perlitiche o perliti, che si trovano in colate alle falde del Monte Arci e che, avendo attitudine ad espandersi quando sono riscaldate e a dare un prodotto leggerissimo, trovano impiego sempre più largo nelle costruzioni e nelle industrie chimiche e metallurgiche. Discreto avvenire ha pure la produzione di marmi che si trovano in varie località, tra cui Monte Doglia, Monte Lupano e Monte Ualla.

    Le sorgenti termali e minerali dell’isola sono numerose e talvolta cospicue sì da costituire un patrimonio importante che però è ancora poco conosciuto e non adeguatamente sfruttato. Tra esse le più e meglio utilizzate sono quelle bicarbonatosodiche di Sàrdara, ove a Santa Maria de is Abbas (Santa Maria delle Acque) sorge un importante stabilimento termale assai frequentato fino dall’antichità (le Thermae Neapolitanae dei Romani); segue lo stabilimento di Casteldoria, sul Coghinas e, ad una certa distanza, quelli molto modesti di San Saturnino presso Benetutti e di Fordongianus.

    Tra le sorgenti minerali fredde, le meglio sfruttate sono alcune di quelle acidule-ferrugginose e alcaline del Logudoro e cioè le sorgenti di Santa Lucia di Bonorva e di San Martino presso Codrongianus, che forniscono acque da bibita, imbottigliate e diffuse in tutta la Sardegna (circa 80.000 q. del valore di 180 milioni).

    Infine è da considerare la produzione del sale marino, per cui la Sardegna ha avuto in tutti i tempi grande importanza, non solo in Italia, ma nell’intero mondo medi-terraneo. Dotata di condizioni naturali assai favorevoli per l’industria saliniera, per la presenza di numerose lagune e stagni costieri, per il suo clima asciutto e per la sua posizione commercialmente favorevole, l’isola ha avuto sempre nel sale uno dei principali prodotti di esportazione.

    Cava di tufo calcareo presso Sassari.

    Sino alla prima metà del secolo scorso si trovavano in Sardegna numerose ma piccole saline distribuite lungo le coste basse (solo intorno a Cagliari ve n’erano una diecina) e di cui rimane traccia in numerosi toponimi costieri. Successivamente, però, dati gli inconvenienti di questa eccessiva dispersione, si è verificato un processo di concentrazione in pochi punti più favorevoli sia per la produttività che per il traffico, come del resto è avvenuto anche lungo gli altri litorali italiani e mediterranei in genere. Cessata da una trentina d’anni l’attività della piccola salina di Stintino, ultima rimasta delle saline sassaresi, le saline sarde si sono ridotte a tre, delle quali una piccola a Carloforte nell’isola di San Pietro e le altre due poste nelle lagune e negli stagni del Golfo di Cagliari e che sono tra le maggiori d’Italia e quindi del mondo. Esse forniscono infatti poco meno della metà della produzione nazionale del sale marino e una metà circa di quello esportato. Di queste due saline cagliaritane, una appartiene allo Stato, ed è la più antica, l’altra all’industria privata ed è quella di Santa Gilla, in attività dal 1927.

    Cava di granito.

    La salina dello Stato o della Palma è la vecchia salina di San Bartolomeo che, impiantata su nuove basi, è divenuta una delle più belle e moderne del Mediterraneo. Essa si stende tra il Capo Sant’Elia, il Monte Urpinu e Quartu e utilizza i due stagni di Molentargius, che funziona da bacino evaporante, e di Quartu, dove si trovano le caselle salanti parallelamente alla spiaggia del Poetto, per una superficie totale di 852 ettari. I bacini evaporanti di Molentargius comunicano col mare per mezzo di un ampio canale che sbocca in corrispondenza della Darsena del Sale, da cui il prodotto è caricato sulle navi più piccole o trasportato al porto di Cagliari. Gli impianti, altamente meccanizzati, permettono di raccogliere 180-200.000 tonn. di sale, e in più vari sottoprodotti (salino potassico, sali misti di magnesio, gesso e altri).

    Più grande e più produttiva è la salina privata di Macchiareddu o di Santa Gilla, che è stata impiantata nella parte meridionale della laguna omonima, nel quadro della sua bonifica. Essa è costituita da un vasto specchio d’acqua evaporante (1350 ha. su 1600 dell’intera salina), comunicante col mare per mezzo di un canale che taglia il cordone litoraneo della Plaia al Ponte Vecchio, ed ha sulle gronde contigue le caselle salanti (250 ha.), disposte a gradinata. Ciò permette di utilizzare integralmente l’acqua marina, estraendone per cristallizzazione frazionata, oltre a gran quantità di sale per uso industriale (oltre 300.000 tonn.), una serie di prodotti tra cui solfato e cloruro di magnesio, sali potassici (kalite o potassa di Sardegna) e bromo, estratto dalle acque madri in un apposito impianto.

    La salina di Carloforte, pure dello Stato, occupa un antico stagno posto a sud della cittadina ed ha una superficie di 106 ha. che fornisce poco più di 10.000 q. di sale.

    La produzione totale che fino al 1927 si aggirava sulle 150-200.000 tonn., dopo l’impianto della salina di Santa Gilla è aumentata assai fino a 446.723 tonn. nel 1937, cifra questa raggiunta e superata dopo la stasi dell’ultimo conflitto: il massimo assoluto si è verificato nel 1961 quando per la prima volta è stato superato il mezzo milione di tonnellate e il valore di 1 miliardo di lire. Ciò è avvenuto per la richiesta sempre maggiore che si fa del sale sardo, di ottima qualità e prezzo conveniente e che è per la massima parte imbarcato a Cagliari da dove, per oltre metà è inviato nelle altre regioni italiane; in particolare quello della salina dello Stato serve solo per uso alimentare ed è distribuito ai depositi del Monopolio, mentre quello di Santa Gilla è inviato in parte alle industrie dell’Italia settentrionale e in parte (2/5 del totale) esportato verso i paesi dell’Europa settentrionale e per un certo periodo fino in Giappone.

    Ammassi di sale lungo il Canale di San Bartolomeo nelle Saline dello Stato di Cagliari.

    L’industria elettrica

    Essendo povera di acque fluenti a sufficiente continuità, la Sardegna non ha potuto ricorrere altro che in scarsa misura alla forza motrice idraulica ed è rimasta a lungo carente di energia elettrica, sicché il pur modesto sviluppo industriale verificatosi nella seconda metà del secolo scorso, si basò prima sul miglioramento delle lavorazioni a forza animale, poi sull’adozione sempre più estesa delle motrici a vapore e solo alla fine dell’800 sui primi tentativi di applicazione dell’energia elettrica. Prime ad introdurre coraggiosamente la nuova forma di energia furono le miniere e in testa a tutte la Monteponi (1883) che l’usò sempre più largamente per l’illuminazione, seguita dalla Malfidano e poi dalla Montevecchio, che la producevano quasi esclusivamente con impianti termici. Timide, limitate, isolate furono invece le iniziative nel campo dei servizi pubblici e delle utenze industriali urbane; nel 1906 l’illuminazione elettrica fu inaugurata a Ozieri e nel 1911 a Cagliari, dove nel 1914 sorse la prima centrale termica della Società Elettrica Sarda (S.E.S.), costituitasi tre anni prima. Dopo la prima guerra mondiale l’uso dell’elettricità si andò generalizzando e si affermò l’idea che l’isola aveva bisogno più delle altre regioni italiane di questo nuovo mezzo di equipaggiamento industriale e di progresso civile.

    I primi studi sulle possibilità energetiche offerte dalle risorse idrauliche sarde furono intrapresi dall’ingegnere Omodeo nel 1910 e si svilupparono in un piano programmatico, di cui si è già detto in precedenza, mirante al recupero e al controllo mediante serbatoi di ingenti quantità di acque da usare coordinando gli scopi irrigui con la produzione di energia idroelettrica. Vi fu posto mano giusto dopo il primo conflitto mondiale ad opera della S.E.S. e della Società Imprese Idrauliche ed Elettriche del Tirso e del Coghinas che realizzarono le due grandi opere.

    L’impianto del Tirso, entrato in funzione nel 1923, si compone della diga di Santa Chiara ad archi multipli, lunga 260 m. ed alta 70 (per quei tempi la più grande diga di questo tipo nel mondo), che permette di raccogliere 400 milioni di metri cubi di acqua, entro cui è istallata una centrale con quattro gruppi di turbine-alternatori della potenza di 23.200 kW. Subito dopo, quest’impianto del primo salto è stato completato con un gruppo secondario in corrispondenza di un secondo salto ottenuto con una diga lunga 150 m. ed alta 26 e della potenza istallata di 3600 kW. Il complesso fornisce in media 42 milioni di kWh annui di energia.

    L’impianto idroelettrico del Coghinas, entrato in funzione nel 1927, è formato da una diga del tipo a gravità lunga 185 m. ed alta 58, che trattiene una massa d’acqua di 255 milioni di metri cubi, e da una centrale elettrica in caverna (la prima del genere costruita in Italia) ove si trovano quattro gruppi generatori, due per corrente continua per l’alimentazione di un impianto di elettrolisi dell’acqua necessario per una fabbrica di prodotti azotati e due per corrente alternata. La potenza istallata del complesso è di 27.200 kW corrispondente ad una erogazione di 44 milioni di kWh.

    Bacino e diga dell’alto Flumendosa.

    Tuttavia, dato il forte grado di variabilità da un anno all’altro degli afflussi ai serbatoi per l’irregolarità delle precipitazioni e le conseguenti cospicue oscillazioni dell’energia erogata, si manifestò subito la necessità di costruire degli impianti termoelettrici integratori, sicché la S.E.S. mise in opera successivamente, oltre alla prima centrale termica di Cagliari, già ricordata, l’altra di Porto Vesme, in funzione delle vicine miniere e alimentata con carbone sardo, e soprattutto quella ben più importante di Santa Gilla, sorta nel 1924 alla periferia di Cagliari allo scopo di fornire energia alla città e provvista di una turbina della potenza di 8800 kW. Comunque, durante quasi tutto il periodo tra le due guerre mondiali, la produzione di energia idroelettrica ha sempre superato largamente quella di energia termo-elettrica.

    Ma proprio alla vigilia dell’ultimo conflitto mondiale, lo sfruttamento intensivo del bacino carbonifero ha alterato profondamente i dati del problema in quanto rese necessario completarne l’attrezzatura con una centrale annessa alle miniere, allo scopo di utilizzare il minuto e in genere il combustibile scadente. Fu costruita per questo nel 1939, in vicinanza del Porto di Sant’Antioco, la grande centrale di Santa Caterina, provvista di quattro gruppi di turboalternatori della potenza complessiva di 40.320 kW. Ciò ha provocato in pochi anni il rovesciamento della situazione: mentre ancora nel 1939 su una produzione totale di 206 milioni di kWh, 89 milioni (pari al 43,2%) erano di energia termoelettrica, nel 1942 su un totale di 273 milioni di kWh, essi erano saliti a 150 milioni (55% del totale). Questo predominio degli impianti termici è durato praticamente fino al 1949, perchè è rimasto ed anzi si è accentuato con la ripresa postbellica tanto che in quello stesso anno su 300 milioni di kWh prodotti, ben 202 milioni furono termici.

    Successivamente la crisi del bacino carbonifero e la necessità di aumentare la produzione dell’energia elettrica per il fabbisogno sempre crescente delle miniere e dell’elettrificazione e come base per lo sviluppo industriale, posero nuovi problemi, sicché si accelerò la costruzione di un terzo grande impianto idroelettrico, quello dell’alto Flumendosa, già iniziato nel 1928 e sospeso nel 1931 per la crisi economica e per il prevalere dell’indirizzo termico. Era già ben chiara, peraltro, la sua importanza non solo ai fini dell’aumento della produzione di energia, ma anche per il sostanziale miglioramento dell’intero sistema elettrico sardo. Esso, infatti, è un impianto a carattere montano ad alta caduta e quindi, al contrario degli altri, scarsamente soggetto alle oscillazioni di origine climatica, sicché vale a integrare la produzione degli impianti del Tirso e del Coghinas e ad attenuarne le variazioni, che fra un anno e l’altro possono essere perfino del 40%.

    Il complesso dell’alto Flumendosa, entrato in funzione nel 1949, costituisce un’opera di grande valore tecnico che utilizza razionalmente le acque del lago-ser-batoio (58 milioni di metri cubi), ottenuto sbarrando il fiume con la diga a gravità di Bau Muggeris, lunga 235 m. ed alta 58. Poiché il lago si trova a 800 m. di altitudine, si rende utilizzabile un dislivello complessivo di 718 m. che è stato diviso in tre salti. Il primo, di m. 129,4 è ricavato completamente in caverna e fa capo ad una centrale pure sotterranea. A questa segue una lunga galleria (km. 7,3) che sbocca in una vasca di carico da cui ha inizio la condotta forzata all’aperto per il secondo salto (m. 417,50). La relativa centrale scarica nel Rio Sa Téula, appositamente sbarrato, dal quale si diparte la galleria di carico del terzo salto (m. 171), che alimenta la terza centrale pure in caverna e scarica le acque a 67 m. di altezza ancora nel Rio Sa Téula che le porta al mare. Dato il forte dislivello, la potenza deirimpianto è notevole: circa 50.000 kW, che forniscono 150 milioni di kWh annui.

    Impianto idroelettrico dell’alto Flumendosa.

    Sezione dell’impianto idroelettrico dell’alto Flumendosa.

    Pertanto si è verificato dal 1950 un aumento considerevole della produzione di energia idroelettrica, che ha ripreso nettamente il sopravvento su quella termica, pur con oscillazioni sensibili da un anno all’altro. Ma il risanamento della situazione del bacino carbonifero del Sulcis ha imposto ai tecnici la sola soluzione economica possibile: l’utilizzazione m loco mediante una supercentrale, che infatti è stata costruita ad opera della Società Termoelettrica Sarda (formata dalla Carbo-sarda e dall’Ente Sardo Elettricità) a Porto Vesme, in sostituzione della vecchia centrale. Si tratta di un impianto imponente, entrato in funzione nel 1955 con una prima sezione della potenza di 64.000 kW e completato dall’E.N.E.L. nell’anno corrente (1965), con altri due gruppi per una potenza complessiva di 480.000 kW che permetterà tra breve l’erogazione di 4 miliardi di kWh, il che ne fa la seconda centrale elettrica d’Italia dopo quella di La Spezia. Per suo effetto, fin dal 1956 si è avuto un forte aumento della produzione di energia elettrica, passata da un anno all’altro da 226 a 368 milioni di kWh e in questi ultimi anni ad oltre il mezzo miliardo di kWh. Si è affermato così, di norma, il predominio dell’energia termica, destinato ad aumentare assai nei prossimi anni. E questo nonostante gli ulteriori progressi conseguiti nel frattempo nel campo idroelettrico con l’entrata in funzione dal 1962 delle due centrali di Uvini e di Santu Miali del complesso del medio Flumendosa, già descritto, eroganti 90 milioni di kWh, e con la costruzione recente della centrale di Gu-sana più una seconda centrale sul Taloro (della potenza complessiva di 47.200 kW), del secondo e terzo salto del Coghinas e di altre minori sul Cedrino e sul Liscia. Con esse, le possibilità idroelettriche dell’isola sono state per la massima parte utilizzate.

    Complessivamente le nove centrali idroelettriche oggi esistenti producono energia in quantità variabile tra 300 e 500 milioni di kWh, secondo l’andamento delle precipitazioni, e le undici centrali termoelettriche ne forniscono 550 milioni. Nel 1962, su una potenza istallata totale di 325.300 kW si è avuta una produzione di 783 milioni di kWh (828 nel 1963), forniti per oltre 3/5 dagli impianti termici, e che rappresentano poco più deiri% della produzione nazionale. La Sardegna viene così al terz’ultimo posto tra le regioni italiane per la produzione di energia elettrica, ma mentre si trova al 15° per quella idroelettrica, è all’ 11° per la termoelettrica. Si noti che la disponibilità prò capite di elettricità è ancora nell’Isola meno della metà di quella media italiana, ma poiché i consumi medi sono inferiori della metà circa rispetto a quelli nazionali, l’energia elettrica è sufficiente e, nelle annate favorevoli, sovrabbondante. Il prossimo forte incremento della produzione per cui si supererà largamente il miliardo di kWh in rapporto col pieno funzionamento della supercentrale sulcitana, non solo permetterà di far fronte all’aumento della richiesta per l’industrializzazione e per i maggiori consumi civili, ma fornirà un forte supero di cui è previsto il trasporto in continente per mezzo di un grande elettrodotto in costruzione che, attraverso la Corsica e sul fondo del Mar Tirreno, dovrebbe raggiungere la zona industriale di Apuania in provincia di Massa Carrara.

    In quanto alla distribuzione nell’Isola della corrente elettrica prodotta, è da notare che oggi essa raggiunge tutti i Comuni e le frazioni, interessando il 97,6% della popolazione (contro il 96,8% dell’Italia intera), e che è effettuata mediante una rete ad alta tensione che ha per centro nevralgico la sottostazione di Villasor, ubicata pressoché nel baricentro dell’utenza della zona meridionale, che assorbe i 4/5 dell’energia erogata. Ad essa convergono infatti le linee provenienti dalle principali centrali sia idro- che termoelettriche sicché funziona da centro generale di interconnessione e di smistamento verso le varie parti dell’isola. Di recente, però, per aderire ai nuovi sviluppi della produzione e del consumo, sono state costruite alcune linee autonome e cioè quella a 120.000 V. dall’alto Flumendosa al nucleo industriale di Arbatax e l’altra a 70.000 V. dal Mulargia a Buddusò; inoltre è stata iniziata la costruzione di una linea longitudinale a 230.000 V. diretta dalla supercentrale di Porto Vesme a Ploaghe, ove sorgerà una grande stazione di trasformazione per il futuro elettrodotto transtirrenico.

    Schema della rete elettrica ad alta tensione.

    In definitiva, oltre ai grandi progressi recenti dell’elettrificazione con conseguente risveglio di attività economiche, è da notare che le prospettive offerte dal settore elettrico sono assai favorevoli, in quanto la Sardegna può contare su un considerevole potenziale di riserva a prezzi accessibili che permetterà, tra l’altro, lo sviluppo di importanti industrie elettrometallurgiche ed elettrochimiche. Il prezzo dell’energia è però alquanto elevato per l’alto costo degli impianti idroelettrici il che è motivo di preoccupazione per le industrie estrattive e metallurgiche che consumano la maggior parte dell’elettricità.

    Industrie manifatturiere e artigianato

    Come si è visto, le industrie manifatturiere, tolte le metallurgiche, hanno avuto scarsissimo sviluppo per una serie di cause che le hanno ostacolate ed ancora le ostacolano. Tra i fattori negativi sono da ricordare prima quelli di carattere naturale, orografico, idrografico, climatico e soprattutto l’insularità della Sardegna, specie in rapporto alla difficoltà di accesso dei suoi mercati naturali di rifornimento e collocamento e alla scarsezza di vie di comunicazione interne che ha costretto non solo l’isola, ma le sue singole parti a un’economia autosufficiente. Questi fattori però frappongono oggi ostacoli minori per i sostanziali progressi verificatisi nelle comunicazioni e nelle tecniche. Vengono poi le cause a carattere sociale in rapporto con la mentalità cauta e scarsamente intraprendente dei Sardi, più propensa agli investimenti immobiliari che a quelli industriali ; e poi con la scarsezza di mano d’opera specializzata. Infine, e più grave, una causa di carattere economico: la mancanza di capitali per cui l’unica fonte di finanziamento industriale è l’intervento statale, che però non ha assicurato finora il credito di esercizio. Ecco perchè nel 1961 il Censimento industriale ha trovato una proporzione di addetti alle industrie ancora assai inferiore a quella media nazionale. Infatti, non tenendo conto delle industrie estrattive, la Sardegna aveva allora appena 61.922 addetti alle industrie vere e proprie, il che la poneva al penultimo posto (esclusa la Val d’Aosta) tra le regioni italiane.

    La responsabilità del prolungarsi fino ai nostri giorni di questo stato di cose, è anche da attribuire all’attardamento delle forme economiche e al basso livello di vita della popolazione, soddisfatto da un’attività artigianale diffusa e significativa. Essa riguardava anzitutto le forme artigianali usuali esprimentisi in attività comuni, come la molitura del grano e delle olive, la concia delle pelli, la tessitura familiare della lana, la costruzione di arredi e di botti, confezione di ferramenta e così via, egregiamente organizzate per secoli dai gremì o corporazioni di mestiere di tipo iberico, persistite sino a un secolo fa. E comprendeva poi forme artigianali artistiche rispondenti ad esigenze di gusto, solo in parte connesse con necessità di ordine pratico: dai tappeti e coperte di lana ai Jilets e ai ricami, dagli oggetti di rame e ferro battuto a quelli di oreficeria a filigrana, dalle terrecotte caratteristiche ai legni scolpiti e agli oggetti di pelletteria. Tutte queste attività artigianali che si estrinsecano in prodotti di notevole originalità sono persistite a lungo per l’isolamento prolungato, ma con l’apertura di tutta l’isola aireconomia moderna, quelle di tipo usuale sono venute a trovarsi in difficoltà e molte di esse sono scomparse. Tuttavia un numero notevole di aziende dedite all’artigianato artistico o tradizionale a suo tempo ricordato, hanno potuto mantenersi e anzi negli ultimi tempi si sono riorganizzate con l’aiuto della Regione, dando prodotti assai ricercati, costituenti per molte parti un cespite non indifferente di guadagno. Infatti, secondo una valutazione recente, gli artigiani sono oggi in Sardegna circa 30.000 (il 10-15% dell’intera forza lavorativa) ed assicurano un reddito di oltre 20 miliardi, pari al 12-15% del reddito globale isolano.

    Il merito di aver dato origine a vere e proprie attività industriali, spetta alle società minerarie che dettero vita, a sussidio dell’attività estrattiva, a numerosi impianti meccanici, cui si aggiunsero dal 1870 in poi, quelli in rapporto con la costruzione delle ferrovie. Sorsero via via alcune industrie alimentari, tra cui più diffuse quelle molitorie, che sostituirono i molini casalinghi e prese piede nei centri principali e soprattutto a Cagliari, qualche pastificio e qualche impianto per la fabbricazione di laterizi.

    Ma ben più importante fu, sempre da parte delle società minerarie, la creazione di un’industria metallurgica annessa alle miniere piombo-zincifere principali, che ha costituito il settore più vitale del quadro industriale sardo.

    Le industrie metallurgiche e mineralurgiche

    L’utilizzazione dei minerali estratti è stata a lungo impedita dalla mancanza di energia, di attrezzature e di mano d’opera qualificata ed anche dalla politica finanziaria e industriale delle società minerarie, alcune delle quali straniere, che preferivano inviare alle fonderie estere i minerali e soprattutto quelli di zinco. Si consideri che, ancora nel 1913, quasi tutti i minerali ricchi furono esportati e in particolare quelli zinciferi andarono per tre quinti nel Belgio e per il resto in Francia, Austria e Germania. Gli inizi della metallurgia sarda riguardano il trattamento dei minerali poveri di piombo per cui, oltre alle vecchie modeste fonderie di Villacidro, Domus-novas ed altre minori, fu impiantata a Monteponi una fonderia, destinata ad acquistare la grande importanza che ha oggi. Invece il primo impianto nazionale per il trattamento termico delle calamine sorse, sempre ad opera della Monteponi, a Vado Ligure.

    Una vera industria metallurgica sarda ha potuto prendere sviluppo quando la costruzione delle due centrali idroelettriche del Tirso e del Coghinas ha messo a sua disposizione le ingenti quantità di energia elettrica necessarie.

    Sorgono infatti poco dopo: l’officina per l’elettrolisi dello zinco di Monteponi (1926) e qualche anno più tardi (1932) la fonderia di piombo di San Gavino Monreale, per opera della Società Italiana del Piombo (fondata dalla Monteponi e dalla Montevecchio), la quale lavora i minerali di quest’ultima e che è la maggiore d’Italia, avendo una capacità che le consente il trattamento dell’intera produzione di piombiferi sardi. Nella stessa epoca la metallurgia dello zinco veniva potenziata con la messa in marcia in continente di altri impianti, e cioè quello della Pertusola per lo zinco elettrolitico a Crotone, quello di Porto Marghera per il trattamento delle blende di Montevecchio e un analogo impianto dell’A.M.M.I. a Ponte Nossa presso Bergamo, dato che in queste località vi è larga disponibilità di energia elettrica a prezzo conveniente. Tali istallazioni, aggiunte alle precedenti, hanno portato la capacità produttiva di zinco metallo a 40.000 tonn. annue, pari al fabbisogno nazionale di quel tempo.

    Gli impianti su cui poggia l’attività metallurgica propriamente sarda sono dunque quelli di Monteponi e di San Gavino, cui si aggiunge lo stabilimento di Villasalto per la metallurgia dell’antimonio. A Monteponi si trova un grosso complesso costituito da una fonderia di piombo che ha una capacità di oltre 9000 tonn., ma che ne produce 5-6000 insieme a 3-4000 kg. di argento; un impianto per il trattamento elettrolitico delle calamine ferrugginose della capacità di 8000 tonn. di zinco, la cui produzione si aggira sulle 6-7000 tonn. di metallo, cui si aggiungono 15-20.000 kg. di cadmio; una fabbrica di bianco di zinco che ne produce 1500-2000 tonn. e infine una fabbrica di acido solforico che utilizza la pirite locale e che serve per l’elettrolisi dello zinco. Più grande ancora, anche se meno complesso, è lo stabilimento di San Gavino, ove lavorano circa 300 operai, che tratta solo minerali piombiferi e produce 15-16.000 tonn. di piombo, 10.000 kg. di argento e un centinaio di tonnellate di rame di recupero. Infine nel piccolo impianto di Villasalto si ricavano 250-300 tonn. di antimonio, circa 800 tonn. di piombo antimoniale e vari composti dell’antimonio (ossidi, solfati, ecc.).

    In complesso si produce in Sardegna circa la metà del piombo e dell’argento nazionale, tutto l’antimonio, ma solo l’8% dello zinco perchè, come si è visto, la maggior parte degli zinciferi (125-130.000 tonn.), viene lavorata in continente o esportata, non essendo tutto sommato conveniente lavorarli nell’isola, anche per l’esiguo numero di operai che i moderni stabilimenti richiedono. Si pensi infatti che l’insieme degli impianti metallurgici sardi occupa appena tra 500 e 600 operai, pur assicurando una produzione il cui valore si aggira sui 6 miliardi di lire. Considerando l’esiguo numero degli addetti e il fatto che le aziende più importanti appartengono a ditte continentali, appare giustificato concludere che l’industria metallurgica sarda non rappresenta un ruolo determinante o marcatamente significativo nell’economia dell’isola. E qualcuno vuole estendere questa poco confortante valutazione all’intera industria estrattiva.

    Anche per quanto riguarda Vattività mineralurgica si deve osservare che, sebbene essa rappresenti nel suo complesso un valore niente affatto trascurabile — intorno a 5 miliardi di lire — ha in realtà un significato modesto dal punto di vista economico generale e importanza esigua dal lato sociale, poiché dà lavoro solo ad un migliaio di operai. Tanto più, questo, quando si consideri che la massima parte della quantità e del valore dei prodotti è costituita dal cemento artificiale e dal sale marino. La fabbricazione del cemento si appoggia ad importanti cave del buon calcare marnoso miocenico, lavorato in tre stabilimenti, di cui uno più vecchio si trova alla periferia di Cagliari e gli altri recentissimi a Cargeghe in quel di Sassari e a Porto Torres per il cemento bianco. La produzione supera largamente il mezzo milione di tonnellate, per un valore di oltre 2,5 miliardi di lire ed è più che sufficiente al fabbisogno dell’isola.

    Vedi Anche:  Origine del nome e caratteri generali della Sardegna

    Per il resto, oltre all’estrazione dei sali di potassio, di magnesio e di bromo, praticata nelle saline di Cagliari, cui si è già accennato, è da ricordare la lavorazione di minerali e di rocce consistenti soprattutto nella macinazione della baritina (di cui si trattano circa 50.000 tonn. per un mezzo miliardo di lire), del talco (13.000 tonn. per 250 milioni di lire) e dell’ossidiana perlitica.

    Le altre industrie. Aree e nuclei di sviluppo industriale.

    Passando ora ad esaminare la consistenza e i caratteri deH’industria manifatturiera vera e propria si deve dire subito che, come riconosce anche l’accurato « Rapporto conclusivo » della Commissione Economica di studio per il Piano di Rinascita pubblicato nel 1958, fino a pochi anni or sono « una moderna struttura industriale articolata su aziende di buona produttività tecnica e di razionale aspetto organizzativo, era praticamente inesistente » in quanto « l’industria manifatturiera sarda non era che un molto espanso artigianato di mediocre efficienza tecnica e di rudimentale efficienza amministrativa ». In effetti, anche i dati offerti dal Censimento industriale e commerciale del 1961 confermano questa franca diagnosi, sia che si considerino le indicazioni relative alla consistenza complessiva degli impianti industriali o unità locali, sia soprattutto considerando gli impianti secondo il numero degli addetti, e le ditte secondo la forma giuridica. Risulta infatti dagli ultimi dati dell’I.S.T.A.T.

    che nel 1961 esistevano 15.666 unità locali con 75.192 operai, ma per le industrie manifatturiere solo 13.017 impianti con appena 36.369 operai; questo poneva la Sardegna rispettivamente al 14° e al 16° posto tra le regioni italiane, terzultimo questo dopo l’Umbria e la Basilicata. Ciò significa che il numero medio di addetti per ogni unità locale era solo di 48 persone e solo di 27 per le manifatture contro una media nazionale di 73. Ma ben più grave è la constatazione che l’87% degli impianti industriali aveva, nel 1961, meno di 5 addetti e 3/4 di questi addirittura meno di 2, mentre appena il 7,5% ne avevano più di 10: vero è che questi raccoglievano il 61% degli operai, ma si deve considerare che circa 1/4 di essi era addetto non a industrie manifatturiere, ma ad attività estrattive cui appartengono le uniche grosse aziende. Un’apposita indagine eseguita nel 1958 dalla stessa Commissione di studio per il Piano di Rinascita ha stabilito che, tranne rare eccezioni, vere industrie erano solo quelle con un numero di dipendenti non inferiore ai 50 e che di queste se ne trovavano solo 26 con 2327 operai.

    Se poi si prende in considerazione la forma giuridica delle imprese o ditte industriali, secondo il loro numero sia nel 1951 che nel 1961, si vede che il 93% di queste era costituito da ditte individuali, appena lo 0,6% da società per azioni, cooperative e in accomandita, il 6% da altre forme societarie (in nome collettivo, di fatto, ecc.) e infine lo 0,7% da enti. Predomina dunque largamente la forma di impresa più rudimentale, che pure accoglie circa i 3/5 degli addetti e che testimonia di una struttura industriale estremamente frazionata e di un mondo economico attardato, poco adatto all’acquisizione di sistemazioni tecniche e mercantili razionali e produttive.

    Una riprova della scarsa importanza delle industrie manifatturiere è costituita dalla modesta quantità di energia elettrica che vi è impiegata: appena 143 milioni di kWh nel 1961, cioè neppure 1/4 del consumo totale, contro 163 milioni usati per usi domestici e 175 milioni dalle industrie estrattive.

    Occorre dire, per vero, che nell’ultimo decennio ha avuto inizio un’apprezzabile evoluzione del quadro industriale sardo, sia per l’insorgenza di alcune nuove importanti iniziative, sia soprattutto per una modificazione della struttura produttiva con un passaggio di operai dalle industrie estrattive a quelle manifatturiere ed edilizie ed anche con una certa concentrazione aziendale. Tutto ciò per effetto di cospicui finanziamenti erogati a partire dal 1953 da un apposito istituto regionale di credito industriale denominato « Credito Industriale Sardo » (C.I.S.) con la partecipazione della Cassa del Mezzogiorno.

    Questi finanziamenti, insieme a facilitazioni fiscali e tariffarie e a consistenti contributi, hanno determinato condizioni assai favorevoli e incentivi che hanno attenuato molto gli aspetti sfavorevoli, anche per l’avvenuta costituzione di un non trascurabile mercato locale e per il miglioramento delle comunicazioni col continente.

    Naturalmente esistono fortissime differenze nel grado di industrialità delle tre province sarde, predominando largamente quella di Cagliari che possiede la metà degli impianti industriali e quasi i 3/5 degli addetti; segue Sassari con poco meno di 1/3 sia degli impianti che degli addetti; e infine viene Nuoro con 1/5 circa degli impianti e solo il 15% degli operai.

    Considerando ora le industrie per classi di attività, appare evidente dai dati del 1961 la netta predominanza di quelle alimentari per numero complessivo di addetti, per numero di ditte importanti e per consumo di energia. Si tratta di industrie connesse, com’è logico, con l’agricoltura e l’allevamento e che perciò sono le più vive e vitali dell’isola.

    Aree e nuclei d’industrializzazione e principali attività industriali.

    La più importante è quella casearia che è esercitata in 340 caseifici maggiori, di cui 260 in gestione privata e 80 in gestione collettiva, che funzionano da gennaio a maggio e si dedicano essenzialmente alla preparazione del formaggio pecorino tipo romano, cui si aggiungono il cotronese, il fresa (con latte vaccino) e il feta. Si lavorano ogni anno da 1,3 a 1,4 milioni di quintali di latte di pecora e di vacca, soprattutto a Macomér, Arboréa, Oristano, Bonorva, Nuoro e Sassari e producono 50-60.000 q. di formaggio in gran parte esportato. Ad essi si aggiungono parecchie migliaia di attrezzature minori casalinghe e transumanti, che lavorano almeno altri 250.000 q. di latte di pecora e di capra, con cui si fabbricano oltre 100.000 q. di eccellente formaggio fiore sardo, consumato largamente nell’isola e oggetto di redditizia esportazione. In complesso si producono 150-180.000 q. di formaggio, di cui 120.000 circa sono esportati insieme ad abbondante ricotta (50-60.000 q.).

    Viene poi l’industria enologica, che si svolge soprattutto nelle numerose cantine sociali già ricordate, raccolte per lo più nel Campidano vitato e in quello settentrionale e poi intorno ad Alghero (Santa Maria La Palma), nel Sassarese (Sorso e Sénnori) e in Ogliastra. A Monserrato, a Pirri, a Dolianova, a Quartu vi sono gli stabilimenti più importanti ove si svolge la lavorazione completa delle uve e dei vini tipici e di alcool con l’estrazione di olio dai vinaccioli. Nel Campidano centrale spiccano le cantine sociali di Serramanna e di Sanluri e in quello settentrionale quelle di Terralba e di Marrubiu. Alla produzione di Vernaccia, ben nota e assai richiesta, si dedica l’apposita cantina sociale di Oristano, mentre quella di Jerzu valorizza il pregiato Cannonau ogliastrino e l’altra di Tempio il Moscato e il Vermentino.

    Esistono anche varie distillerie per liquori, alcuni dei quali tipici, a Villacidro, a Pirri e a Sassari.

    L’oleificio, per quanto negli ultimi tempi abbia fatto progressi notevoli, lascia ancora a desiderare, in quanto si basa su una trentina di frantoi maggiori raccolti per oltre metà nel Sassarese dove si trovano quelli principali, ma non tutti efficienti. In parte ancora antiquati sono i sansifici e alcuni stabilimenti di raffinazione situati soprattutto a Sassari e ad Alghero.

    Ben rappresentate sono anche l’industria molitoria e derivati, con grossi impianti a Cagliari, Oristano e Sassari, cui si può aggregare lo stabilimento per la brillatura e pilatura del riso di Oristano e l’industria saccarifera che conta due zuccherifici a Oristano e a Villasòr e produce 150-200.000 q. di zucchero, ricoprenti largamente il fabbisogno sardo.

    Ancora modesta importanza ha, invece, l’industria delle conserve vegetali che conta solo pochi stabilimenti, più che altro per la fabbricazione della conserva di pomodoro a Codaruina, ad Alghero e a Tramatza nel Campidano di Oristano, ma un’altra è sorta di recente a Serramanna. E ancor meno importanti sono quelle delle conserve di pesce, rappresentate dalle fabbriche di sardine in scatola di Porto Torres e Alghero e dagli impianti annessi alle tonnare, e quella della lavorazione delle carni, con modesti impianti a Chilivani e ad Abbasanta.

    Per completare il quadro delle industrie alimentari è da ricordare una fabbrica di birra, posta nei pressi di Cagliari e che produce oltre 120.000 hi. annui della bevanda.

    Delle altre industrie spicca per originalità e per una certa importanza su piano nazionale quella del sughero, che conta vari opifici soprattutto in Gallura e principalmente a Calangianus, seguito da Aggius, Tempio, Olbia e Berchidda e poi anche ad Abbasanta e Iglesias. Essi però si limitano per lo più ad una prima lavorazione che riguarda circa un quarto del sughero prodotto nell’isola, perchè per la maggior parte il prodotto è esportato allo stato grezzo essendo il trasporto degli oggetti finiti costoso, il che avvantaggia le similari industrie continentali. Comunque l’industria è in via di riorganizzazione e potenziamento.

    Pure interesse nazionale ha l’industria dei refrattari silico-alluminosi, che si svolge in due stabilimenti a Cagliari. Sviluppo considerevole ha assunto l’industria dei materiali da costruzione in rapporto con l’intensa attività costruttiva sviluppatasi soprattutto nei centri principali e a cui attendono un migliaio di unità locali con 15.000 addetti: oltre ai tre cementifici già ricordati, fabbriche di laterizi nel Cagliaritano e nell’Oristanese, di elementi in cemento, di prefabbricati, di ceramiche da rivestimenti (due stabilimenti) e di infissi metallici a Cagliari, ecc.

    Il settore della chimica ha qualche impianto degno d’essere ricordato, come quello per la fabbricazione di ammoniaca sintetica al Coghinas, usata ad Oschiri insieme all’acido solforico (120.000 q.) per la produzione di concimi azotati (100.000 q. di solfato ammonico) e l’altro per la produzione di perfosfati a Cagliari. Ad essi si aggiungono vari stabilimenti minori per gas compressi e gas combustibile (6 milioni di metri cubi e 8000 tonn. di coke ricavati da 15.000 tonn. di carbón fossile), ipoclorito di sodio, saponi, un colorificio a Cagliari, ecc. Invece nel campo della meccanica pochissimi sono gli impianti che superino le dimensioni artigianali della semplice officina e tra essi a Cagliari quello delle Ferrovie dello Stato per riparazioni e manutenzione del materiale e una modesta fonderia di ferro e ghisa. L’industria conciaria un tempo fiorente a Sassari, a Bosa e in varie località, si è ora contratta anche come attività artigiana. È infine da segnalare la Manifattura Tabacchi di Cagliari, che lavora oltre 800.000 kg. di tabacco, fabbricando soprattutto sigarette.

    Occorre osservare che, pur se di modesta importanza complessiva, le attività industriali sarde si sono venute addensando in alcune località più favorite e prima di tutte attorno a Cagliari e in minor misura a Porto Vesme, intorno a Oristano e a Porto Torres, sicché si è venuta configurando una zona industriale cagliaritana e tre o quattro nuclei industriali periferici.

    Questo quadro, offerto dalle industrie sarde nel 1961 e risultato di una riorganizzazione e di una prima spinta all’evoluzione, ha avuto negli ultimi quattro anni decisive aperture mediante la realizzazione di nuove importanti iniziative industriali atte a determinare una vera rottura del circuito chiuso dell’economia sarda tradizionale con la costituzione di un’industria di base ancora mancante. Ciò è dovuto a poderosi incentivi consistenti soprattutto in massicci finanziamenti concessi dal Credito Industriale Sardo, anche per conto della Regione Sarda e della Cassa del Mezzogiorno, per un totale di ben 129 miliardi per il solo periodo 1961-64. Si sono venute così a concretare iniziative per un complesso di investimenti di 212 miliardi con una serie di impianti, di cui alcuni già costruiti e funzionanti e molti in costruzione nella vasta « area di sviluppo industriale » di Cagliari già istituita e comprendente tutto il Campidano meridionale (22 Comuni con 300.000 ab.), nella zona industriale Sassari-Porto Torres e nei nuclei di industrializzazione di Tortoli-Arbatax, del Sulcis, di Oristano e di Olbia, tutti favoriti da disponibilità di energia, presenza di varie materie prime e dotazione di infrastrutture.

    L’opera più importante e con significato che supera il quadro regionale è stata realizzata nel Cagliaritano e consiste in una grande raffineria sorta a Sarròch ad opera di una società sarda (la S.A.R.A.S.) e già entrata in funzione, che lavorerà annualmente 6 milioni di tonnellate di petrolio greggio, esporterà 5,5 milioni di tonnellate di prodotti raffinati e passerà il resto ad un grande complesso petrolchimico della Rumianca appena costruito tra Sarròch e Cagliari. Esso si pone come industria motrice, capace di determinare un nuovo assetto economico-industriale dell’area, così come è avvenuto ad Augusta in Sicilia. La raffineria di Cagliari fornisce pure prodotti della raffinazione ad un secondo impianto petrolchimico a Porto Torres per la produzione di resine sintetiche e provvederà anche ad alcune altre fabbriche di cui due sono in costruzione a Villacidro e a Siniscola, per la produzione del nylon e tessuti misti di nylon e lana. Una seconda raffineria di minore importanza sta sorgendo a Porto Torres.

    Si è dunque costituita intorno a Cagliari ed ha già avuto pieno riconoscimento giuridico e relativa delimitazione un’area di industrializzazione ove si trova il principale addensamento industriale deirisola. Basti pensare che tra il 1951 e il 1961 vi si è verificato un aumento dal 24,6% al 48% degli addetti alle industrie, per 1/3 dovuto al settore edilizio, ma anche a quello metalmeccanico (ferriera e acciaieria, carpenteria metallica), a quello alimentare (gelati, birra), alla lavorazione dei minerali non metalliferi (lavorazioni ceramiche) e industrie complementari dell’edilizia e varie (manufatti di plastica). Con lo sviluppo dell’area cagliaritana è connessa la costruzione di un nuovo grande porto industriale già progettato. L’altra area industriale, pur di minore importanza, si sta costituendo attorno ai due centri economicamente complementari di Sassari e Porto Torres di cui quest’ultimo prevale nettamente con le notevoli realizzazioni già conseguite e ricordate nel campo della petrolchimica, dei materiali da costruzione, del legname, ecc.

    Tra i « nuclei d’industrializzazione », costituitisi anch’essi in corrispondenza di porti, spicca quello di Tortoli-Arbatax, sorto nella piana ricca di acque e con disponibilità di energia elettrica e che ha per centro una grande cartiera, realizzata dal Gruppo Cartiere del Timavo e già entrata parzialmente in funzione, che dovrà produrre pasta di legno e 90.000 tonn. di carta da giornali e da rotocalco con cellulosa e legno importati attraverso il Porto di Arbatax. Vi stanno sorgendo intorno una grande segheria, un’officina meccanica e uno stabilimento per la conservazione dei prodotti agricoli della piana.

    Secondo nucleo destinato a grande avvenire è quello del Sulcis-Iglesiente dove la Supercentrale agisce già da elemento catalizzatore di attività chimiche alle quali si progetta di aggiungere a Porto Vesme, opifici elettrometallurgici per la produzione di ferroleghe e acciai speciali e forse un impianto per la metallurgia dell’alluminio. A Sant’Antìoco agisce un impianto per l’estrazione dell’ossido di magnesio dal mare.

    Concentrazione industriale assai minore, ma interesse non trascurabile presentano infine gli altri due nuclei industriali: di Òlbia, con nuove iniziative nel campo mineralurgico, alimentare e del sugherificio, e di Oristano, ove in parte si è verificata ed in parte è in corso, una rapida proliferazione di attività connesse con la lavorazione dei prodotti della sua fiorente agricoltura e con l’edilizia.

    Si vede così che la Sardegna, con una svolta decisa, si è messa sulla via dell’industrializzazione ricca di sviluppi e di promesse, sorretta com’è dagli ingenti finanziamenti predisposti dal Piano di Rinascita che prevede per il quinquennio 1965-69 l’erogazione alle sole industrie di una cinquantina di miliardi di lire.

    Le attività commerciali

    La fragilità e fluidità ancora esistenti nella struttura professionale della popolazione sarda è dimostrata anche dall’entità e dagli aspetti che presentano le attività terziarie e particolarmente il commercio interno. Infatti il Censimento industriale e commerciale del 1961 ha rilevato che il settore terziario aveva una consistenza sia pur di poco maggiore di quello secondario industriale ed era cresciuto più rapidamente. In effetti tra il 1951 e il 1961 le unità locali, cioè i negozi e i magazzini, erano passati da 18.750 a ben 28.033 con corrispondente aumento del numero degli addetti da 34.773 a 54.117! E le licenze di commercio erano in numero ancora superiore e cioè circa 34.000, corrispondenti a una ogni 41 abitanti, contro una a 50 della media italiana. Questo enorme aumento degli esercizi, sproporzionato rispetto all’aumento della popolazione è dovuto in parte al miglioramento del tenore di vita, ma dipende soprattutto dal fatto che l’attività commerciale rappresenta una fonte di reddito sussidiaria che serve per arrotondare altri magri proventi delle famiglie, ed anche in quanto in essa si sono rifugiati coloro che hanno cessato altra attività. Ma influiscono pure le difficoltà connesse con la perdurante scarsezza di mezzi e di vie di comunicazione che obbligano anche piccoli nuclei abitati all’autosufficienza per gli approvvigionamenti, data la contemporanea scarsezza del commercio ambulante, nonché le minori esigenze in preparazione specifica e in capitali necessari per creare gli impianti.

    Questo è dimostrato dalla struttura del sistema distributivo, caratterizzata da una proporzione di esercizi dediti al commercio al minuto assai superiore a quella media nazionale (con corrispondente scarsezza di esercizi all’ingrosso e di depositi) e dalla forte predominanza di negozi e di magazzini di generi alimentari, che rappresentano i tre quarti del totale, mentre nella media nazionale sono solo la metà. E ciò per le dimensioni ancora ridotte del mercato interno sardo, il cui basso reddito sostiene più che altro la domanda di generi alimentari. Si deve anche tener conto che i costi di distribuzione sono in Sardegna superiori a quelli del continente per la forte incidenza del costo dei trasporti, che quindi ha influenza negativa, sia che provochi aumenti dei prezzi, sia che determini diminuzione dei ricavi.

    Questi particolari caratteri rendono il commercio interno sardo soggetto a risentire fortemente delle depressioni economiche non solo generali, ma anche di singoli settori della vita isolana, come quello agricolo o quello pastorale, che d’altra parte sappiamo dipendere dai capricci del clima, sia pure oggi in misura minore di un tempo.

    Le vie di comunicazione terrestri

    Se si rammenta ciò che è stato più volte osservato nel corso della nostra trattazione a proposito dell’influenza negativa che l’isolamento e la ridotta possibilità di circolazione hanno avuto sulla vita dell’isola, si deve concludere che la scarsezza e la difficoltà delle vie di comunicazione hanno avuto effetto decisivo suH’attardamento umano ed economico della regione. In particolare uno degli ostacoli più gravi per lo sviluppo delle industrie e di un’agricoltura di tipo commerciale è di natura mercantilistica, connessa con la scarsezza e con la difficoltà delle vie di comunicazione e dei mezzi di trasporto persistite per tutto il Medio Evo e in età moderna fino alla prima metà del secolo scorso. Infatti la bella e razionale rete stradale costruita dai Romani, già da noi descritta, deperì rapidamente dopo la caduta dell’Impero, sicché al principio del secolo scorso si può dire non esistesse in Sardegna alcuna strada rotabile degna di questo nome. Solo nel 1822 fu dato inizio alla realizzazione di un piano stradale dovuto al Carbonazzi, con il tracciamento della strada nazionale che congiunge Cagliari con Porto Torres percorrendo l’isola in tutta la sua lunghezza dal lato occidentale per 235 km. e che fu chiamata « Via Carlo Felice » dal nome del viceré Carlo Felice che la volle. Questa importante arteria, aperta al traffico nel 1829 e ciò costituì il punto di partenza di un periodo nuovo verso la civiltà e il progresso. Subito dopo si costruirono dei raccordi con vari punti della costa e dopo l’unità italiana si dette mano ad un altro progetto, che portò alla realizzazione di due strade longitudinali, l’Orientale sarda e la Centrale sarda, e delle strade trasversali di raccordo tra cui più importanti la Settentrionale da Alghero ad Olbia (126 km.), la Bosa-Nuoro, prolungata più tardi fino a Orosei (100 km.) e quella Iglesiente che congiunge Cagliari con Iglesias e con Sant’Antìoco. Esse ricalcavano in gran parte la rete stradale romana, dato che le vie si debbono adattare ai lineamenti del rilievo. Così dai 322 km. del 1837 si è passati cinquant’anni dopo a ben 4591 km. di strade rotabili fra nazionali, provinciali e comunali obbligatorie, sicché la regione si poteva considerare, per quei tempi, abbastanza ben servita, possedendo l’ottava parte delle strade nazionali. Successivamente però, i progressi si arrestarono per un lungo periodo e solo nel 1920 fu stabilito un programma per l’accrescimento sia della rete principale che di quella secondaria, allo scopo di allacciare i molti Comuni ancora isolati e il collegamento alle stazioni ferroviarie.

    La nuova strada litoranea per la Gallura, lungo la costa del Golfo dell’Asinara.

    Schema della rete stradale sarda.

    Approntamento di strade stabilizzate in una zona di trasformazione agraria dell’E.T.F.A.S.

    Ma questi miglioramenti rimasero senza grande effetto per la povertà generale dell’isola e, a parte le arterie maggiori, molte strade rimasero a lungo assai poco percorse, anche per il loro tracciato particolarmente difficile nel settore montuoso orientale. Quivi, infatti, le strade tendono per lo più a rifuggire dai fondovalle incassati e a seguire le dorsali e le creste, evitando il più possibile di traversare i corsi d’acqua. Pertanto il traffico si è sviluppato lentamente, anche per il tardo affermarsi del movimento automobilistico.

    Nel 1950 la rete stradale della Sardegna, non considerando le strade di bonifica (197 km.), contava complessivamente 4898 km., ma aveva composizione diversa, essendo aumentate notevolmente le strade nazionali (1444 km.) e meno le provinciali (2006 km.) e diminuite le comunali (1215 km.). Ciò significa che esistevano solo 192 km. di strade per ogni 1000 kmq. di superficie, contro ben 582 dell’Italia intera, il che poneva la Sardegna all’ultimo posto tra le regioni italiane. Le cose sono molto diverse, naturalmente, se si considera il rapporto con la popolazione, che nel 1950 era di 37,3 km. per ogni 10.000 abitanti mentre la media nazionale era solo di 35,8; ma questo vantaggio è del tutto illusorio perchè quel che conta è la possibilità di superare le distanze per collegare tra loro i centri abitati, che in Sardegna distano l’uno dall’altro assai più del resto d’Italia e che d’altra parte sono serviti scarsamente dalle ferrovie.

    Per questo, dopo il 1951, la Regione in collaborazione con la Cassa del Mezzogiorno e gli enti di riforma e bonifica ha dato forte impulso al miglioramento della viabilità, tenendo soprattutto conto delle istanze sociali ed economiche della provincia di Nuoro, che era assai meno dotata delle altre. Un vasto piano preordinato e ben coordinato è stato perseguito con rapidità e con larghezza di mezzi, tanto che la sola Cassa del Mezzogiorno ha costruito nuove strade per 450 km., oltre a 170 km. di strade turistiche e provveduto alla sistemazione dei 3/4 delle strade provinciali. Tra le maggiori realizzazioni sono da ricordare: la strada litoranea settentrionale da Santa Teresa a Sassari (66 km.), via di penetrazione per la Gallura costiera; la strada Nuoro-Siniscola (49 km.) che ha avvicinato di ben 33 km. Nuoro a Olbia; la strada Fonni-Désulo (24 km.) nell’impervio massiccio del Gennargentu; la strada diretta da Siliqua a Carbònia che abbrevia e rende più facili i collegamenti tra Cagliari e la zona industriale del Sulcis. Con le altre centinaia di chilometri di strade costruite dalla Regione (anche per facilitare l’accesso a località di interesse archeologico e turistico) e dall’E.T.F.A.S. nelle zone in trasformazione agraria, la rete stradale sarda aveva raggiunto complessivamente nel 1961 i 5758 km. (24 per ogni 1000 kmq.), ed è stata migliorata assai: soprattutto aumentate sono le strade provinciali (3379 km.) ed anche le nazionali (2179 km.), ma diminuite molto le vie comunali perchè parecchie di esse son passate a provinciali.

    Ponte stradale e ferroviario sul Flumendosa a Villanovatulo.

    Intensità del traffico lungo le strade ordinarie secondo il rilevamento del 1960.

    Negli ultimi anni i progressi sono continuati anche più rapidi, tanto che, a quanto pare, la lunghezza della rete stradale ha superato oggi i 10.000 km., soprattutto per l’incremento delle vie provinciali. Ma perdura la grave carenza di vie comunali.

    Naturalmente anche il traffico stradale ha segnato un aumento straordinario ed è assai migliorato, per il contemporaneo incremento dell’attività industriale e commerciale e del turismo. In particolare i servizi automobilistici extraurbani integrano oggi efficacemente il traffico ferroviario, tanto che il numero dei passeggeri è passato dai 7 milioni circa nel 1950 ai 24 milioni del 1961. E ciò pur essendosi verificato contemporaneamente uno straordinario aumento delle autovetture, passate da 5557 nel 1950 a 65.000 nel 1963 e cioè da una vettura ogni 163 persone a una vettura ogni 22! Del resto il numero e la lunghezza di esercizio delle linee automobilistiche sono più che raddoppiate, sia per lo svilupparsi dei moti pendolari giornalieri, sia per l’affittirsi dei collegamenti dei centri periferici col mare.

    L’intensità del traffico secondo le diverse strade dell’isola è assai disforme, in quanto dipende dalla densità e distribuzione della popolazione e dall’intensità delle attività economiche e del movimento turistico. Spiccano per il traffico più attivo le strade del Campidano, tra cui l’asse della « Carlo Felice », sino ad Abbasanta, e soprattutto quelle intorno a Cagliari, in particolare il tratto tra la città, Decimo-mannu e Siliqua, nonché le vie irraggianti da Oristano e da Sassari e specialmente quelle per Porto Torres e per Alghero.

    La Sardegna ha così gettato le basi per raggiungere anche per la viabilità il livello medio nazionale.

    Invece la rete ferroviaria non ha seguito nel suo sviluppo un ritmo altrettanto cospicuo. Essa fu costruita dopo il 1870 ed ebbe inizio con il tracciamento della linea Cagliari-Golfo Aranci che rappresenta la spina dorsale del sistema ferroviario dell’isola. Nel 1871 infatti fu aperto al traffico il suo primo tronco Cagliari-Oristano e nel 1883 veniva inaugurata l’intera ferrovia, completa delle due diramazioni Deci-momannu-Iglesias e Chilivani-Sassari-Porto Torres, ricalcati tutti, come le strade, sui lineamenti orografici. Così nel 1885 le ferrovie avevano già lo sviluppo di 418 km. che è di ben poco inferiore a quello odierno, poiché ad esso si è solo aggiunto, nel 1956, il breve tronco Carbònia-Domusnovas (22 km.) costruito a servizio del bacino carbonifero del Sulcis. Nel suo complesso la rete delle Ferrovie dello Stato misura 440 km. Ma fin dall’inizio le suddette linee non furono giudicate sufficienti, sicché già dal 1885 si pose mano alla costruzione di linee secondarie, che però hanno il grave difetto di essere a scartamento ridotto (0,950 m.), sicché i due gruppi di strade ferrate costituiscono due sistemi indipendenti, con conseguenze negative in campo economico in quanto la differenza di scartamento obbliga a scomodi e costosi trasbordi che spesso non rendono conveniente il trasporto delle merci per ferrovia rispetto a quello per via ordinaria. Queste linee furono realizzate abbastanza rapidamente, tanto che risalgono tutte a prima del 1900 ed hanno oggi uno sviluppo complessivo di 949 km., di cui però sono in esercizio solo 850 km. perchè alcune sono state sostituite con linee automobilistiche. La maggior parte di queste ferrovie in concessione appartiene alle Ferrovie Complementari Sarde e comprende le linee esistenti nella Sardegna centrale, tra cui spiccano la Cagliari-Mandas-Arbatax (228 km.) con la Mandas-Isili-Sórgono (95 km.) e la trasversale Bosa-Macomèr-Nùoro (in km.)! Nel Nord agisce in particolare la Società Strade Ferrate Sarde con la linea Sorso-Sassari-Tempio (151 km.) e nell’Iglesiente e Sulcis le Ferrovie Meridionali Sarde con la linea principale Siliqua-Palmas-Calasetta (79 km.). Si tratta però di linee con tracciato tortuoso e difficile e con armamento inadeguato e quindi lente da percorrere anche dalle moderne automotrici che hanno sostituito i vecchi trenini a vapore: si pensi che tra Mandas e Lanusei, distanti in linea d’aria 45 km., la linea si sviluppa per ben 126 km., percorsi in quasi 4 ore, e che ancor oggi occorrono 7 ore per compiere i 220 km. tra Cagliari e Arbatax.

    Golfo Aranci. Panorama.

    Una delle navi traghetto che fanno servizio sulla linea Civitavecchia-Golfo Aranci.

    Invece sulle Ferrovie dello Stato, nonostante esse siano ancora quasi interamente a binario unico e per vari aspetti piuttosto arretrate, le prestazioni e la marcia dei treni hanno fatto indubbi progressi, tanto che il tragitto Cagliari-Olbia è percorso oggi in 4 ore e mezzo (contro 6 dell’anteguerra), tempo abbastanza buono ove si tenga conto che la linea deve superare il brusco ostacolo della Campeda, alto 650 metri. Naturalmente è su questa linea che si verifica la maggiore intensità di traffico di merci e di passeggeri, perchè essa rappresenta l’asse che mette in comunicazione i principali centri dell’isola, sia direttamente che indirettamente, con diramazioni che si distaccano da nodi importanti: Decimomannu per la diramazione verso Iglèsias e Carbònia, Macomèr per quella verso Nuoro e Bosa, Chilivani per l’altra verso Sassari e Porto Torres e infine Òlbia, per il breve tronco che mette capo a Golfo Aranci, divenuto dal 1961 il porto delle navi-traghetto.

    Riguardo all’entità del traffico è da notare che essa è complessivamente aumentata assai per il numero dei passeggeri, passato dai 5,8 milioni del 1950 ai 9,7 del 1961 (ma 6,8 nel 1963) con l’unica eccezione delle Ferrovie Meridionali Sarde che hanno visto ridurre ad 1/4 il numero dei viaggiatori in conseguenza dell’apertura della nuova linea statale per Carbònia che ha sottratto loro parte notevole del movimento. Invece è fortemente diminuito il traffico delle merci, ridottosi nello stesso periodo da 1,5 milioni ad appena 500.000 tonn. nel 1961, fatto questo che ha riflesso la crisi del settore in campo nazionale causata dalla concorrenza del traffico automobilistico. Ma l’entrata in esercizio delle navi traghetto con tariffe preferenziali ha richiamato l’interesse verso i trasporti ferroviari provocandovi una cospicua ripresa del movimento delle merci, risalito a 874.000 tonn. nel 1962.

    Comunque, in vista del forte aumento del traffico che si sta verificando e ben più si verificherà con lo sviluppo dell’industrializzazione già avviato, tutto il settore ferroviario sta per avere quella nuova sistemazione di cui ha bisogno e che è stata già progettata.

    Il traffico marittimo e i porti

    Le vicende dell’economia e della storia sarda si sono riflesse in modo decisivo sui traffici marittimi che hanno a loro volta influenzato storia ed economia in una serie complessa di rapporti di cause ed effetti. Tutta la vita isolana ne è stata condizionata, perchè dai traffici marittimi ha preso vigore e fermenti e con i traffici marittimi ha sempre inviato oltremare i propri prodotti.

    Fin dall’antichità e specialmente in epoca romana l’isola ha spedito soprattutto da Cagliari sale e grano e da Sulci metalli per varie rotte commerciali che la collegavano con i principali porti del litorale tirrenico ed anche con l’Africa settentrionale. Spezzata con i barbari l’unità del mondo romano e corso il Mediterraneo dagli Arabi, i traffici intristiscono e la fortuna di Cagliari e degli altri porti sardi decade e riprende solo col ripristino della sicurezza sul mare ad opera di Pisa e Genova. Con l’avvento degli Aragonesi e degli Spagnoli, la principale corrente del traffico fu deviata verso la penisola iberica e il commercio monopolizzato da Catalani e Maior-chini; i traffici furono limitati a tre soli porti: Alghero, Porto Torres e soprattutto Cagliari, il cui porto ebbe le prime attrezzature (Darsena e Moletto) fin dal XIV secolo; ma il deperire dell’economia provocò la decadenza del movimento marittimo. Passata la Sardegna ai Savoia, Cagliari e Porto Torres mutarono di nuovo funzione e in particolare Cagliari, migliorata via via nelle strutture, andò riprendendo pur lentamente la sua importanza sino ad accentrare alla fine del secolo scorso una metà di tutto il movimento commerciale sardo. Presto si provvide a integrare il movimento marittimo, notevole ma irregolare, con un collegamento regolare, e a tale scopo nel 1737 fu istituita la linea Livorno-Porto Torres per i servizi tra Sardegna e Piemonte, sostituita nel 1815 con la Genova-Porto Torres-Cagliari su sei corse mensili, divenuta bisettimanale dal 1861, includendo nel percorso anche Livorno. Solo nel 1872 cominciò ad avere importanza Civitavecchia, prima come scalo tra Porto Torres e Livorno e poi, dieci anni più tardi, come testa di linea del collegamento diretto Civitavecchia-Golfo Aranci (216 km.) di frequenza giornaliera. Il progresso fu considerevole in quanto mise la Sardegna a 12 ore dalla penisola contro 36 del collegamento precedente. Sicché prima Golfo Aranci poi Terranova (Olbia), dove il capolinea fu spostato nel 1912, come porti di velocità fecero decadere il movimento dei viaggiatori a Cagliari e a Porto Torres. Peraltro Cagliari accrebbe la sua importanza per le notevoli opere che vi furono eseguite tra il 1890 e il 1903 (Molo di Ponente, oggi Molo Sabaudo, Pontile della Sanità, banchine); ma anche Golfo Aranci e Porto Torres furono convenientemente attrezzati. La sistemazione del porto di Cagliari fu completata tra il 1925 e il 1937 con la costruzione dei due grandi Moli di Levante e di Ponente.

    Vedi Anche:  Storia della Sardegna

    Movimento commerciale dei porti sardi e loro retroterra nel 1961. (In grigio le merci e i viaggiatori imbarcati, in bianco quelli sbarcati).

    Alla fine del secolo scorso il movimento marittimo sardo si aggirava su 12.000 navi per 3,5 milioni di tonnellate di stazza netta e si è poi accresciuto non tanto per numero di natanti, dato l’aumento verificatosi nel tonnellaggio unitario, quanto per la stazza complessiva. Questa è oggi raddoppiata, aggirandosi sui 7,5 milioni di tonnellate di navi entrate e uscite ed è per metà concentrata nei due porti di Cagliari e di Olbia, cui segue Porto Torres, non considerando La Maddalena, Palau e Carlo-forte, il cui movimento è gonfiato dai servizi locali.

    L’ultima conquista, di fondamentale importanza, è stata l’istituzione, nell’ottobre 1961, di un servizio giornaliero di navi-traghetto, gestito dalle Ferrovie dello Stato, tra Golfo Aranci e Civitavecchia, che se non ha risolto la vitale questione del trasporto economico delle merci, ha indicato la via da seguire ed ha dato già un contributo notevolissimo, i cui effetti sono stati subito avvertiti nell’intero sistema di trasporti. E ciò anche per l’applicazione di tariffe assai ridotte e cioè per la distanza virtuale di 100 km. invece dei 213 effettivi.

    La linea Olbia-Civitavecchia ha rappresentato a lungo l’unico collegamento col continente, ma dopo l’ultimo conflitto mondiale, che ha reso la Sardegna prigioniera del mare, varie altre linee sono state istituite anche per opera della Società « Sarda-mare » costituitasi nel 1945. Così l’isola gode oggi di buoni servizi marittimi espletati da navi numerose e veloci che fanno giornalmente la spola, oltre che tra Civitavecchia e Olbia, tra Cagliari e Civitavecchia e tra Porto Torres e Genova; ad esse si aggiungono quelle delle linee Cagliari-Napoli (bisettimanale), Cagliari-Palermo e Porto Torres-Livorno-Bastia (settimanale) e infine Genova-Sardegna-Tunisi-Palermo (quattordicinale).

    Ma si deve dire che questi servizi marittimi sono ancora insufficienti, dato il cospicuo incremento verificatosi negli ultimi anni sia nel movimento delle merci che in quello dei passeggeri, e lo diverranno sempre più se non si provvederà ad un loro ulteriore, massiccio incremento.

    Molto più interessante è l’esame del movimento commerciale dal quale appare il cospicuo volume degli scambi allacciatisi tra la Sardegna e i paesi d’oltremare e il vistoso incremento che esso ha avuto, pur con battute d’arresto in rapporto con le due guerre mondiali e con le vicende economiche nazionali e mondiali. Nell’insieme il commercio esterno isolano dall’inizio del secolo ad oggi ha quintuplicato il suo volume passando dalle 670.000 tonn. della media 1901-05 ai 3,5 milioni di tonnellate del 1963, il che esprime efficacemente la cospicua entità dei progressi compiuti nel frattempo. Il ritmo dell’incremento è stato, però, disuguale: rimasto entro limiti normali fin dopo il primo conflitto mondiale, ha fatto un primo balzo tra il 1925 e il 1940, essenzialmente per il forte aumento della produzione mineraria, ed ha avuto poi, dal 1950, un poderoso slancio in rapporto con lo sviluppo economico dell’isola.

    Anche la ripartizione del movimento delle merci tra i vari porti (sei maggiori, nove minori e cinque approdi o imbarcatoi) ha subito variazioni di una certa entità. Infatti, se Cagliari ha continuato ad occupare sempre il primo posto assorbendo una metà circa del traffico (1,7 milioni di tonn. nel 1963) e Porto Torres il secondo posto (527.000 tonn. pari al 10-15% del totale), ad eccezione di una temporanea prevalenza di Sant’Antioco in corrispondenza del periodo di intensa estrazione del carbone Sulcis (1938-57); al quarto e al quinto posto si sono alternati Porto Vesme, altro porto minerario, e Olbia (154.000 tonn., 5-6% del movimento merci totale). Una modificazione più importante si è avuta con l’entrata in servizio delle navi-traghetto le quali, inaugurate nell’ottobre del 1961, hanno fatto convergere già nell’anno successivo su Golfo Aranci il 10% del traffico merci, con corrispondente sensibile flessione del traffico a Òlbia e nei porti minori, nonché in minor misura anche a Porto Torres e a Cagliari.

    Movimento globale della quantità delle merci e dei passeggeri da e per la Sardegna nel 1961 e sua composizione.

    L’influenza del traghetto ferroviario sviluppatosi con rapidità molto superiore al previsto (ve ne sono già tre), è destinata a crescere assai con una migliore organizzazione dei servizi, sicché Golfo Aranci, che aveva già raggiunto nel 1963 un traffico di 356.000 tonn. di merci, si è già collocato praticamente al terzo posto e potrebbe contendere addirittura il secondo a Porto Torres, a meno che anche per quest’ultimo non venisse istituito un servizio di traghetti per auto con Genova, come è in progetto e come del resto è già avvenuto per Cagliari e per Olbia.

    Naturalmente la massima parte del movimento commerciale si svolge in cabotaggio, in quanto solo il 13-15% interessa la navigazione internazionale (facente capo soprattutto a Cagliari) e si intreccia quasi tutto con gli altri porti italiani (poco più di 3 milioni di tonn. contro 390.000 nel 1963).

    La quasi totalità dei porti sardi ha esplicato funzioni eminentemente esportatrici fino a pochi anni or sono, comportandosi così in modo contrario a quello di quasi tutti gli altri porti italiani. La forte prevalenza tradizionale delle merci imbarcate era dovuta al fatto che l’isola, ricca di prodotti del sottosuolo, delle saline e dell’alleva-mento ma povera d’industrie, esporta in massa le sue materie prime, pesanti ma in gran parte povere e per lo più allo stato grezzo, e introduce invece manufatti del continente di peso molto minore, ma di ingente valore. Senonchè il recente sviluppo economico e il miglioramento del tenore di vita hanno provocato mutamenti importanti con aumento delle importazioni, cioè della massa di merci sbarcate e con diminuzione delle esportazioni, cioè della massa di merci imbarcate. La nuova situazione, mascherata per alcuni anni dalla massa in esportazione del carbone Sulcis, con la diminuzione dell’estrazione di quest’ultimo si è rivelata nel 1963, quando per la prima volta le merci sbarcate hanno superato per quantità, oltre che per valore, quelle imbarcate (rispettivamente 1,78 contro 1,68 milioni di tonnellate).

    Tutto ciò è dimostrato chiaramente da un esame della composizione merceologica del movimento commerciale sardo. Le merci imbarcate sono costituite per 3/5 da minerali e da minerali non metalliferi lavorati (barite, caolino), per 1/5 da sale e per il resto da prodotti agricoli e forestali (carciofi, sughero, mandorle, vino) e dell’allevamento e pesca (formaggio, bestiame, lana, spoglie di animali, prodotti ittici vari). Le merci sbarcate, naturalmente, sono assai più varie e nel 1962 sono state costituite per 1/3 da combustibili e da minerali non metalliferi anche lavorati, per 1/4 da prodotti chimici (fosfati, ecc.), per un 13% da macchine e apparecchi, per l’n% da prodotti delle industrie alimentari e poi da tessuti, mobili, frutta e verdura, ecc.

    Nel traffico con l’estero, le merci sbarcate hanno sempre superato di parecchio quelle imbarcate, soprattutto per le notevoli importazioni di grano tenero, combustibili, fosfati e legname, compensate solo in parte da invii di minerali, sughero e sale.

    La parte centrale del Porto di Cagliari.

    Per quanto riguarda il movimento dei passeggeri si deve constatare che esso è aumentato in modo addirittura imponente, essendo passato da 82.000 persone del principio del secolo a oltre 2 milioni, superati già due anni or sono. Anche in questo caso, il ritmo di incremento è rimasto entro limiti normali fin verso il 1950, quando ha preso nuovo vigore, esaltatosi poi dopo il 1955 tanto da raddoppiare in pochi anni. E vero che una metà delle partenze e degli arrivi registrati nei porti sardi è dovuto al movimento sulle brevi linee locali di collegamento tra l’isola madre e le isole minori, sia nel gruppo sulcitano (Carloforte-Porto Scuso-Porto Vesme), sia in quello maddalenino (La Maddalena-Palau e La Maddalena-Santa Teresa di Gallura). Via è anche vero che nell’ultimo’sessantennio il numero dei viaggiatori è aumentato nello stesso periodo di 30 volte a Porto Torres (306.000 persone sbarcate e imbarcate nel 1963) e di 18 volte a Cagliari (353.000 unità), con il che il capoluogo ha conquistato autorevolmente il secondo posto per i viaggiatori a breve distanza da Olbia, in cui proprio per questa valida concorrenza ha avuto un incremento assai minore (406.000 persone), frenato ulteriormente dalla ripresa del traffico passeggeri del vicino Golfo Aranci, affluente con le navi-traghetto. L’enorme aumento recente del numero dei passeggeri — che si divide in parti quasi uguali tra arrivi e partenze — è in rapporto con la « scoperta » turistica della Sardegna e con i grandi progressi dell’economia isolana, ma anche con la maggiore mobilità dei Sardi, che sono sempre più attratti dalle regioni del triangolo industriale. Ed è stata la linea Genova-Porto Torres che ha avuto il maggiore incremento, anche perchè da qui proviene il maggior numero di turisti.

    Motopescherecci nel Porto di Alehero.

    Ciò che si è detto sul movimento delle merci e dei passeggeri permette di avvertire nei porti sardi aspetti e funzioni diverse. Cagliari, che assorbe da solo quasi 1 milione di tonnellate di merci sbarcate e ne invia circa 750.000, è classico tipo di porto regionale polivalente in quanto, pur avendo interesse industriale e per il commercio di certi prodotti, serve prevalentemente per i traffici della regione, sia che vi vengano imbarcati prodotti della parte centro-meridionale dell’isola, sia che vi vengano sbarcate merci inviate in quasi tutte le parti di essa. Il suo movimento si svolge per il 90% col resto d’Italia da cui riceve quasi tutti i manufatti e merci di consumo in genere e a cui invia minerali, sale e prodotti agricoli. Cagliari assorbe pure i 3/4 del traffico internazionale ed è anche importante come porto per passeggeri, essendo testa di linea di importanti vie marittime col Continente e con la Sicilia.

    L’impianto di estrazione del magnesio dal mare presso il Porto di Sant’Antìoco Ponti.

    Pure funzione multipla ha Porto Torres in quanto, pur avendo un movimento di merci pari ad 1/3 di quello di Cagliari, è il maggior porto della Sardegna settentrionale, e quello che più è adibito, insieme al capoluogo, al rifornimento regionale, essendo quello più vicino ai porti di sbocco delle nostre industrie continentali (319.000 tonn. di merci sbarcate). Peraltro esso attende all’imbarco dei minerali ferrosi (ora cessati) e dei prodotti agricoli del suo retroterra (carciofi) e zootecnici (formaggio) per 207.000 tonn., ed ha acquistato considerevole importanza anche come porto per viaggiatori.

    Òlbia è invece un classico porto per passeggeri, essendo il porto di velocità che collega la Sardegna col continente per la linea più breve, ma ha pure un non trascurabile movimento di merci con persistente netta prevalenza di quelle sbarcate (117.000 tonn.), pur esportando prodotti agricoli e dell’allevamento, sughero e pesce (38.000 tonn). Insieme ad Olbia, va considerato il « fenomeno » di Golfo Aranci, iscrittosi di prepotenza tra i maggiori porti sardi subito dopo l’istituzione dei traghetti, soprattutto per il trasporto economico delle merci, più che altro in arrivo (201.000 tonn. contro 155.000 in partenza).

    Spiccano infine i porti d’imbarco dei minerali e prima di tutti Sant’Antìoco, che è senza dubbio il primo porto minerario d’Italia, seguito da Porto Vesme e dal cari-catoio di Porto Flavia. Porti prevalentemente pescherecci sono Alghero, La Maddalena, Castel Sardo ed anche Carloforte, dopo la cessazione della sua funzione di porto d’imbarco dei minerali dell’Iglesiente. Gli altri porti hanno un movimento modesto, consistente soprattutto nell’imbarco di alcuni prodotti locali e tra essi hanno qualche interesse Palau e Calasetta, teste di ponte per le isole antistanti, Santa Teresa di Gallura per i collegamenti con la Corsica (Bonifacio) e Arbatax che è in procinto di considerevole sviluppo.

    L’orizzonte commerciale della Sardegna è molto vasto. Esso comprende anzitutto i principali porti italiani e specialmente quelli liguri, che assorbono un terzo del traffico, seguiti da quelli adriatici e poi dai tirrenici. L’esportazione dei minerali di zinco è rivolta, come si è visto, ai porti di Vado Ligure, Pertùsola, Crotone e Porto Marghera e quella dei minerali di ferro a Bagnoli; l’esportazione del sale alimentare raggiunge i depositi del Monopolio (tra cui Sampierdarena, Livorno, Napoli e Venezia) e quella del sale industriale Genova e Monfalcone. Le maggiori quantità di prodotti agro-forestali sardi sono inviate ai porti di Genova, Savona, Livorno, Palermo, Catania, Civitavecchia e Napoli, che assorbono pure i maggiori quantitativi dei prodotti dell’allevamento. Con questi porti la Sardegna mantiene mediamente le relazioni più intense, in quanto partono da essi anche le maggiori correnti di importazione: il porto di Genova invia prodotti agricoli e industriali deiritalia settentrionale e ridistribuisce merci estere; Napoli invia prodotti alimentari, e poi Savona, Livorno, Civitavecchia, Palermo forniscono le merci più svariate. Molto numerosi sono poi, come vedremo, i paesi stranieri che ricevono, ma soprattutto inviano prodotti svariatissimi alla Sardegna: dall’Islanda e dalla Norvegia al Marocco e al Ghana, dagli Stati Uniti e dal Brasile all’Iran e all’Unione Sovietica.

    Il poderoso slancio economico in atto non potrà che allargare ulteriormente questo orizzonte transmarino e intensificare enormemente i traffici, sicché si pone urgente l’istanza anche di un adeguato e rapido potenziamento portuale, che si può dire condizioni l’avvenire dell’isola.

    Le comunicazioni aeree

    I traffici marittimi sono integrati da quelli aerei, che hanno preso pure, nell’ultimo decennio, considerevole sviluppo. Sorte con la linea Roma-Terranova-Cagliari nel 1928, le comunicazioni aeree furono migliorate con l’istituzione di un collegamento diretto Roma-Cagliari e di altre due linee, ma rimasero dapprima poco frequentate. Nel dopoguerra le linee aeree furono ripristinate come parte della rete aerea nazionale e sempre sulla base del collegamento con Roma mediante una linea diretta e un’altra passante per Alghero (Fertilia), cui si è aggiunta poi la linea Cagliari-Alghero-Pisa-Milano e ultimamente la diretta Cagliari-Milano. Così la Sardegna è entrata per la prima volta in collegamento diretto con le principali città dell’Italia settentrionale, oltre che con la capitale. Questa rete si appoggia ai tre aeroporti di Elmas, presso Cagliari, di Fertilia presso Alghero e in via subordinata di Olbia, che si trovano in posizioni assai favorevoli perchè posti nei punti in cui sfociano le principali correnti di traffico.

    Il movimento aereo ha raggiunto presto un volume considerevole e ognor crescente; basti pensare che nel quadriennio 1959-62 il numero dei passeggeri è più che raddoppiato (199.500 nel 1963) e la quantità delle merci è aumentata del 58% (20.500 q.). L’aeroporto di Elmas è di gran lunga il principale: vi passarono infatti nel 1962 oltre i 3/5 dei passeggeri sbarcati e imbarcati nell’isola (con una certa prevalenza di questi ultimi) per un totale di 110.000 persone, per cui Cagliari viene al sesto posto tra gli aeroporti italiani, e i 4/5 delle merci per un complesso di 16.000 q. per cui occupa il quarto posto in Italia. Invece Alghero ha importanza assai minore, occupando il nono posto per i passeggeri (circa 71.000), data la sua spiccata funzione turistica, e l’undicesimo per le merci (4300 q.). In entrambi gli aeroporti predominano largamente le merci in arrivo costituite da strumenti, oggetti delicati e costosi, specialità farmaceutiche, ecc., ma consistente è pure il volume delle merci in partenza, formato da prodotti ittici sardi pregiati, come le aragoste, primizie ortofrutticole, agnelli macellati, vini, formaggi, ecc.

    Il nuovo albergo dell’E.S.I.T. a La Maddalena.

    Il turismo e l’industria del forestiero

    Altro evento importante dal punto di vista economico e sociale è stato l’affermarsi clamoroso e rapido del turismo nell’ultimo quindicennio. E ciò sia per i suggestivi aspetti naturali e umani della regione, sia per la scomparsa della malaria e per il miglioramento delle comunicazioni marittime ed aeree, sia infine per un’accorta politica del turismo impostata dal governo regionale a partire dal 1949. Per l’organizzazione e lo sviluppo dell’industria del forestiero è stato costituito un Ente Sardo Industrie Turistiche (E.S.I.T.) che ha esplicato la sua azione costruendo e favorendo la costruzione di numerosi alberghi nelle città e in centri minori, come in località marine (Alghero, La Maddalena, Santa Teresa, Sarròch, Santa Caterina) ed anche montane (Ortobene, Tonara, Sórgono, San Leonardo, Tempio) opportunamente scelte, aprendo ostelli per la gioventù, migliorando le comunicazioni, costruendo campeggi, facendo un’intelligente opera di propaganda.

    Nè sono da trascurare importanti iniziative di gruppi internazionali che hanno agito costruendo e attrezzando grossi complessi alberghieri in alcune parti della costa sarda, come lungo la Costa Smeralda e a Capo Boi. Cosi in pochi anni la capacità ricettiva dell’isola, considerando il numero dei posti letto disponibili, è pressoché triplicata. Essa consta ora di 154 tra alberghi e pensioni e di 132 locande, per un complesso di oltre 8000 posti letto. In particolare Sassari è una delle province italiane in cui il numero degli alberghi e dei posti letto è cresciuto di più.

    Dato tutto ciò, il numero degli ospiti e delle presenze ha avuto un forte incremento, quadruplicandosi all’incirca tra il 1949 e il 1962 (da 188.000 a 737.000 presenze). Ma particolarmente cospicuo è stato l’aumento delle presenze degli stranieri, cresciuto di oltre 35 volte, il che dimostra l’importanza che ha l’attrazione esercitata dalla Sardegna nell’intera Europa come regione periferica, mediterranea e ricca di attrattive anche folcloristiche e archeologiche. E si noti che una parte non trascurabile di turisti stranieri sfuggono alla rilevazione statistica perchè si appoggiano ad attrezzature extralberghiere (camping, villaggi turistici, ecc.) anche perchè molti di essi viaggiano con mezzi propri. Infatti il numero delle automobili private trasportato in Sardegna è aumentato molto, sestuplicandosi negli ultimi sei o sette anni (da 11.000 a 65.000 tra il 1956 e il 1963), specialmente dopo l’entrata in funzione dei traghetti.

    Per questo e per altri aspetti, le diverse province dell’isola si comportano in modo assai diverso rispetto al turismo. Si osserva infatti l’assoluta preponderanza di Cagliari per numero complessivo di ospiti e di presenze; la predominanza di Sassari nel movimento degli ospiti stranieri (3/5 del numero totale di presenze) e la modesta importanza di Nùoro.

    Il movimento degli stranieri, per quanto riguardi solo l’i 1 % degli ospiti e il 19% del numero complessivo delle presenze, offre pure aspetti interessanti e diversi per le tre province in quanto gli ospiti provengono da 13 paesi europei e da 6 paesi extraeuropei principali, prevalendo Francesi e Inglesi (prevalenti nel Sassarese) e poi Tedeschi, Statunitensi, Austriaci, Belgi, Olandesi, ecc.

    Carattere alquanto diverso, anche per i suoi maggiori riflessi sull’evoluzione dell’insediamento umano, ha avuto il progressivo affermarsi del turismo locale e di villeggiatura, diretto prevalentemente verso le spiagge dell’isola più vicine alle città e alle borgate retrostanti. Su diverse di esse sono sorte attrezzature e costruzioni e si sono formate così le belle marine già ricordate, tra cui quelle di Sassari, di Bosa, di Torre Grande, di Santa Caterina, di Orosei, di Siniscola e i bei lidi di Cagliari (Poetto) e di Alghero, ormai di fama internazionale.

    Per avere un’idea dell’importanza che ha avuto l’avvento e lo sviluppo del turismo sull’economia dell’isola, basta pensare che l’introito delle industrie e delle attività connesse è salito da 2,5 miliardi di lire nel 1954 a ben 12 miliardi, sicché le industrie del forestiero hanno preso posto, per importanza, subito dopo quelle minerarie per reddito e capitali investiti, ma le superano per numero di addetti (13.000 persone).

    Così il turismo si è rivelato come una sorgente nuova di ricchezza, che ha influito non solo sul miglioramento delle condizioni di vita di molte località mediante l’esecuzione di opere importanti con conseguente rinnovamento edilizio talvolta notevole o addirittura sviluppo di parti nuove di vecchi centri (come ad Alghero, a Santa Teresa di Gallura, ecc.) o formazione di nuclei turistici nuovi (come Porto Conte, San Leonardo, Sant’Angelo presso Iglésias, Santa Caterina di Pittinuri), ma anche sul miglioramento delle vie di comunicazione e costruzione di vie panoramiche (tra cui quelle sul Monte Ortobene e sul Limbara) e sul rinvigorimento di industrie domestiche e dell’artigianato.

    Infine, il turismo ha favorito l’allacciamento di rapporti sociali ed economici sempre più vasti e l’ingresso della Sardegna nelle grandi correnti della vita europea, con conseguente progressivo annullamento di quell’isolamento storico che ha avuto sulle sorti dell’isola effetti ben più gravi dello stesso isolamento naturale.

    La bilancia commerciale e il commercio esterno

    La struttura produttiva sarda, ancora costituita essenzialmente dalle attività agricolo-pastorali e con scarse industrie manifatturiere rappresentate soprattutto da attività estrattive e da altre collegate con l’agricoltura, si riflette puntualmente sulla struttura degli scambi commerciali. Infatti l’isola ha basato già da tempo le sue esportazioni sui minerali, il sale, i prodotti agricoli (grano, vino, sughero, carciofi) e dell’al levamento (formaggi, lana), importando invece sostanze alimentari complementari (cereali, zucchero, frutta), legname e soprattutto prodotti industriali mani-fatturati (tessuti, macchine, prodotti chimici), combustibili fossili e olii minerali. In definitiva, esportazione prevalente di materie prime o semilavorate di notevole peso ma di scarso valore, e importazione di manufatti di poco peso e di cospicuo valore. Ciò vale a spiegare la discordanza esistente nella bilancia commerciale secondo che si consideri la quantità oppure il valore delle merci scambiate. Un esempio molto chiaro ci è offerto da quel che si è verificato nel 1958, anno per cui sono disponibili i dati degli arrivi e delle partenze sia per quantità che per valore, risultanti da un’apposita indagine svolta dal Macciardi per conto della Regione Sarda. Orbene, a quella data le merci partite dall’isola raggiunsero la quantità di 1,8 milioni di tonnellate contro poco più di 1 milione di tonnellate di merci arrivate, ma queste ultime rappresentarono un valore di ben 154,5 miliardi contro appena 68 miliardi delle prime, il che si tradusse in un assai greve sbilancio.

    Invero, le valutazioni dell’Alivia per il periodo 1920-24 mostrano che in quell’epoca lo sbilancio era assai esiguo data la limitatezza delle importazioni in rapporto col basso tenore di vita perdurante nella popolazione e con l’economia elementare dell’epoca. Dopo il 1935 subentra eccezionalmente un breve periodo di bilancio positivo per l’aumento considerevole dell’esportazione dei minerali e per i bisogni

    ancora modesti della popolazione. Ma nell’ultimo dopoguerra si è verificato uno straordinario aumento delle importazioni che sono passate da 947 milioni di media dell’anteguerra a ben 99 miliardi nel 1950 e a 130,5 miliardi del 1954 e si sono cioè triplicate, tenendo conto del valore anteguerra della moneta. E poiché le esportazioni erano cresciute solo di un quarto (da 48,8 a 60,7 miliardi), ne è risultato il forte sbilancio di una settantina di miliardi. Questo sbilancio è naturalmente assai aumentato negli anni seguenti per il rapido ulteriore slancio delle importazioni connesso col sensibile miglioramento del tenore di vita, tradottosi in un ampliamento dei consumi non solo in senso quantitativo ma soprattutto in senso qualitativo e inoltre con l’organizzazione di un’attività industriale che in questa prima fase richiede gran quantità di beni strumentali.

    Purtroppo non esistono dati statistici nè valutazioni sul valore delle merci introdotte in Sardegna dal resto d’Italia e quindi non è possibile istituire un confronto e puntualizzare con precisione la situazione attuale. Se ne può, peraltro, avere un’idea osservando l’incremento del volume dell’importazione (che tra il 1954 e il 1963, come si è visto, è raddoppiata) mentre le esportazioni sono alquanto diminuite e considerando che, in media, il prezzo a quintale delle importazioni già nel 1954 era di 17.500 lire, mentre quello delle esportazioni era di 3200 lire! Ciò significa che il valore delle merci spedite è appena la quinta parte di quello delle merci arrivate.

    La composizione del movimento commerciale complessivo appare chiaramente dal grafico precedente: risulta evidente negli imbarchi la forte prevalenza dei minerali metalliferi e non metalliferi, che comprendono oltre la metà della quantità totale (cui si aggiunge per 1/5 il sale) e il modesto volume dei prodotti agro-forestali più volte citati e delle industrie connesse che invece danno l’apporto maggiore in valore. Agli sbarchi spicca la preminenza assunta dai prodotti chimici (1/4 del volume totale), seguiti a breve distanza dalle macchine e dai minerali lavorati, dai prodotti alimentari compresi i coloniali, dai tessuti e confezioni, in una gamma sempre crescente di merci che esprime l’evoluzione verificatasi nei consumi di un mercato che, come quello sardo, è strettamente legato in ogni settore alle forniture dall’esterno.

    Nel commercio con il resto d’Italia le spedizioni superano nettamente gli arrivi (1,6 contro 1,3 milioni di tonnellate nel 1961) e la loro composizione è assai simile a quella del movimento complessivo. Riguardo alla destinazione si può dire che, delle merci di massa, i minerali di zinco si dirigono verso le parti d’Italia dove si trovano gli stabilimenti metallurgici già ricordati: quelli ferriferi verso Bagnoli, il sale alimentare ai depositi del Monopolio (Sampierdarena, Livorno, Castellammare, Civitavecchia) e il sale industriale alle industrie dell’Italia settentrionale per Mon-falcone e Genova. I prodotti agricoli (carciofi specialmente e cereali) vanno ai grossi centri dell’Italia settentrionale e centrale, come pure le carni di agnello e i prodotti ittici, ma più larga è la diffusione dei formaggi (3/5 della produzione), e indirizzate soprattutto verso gli stabilimenti settentrionali le spedizioni di sughero.

    La provenienza delle merci varia, come è logico, secondo la loro natura: i prodotti manifatturati vengono in prevalenza dalle zone industriali dell’Italia settentrionale per circa una metà del volume complessivo, mentre quelli agricoli e le conserve alimentari sono inviati da Napoli, Palermo e altre parti dell’Italia meridionale.

    Anche il commercio con l’estero ha avuto negli ultimi anni un incremento notevole, non tanto come volume (passato da 374.000 a 440.000 tonn. tra il 1949 e il 1961), quanto come valore, che è aumentato di due volte e mezzo (da 7,5 a 19 miliardi) ed è triplicato all’importazione. Del resto, nei pochi anni tra il 1955 e il 1961 il valore del commercio estero è raddoppiato sia all’importazione che all’esportazione e negli ultimi tempi ha fatto ulteriori fortissimi progressi che tuttavia sono valutabili solo in modo approssimativo perchè oltre ai quantitativi risultanti dalle statistiche doganali, bisogna tener conto delle merci spedite e ricevute dall’estero non direttamente dai porti sardi, ma da porti della penisola. C’è stato inoltre un netto cambiamento nel rapporto tra merci importate ed esportate, in quanto, mentre fino al 1959 hanno sempre predominato le esportazioni in quantità e per lo più anche in valore, successivamente sono venute prevalendo sempre più le importazioni, tanto da triplicare il loro valore che da un anno all’altro (tra il i960 e il 1961) è addirittura raddoppiato! Lo straordinario fenomeno è in rapporto con l’enorme incremento verificatosi negli acquisti di generi alimentari allo stato naturale, soprattutto grano (per lo scarso raccolto avutosi), granturco, frutta, farine e in minor misura di manufatti di ogni genere. In particolare nel 1961 i traffici con l’estero sono stati costituiti per 6,3 miliardi da merci esportate e per 12,8 miliardi da merci importate.

    Una chiara idea della composizione merceologica del commercio estero è data dal grafico che ne rappresenta la relativa ripartizione, secondo il valore dei vari gruppi: risulta anzitutto la struttura ancora elementare delle esportazioni, costituite per poco meno della metà da formaggio, per quasi 2/5 da minerali metalliferi e non metalliferi compreso il sale e per il resto da mandorle, lana e lavori di sughero. All’importazione dominano i prodotti agricoli (55% del valore totale) per metà costituiti da grano e poi granturco e caffè, seguiti da macchine di ogni genere, compresi i veicoli e i prodotti siderurgici per 1/5 del totale, e poi da carbon fossile, carburanti e olii lubrificanti, seguiti da legno grezzo e lavorato, fosfati, prodotti chimici vari, ecc.

    Movimento commerciale della Sardegna con l’Estero e sua composizione (percentuali rispetto al valore totale nel 1961).

    Il quadro delle provenienze e destinazioni è molto ampio. Per quanto attiene alle importazioni si può dire che il grano tenero proviene per lo più dall’Argentina, Unione Sovietica e Canadà; i carboni fossili e i carburanti da Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania Occidentale, Romania e Belgio; le fosforiti da Tunisia, Marocco e Turchia; il legname da Finlandia e Jugoslavia; il caffè dal Brasile e da vari paesi dell’America centrale e dell’Africa occidentale; le macchine e i prodotti siderurgici da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania Occidentale. Per le esportazioni si può dire che il formaggio viene inviato negli Stati Uniti, in Grecia, a Malta, in Egitto e in Gran Bretagna; il sale marino in Islanda, Norvegia, Gran Bretagna, Uruguay; i minerali nei Paesi Bassi, nella Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Francia. Per ultimo si deve osservare che pur essendo la Sardegna in rapporti commerciali con numerosissimi paesi stranieri (oltre un centinaio), si verifica però un notevole addensamento dei traffici in poche direttrici fondamentali, tanto è vero che quasi i 3/4 di essi si concentrano abitualmente verso quattro soli paesi, che sono, nell’ordine, Stati Uniti, Francia, Germania Occidentale e Gran Bretagna.

    Così l’analisi del commercio esterno della Sardegna ci ha dato la riprova non solo del cospicuo sviluppo verificatosi nei diversi settori di attività, ma anche della profonda evoluzione in atto nelle strutture economiche.

    All’incremento dei traffici hanno indubbiamente contribuito alcune iniziative concretate dal governo regionale in Continente e nell’isola stessa. La principale fra esse è la Fiera Campionaria della Sardegna, che dal 1949 si svolge annualmente a Cagliari in sede propria e con impianti stabili allo scopo di offrire un quadro completo delle sempre più varie produzioni sarde e di dare la possibilità agli isolani di avere in casa propria una rassegna della migliore produzione nazionale. Scopi di ricettività, di collegamento e di proiezione economica che sono stati raggiunti, come dimostra la fortuna che la Fiera ha avuto, ottimo auspicio di fruttuoso avvenire.