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Storia della Sardegna

    La Sardegna nel passato

    La preistoria

    L’origine degli abitatori della Sardegna non è stata sinora definitivamente chiarita, perchè ricerche e scavi archeologici e paletnologici sistematici non sono stati ancora effettuati in tutte le parti dell’isola, per quanto studi importanti siano stati condotti sulla preistoria e sulla protostoria sarda anzitutto dal generale A. de La Marmora e poi da G. Spano, dal Nissardi, dal Patroni, dal Pais, dal Taramelli e, recentemente, dal Lilliu, da C. Maxia e dal Pesce. Allo stato attuale delle conoscenze e pur essendoci molti elementi a favore della possibilità di stanziamenti umani paleolitici, è accertato che i primi abitatori di cui si sono ritrovate tracce sono genti neolitiche, appartenenti in massima parte alla stirpe mediterranea, che debbono aver avuto provenienze diverse.

    Infatti nella Gallura sono certo arrivati assai per tempo dalla Corsica elementi etnici liguri, come provano gli antichissimi reperti neolitici dell’isola di Santo Stefano nell’arcipelago della Maddalena e all’estremità opposta, sulla più accessibile costa meridionale, hanno messo piede gruppi umani provenienti dal Mediterraneo orientale, con i quali potrebbero essere messi in rapporto certi caratteri somatici ed etnici dei Protosardi, come pure molti toponimi preromani.

    Del resto nella famosa necropoli di Anghelu Ruju, nei pressi di Alghero, si trovano resti umani di diverso tipo in quanto su una massa di elementi dolico-mesa-ticefali euroafricani, costituenti il fondo morfologico della gente sarda, si trova un 16% di elementi brachicefali ritenuti euroasiatici dagli antropologi.

    Monumento eneolitico di Monte s’Accoddi a Ponte Secco (Sassari). Si tratta di un altare megalitico per il culto di due divinità; la pietra arrotondata in primo piano rappresenta probabilmente il globo Solare.

    Queste genti neolitiche paleosarde, risalenti ad un’epoca compresa tra il 2500 e il 2000 a. C., vivevano in ripari sotto roccia nella Gallura ed in numerose grotte, tra cui quelle di Capo Sant’Elia e quelle di San Michele e del Carmine presso Ozieri ed anche in villaggi all’aperto sulle sponde degli stagni di Cabras, di Cagliari e di

    Pietra fitta eneolitica (menhir) a Monte s’Accoddi. Sullo sfondo l’altopiano calcareo sassarese.

    Quartu. Essi usavano armi e strumenti di pietre dure, scheggiate o levigate, fabbricate soprattutto con le belle ossidiane del Monte Arci, utensili di osso e rozze ceramiche e seppellivano i loro morti in tombe megalitiche costituite dai dolmen, trovati nella parte settentrionale e centro-occidentale dell’isola, da circoli megalitici, formati da grosse lastre infitte nel terreno, rinvenuti in Gallura, e successivamente in grotticelle scavate per lo più nella roccia calcarea. Tali caratteristiche grotticelle funerarie, sviluppo locale di un tipo eneolitico diffuso in tutto il Mediterraneo, si trovano distribuite assai variamente, con frequenza massima nel sassarese (480) e nel nuorese (456), minima nel cagliaritano (164). Esse sono chiamate con nomi diversi nelle varie parti dell’isola : domus de janas o casi di li faddi o percias de fadas (case delle fate), furrighesus, domus de rogas (case delle streghe), domigheddas. Alquanto più tardi sono monumenti connessi col culto di divinità, del tipo a menhir o pietre fitte (perdas fittas) come quelle di Silanus e della grotta di San Michele; e sacrale è anche il complesso di Monte s’Accoddi (= cumulo) nel Sassarese, consistente neirimbasamento di un grande altare completato da due menhirs e da una pietra sferica.

    Interno di una domuu de Janas sul Monte Barcellona nei pressi di Osilo.

    La complessità di alcuni di questi sepolcreti dimostra il notevole sviluppo già raggiunto dall’organizzazione sociale dei Paleosardi e la suppellettile rinvenutavi prova l’esistenza di correnti culturali e di traffici con l’Occidente (specie con l’Iberia), con la Corsica e con l’Oriente durante l’eneolitico, periodo di passaggio tra l’età della pietra e quella del bronzo, all’incirca tra il 2000 e il 1500 avanti Cristo. In questo eneolitico sardo il Lilliu ha distinto tre culture principali: quella di San Michele di Ozieri, quella dei circoli o di Arzachena all’estremità nord-orientale e quella del vaso campaniforme diffusa lungo il litorale sud-occidentale. Pertanto già in quest’epoca il quadro etnico della Sardegna doveva presentarsi piuttosto complesso.

    La Sardegna nuragica

    Alla fase culturale eneolitica che non ha caratteri veramente sardi, succede l’età del bronzo che si svolge tra il 1500 e il 1200 a. C. in cui continua la lavorazione della pietra, ma compaiono armi e strumenti svariati di metallo. La fioritura di questo stadio culturale è da connettere con lo sviluppo della civiltà delle genti paleosarde e la loro unificazione etnico-linguistica in rapporto con l’arrivo dei Shardana o Sherdani delle iscrizioni egizie, pervenuti nell’isola dall’Africa. Poiché oggetti di bronzo di tipo arcaico sono stati rinvenuti già negli edifici nuragici più antichi, si può ritenere che proprio i Shardana siano stati gli elaboratori della civiltà nuragica, estesasi poi a tutte le popolazioni dell’isola, la quale ha avuto caratteri di straordinaria originalità. Comunque la fase iniziale della civiltà nuragica non è ancora ben nota. Indicata all’inizio da un diverso e speciale aspetto delle stoviglie di ceramica (facies di Monte Claro, presso Cagliari) essa acquista il suo aspetto più caratteristico con l’introduzione della forma architettonica circolare ad aggetto formante cupola (tholos), che si realizza nel nuraghe. L’aspetto più importante e più appariscente di questa civiltà è costituito appunto dalle gigantesche moli dei nuraghi (da nora, nura, nurra che sembra significare mucchio cavo) sparse su tutto il territorio dell’isola e che, anche se ricordano altre architetture mediterranee come i talajots delle Baleari, acquistarano una tale diffusione e perfezione e furono accompagnati da tali manifestazioni culturali da poter essere considerati come il documento più significativo della capacità creativa delle antiche genti sarde.

    Bronzetto nuragico raffigurante una madre col figlio in braccio.

    A sinistra: Statuetta nuragica in bronzo raffigurante un guerriero. A destra: Statuetta votiva.

    Il Nuraghe Oes presso Torralba. Veduta, pianta e sezione, da un rilievo ottocentesco.

    Questi strani edifici a torre furono elevati sul declinare del periodo eneolitico dal 1400 a. C. fino al 200 a. C. ed ebbero la massima fioritura dall’Vili al VI secolo avanti Cristo. Con le loro moli poderose i nuraghi sembrano sfidare il tempo, danno grandezza solenne alle distese deserte, coronano audacemente colli e rupi, si allineano lungo ciglioni e pendici, sì da costituire un elemento essenziale del paesaggio sardo. Per quanto variabili per dimensioni e complessità essendo stati costruiti ed essendosi quindi evoluti durante il lunghissimo periodo intercorrente tra i tempi prefenici e quelli romani, i nuraghi sono riconducibili ad un unico schema costruttivo la cui parte essenziale è un torrione di forma tronco-conica alto una ventina di metri, fatto di grossi blocchi squadrati di roccia (basalto o calcare o trachite o granito che sia) sovrapposti ordinatamente e non cementati tra loro, munito di feritoie e con una porta architravata chiudibile daH’interno, guardata da una nicchia posta alla sua destra. L’interno è a uno o due piani, con una scala a spirale ricavata nello spessore del muro e con le volte delle camere ottenute con anelli di pietre progressivamente aggettanti verso l’interno fino ad un’apertura terminale chiusa da una pietra nel piano inferiore mentre in quello superiore la cupola si appiattisce a formare la terrazza con cui il nuraghe quasi sempre termina. Nessuna iscrizione vi è stata mai trovata, sicché dell’epoca nuragica non ci sono pervenute purtroppo scritture atte a fornire elementi sulla lingua, sulla civiltà, sulle vicende dei Protosardi.

    Questo tipo semplice più antico subì con l’andar del tempo modificazioni notevoli: è aumentato il numero dei vani da uno a due e talvolta a tre come nel grande Nuraghe Santu Antine, la «reggia nuragica » in territorio di Torralba; si è complicata la struttura perchè al nuraghe primitivo isolato se ne sono spesso giustapposti altri minori racchiudenti piccole corti e infine, prevalendo la funzione di difesa, oltre a ingrandirsi, i nuraghi sono stati protetti da una o più cinte di mura munite di torri, come nel Nuraghe Losa, presso Abbasanta, in cui una torre centrale e altre minori appoggiate ad essa, chiuse entro una cortina, sono circondate da mura turrite. Sembra dunque che le preoccupazioni difensive siano andate progressivamente aumentando.

    Altro elemento da tener presente è l’ubicazione dei nuraghi, situati in gran parte in punti strategici, in posizioni dominanti o di passaggio obbligato come vie naturali, valichi, guadi, sbocchi di valli, confluenze, bordi di altopiani; coordinati a catena in allineamento semplice o duplice e persino triplice in modo che la loro funzione difensiva non può essere messa in dubbio.

    Così dopo le appassionate discussioni svoltesi tra gli studiosi nello scorso secolo e i numerosi ritrovamenti nell’interno dei nuraghi di suppellettili svariate e di avanzi di pasti, è ormai stabilito che essi erano abitazioni fortificate e talvolta, nei più recenti, vere fortezze che avevano perciò funzione esclusivamente militare.

    Se i nuraghi si diffusero in tutta l’isola, e vi sono sparsi anche oggi (come è dimostrato dai loro resti attuali) in numero di circa 7000, vi si distribuirono però in modo assai ineguale: rari o mancanti nelle sterili e aspre regioni orientali — Gerrei, Ogliastra, Gallura —, sono assai numerosi nelle fertili conche centrali — Trexenta, Marmilla — e sud-occidentali — Sulcis — e particolarmente nel settore nord-occidentale tra Oristano, Bosa, Nuoro e Oschiri, nei vasti altopiani di Abbasanta e della Campeda, nel Montiferru e nelle depressioni del Logudoro, regioni tutte di diffìcile accesso dove si è addensato il popolamento preistorico in una seconda fase della sua evoluzione, dato che vi si trovano nuraghi più recenti e più complessi mentre quelli più semplici e più antichi sorgono nella parte meridionale. Ciò è da mettere in rapporto con l’arretramento di fronte agli invasori fenici e cartaginesi cui le popolazioni nuragiche furono costrette, per rifugiarsi in regioni meglio difendibili. È da tener presente però che molti nuraghi posti nelle pianure sono andati distrutti soprattutto dopo il 1820, all’epoca della cosiddetta «legge sulle chiudende», quando i materiali che li formavano vennero spesso usati per la recinzione dei fondi.

    Tipi di nuraghi complessi (ricostruzione di G. Lilliu): 1, Su Nuraxi (Barumini); 2, Santu Antine (Torralba); 3, Nuraghe Arrubiu.

    Carta dei resti di nuraghi di villaggi nuragici.

    Veduta aerea del Nuraghe complesso « Su Nuraxi » presso Barumini, e del villaggio nuragico adiacente.

    Il Nuraghe Santu Antine, presso Torralba, il maggiore dei nuraghi sardi e tra i più belli dell’isola.

    Il Nuraghe Santa Sarbana presso Silanus.

    Le poderose strutture interne del Nuraghe “Su Nuraxi” di Barumini.

    Le osservazioni precedenti ci fanno concludere che i nuraghi, i cui resti costellano oggi gli altopiani e i colli sardi, non sono stati abitati contemporaneamente, ma che invece molti, e particolarmente nelle regioni meridionali, erano abbandonati e in rovina, quando altri erano ancora abitati. Per questo i resti attuali non ci consentono di precisare l’entità del popolamento della Sardegna in un dato momento dell’età nuragica, come da qualcuno è stato tentato.

    Si è posto da tempo il quesito della causa della grande dispersione dei nuraghi e alcuni hanno creduto di trovarla nella presenza di numerose ma piccole sorgenti. Questo fatto esclusivamente fisico non può bastare però a dare una spiegazione esauriente della cosa; il gran numero dei nuraghi deve riflettere invece una struttura sociale e politica particolaristica che ebbero certo in un primo tempo le genti protosarde. Ma d’altra parte bisogna notare che i nuraghi non sono disposti a caso, bensì riuniti in gruppi, a costituire veri sistemi difensivi che sfruttano nel miglior modo le condizioni naturali dal punto di vista strategico. Ciò dimostra che nel periodo nuragico pieno si costituirono gruppi sociali più importanti con ampia giurisdizione; ciascuno di questi gruppi dovette rappresentare un nucleo politico ed economico a sè stante, cui con ogni probabilità si appoggiarono per la difesa diverse tribù o piccole confederazioni a base gentilizia e gravitante verso un fulcro di particolare significato religioso, località centrale e dominante dove i membri del gruppo concorrevano periodicamente per celebrare riti e cerimonie in templi a pozzo e ipetrali e in recinti circolari, come si vedono a Santa Vittoria di Serri, sul bordo della giara omonima.

    Planimetria generale del Nuraghe « Su Nuraxi » presso Barumini e del villaggio nuragico circostante con le sue fasi di sviluppo (da Lilliu).

    Stele di una « tomba dei giganti » o sepolcreto collettivo presso Nuoro.

    Ogni nuraghe costituiva comunque il centro di un nucleo economico e sociale, tanto è vero che per lo più vi si formarono intorno piccoli gruppi di capanne circolari con base di pietra e copertura di frasche, abitate da pastori e agricoltori. Successivamente, nella fase protostorica della civiltà nuragica, cioè in quella posteriore al iooo, numerosi indizi fanno ritenere che sia avvenuto un notevole perfezionamento in tutte le forme culturali, coincidente con l’evoluzione dello stato sociale.

    Conquista importante di quell’epoca che è il nuragico pieno (800-500 a. C.), in sincronismo con le culture del ferro sul vicino continente, fu l’agglomeramento umano in villaggi, costituenti i primi centri abitati costruiti dalle genti sarde. Ciò è dimostrato dal gran numero di questi villaggi fino ad oggi trovati, almeno una cinquantina, formati tutti da parecchie decine di capanne (70-100 per lo più), con la base in muro a secco e tetto conico di pali e frasche, raggruppate intorno a un’area comune di disimpegno, la piazza, protetta dal nuraghe sovrastante e con vicino la cosiddetta tomba del gigante. Era questo un grande sepolcreto collettivo, formato da una camera allungata, costruita con pareti e copertura di lastroni rafforzate esternamente da altre lastre volgenti ad abside nella parte posteriore, coperta da una volta ad aggetto: la camera ha un portale d’ingresso posto al centro di un emiciclo o esedra scoperta destinata alle riunioni. Di tali tombe dei giganti sono stati trovati 150 esemplari, posti soprattutto sugli altopiani centrali.

    I villaggi nuragici sono stati trovati in molte parti dell’isola, ma sono più frequenti intorno al Gennargentu, al Golfo di Orosei e ad Urzulei, sugli altopiani vulcanici, in Marmilla e nel Sulcis settentrionale: ricordiamo tra i più caratteristici i villaggi di Serrucci nel Sulcis, con 90 capanne, quello di Serra Orrios, in territorio di Dorgali con 80 capanne, quello di Cala Gonone con 114 capanne e poi a Barù-mini, a Sorabile, a Teti e in tanti altri luoghi. La loro frequenza e la loro complessiva aderenza a un uniforme schema urbanistico provano che essi sono il prodotto di un vero fenomeno storico, risultato in parte di un logico processo evolutivo della civiltà nuragica con agricoltura e pastorizia ben sviluppate, e in parte di preoccupazioni crescenti di difesa, che poi hanno prevalso e che hanno provocato la trasformazione dell’abitato sparso in agglomerato. In questi agglomerati il nuraghe ha funzione molto simile a quella del castello medievale che domina e protegge il borgo circostante.

    Alcuni villaggi avevano funzione prevalente di centri di culto presso pozzi o sacelli (oltre una ventina riconosciuti), come quelli nelle località attuali di Santa / __ Vittoria (sulla giara di Serri), di Serra Orrios (Dorgali), di Abini (Teti) e vari altri. In essi si trovano stalli per la vendita di mercanzie, recinti per fiere di bestiame e tracce dell’esistenza di attività artigiane.

    Né è da trascurare la fioritura artistica che accompagna anche la tecnica evoluta della fusione del bronzo per la fabbricazione di armi e strumenti e che è documentata da una serie di originali figurine votive, i famosi bronzetti nuragici, trovati nei templi e rappresentanti uomini, animali e divinità con singolare efficacia e potenza espressiva. Essi ci dànno l’immagine di un popolo saldo e austero, tenuto unito da disciplina militare e religiosa.

    Giustamente è stato detto che « al tempo in cui Roma, Cartagine e Siracusa nascevano e la potenza etrusca s’affacciava sul Tirreno, la Sardegna era il paese più importante di tutto il bacino occidentale del Mediterraneo, tanto che da essa si denominava la distesa di mare (Mare Sardo) tra l’isola e le Baleari ». Successivamente, però, malgrado lo sforzo compiuto per inserirsi nel quadro delle civiltà mediterranee, il mondo nuragico rimane chiuso e attardato, tanto che non si può parlare di una cultura del ferro in Sardegna, e non ebbe sviluppo ulteriore per la mancata adozione della scrittura e di una vera e propria organizzazione urbana, esistente invece nelle regioni circostanti vivificate dall’influsso greco di cui la Sardegna fu priva.

    Tuttavia fin dall’inizio del primo millennio, attirate dalla presenza di minerali, specie di rame e di piombo, e dalla sua posizione, affluirono in Sardegna altre genti provenienti sia dalle terre ad essa più vicine, e principalmente dalla Corsica, sia dai continenti circostanti, da un lato secondo il filone libico-sardo-iberico e dall’altro lungo il filone longitudinale anatolico-sardo-iberico. Gli autori classici riferiscono, infatti, numerose tradizioni in merito alle immigrazioni avvenute in questo periodo mitico protostorico e riferiscono i nomi di vari eroi colonizzatori: Sardo, duce dei Libici, Norace proveniente da Tartesso alla testa degli Iberi, Iolao altro eroe libico e poi il tèssalo Aristeo, il cretese Dèdalo ed altri. Peraltro queste leggende sembrano ispirate piuttosto al nome degli antichi abitanti della Sardegna. Comunque è certo che i Corsi si stabilirono per tempo nella Gallura attraverso le Bocche di Bonifacio, costituendo una colonia che si distingue anche oggi per i suoi caratteri fisici ed etnici. All’estremità meridionale, su una penisoletta che si affaccia sul Golfo di Cagliari, un gruppo di genti iberiche fondò Nora, la prima e più antica città della Sardegna; un secondo gruppo di Iberici pervenne successivamente nell’isola a costituire i cosiddetti Baiavi, il cui nome è forse da connettere con quello delle isole Baleari. Al centro si raccolsero gli Iliensi, genti di origine assai discussa che, secondo Strabone, sarebbero da identificare con i mitici Iolci, avvicinati da Pausania ai Libici per il loro aspetto e per il genere di vita.

    L’apporto di questi diversi gruppi al popolamento dell’isola è comprovato dalla presenza di svariati elementi mediterranei preindoeuropei nel linguaggio sardo e di elementi iberici, liguri, baschi e libici in numerosi nomi del luogo.

    Basta pensare alle radici sarde -ula, -olla e alla parola Nora, Nurra cui fanno riscontro gli iberici Ulla e Nurra; ai nomi sardi: Mògoro (altura), Orri, Usai, ai quali corrispondono i baschi mokor (zolla), orri (ginepro) e usi (bosco); alle concordanze tra le terminazioni -ili, -iri, -ai, -oi, che trovano riscontri libici, ecc.

    Così fino da epoca protostorica la Sardegna offre un quadro etnico che, se pur dominato da genti di tipo e cultura nuragici, presenta nuclei di vario e ben differenziato carattere, distinguibili sopratutto lungo il lato occidentale e all’estremità settentrionale.

    La Sardegna fenicio-punica

    Ben presto l’attrazione che la Sardegna esercitò sui navigatori mediterranei si tramutò in una stabile corrente di scambi che portò di necessità al controllo del suo territorio da parte di gruppi di colonizzatori operanti da tempo nel bacino occidentale del Mediterraneo. I più forti tra essi furono i Fenici, che, affluiti dai loro scali delle coste africane, o rifluiti dalle loro più antiche colonie iberiche, posero per primi piede nell’isola e l’aprirono così alla storia.

    Gli empori marittimi, sorti in un primo tempo sulle coste meridionali e occidentali, si trasformarono in colonie di carattere urbano, la cui documentazione archeologica si può far risalire intorno all’Vili secolo avanti Cristo. Secondo il loro costume i Fenici occuparono stabilmente isolotti e penisole site in posizioni favorevoli e vi fecero sorgere centri marittimi con la doppia funzione di punti d’appoggio lungo la rotta che conduceva da Tiro a Sidone alla ricca colonia iberica di Tarshish (Tartessos, dei Greci) da cui traevano argento e rame, e di fattorie commerciali cui facevano capo i rapporti con gli indigeni senza che ciò abbia portato ad una vera penetrazione nell’interno.

    Sorsero così Nora, considerata la più antica città della Sardegna e Karales, -is, nell’ampio Golfo di Cagliari, Sulcis poi Plumbea nell’isola di Sant’Antioco, in funzione del commercio del piombo prodotto nella zona mineraria finitima, e forse Tharros sull’affilata penisola del Capo San Marco dominante il bel Golfo di Oristano.

    Naturalmente il contatto con queste colonie fenicie dovette esercitare sulle popolazioni indigene una progressiva influenza, attestata da un’impronta artistica nuova e più progredita negli oggetti di ceramica e di metallo risalenti a quell’epoca. Invece i tentativi di colonizzazione che i Greci focesi e gli Etruschi fecero sul litorale orientale dell’isola, approfittando della decadenza fenicia nel VI secolo, ebbero scarso e limitato significato: si può ricordare solo la probabile fondazione di una colonia etrusca nei pressi di Siniscola, là dove Tolomeo colloca Ferònia e può darsi anche che i Focesi di Massàlia (Marsiglia), abbiano preso piede in qualche punto come avevano fatto in Corsica ove fondarono Alàlia o Alèria (565 a. C.) punto di appoggio per il dominio del Tirreno settentrionale. Ma, se pure una colonia greca fu creata in Sardegna — non ad Olbia, che non ha fornito alcun reperto greco ed è da ritenere fondata dai Cartaginesi — questo nucleo massaliese dovette essere costretto a ripiegare dopo la rotta di Alàlia, inflitta ai Greci dalla coalizione etrusco-cartaginese. La sconfitta di Cuma, di cui furono artefici le forze riunite dei Cartaginesi e dei Cumani, costrinse sessantacinque anni dopo anche gli Etruschi a lasciare l’isola.

    Rovine punico-romane di Nora, sulla penisoletta dominata dalla cinquecentesca Torre del Coltellazzo o di Sant’Elìsio. In primo piano i resti del teatro romano.

    Ebbero così via libera anche in Sardegna i Cartaginesi che già dal VI secolo, dopo la caduta di Tiro, avevano rilevato le colonie fenicie del Mediterraneo occidentale, pervenendo così al dominio di quel bacino marittimo. Mentre i Fenici svolsero opera essenzialmente commerciale e pacifica, i Cartaginesi esercitarono una penetrazione armata, una vera conquista, che però non riuscì ad aver ragione degli indigeni, Iliensi e Balari, rifugiatisi nella parte montana interna. Per frenare le frequenti razzie cui i ribelli si davano, furono costituiti neH’interno presidi militari di milizie mercenarie libiche o iberiche e per i lavori agricoli furono trasferiti nell’isola numerosi schiavi libici. Il territorio delle pianure e delle colline venne razionalmente sfruttato soprattutto per la coltura del grano, sicché la Sardegna diventò uno dei principali granai di Cartagine: tra l’altro, come attesta Diodoro, Amilcare prelevò dall’isola il grano per la campagna di Sicilia. Invece i Cartaginesi ostacolarono la coltura della vite e dell’olivo per potervi smerciare i propri prodotti, e forse anche quella degli alberi fruttiferi, che secondo un passo dello pseudo-Aristotele sarebbero stati fatti addirittura tagliare. Complessivamente le attività economiche ebbero notevole impulso anche per l’incremento dell’attività mineraria, e l’intensificazione dei rapporti commerciali tra i Fenici e i Nuragici portò allo sviluppo ulteriore dei centri marittimi fenici di Kàralis, Nora, Sulcis e Tharros e alla costituzione di molti altri centri abitati costieri, particolarmente in due zone: la cùspide sud-occidentale dell’isola, ove sorsero Bithia, Teulada e il centro fortificato di Sirai, e la costa centro-occidentale, ove furono fondate Othoca (= la città vecchia) e Neàpolis (= la città nuova) in corrispondenza del Golfo di Oristano, Cornus e Bosa (questa poco a monte del centro attuale). Più tardi nel settentrione dell’isola sorsero Olbia e forse Turris, l’attuale Porto Torres sul Golfo dell’Asinara. Di tutte queste città puniche rimangono resti importanti e talvolta considerevoli di templi e sepolcreti (tophet), tra cui perspicui quelli di Tharros, di Sulcis, di Nora e di Olbia.

    Vedi Anche:  Origine del nome e caratteri generali della Sardegna

    Centri fenicio-punici (in maiuscolo) ed espansione territoriale cartaginese.

    Maschera apotropaica punica (Museo archeologico di Cagliari)

    Le numerose e varie testimonianze archeologiche relative all’infiltrazione dei Puni e dei Libiopunici nell’interno della Sardegna provano che essi dominarono una vasta zona occidentale tra la valle del Temo e il Golfo di Cagliari attraverso i Campidani giungente a oriente fino a Barumini e Nurri e tratti della costa orientale come la piana del Flumendosa. In questa zona sorsero centri con doppia funzione, militare e di colonizzazione, di cui spesso si sono trovate tracce. Forse il maggiore di questi centri punici interni dovette essere Macopsissa, l’attuale Ma-comér (dal punico macort = luogo) in posizione di grande importanza strategica e commerciale a dominio del principale valico attraverso i monti del Màrghine, per cui passa la più importante via tra il Capo di Sopra e il Capo di Sotto. Anche nel punto obbligato di passaggio a dominio della media valle del Tirso, ove oggi è For-dongianus, sorse sin da epoca molto antica un centro di mercato e di presidio, che fu poi la romana Forum Traiani.

    La dominazione cartaginese lasciò dunque notevoli tracce nell’isola: i Sardi, ad eccezione dei montanari rimasti indipendenti, si adattarono, collaborarono e si mescolarono ai Punici, com’è dimostrato dai molti nomi punici rimasti anche dopo la conquista romana. Ma la conseguenza maggiore fu di ordine economico e culturale in quanto proprio all’occupazione e all’opera dei Cartaginesi si deve far risalire la rottura dell’equilibrio economico e dell’unità etnico-culturale delle genti sarde in due ambienti con caratteri assai diversi: un ambiente prevalentemente agricolo, influenzato dalle colonizzazioni esterne e corrispondente alle pianure e alle colline centrali e occidentali, e un ambiente di pastori culturalmente arretrati e gelosi della propria indipendenza, viventi isolati sulle montagne orientali. Due ambienti, due mondi con attività, mentalità e interessi differenti i cui contrasti si sono riflessi su alcuni importanti aspetti dell’organizzazione dell’isola, si può dire fino ai giorni nostri.

    La Sardegna romana

    Dopo aver posto piede una prima volta in Sardegna durante la prima guerra punica per opera del console L. Cornelio Scipione, Roma se ne impadronì nel 238 avanti Cristo durante la ribellione dei mercenari cartaginesi fra la prima e la seconda guerra punica e ne fece nel 227 la sua seconda provincia, dopo la Sicilia. Ma la presa di possesso romana si dovette limitare a lungo alle sole città costiere e ai relativi territori e occorse oltre un secolo perchè si costituisse un certo controllo sulla parte interna, le cui popolazioni peraltro rimasero indomite e continuarono ad effettuare incursioni nelle sottostanti pianure, meritandosi così l’appellativo di barbarne e bar-baricinae, che sopravvive anche oggi e da cui è derivato il nome di Barbagia. Particolarmente pericolosa fu la ribellione guidata nel 215 da un capo sardo-punico, Hampsàgoras (Amsicora), e dal di lui figlio Josto o Ostio: i rivoltosi, dalla città di Cornus, posta nei pressi dell’attuale Cuglieri, giunsero con l’aiuto dei Cartaginesi comandati da Asdrubale fino alle porte di Cagliari, dove furono sconfitti e dove cadde Josto e si uccise lo stesso Amsicora, considerato anche oggi dai Sardi come un loro eroe. Questa vittoria concluse il periodo delle grandi spedizioni per la conquista dell’isola, ma altre ribellioni seguirono e Roma prima di domare le genti sarde dovette fare in un secolo ben nove spedizioni consolari, l’ultima delle quali fu quella del in a. C., comandata dal console M. Cecilio Metello. Più importante e di valore decisivo fu la spedizione condotta dal console Tiberio Sempronio Gracco e durata tre anni (177-174 a. C.), per domare una rivolta dei Barbaricini — i latrunculi mastru-cati di Cicerone — che vennero alla fine sconfitti e portati prigionieri in gran numero a Roma ove, dopo aver seguito in ceppi il trionfo concesso al console, furono venduti a vii prezzo donde l’appellativo di Sardi venales, con cui da allora si indicarono gli isolani.

    L’anfiteatro romano di Cagliari il più notevole edificio romano della Sardegna.

    Malgrado guerriglie e sommosse dovute anche a saccheggi e soprusi commessi da alcuni governatori romani, la Sardegna si andò adattando alla sua nuova sorte: la costruzione di una vasta e bella rete stradale, la fondazione di numerose colonie anche con trasferimento di gruppi di coloni italici (come i Patulcenses Campani in Marmilla) il reclutamento dei Sardi nelle milizie, condussero le popolazioni isolane alla tranquillità, al lavoro e alla piena collaborazione con Roma. Fiorirono l’agricoltura, l’estrazione dei minerali e i traffici, specialmente dopo che nel 67 a. C., Gneo Pompeo ebbe debellato a Coracesium i pirati che infestavano il mare e assalivano le città rivierasche. Nè le travagliate vicende delle guerre civili, che portarono successivamente nell’isola Cesare, Ottaviano e Pompeo, intaccarono la fedeltà dei Sardi, che tennero sempre dalla parte del Senato, al quale alla fine fu affidato il governo dell’isola dopo la sconfitta di Pompeo.

    In età imperiale la Sardegna, completamente acquietata, tranne saltuarie scorrerie compiute dalle popolazioni pastorali montanare ai danni dei pacifici agricoltori, non fu turbata come il vicino continente dai movimenti dei barbari e dalla irrequietezza degli eserciti e condusse vita in complesso tranquilla. Si verificò tuttavia negli ultimi secoli dell’Impero un isolamento crescente ed un certo decadimento, attestato dagli storici più tardi, che parlano di arie pestilenziali che rendevano difficile e pericolosa la vita.

    Il dominio forte e ordinato di Roma, prolungatosi per circa sette secoli, impresse all’isola, con un’opera razionale e completa di civilizzazione, tracce profonde ed una fisionomia indelebile: la lingua, i costumi, le città, l’organizzazione economica e sociale, subirono un rinnovamento profondo e un processo di romanizzazione le cui conseguenze hanno sfidato i secoli e rimangono in parte anche oggi.

    I Romani promossero anzitutto e intensificarono l’agricoltura che venne prevalentemente indirizzata alla produzione del frumento esportato in copia, per l’approvvigionamento dell’Urbe, sicché la Sardegna fu considerata, insieme alla Sicilia e all’Africa settentrionale, come uno dei « tria frumentaria subsidia rei publicae », ma furono coltivati anche la vite e l’olivo. Grandi estensioni di terreno divennero proprietà degli imperatori, di senatori e di privati e si formarono così vasti latifondi sparsi di ville e di villaggi specialmente nel Cagliaritano, nel Turritano e intorno a Olbia.

    Le miniere, monopolio degli imperatori, furono sfruttate razionalmente con lavoro intenso svolto da turbe di schiavi e di condannati ad effodienda metalla, per l’estrazione del piombo, dell’argento e anche del ferro, come rilevano i nomi di antichi centri abitati, come Plumbea, Argentana, Ferraría e Metalla.

    La valorizzazione del territorio e lo sviluppo dei traffici vennero favoriti da una bella rete di strade, quale la Sardegna non ha più avuto fino ad epoca attuale. L’Itinerarium Antonini, del III secolo d. C., e la Tabula peutingeriana, del secolo successivo, nonché il ritrovamento di un centinaio di pietre miliari, permettono di accertare che all’epoca di Augusto e fino al IV secolo, la rete stradale era formata da quattro vie principali: due di esse erano litoranee e procedevano una lungo la costa orientale, da Cagliari ad Olbia, con funzione soprattutto politica e militare e l’altra lungo la costa occidentale da Cagliari a Tharros, Bosa e Tmris, fino a Tibula, sulle Bocche di Bonifacio con funzione essenzialmente commerciale. C’erano poi due vie interne aventi fini strategici e di penetrazione: una da Cagliari per Othoca (presso Oristano) e Macopsissa (Macomér) giungeva a Turris e l’altra, sempre da Cagliari, per Biora (presso Serri), l’oppido di Valentia, Sorabile (presso Fonni) e Caput Thirsi (alle sorgenti del Tirso) finiva ad Olbia. Vi erano poi parecchi tronchi minori e di raccordo, più numerosi nella parte occidentale dell’isola.

    L’ingresso della cosiddetta Grotta della vipera, tomba di Atilia Pomptilia.

    L’insediamento e la viabilità in epoca romana. I cerchietti vuoti indicano centri abitati di posizione incerta; le parti punteggiate sono le zone di popolamento più denso.

    S

    Oltre ai traffici, le strade favorirono la formazione di numerosi centri abitati, che sorsero in molte località dell’interno per scopi diversi e con differenti caratteri. Lungo le vie sorsero e si svilupparono, come al solito, stazioni di sosta (mansiones) poste in località opportune, sì da conciliare le necessità delle tappe con la valorizzazione dei terreni feraci e la costituzione di centri commerciali. Tra le numerose mansiones ricordiamo Sextum (Sestu) e Septimum (Settimo) posti al sesto e al settimo miglio da Cagliari, Decimum (Decimo) e Mansum (Elmas) lungo la via Càralis-Sulcis.

    Ma l’aspetto principale dell’opera di romanizzazione riguardò il popolamento e l’insediamento umano, che solo poteva assicurare un durevole dominio. Furono anzitutto riorganizzate e potenziate le sedi puniche preesistenti e vennero poi creati via via una quantità di centri nuovi sia lungo le coste che, soprattutto, nelle regioni interne di vecchia e nuova colonizzazione. Le città marittime puniche, sorte in posizioni scelte con grande oculatezza, divennero altrettanti centri romani : tra esse particolare sviluppo presero Càralis, che si affermò fin da allora come la città più importante dell’isola essendo divenuta anche la principale stazione navale romana; Olbia che Claudiano dice cinta di mura, Turris Libissonis (Porto Torres), che divenne il maggiore centro marittimo della Sardegna settentrionale noto per i suoi traffici con la Gallia narbonese svolti dai suoi navicularii. Ai centri litoranei preesistenti se ne aggiunsero vari altri, come Tibula, Vintola, Longonis, Ad Emporia (.Ampurias), sul Golfo dell’Asinara, Sàrcopos e Saralapis, sulla costa orientale. Nell’interno, oltre ai centri sorti lungo le quattro strade, sorsero in molte località per scopi diversi sedi di varia importanza. Alcune ebbero soprattutto funzione militare: una fra le principali fu Forum Traiani (Fordongianus) a dominio della valle del Tirso e al centro di un limes fortificato contro i Barbaricini, con caposaldi corrispondenti a Dolia, Sant’Andrea Frius, Valentia (Nuragus) e Usellis; ma sono pure da ricordare Sorabile, Abini e Aùstis, poste tutte a vigilanza e a freno delle fiere genti barbaricine, nonché Custodia Rubrensis e gli stessi Caput Thyrsi e Gemellas. Altri centri ebbero origine nella zona mineraria come Metalla nei pressi di Fluminimag-giore, o in corrispondenza di sorgenti termo-minerali razionalmente sfruttate e provviste di terme, come Aquae Neapolitanae (Santa Maria de is Abbas, vicino a Sàrdara), Aquae Lesitanae, vicino a Lesa (oggi Benetutti). Ma questi centri minori avevano allora solo poche centinaia di abitanti tanto che Plinio, nel primo secolo dell’Impero attribuisce alla Sardegna solo 18 oppida, cioè 18 più importanti centri organizzati.

    Particolare significato ebbe il popolamento delle campagne con conseguente creazione di numerosissimi piccoli e medi centri rurali in regioni prima semideserte. Nei vasti latifondi e nelle colonie della Nurra, del Logudoro, dei Campidani, della Marmilla, della Trexenta e del Sulcis e, in genere, in tutte le regioni pianeggianti e collinose dell’isola comprendenti i migliori terreni agrari sorsero centinaia di villae e di vici dove viveva una popolazione agricola di coloni, di schiavi e di liberti che con la loro opera resero fruttifere e prospere le terre migliori dell’isola. Ricordiamo che i coloni furono in parte veterani e in parte italici, come i Patulcenses Campani insediatisi in Marmilla, e in parte stranieri, come i 4000 liberti giudei inviativi da Tiberio. Il Pais calcola che la popolazione dell’isola contasse in periodo augusteo 300.000 anime.

    I Romani, dunque, svilupparono in Sardegna un ordine nuovo che provocò mutamenti sostanziali e duraturi del paesaggio : dietro ad una cintura di città e paesi marittimi, si formarono campagne bene coltivate, disseminate di fattorie e di villaggi dove viveva una popolazione numerosa. Ma vi erano anche, nelle regioni più appartate, boschi estesi e vaste superfici incolte e deserte adibite a pascoli, indicate col nome di saltus, costituenti spesso proprietà imperiali amministrate da procuratori.

    Il ponte romano di Porto Torres, sul Rio Turritano.

    Pertanto in epoca romana la Sardegna godette di una grande prosperità, anche se ebbe molto a soffrire dalla rapacità di alcuni governatori, come Tito Albucio e Scauro, noto per la difesa fattane da Cicerone. E da notare peraltro che durante il basso Impero si verificò una progressiva decadenza economica e demografica.

    Intanto, verso il III secolo, si era diffuso nell’isola il Cristianesimo che, malgrado persecuzioni che dettero martiri venerati come Gavino, Proto, Ianuario, e ancora Potito, Crescentino, Antioco, Saturnino, Priamo, Felice, Emilio, Lussòrio, Efisio e Giusta, si consolidò progressivamente. Nel 314 per la prima volta il nome del vescovo di Cagliari compare tra i partecipanti del Concilio Arlesiano e nello stesso secolo ebbero gran fama due vescovi sardi: Eusebio, vescovo di Vercelli e Lucifero vescovo di Cagliari. La Sardegna dette anche alla Chiesa due pontefici: San Ilario e Simmaco. La diffusione del Cristianesimo neirinterno fu favorita dal pontefice Gregorio I Magno che, mercè l’opera dei missionari Felice e Ciriaco, riuscì a convertire alla fine del VI secolo anche Ospitone, capo e dei Barbaricini e quindi i fieri montanari da lui dipendenti sicché queste genti, abbracciata la religione cristiana, addolcirono a poco a poco la loro natura selvaggia e poterono iniziare rapporti di civile convivenza con gli altri abitanti dell’isola.

    Il periodo bizantino

    Le invasioni barbariche investirono l’isola solo sporadicamente e quasi di rimbalzo. Infatti gli unici che riuscirono a conquistarla furono i Vandali che vi giunsero nel 455 dall’Africa, guidati da Genserico, quando avevano dimesso parte della loro barbarie primitiva. I Vandali rimasero in Sardegna circa 80 anni, fino alla conquista bizantina del 534, cioè un tempo troppo breve perchè la loro occupazione, effettuata da un numero relativamente esiguo di uomini, potesse avere un’influenza sensibile e duratura. I più ritengono che durante il dominio vandalico gli ordinamenti anteriori non abbiano subito sensibili variazioni o, se cambiamenti vi furono, non dovettero avere vigore tale da interrompere in maniera definitiva l’andamento generale della vita pubblica e privata degli isolani.

    Tuttavia è da ricordare che scomparve il regime municipale e che i nuovi dominatori spostarono i rapporti di sfruttamento terriero a proprio vantaggio. Inoltre sotto i Vandali la Sardegna, come già in epoca romana, divenne terra d’esilio: le persecuzioni contro il clero cattolico disposte da Genserico e continuate da Unnerico e da Trasamondo, culminarono con la relegazione in Sardegna di molti fedeli e di 120 vescovi, tra cui il vescovo di Ippona che portò in Sardegna le spoglie di Sant’Agostino, trasferite due secoli dopo da Liutprando a Pavia, per timore che cadessero in mano dei Saraceni.

    Lo stesso Genserico confinò nell’isola alcune migliaia di Bèrberi ribelli, i Màuri o Maurusii, trasferendoli a quanto pare nel Sulcis e sarebbe per questo che i Sulcitani, chiamati ancora oggi Maurreddus, si distinguono per alcuni caratteri somatici dagli altri Sardi.

    Con la conquista bizantina la Sardegna costituì sotto Giustiniano una delle sette provincie della prefettura africana del Pretorio, e fu governata da un praeses per gli affari civili residente a Cagliari e da un dux capo delle milizie che risiedeva a Forum Traiani a freno delle irrequiete popolazioni barbaricine.

    Tolta la breve parentesi della conquista ostrogota (552-553) guidata da Totila, il dominio bizantino continuò per alcuni secoli sempre più esautorato e distaccato dal governo centrale. Esso fu tirannico e oppressivo per le concussioni e vessazioni sistematiche dei magistrati mandati da Bisanzio e per il progressivo abbandono in cui furono lasciate le popolazioni. In questa triste situazione, che risulta chiaramente dalle lettere di Gregorio Magno, spicca tanto più l’opera intensa e multiforme svolta dal grande pontefice, che da un lato si fece interprete verso l’Imperatore dei disagi della popolazione e dall’altro dispose una serie di provvedimenti per la diffusione della religione cristiana e il rafforzamento e l’organizzazione della Chiesa cattolica nell’isola: la conversione dei Barbaricini, la fondazione dei primi cenobi, la restaurazione della disciplina ecclesiastica nel clero e l’affermazione dell’autorità del metropolita di Sardegna Gianuario. A Gregorio risale anche il merito di avere organizzato la difesa dell’isola contro il tentativo di invasione dei Longobardi effettuato nel 598 e respinto vittoriosamente.

    Resti della chiesa bizantina di Mesumundu presso Siligo.

    Il Santuario di Santu Antine (San Costantino) a Sédilo.

    Le relazioni tra Costantinopoli e la lontana Sardegna andarono però affievolendosi e della conseguente carenza di difesa approfittarono gli Arabi, insediatisi nell’Africa settentrionale, nelle Baleari e più tardi in Sicilia, per effettuare le loro incursioni che, iniziatisi nel 711, si ripeterono saltuariamente nei secoli successivi per culminare nel 1015 con la fugace conquista operata da Mugahid e con la sua successiva sconfitta ottenuta mediante il valido aiuto delle flotte pisana e genovese.

    Queste scorrerie piratesche, pur valorosamente contrastate e respinte dalle genti sarde, provocarono rovine e lutti numerosi nei centri abitati del litorale ed ebbero conseguenze importanti sia dal lato politico che sul popolamento dell’isola poiché dal loro inizio fino a tempi recentissimi il mare ha esercitato quell’azione repulsiva che ha provocato il riflusso della popolazione verso le più sicure regioni dell’interno.

    La Chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Cagliari, il più antico e importante monumento della Sardegna cristiana.

    Le città costiere poste dal lato occidentale furono quelle che più risentirono degli attacchi arabi: furono distrutte per prime Nora, Bitia, Teulada, Sulci e Cornus e successivamente si spopolarono sempre più Tharros, Torres, l’antica Bosa, la stessa Cagliari e Olbia, chiamata in epoca bizantina Fausania (corrottasi poi in Pausania). Si accrebbero invece i paesi retrostanti, specialmente nel Sulcis, ove fiorirono Palmas, Tratalias e Giba, e in Planargia, ma è pure da ricordare la formazione di Oristano, avvenuta intorno al iooo per trasferimento intorno alla vecchia Òthoca della popolazione di Tharros, spopolatasi ; la costituzione di Thàtari, poi Sassari con gran parte della popolazione di Turris; lo sviluppo di Tempio al posto della romana Gemellas ; di Pula al posto di Nora. Contemporaneamente, l’aggravarsi della malaria determinò in varie regioni interne il trasferimento di popolazione dai villaggi posti nelle bassure a località più elevate: questo avvenne, in modo perspicuo nella media valle del Tirso dove Ottàna, appunto verso il X-XI secolo venne spopolandosi e prese sviluppo invece, più in alto, l’antico ma piccolo nucleo di Nugoro, poi Nuoro.

    Questi importanti cambiamenti nella distribuzione della popolazione e dei centri abitati ebbero notevoli conseguenze anche in campo economico e sociale. Tra l’altro provocarono il trasferimento delle sedi vescovili di varie diocesi antiche soprattutto costiere: da Torres a Sassari, da Ampurias a Tempio, da Tharros a Santa Giusta, da Sulcis a Tratalias.

    Dal dominio bizantino all’autonomia giudicale

    Il trapasso dalla dominazione bizantina ai governi locali autonomi che caratterizzano il periodo giudicale, durato fino a tutto il XIII sec., è avvolto ancora oggi nell’incertezza che lascia adito a varie supposizioni, per mancanza di qualsiasi genere di documentazione. La storia sarda presenta, infatti, nelle fonti una profonda lacuna lungo circa quattrocento anni, e cioè fin verso la metà dell’XI secolo. Da questa data, le società umane dell’isola tornano bruscamente alla luce con documenti che ci mostrano la Sardegna già ripartita in quattro unità politiche autonome, i Giudicati di Cagliari, Arboréa, Torres e Gallura, ma l’organizzazione giudicale esisteva con certezza almeno un secolo prima e affonda le sue radici nei tempi precedenti.

    Alla nascita dei governi autonomi contribuirono varie cause e soprattutto : l’interruzione o la carenza di rapporti con Bisanzio, la necessità di organizzare la resistenza contro le incursioni e i tentativi di invasione musulmani sotto la guida di capi locali e probabilmente l’esistenza di più antiche organizzazioni amministrative e di difesa dei singoli territori. Si è discusso a lungo sui motivi e sulle modalità della partizione dell’isola nelle quattro unità giudicali e la questione non è ancora risolta. Alcuni, come il Besta e il Ciasca, pensano che esse siano derivate dalla divisione di un solo e più antico Giudicato con sede di governo a Cagliari per effetto del conseguimento dell’autonomia da parte delle amministrazioni periferiche capeggiate da funzionari (lociservatores) che se ne posero a capo per usurpazione o per elezione, prima da parte del Giudice cagliaritano e poi da parte delle singole popolazioni. Ciò sarebbe corroborato dal fatto che, a quanto sembra, la stessa famiglia dei Làcon-Gunale sarebbe stata all’origine delle quattro dinastie a capo dei Giudicati.

    La Chiesa romanica di Santa Maria del Regno ad Ardara, dove furono incoronati molti Giudici del Logudoro.

    Vedi Anche:  Tradizioni, letteratura, usi e costumi

    Altri storici invece, come il Loddo-Canepa, ritengono che i Giudicati sarebbero sorti spontaneamente e indipendentemente in varie parti dell’isola per le ragioni suddette.

    Ma di recente il Cherchi-Paba ha sostenuto con buon fondamento che l’autonomia giudicale sarda deve esser fatta risalire alla frattura creatasi tra Chiesa e Impero bizantino per effetto della lotta iconoclastica (726). Infatti, la Chiesa sarda,

    resasi progressivamente autocefala e autonoma sia dal Patriarcato romano che da quello di Costantinopoli, seguendo l’esempio della Sicilia e dell’Esarcato di Ravenna perseguì e raggiunse verso la fine dell’VIII secolo il distacco della Sardegna dall’Impero bizantino, prima « facendo negare al popolo i tributi a Bisanzio secondo l’ordine papale e quindi provvedendo alla nomina delle autorità civili e militari dell’Isola » cui già partecipava per effetto della Prammatica sanzione giustinianea, senza più preoccuparsi dell’approvazione imperiale prescritta. In effetti, alcune lettere del pontefice Nicolò I provano che ancora alla metà del IX secolo i Giudici venivano scelti per elezione, dal che si deduce che inizialmente essi furono incaricati di amministrare le ripartizioni giudicali, con le funzioni di iudices provinciarum imperiali, più le attribuzioni loro derivate dai mutati tempi, assumendo il Giudice di Cagliari anche il comando dell’esercito col titolo di protospatario che poi perse.

    La ripartizione dell’Isola in Giudicati fu imposta successivamente da necessità politiche e amministrative, anche nell’interesse della Chiesa sarda, il cui Primate « organava la vita politica e la difesa militare della Sardegna », tanto da stringere nell’815 alleanza con l’imperatore Ludovico il Pio anche per assicurare alla Sardegna la protezione della flotta franca.

    I quattro Giudicati o governatorati ebbero capoluogo nei quattro più importanti centri marittimi e militari: Càlaris, Tharros, Torres, Civita e compresero la corrispondente parte del demanio imperiale che formò così il nucleo del territorio o rennu. Comunque « la Sardegna manteneva la sua vita politica, sociale e religiosa nel solco storico della cessata dominazione vivendo nelle sue leggi e ordinamenti, che i vescovi cancellieri andavano via via adattando alle necessità isolane ».

    Senonchè per effetto della persecuzione iconoclasta e della successiva restaurazione dell’ortodossia si sviluppò un febbrile movimento monastico che portò ad una larga penetrazione di elementi ellenici nell’Italia meridionale, in Sicilia e in Sardegna, ove sorsero numerosissimi monasteri basiliani (monistene o muristene) nelle terre donate per conversioni (cioè affiliazioni) e vi furono erette chiesette rurali dedicate ai Santi della Chiesa greca. I loro nomi facilmente riconoscibili si sono impressi nella toponomastica, che anche oggi ne contiene moltissimi. Tra essi ricordiamo: San Basilio, Sant’Elia, San Gregorio, Sant’Antìoco, Santa Filomena, Sant’Ip-polito, Sant’Antìpatro (alterato in Santo Padre), Sant’Andrea, San Macàrio e molti altri. Più frequenti, per la vasta popolarità che ne ha anche attualmente il culto, i nomi di San Salvatore, San Costantino (o Santu Antine), di San Michele (che ha dato il nome a Samugheo), di Santa Greca e poi ancora della Madonna delle Grazie, della Madonna d’Itria o del Buon Cammino, della Vergine dormiente e della Madonna del Latte dolce. Tale è stata l’impronta che hanno avuto da questa elleniz-zazione l’anima e molti costumi degli isolani che ancor oggi, a nove secoli dallo scisma, la Chiesa greca è presente nella fede dei Sardi, tanto che è stato detto essere la Chiesa sarda « a culto greco e rito latino ».

    Ma dopo lo scisma d’Oriente (1054), prima il Pontefice Nicolò II e poi più energicamente Gregorio VII provvidero per il ritorno della Sardegna, come dell’Italia meridionale e della Sicilia, alla disciplina della Santa Sede e le dettero una nuova ripartizione ecclesiastica creando dodici nuovi vescovati in aggiunta ai sette già esistenti e ciò per mettere in minoranza i Vescovi a rito greco e dare inizio alla sostituzione del clero secolare greco. Data la resistenza tenace del clero e del Primate sardo, Urbano II con bolla del 21 aprile 1092 sopprimeva l’autonomia e l’autocefalia della Chiesa sarda togliendo l’Arcivescovado di Cagliari al Primate e assegnava tale funzione all’Arcivescovo di Pisa, con il che veniva anche assicurata la flotta pisana alla difesa dell’isola dalle incursioni saracene.

    Contemporaneamente si provvide anche alla sostituzione dei monaci greci, in mano dei quali erano santuari e vasti latifondi, con monaci della Chiesa latina e cioè dapprima con i Vittorini di Marsiglia e con i Lerinesi, più vicini alla Chiesa greca, e poi con i Benedettini di varie comunità, il che ebbe, come vedremo, importanti conseguenze dal punto di vista umano, economico e artistico.

    Il periodo giudicale

    Allorché i Giudicati appaiono chiaramente alla luce della storia, risultano corrispondere alle maggiori regioni geografiche sarde: la Gallura, il Logudoro, l’Arborea e il Cagliaritano, ed anche ad alcune minori se, come sembra, ai quattro Giudicati si affiancarono altri minori, come un Giudicato dell’Agugliastra (Ogliastra) poi assorbito da quello di Cagliari.

    I confini dei Giudicati variarono assai nei cinque secoli della loro esistenza per le aspre lotte che si combatterono, malgrado i vincoli di parentela che legavano i Giudici. Comunque il loro territorio, chiamato retmu o logli, fu sostanzialmente rappresentato dalle regioni che gravitavano sulle quattro principali città-stato dell’isola e che furono le loro capitali: Cagliari per il Giudicato dello stesso nome (chiamato anche di Pluminos), Tharros e poi Oristano per il Giudicato di Arborea, Ardara e poi Torres per il Giudicato del Logudoro (che deriva il nome appunto da quello di Logu ’e Torres) e finalmente Civita, l’antica Olbia, per il Giudicato di Gallura. Si ha dunque l’impressione che i territori dei Giudicati si siano formati per ampliamento progressivo del retroterra geografico delle quattro città-stato finché i loro confini vennero a contatto. Comunque le istituzioni politiche e sociali dei Giudicati si possono agevolmente ricostruire per mezzo dei registri patrimoniali e dei Condaghi (registri dei conti) dei monasteri e poi dagli atti di vendita, dagli Statuti del comune di Sassari (fine XIII secolo) e infine dalla Carta de Logu, raccolta di leggi ed ordinamenti pubblicata dal giudice Mariano di Arborea ed ampliata ed aggiornata nel 1395 dalla Giudicessa Eleonora.

    Ogni Giudicato era diviso in distretti chiamati partes, o curatone, dal titolo dell’amministratore o curatore, e corrispondenti spesso in tutto o in parte a subregioni geografiche, dalle quali appunto prendevano per lo più il nome. Esse comprendevano vari villaggi o ville, ciascuna delle quali aveva a capo un maiore e nel centro abitato più importante si trovava la residenza del curatore.

    Le curatorie furono in numero vario e distribuite variamente secondo la estensione dei Giudicati e la fittezza degli abitati: nel XII secolo erano 57 di cui 20 nel Giudicato di Torres, 13 nell’Arborea, 14 nel Cagliaritano e 10 in Gallura.

    I Giudicati avevano ordinamento di democrazie rurali di tipo patriarcale. A capo di ognuno di essi c’era infatti un Giudice (Juclike), che deteneva il potere supremo sia politico e giudiziario che amministrativo e militare, eletto tra i rappresentanti delle famiglie più importanti, i maiorales, che si riunivano in assemblea (corona de logu e corona de justitia). La democraticità dell’ordinamento giudicale è dimostrata dal fatto che i Giudici ricorrevano alla volontà del popolo (voluntas totius populi) allorché dovevano prendere decisioni importanti.

    I resti del Castello di Las Plassas o di Marmilla, risalente al XII secolo.

    Resti del ponte medievale sull’emissario dello Stagno di Calich presso Fertilia.

    La popolazione del Giudicato era divisa in quattro grandi classi: i maiores, comprendenti oltre ai membri della famiglia del Giudice (donnikellos) venti o trenta famiglie di alti funzionari e di signori più abbienti; i liveros, cioè liberi (artigiani, medi proprietari di terre e di bestiame, militi a cavallo), in possesso di piena capacità giuridica; i pàuperos, pure con la piena capacità giuridica ma nullatenenti e che vivevano solo coltivando un lotto del terreno in uso collettivo, annesso ad ogni villaggio; e finalmente i servos o colivertos, cioè colliberti, privi in tutto o in parte di capacità giuridica e tenuti a prestare al padrone solo il loro lavoro : quasi per intero (servii integru), per metà (servii lateratu), o per un quarto (servu pedatu). Il servaggio sardo, durato fino al XV secolo, aveva dunque aspetti particolari e originali, in quanto i servi potevano avere proprietà, vendere e comprare e persino talvolta mutare domicilio, il che può spiegare il fatto che essi non ambissero troppo sottrarsi alla loro condizione e che fossero quindi in gran numero, rappresentando circa i tre quarti della popolazione.

    Una delle più note chiese romaniche della Sardegna: la basilica di San Gavino a Porto Torres.

    Data la profonda diversità esistente tra le classi sociali, la proprietà era distribuita in modo assai ineguale: accanto ai latifondi dei Giudici costituenti il pegugiare, a quelli dello Stato a secatura de retinu derivanti dai latifondi del basso Impero e alle grandi proprietà ecclesiastiche formatesi per donazione (donnicalie) a vescovadi e monasteri, c’erano le piccole proprietà dei liberi e infine le terre comuni dei pàuperos, dette populares e costituenti accanto ad ogni villaggio il pauperile o pabe-rile diviso in tanti lotti, assegnati annualmente o in enfiteusi per le coltivazioni (habi-tacione, bidazzone, vidazzone) e per il pascolo, in rotazione. L’origine di queste proprietà collettive e delle usanze comunitarie, che tanta influenza hanno avuto sulla determinazione del paesaggio agrario deH’isola, è avvolta nell’incertezza: alcuni hanno pensato a una derivazione centro-europea introdotta dai Vandali, il che è da escludere data la breve durata del loro dominio, mentre altri come il Le Lannou le considerano creazione originale delle comunità rurali in rapporto con la necessità di difesa dei campi coltivati dai pastori barbaricini erranti e transumanti con le loro greggi essendo : « la rotazione obbligatoria delle colture il solo mezzo di opporre la forza collettiva del villaggio alle minacce incombenti dell’allevamento nomade ». Si tratta però di una spiegazione alquanto semplicistica che trascura altri elementi di carattere storico-economico indubbiamente esistenti che esamineremo più oltre.

    Il territorio di ogni villaggio essendo porzione o scolcatura del logu, si chiamava scolca e vi soprintendeva il majore de scolca, che regolava i paberiles e ne disponeva la sorveglianza. Perciò col nome di scolca s’intendeva pure una guardia armata a difesa delle colture.

    L’economia dei Giudicati era dunque basata sull’agricoltura e sulla pastorizia, cui si affiancava un artigianato locale, che assicuravano ad ogni villa l’autosufficienza, pur essendo praticate con criteri primitivi.

    Ma le condizioni economiche e culturali dell’isola subirono nel XII secolo una notevole evoluzione in conseguenza degl’intensi rapporti stabilitisi con Pisa e con Genova e che furono sia di natura commerciale, sia di carattere politico e militare. Infatti Pisa e Genova svilupparono prima regolari relazioni commerciali basate sull’acquisto dei prodotti dell’isola (sale, grano, cuoio, bestiame, formaggio, metalli) e sulla possibilità di vendita dei loro manufatti agli isolani. I traffici sempre più intensi portarono Pisani e Genovesi ad una penetrazione pacifica che si trasformò progressivamente in dominio politico. Purtroppo, però, le due repubbliche entrarono ben presto in contrasto per la supremazia sulla regione e si sviluppò così una lunga e sanguinosa serie di lotte accanite che portò i Giudicati a combattersi l’uno con l’altro, in contrasto o in favore di questa o quella delle due repubbliche anche per l’imparentamento degli ultimi Giudici con signori d’oltremare e l’accesso di questi al Giudicato. Le formazioni autonomistiche dell’isola, troppo deboli e con struttura sociale, politica e militare relativamente fragile, non resistettero di fronte alle più agguerrite e sperimentate organizzazioni pisana e genovese.

    Fronte della Chiesa di Sant’Antìoco di Bisarcio (XII secolo) cattedrale dell’antica diocesi.

    Il Giudicato che perdette per primo la sua indipendenza fu quello di Gallura che cadde presto sotto l’influenza — e dal 1205 sotto il dominio — di Pisa, nella persona dei Visconti. Lo seguì il Giudicato di Cagliari, che rimase anch’esso nelle mani della città toscana dopo durissime lotte con la rivale genovese, battuta definitivamente nel 1258 a Santa Igia, nei pressi di Cagliari: Pisa occupava così il capoluogo che venne fortificato con torri poderose, e le tre famiglie pisane dei Donoratico, dei Visconti e dei Capraia si divisero il territorio del Giudicato. Fu poi la volta del Logudoro che subì alternativamente l’influenza dei Pisani e dei Genovesi finché, nella seconda metà del XIII secolo dopo la battaglia della Meloria, rimase nelle mani delle famiglie Doria, Malaspina e Spinola che si divisero il Giudicato tranne la città di Sassari, resasi fin dal 1236 indipendente dai Giudici e costituitasi a libero Comune come Alghero e Bosa sotto l’influenza di Genova. Il Giudicato di Ar-boréa, economicamente e politicamente più saldo, resistette più a lungo, ma ebbe anch’esso vicende travagliate e fasi alterne con prevalenza prima dei Genovesi che appoggiarono il nobile ma sterile tentativo di unità nazionale concepito dal Giudice Barisone, incoronato re di Sardegna dall’Imperatore Federico Barbarossa (10 agosto 1164). Prevalsero poi i Pisani che nella prima metà del XIII secolo poterono vedere sul trono giudicale Guglielmo da Capraia e che ebbero poi favorevoli i Giudici a lui succeduti fino ad Ugone e alla conquista aragonese. Così nella seconda metà del XIII secolo, Pisa ebbe influenza politica ed economica e in parte dominio diretto (Cagliari, Gallura) su quasi tutta l’isola attraverso i suoi « re cittadini ».

    Ciò spiega il fatto che la complessa opera economica e civile svolta durante tre secoli dalle due repubbliche marinare e che influenzò poderosamente tutta la civiltà medievale sarda, prese soprattutto da Pisa il suo indirizzo e la sua forza. Il Comune toscano, pur badando ai propri interessi, non fece dell’isola un luogo di depredazione, come accadrà invece durante la dominazione spagnola-aragonese. L’agricoltura venne vivificata, organizzate alcune industrie e specialmente quella mineraria e quella saliniera, ripresi e sviluppati assai i rapporti commerciali e culturali col continente. La ripristinata sicurezza dei mari e delle coste per merito delle flotte pisane e liguri determinò la ripresa dei traffici marittimi e quindi il rifiorimento dei porti e delle città rivierasche, frequentate da navi di svariati paesi italiani e stranieri, come Marsiglia e Barcellona; risorse il porto di Cagliari e presero sviluppo i suoi sobborghi, fu riattivato quello di Torres, sorse Terranova dalle rovine di Olbia-Pausania, Bosa fu edificata in nuova posizione. L’importanza assunta dall’industria estrattiva fece sorgere e affermarsi nella regione mineraria il borgo di Villa di Chiesa (spagnolizzata poi in Iglesias) che dette il suo nome al famoso « Breve di Villa di Chiesa » raccolta di leggi che regolavano sapientemente l’attività mineraria e la vita della cittadina durante il periodo pisano.

    D’altra parte, un nuovo soffio di fervore religioso e un certo progresso culturale si verificò con l’insediamento delle numerose comunità di monaci benedettini: Cassinesi, Vallombrosiani, Camaldolesi, Cistercensi molti dei quali chiamati dagli stessi Giudici — a cominciare da Barisone del Logudoro nel 1063. Essi fecero risorgere e sviluppare i vecchi monasteri greci e ne fondarono di nuovi, tra cui famosi quello di Santa Maria di Tergu, il più illustre tra quelli dei monaci di Montecassino, quello della SS. Trinità di Saccàrgia, centro dell’ordine camaldolese in Sardegna, e di Santa Maria di Bonàrcado, pure dei Camaldolesi. In molti monasteri i Benedettini innalzarono belle chiese per la cui costruzione chiamarono artefici toscani, che presero a modello le chiese di Pisa, di Lucca, di Pistoia, contribuendo così potentemente al risveglio dell’arte, e dissodarono terre incolte facendo progredire assai l’agricoltura. I monasteri divennero così centri di lavoro assiduo, vere colonie agricole che attraevano molte famiglie non solo di servi e di affiliati ma anche di liberi e si formarono così intorno ad essi quei nuclei di dimore che talvolta scomparvero con l’abbandono delle case religiose ma che spesso, ampliandosi e consolidandosi, diedero origine a molti degli attuali villaggi, come Monastir, che anche nel nome indica la presenza dell’antico monastero camaldolese. Purtroppo l’attività dei Benedettini venne meno per cause politiche ed economiche nel secolo XIV e finì così la loro ammirevole opera testimoniata ancor oggi dalle belle chiese romaniche sorgenti come per miracolo in regioni spesso selvagge e solitarie.

    Finestra aragonese ad Atzara.

    I contrasti sviluppatisi fra i Giudicati e le fazioni imperversanti fecero sorgere a difesa dei confini giudicali e degli interessi pisani e genovesi, numerosi e poderosi castelli (circa 80), vere fortezze aventi funzione esclusivamente militare che appare considerando oltre alla loro ubicazione in luoghi naturalmente forti, anche la loro distribuzione atta a costituire dei sistemi strategici sui litorali più accessibili e in corrispondenza dei più salienti lineamenti oro-idrografici. Molti di questi castelli esercitarono un notevole richiamo sulla popolazione dei dintorni e dettero origine così a villaggi nuovi. Ricordiamo lungo le coste: il castello di Serravalle, ai cui piedi si è raccolta la moderna Bosa, Castelgenovese edificato dai Doria e che ha dato origine a Castel Sardo, il castello di Alghero pure dei Doria, il castello della Fava intorno a cui è sorta Posada; e nell’interno il castello di Monteleone Rocca Doria, il castello di Ósilo, il castello del Gocéano o di Burgos, il castello di Galtelli e quelli di Las Plassas o di Marmilla, di Villasor, di Monreale, di Domusnovas e molti altri.

    In definitiva si deve dire che le travagliate vicende del periodo giudicale non danneggiarono l’economia dell’isola e incisero in modo relativamente modesto sulla sua popolazione, che nella prima metà del XIV secolo, secondo una valutazione pisanoaragonese, contava 340.000 ab., raccolti nelle città costiere, in varie grosse borgate agricole e commerciali e in parecchie centinaia di piccoli e medi villaggi rurali, specialmente fitti nel Sulcis, nei Campidani, nella Marmilla, nella Trexenta, nel Logu-doro e perfino nella Nurra.

    La conquista aragonese e il dominio spagnolo

    Verso la fine del XIII secolo l’aggravarsi delle lotte tra i Giudicati e le contese tra Pisa e Genova, nonché ragioni di politica generale, indussero il pontefice Bonifacio Vili a concedere in feudo la Sardegna, considerata possesso della Chiesa, al re d’Aragona Giacomo II, che fu investito del Regnum Sardiniae et Corsicae nel 1297. Dovevano peraltro passare trent’anni prima che i Catalano-Aragonesi prendessero possesso dell’isola, dopo un’accurata preparazione politica che assicurò loro l’appoggio sia dei Genovesi che del Giudice di Arborea Ugone II. Sbarcata l’u giugno 1323 nel Golfo di Palmas, l’armata aragonese conquistava Iglesias e l’anno dopo Cagliari, dove si concludeva la prima fase della guerra alla quale seguì l’occupazione graduale del paese. L’isola prese il titolo di Regno di Sardegna e fu governata da un viceré aragonese con autorità quasi assoluta affiancato da due governatori, uno per il Capo di Cagliari e Gallura residente a Cagliari e l’altro per il Capo del Logudoro e Gallura, residente a Sassari, in cui l’isola fu divisa dal 1357.

    Portale gotico catalano della Cattedrale di Alghero.

    Monumento alla Giudicessa Eleonora d’Arborea ad Oristano.

    La Torre pisana di San Pancrazio (XIV secolo) a Cagliari.

    Scomparvero le autonomie e gli istituti comunali introdotti da Pisa a Iglesias e da Genova a Sassari e fu introdotto un sistema feudale che doveva durare ben cinque secoli e che fu tanto più dannoso in quanto creato a favore di elementi estranei aragonesi, valenziani, catalani, mentre i Sardi, già abituati all’autonomia, vennero praticamente estromessi dalle cariche pubbliche cittadine e governative e oppressi da tributi e prestazioni. Tutto ciò dette ben presto origine a sollevazioni e a rivolte contro i nuovi dominatori anche da parte di quelle popolazioni che in un primo tempo erano state favorevoli agli Aragonesi.

    Sassari, già Comune, insorse per prima ed ebbe a subire violente repressioni nel 1324, nel 1325 e ancora nel 1329. Poi i Doria, padroni di Alghero e Castelgenovese, inflissero nel 1347 una disfatta agli Aragonesi ma vennero successivamente vinti, malgrado l’aiuto dei Genovesi e scacciati dall’isola: così nel 1354 Alghero, sgombrato con la forza dalla popolazione indigena venne ripopolato con elementi catalani che costituirono una colonia etnica rimasta compatta e distinta fino ad epoca attuale. Con maggiori forze e ben più a lungo contrastarono gli Aragonesi i Giudici di Arboréa che, inizialmente favorevoli agli Iberici, finirono poi col ribellarsi al dominio straniero, dando inizio, verso il 1350 a quella guerra che doveva durare con alterne vicende per sessant’anni e che fece gli Aragonesi più volte pentiti di « non aver lasciato la Sardegna ai Sardi ».

    Infatti fu solo nel 1410 che, estintasi nel 1404 con la morte della leggendaria Giu-dicessa Eleonora d’Arboréa la dinastia dei Giudici arborensi, il nuovo Giudice Leonardo Cubello rinunciò all’indipendenza ed accettò in feudo l’Arboréa col nuovo nome di Marchesato di Oristano.

    Ma i germi della ribellione non cessarono completamente: a nord la rinnovata resistenza dei Doria venne fiaccata nel 1448 con l’espugnazione di Castelgenovese che si chiamerà poi Castell’Aragonese e infine Castel Sardo, mentre nell’Arboréa la riscossa tentata da Leonardo Alagón si concludeva solo nel 1478 con la sfortunata battaglia di Macomér che segnò l’assoggettamento definitivo di tutta la Sardegna ai conquistatori dopo un secolo e mezzo di resistenza valorosa. Con la successiva unificazione dei due regni iberici avvenuta nel 1479 la Sardegna divenne suddita della Spagna e tale rimase fino al 1720 quando passò ai Duchi di Savoia. «Da allora l’isola, assai importante per i re aragonesi, non fu che un trascurabile cantuccio nell’impero spagnolo ove non tramontava il sole ».

    Fu, quello aragonese-spagnolo, un lungo periodo di decadenza e di mortificazione che impedì con l’esoso e avvilente dominio feudale lo sviluppo delle energie intellettuali e materiali dell’isola.

    Si pensi che la Sardegna fu divisa in 376 feudi, di cui 188 appartenevano a signori che abitavano in Spagna e che avevano sul luogo amministratori chiamati podatari, mentre l’altra metà era di feudatari residenti nell’isola, ma di origine spagnola, meno 32 intestati al re.

    Furono, è vero, istituiti fino dal 1355 i Parlamenti o Corti formati da tre bracci o stamenti — militare, ecclesiastico, reale — rappresentanti rispettivamente i feudatari, l’alto clero e i sindaci delle città e ville, ma essi non permettevano ai Sardi di avere una propria voce e si riunivano solo ogni dieci anni.

    Vedi Anche:  Densità ed emigrazione della popolazione

    La Torre costiera di Santa Teresa di Gallura, una delle tanti torri di vedetta cinquecentesche fatte costruire da Filippo II a difesa delle coste dalle scorrerie barbaresche.

    Le città sarde conservarono nominalmente i propri statuti e ad alcune furono estesi i previlegi di Barcellona, ma i Sardi furono sempre messi da parte tanto che a Cagliari, capitale dell’isola e sede del governo, era ad essi vietato, pena la vita, di pernottare nel castello. Fuori delle città di Cagliari, Sassari, Iglesias ed Alghero, la popolazione vassalla dei feudi era retta dalla Carta de Logu promulgata da Eleonora per l’Arboréa, estesa nel 1421 a tutta l’isola e divenuta così vera legge nazionale dei Sardi che dette loro coscienza unitaria. Ma al di sopra della Carta de Logli stava la legge catalana prima e quella spagnola dopo e la giustizia era appannaggio dei feudatari. Così la Sardegna, amministrata da funzionari ligi al potere centrale, divenne vittima della strapotenza dei feudatari stranieri, campo di sfruttamento da parte dei conquistatori e fu sconvolta per lunghi periodi dalle guerre e guerriglie che ne impegnarono tutte le risorse. Il perpetuarsi di queste tristi condizioni è anche da attribuire alla mancanza d’una classe intermedia, borghese, che sorgerà solo molto più tardi.

    Fortilizio settecentesco di Sant’Antìoco poggiante su costruzioni fenicio-puniche

    Peraltro il dominio spagnolo-aragonese non fu la sola causa della rapida e grave decadenza dell’isola nel XIV e nel XV secolo. Una ripresa della malaria che fece rifuggire le pianure, le frequenti carestie, le gravi e micidiali pestilenze che a più riprese — nel 1404, 1477, 1529, 1582 e soprattutto nel 1652 e 1655 — mieterono decine di migliaia di vittime, il banditismo dilagante e l’atroce consuetudine delle vendette (s’arrivalia) contribuirono a provocare quel disastroso spopolamento che ha gravato, si può dire, fino ai giorni nostri sulle sorti del paese.

    La popolazione che all’inizio del dominio aragonese constava di circa 340.000 abitanti, si ridusse nel 1483 (primo censimento aragonese) ad appena 150.000, la cifra più bassa che si conosca lungo tutta la storia dell’isola, per poi riprendere a salire alla fine del XVII secolo a 270.000 abitanti.

    In conseguenza di ciò, durante tre secoli e specialmente nel 1300 e nel 1400, scomparve un gran numero di centri abitati, valutato dal Loddo-Canepa a 305 tra ville e villaggi, pari alla metà del totale iniziale; cifra questa impressionante, anche se la maggior parte dei centri scomparsi erano di piccola entità. E naturalmente si ridusse anche il numero delle diocesi che passò da 18, quanto era nel XV secolo a 8 soltanto. Si aggiunga che, per la rilassata sorveglianza dei mari, a partire dal ‘400 ripresero con rinnovato vigore le scorrerie saracene, che continuarono per secoli malgrado le due spedizioni di Carlo V, e che tormentarono con stragi, deportazioni e distruzioni tutti i litorali sardi provocandone lo spopolamento. Ad esse si aggiunsero le incursioni delle squadre navali francesi, durante la guerra dei trent’anni. Solo sotto il regno di Filippo II, verso la fine del ’500, fu organizzata una valida difesa mediante la costruzione di un sistema di torri litoranee — una sessantina in tutto — esistenti ancor oggi, che permisero l’avvistamento delle navi e la prima resistenza alle turbe nemiche sbarcate.

    Tutto ciò fu causa di profonde modificazioni nella distribuzione della popolazione e quindi nel paesaggio geografico, soprattutto in quelle parti che in epoca romana erano più popolate: le regioni periferiche, i Campidani e le fertili conche della Marmilla e della Trexenta. Qui al decentramento rustico di origine romana subentra un accentramento totale della popolazione in grossi borghi radi formati da agglomerati chiusi di case a stretto contatto e costruiti secondo un piano in cui è evidente la preoccupazione della difesa, mentre le campagne restano deserte e tali rimarranno in gran parte fino ad epoca attuale. D’altra parte, oltre alla distribuzione planimetrica cambiò pure quella altimetrica della popolazione in quanto molti villaggi posti alle falde dei rilievi si spostarono sui ripiani soprastanti, più sani e meglio difendibili.

    In misura non minore della popolazione intristì l’economia, basata sulla pastorizia e su un’agricoltura primitiva, mentre mancavano le industrie e i traffici languivano per la povertà del paese e la mancanza di strade e di pubblici servizi. Prese importanza, invece, l’artigianato, che dal principio del ’500 fu organizzato in gremi o corporazioni di arti e mestieri di tipo iberico. Tutte le attività erano controllate e monopolizzate per ogni loro aspetto redditizio da società o mercanti iberici, nelle cui mani erano sia le esportazioni, costituite come nell’epoca precedente dai prodotti dell’agricoltura e della pastorizia, dal sale e dai minerali, sia le importazioni consistenti soprattutto in generi di prima necessità e in tessuti. In definitiva circa metà del reddito dei feudi andava a finire in Spagna e una buona parte andava a beneficio della Chiesa.

    Col XVII secolo la situazione generale migliora alquanto per alcune provvidenze prese da Filippo III e Filippo IV (riordinamento dell’amministrazione, provvedimenti per incoraggiare l’agricoltura, istituzione dei Monti granatici di credito, fondazione delle due Università di Cagliari e Sassari). Tale relativo miglioramento determinò una certa ripresa demografica, sicché alla fine del XVIII secolo la popolazione dell’isola salì a quasi 300.000 anime.

    Inoltre sul finire del ’600, la relativa, prolungata tranquillità della regione favorì l’inizio di un moto di colonizzazione spontanea consistente sia nel ripopolamento di vari centri abbandonati nei secoli precedenti, specialmente nei Campidani, nel Capoterra e nel Sulcis, sia soprattutto nel trasferimento di pastori in corrispondenza dei pascoli da loro frequentati e più raramente di agricoltori con un conseguente sia pur rado popolamento di varie regioni periferiche: cominciarono così a sorgere nella Nurra i cuili (covili), in Gallura gli stazzi che presero anche funzione agricola, nel Sàrrabus i bacciles (vaccherie) e nel Sulcis i medaus (cui fanno riscontro i metati del continente) questi per opera dei pastori barbaricini ivi transumanti. Sempre nel Sulcis ebbero origine, a partire dalla seconda metà del ’700 casette rurali sparse chiamate furriadroxius, nel significato di rifugi campestri.

    Tuttavia ormai il dominio spagnolo volge al tramonto, ostacolato anche dal progressivo risveglio della coscienza politica dei Sardi, sollecitata dall’opera di nobili ingegni come quelli degli storici G. F. Fara (1543-1591) che scrisse anche la prima Chorographia Sardiniae, Sigismondo Arquer e Giorgio Aleo; dei giuristi Olives, Vico, Niccolò Pilo e Pietro Quesada e di alcuni scrittori e poeti.

    Il periodo sabaudo fino all’Unità d’Italia

    Dopo la guerra di successione spagnola, la Sardegna, col trattato di Rastadt (1714) passa agli Absburgo che poco dopo, per effetto del trattato di Londra del 1718, la cedono ai Savoia in cambio della Sicilia. Così il giorno 8 agosto 1720 il primo Viceré piemontese prese possesso dell’isola e i Duchi di Savoia assunsero il titolo di re di Sardegna, che conservarono fino all’unificazione d’Italia.

    Per quanto una clausola del trattato di cessione disponesse di lasciare pressoché inalterate le istituzioni, l’apparato governativo (basato su una Reale udienza divisa in tre Camere) nonché i privilegi aragonesi, Vittorio Amedeo II riordinò l’amministrazione limitando le prerogative del Viceré, attese alla pacificazione interna e soprattutto dispose lo studio delle condizioni locali e dei problemi isolani, indispensabile per predisporre un piano organico di riforme atto a promuovere il rifiorimento dell’economia e delle condizioni di vita.

    Passò così un decennio di preparazione, dopo il quale il successore di Vittorio Amedeo, Carlo Emanuele III, durante il suo lungo regno (1730-1773) sviluppò un denso programma di riforme rivolto alla rigenerazione dell’isola. In un primo tempo si provvide alla lotta contro il banditismo, alla riorganizzazione del servizio postale, ai primi provvedimenti per la tutela sanitaria e per l’agricoltura. In un secondo momento l’azione riformatrice si intensificò per merito di G. Battista Bogino, ministro per la Sardegna dal 1750 al 1773, che fu il primo governante a riconoscere che i mali di cui soffriva l’isola erano da attribuire più alla trascuratezza dei passati governi che alla natura degli abitanti. Perciò egli promosse una serie di leggi che incisero assai sui vecchi istituti e ne introdussero di nuovi. Sono da ricordare: le provvidenze cospicue per l’agricoltura, tra cui la ripresa e lo sviluppo dei Monti frumentari o granatici per il prestito ai contadini del grano da semina; la disciplina dell’amministrazione della giustizia e delle amministrazioni cittadine e comunali; l’incremento allo sfruttamento razionale delle saline; l’organizzazione dell’istruzione pubblica — anche per la diffusione della lingua italiana in sostituzione dello spagnolo ancora prevalente — e la riapertura delle due Università; l’abolizione del cumulo delle prebende ecclesiastiche e la repressione del banditismo.

    L’opera di miglioramento delle condizioni dell’isola continuò anche sotto il regno di Amedeo III (1773-1796) per merito dei Viceré — tra cui assai attivo il Thaon di Sant’Andrea — e portò tra l’altro alla costituzione dei Monti nummari, per il credito a basso interesse agli agricoltori, a disposizioni severe per la tutela del bestiame e dei pastori, alla costituzione di un fondo per i lavori stradali, diretto da un’apposita « Giunta di ponti e strade », al miglior sfruttamento delle miniere.

    L’economia dell’isola ne fu rinfrancata e si verificò un ulteriore aumento della popolazione, che nel 1782 era di 436.000 anime.

    Particolare interesse dal punto di vista geografico ebbe il piano di colonizzazione guidata verso località periferiche ove si formarono nuovi centri abitati con elementi in gran parte continentali: se alcuni di questi tentativi fallirono, altri fecero buona riuscita e tra questi sono da ricordare la fondazione di Carloforte (1737) nell’isola di San Pietro da parte di una colonia ligure proveniente dall’isola di Tabarca, quella di Calasetta (1770) nell’isola di Sant’Antioco ad opera di un gruppo di Piemontesi, quella di Domus de Maria, quella della Maddalena (1767) con elementi continentali e più tardi quella di Santa Teresa di Gallura (1808) per ripopolamento dell’antico centro di Longonsardo.

    Tuttavia il nucleo essenziale dei vecchi istituti rimaneva, anacronistico e opprimente, sicché si spiega il malcontento crescente che serpeggiava soprattutto nelle due città maggiori e che esplose in tutta l’isola dopo che i Sardi ebbero valorosamente ricacciato nel 1793 un tentativo di invasione francese e dopo che il governo piemontese ebbe respinto le loro richieste tendenti a ottenere tra l’altro, come ricompensa, la riapertura dei loro Parlamenti e l’esclusiva degli impieghi a elementi sardi. Al rifiuto di Torino i funzionari piemontesi vennero scacciati dall’isola (1794) e le cose furono complicate dalle insurrezioni scoppiate tra i rurali del Logudoro e del centro miranti all’abolizione dei pesanti tributi feudali e da contrasti tra Cagliari e Sassari che rinfocolarono antiche rivalità. Il tentativo di rovesciare gli ordinamenti feudali, partito da Sassari e guidato dal giudice Giovanni Maria Angioi fallì miseramente (1795), ma le precedenti richieste dei Sardi vennero finalmente accolte.

    La liberalità con cui la Sardegna accolse per circa quindici anni (1799-1814) la Casa di Savoia che aveva dovuto abbandonare il Piemonte durante la bufera napoleonica, procurò più tardi all’isola la comprensione e l’interessamento dei re sabaudi.

    Intanto era sorta nel 1804 la «Reale Società Agraria ed Economica» di Cagliari allo scopo di studiare i problemi economici e demografici dell’isola e di promuovere iniziative sia nel campo agricolo-pastorale che in quello delle manifatture e del commercio. Le proposte che la Società avanzò, anche in base ad una inchiesta sull’entità e la distribuzione delle colture, furono poste in atto soprattutto dal re Carlo Felice (1821-1831) che prese una serie di provvedimenti per il miglioramento dell’agricoltura tra cui l’editto degli olivi, che favorì la piantagione e l’innesto degli olivastri, e soprattutto l’editto delle chiudende (1821) che mirava a costituire la proprietà privata mediante la recinzione di terreni, facenti parte in precedenza di proprietà collettive, e a proteggere i campi coltivati dalla pastorizia nomade. Tale scopo, peraltro, fu raggiunto solo parzialmente e provocò contrasti seri tra pastori e agricoltori. Comunque le recinzioni dei campi coltivati fecero intersecare da muri e muretti colli e pianure, ove sorsero così le tancas che impressero una nota nuova al paesaggio di vasti tratti dell’isola. Fu disposta inoltre la riforma della legislazione alla luce dei princìpi moderni con la promulgazione del Codice Feliciano (1827), lo sviluppo delle scuole primarie e secondarie, la ricostituzione delle compagnie bar-racellari per la sorveglianza delle proprietà rurali.

    Altro grande merito di Carlo Felice fu il radicale miglioramento delle vie di comunicazione con la costruzione della grande strada assiale sarda da Cagliari a Porto Torres, che porta anche oggi il suo nome. E infine da ricordare la spedizione che egli condusse contro il Bey di Tripoli (1825) e che pose termine alle incursioni dei Barbareschi che avevano travagliato per secoli le coste sarde.

    Ma solo durante il regno di Carlo Alberto (1831-1848) fu impostata e risolta la riforma fondamentale e ormai indifferibile: quella dell’abolizione dei feudi, che fu realizzata progressivamente tra il 1836 e il 1844 col riscatto delle terre feudali e col loro passaggio ai Comuni e a privati. Spariva così dopo oltre cinque secoli il regime feudale che tanto dànno aveva causato all’isola, e si poteva sviluppare la proprietà privata in sostituzione di quella collettiva, che aveva dominato l’economia sarda ed era stata una delle principali cause del suo attardamento. Le leggi eversive della feudalità determinarono il rifiorimento dell’agricoltura con modificazioni profonde del paesaggio agrario e causarono anche il passaggio al Demanio dei beili ademprivili o ademprivi (dal catalano adempreus), cioè dei terreni soggetti a godimento comune, la cui abolizione nel 1865 doveva sollevare lunghe controvèrsie.

    Il periodo albertino è da segnalare per altri due fatti importanti: l’istituzione a partire dal 1835 di migliori servizi postali regolari con il continente (linee Cagliari-Genova e Porto Torres-Genova) che cominciarono a rompere la secolare segregazione dell’isola e soprattutto la spontanea rinuncia dei Sardi all’autonomia che provocò nel 1848 l’annessione della Sardegna al Piemonte con piena parità di diritti con gli Stati continentali. Per effetto di questo atto con cui può dirsi che la Sardegna « abbia preceduto nei plebisciti tutte le altre regioni italiane » finiva il secolare Regnum Sardiniae con relativa soppressione del regime viceregio e delle vecchie magistrature e l’estensione all’isola dello Statuto albertino.

    Con le molte provvidenze prese da Carlo Felice e Carlo Alberto e il riordinamento giudiziario e tributario verificatosi dopo il 1848, la Sardegna si poteva considerare uscita dal tradizionale abbandono, anche se un certo stato di crisi seguì il passaggio dal regime feudale a quello democratico e liberale. Migliorarono anche le condizioni di vita della popolazione, con conseguente aumento di essa che nel 1848 contava 547.000 ab., saliti nel 1871 a 588.000, malgrado l’epidemia di colera del 1854-55.

    Nella prima metà del secolo XIX si verificò una vivace e intensa ripresa degli studi che fecero progredire assai la conoscenza dell’isola, sia dal punto di vista fisico che da quello umano e storico. Primeggiano la già citata opera geografica e geologica del generale La Marmora, che rivelò la Sardegna all’Europa, e quella pressoché contemporanea del padre Vittorio Angius (1797-1862) che descrisse minutamente le condizioni della regione e di tutti i suoi Comuni nel Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna (Torino 1833-56).

    In campo storico spiccano le figure di Giuseppe Manno, autore della prima storia organica della Sardegna, di Giovanni Spano, fondatore dell’archeologia sarda, di Giovanni Siotto-Pintor, autore di una storia civile dei popoli sardi e di una storia letteraria di Sardegna, e di Pasquale Tola, autore del Codex diplomaticiis, prima fondamentale raccolta di documenti sulla storia isolana.

    Dall’Unità d’Italia all’autonomia

    Compiuta l’Unità nazionale, il Governo prese in attenta considerazione numerosi problemi dell’isola rimasti insoluti, provvedendo alle necessità più urgenti e primo di tutti a quello delle comunicazioni. Si dette mano subito all’apertura di una serie di altre strade e fu decretata già nel 1863 la costruzione di una rete ferroviaria statale che fu attuata tra il 1871 e il 1883, cui si aggiunsero le ferrovie complementari costruite per la massima parte fra il 1886 e il 1894, ma con percorsi lunghi e tortuosi più del necessario a causa del sistema delle indennità chilometriche alle ditte costruttrici. Purtroppo però la costruzione delle ferrovie provocò la distruzione di molti tra i più bei boschi, ceduti alla società costruttrice delle linee.

    L’entrata in Cagliari della reale Famiglia di Savoia nel 1793 in un disegno del Duca d’Aosta.

    Si provvide anche all’incremento delle industrie estrattive, specie per merito di Quintino Sella, che condusse appunto un’inchiesta parlamentare sulle miniere.

    Rimanevano però insoluti altri gravi problemi riguardanti l’agricoltura, la pastorizia, le strade vicinali, l’igiene, l’analfabetismo, il reperimento dei capitali, sicché si andò diffondendo un disagio economico e un malcontento che portò a disordini e fece delineare la cosiddetta « questione sarda ».

    Dopo la prima guerra mondiale, che vide i Sardi combattere valorosamente sui campi di battaglia per il compimento dell’unificazione italiana si ebbe, in verità, un notevole fervore di opere pubbliche rivolte anzitutto alla esecuzione di bonifiche sia idrauliche che agrarie anche per combattere il flagello della malaria, e che si svolsero a partire dal 1925 per gran parte nel Campidano di Oristano (bonifica di Arborea) ma anche nella Nurra e in altre zone dell’isola con insediamento di molti coloni continentali e formazione di alcuni centri nuovi. Ma riguardarono pure la regolamentazione dei corsi d’acqua e la costruzione di imponenti laghi artificiali (del Ti rso e del Coghinas) per produzione di energia elettrica necessaria per l’illuminazione, per lo sviluppo delle industrie ed anche per irrigazione. E ancora si attese alla costruzione di molte opere stradali, di acquedotti, di edifici pubblici, di porti e si incrementarono assai le industrie specialmente quella estrattiva, valorizzando in modo particolare il bacino carbonifero del Sulcis, ove sorse nel 1938 la nuova cittadina mineraria di Carbonia.

    Queste vaste e importanti provvidenze dettero ottimi frutti, che si dilessero sull’incremento demografico sicché la popolazione che nel 1921 contava 859.000 anime, raggiunse e superò nel 1936 il milione di abitanti (1.004.000).

    L’opera così bene iniziata fu interrotta dalla seconda guerra mondiale che impedì lo sviluppo e l’intensificazione del programma iniziato e causò anzi distruzioni in varie parti dell’isola e soprattutto a Cagliari.

    Sebbene la liberazione sia avvenuta senza lotte e in anticipo rispetto alle altre regioni italiane, il che ha permesso una ripresa relativamente rapida e una sollecita ricostruzione, l’esistenza dei problemi economici e sociali rimasti in sospeso favorì nel periodo postbellico la ripresa e il rafforzamento delle aspirazioni autonomistiche, del resto mai sopite in un settore del mondo sardo e ritenute il mezzo più idoneo a risolvere rapidamente i mali che ancora affliggevano l’isola. Tali aspirazioni venivano accolte dall’Assemblea Costituente che accordava all’isola con la legge del 26 febbraio 1948 l’autonomia: la Sardegna veniva così riconosciuta Regione autonoma a Statuto speciale nell’ambito della Repubblica italiana e fin dal maggio dello stesso anno cominciarono a funzionare e a legiferare gli organi regionali e cioè il Consiglio regionale, la Giunta regionale e il suo Presidente, che è Presidente della Regione.

    Pressappoco nella stessa epoca, e precisamente nel biennio 1948-1949, un altro importante evento si compiva: la campagna antianofelica svolta dalla Fondazione Rockefeller e continuata dalla Regione, che ha portato alla eradicazione della malaria, completamente scomparsa dopo oltre duemila anni durante i quali con fasi di varia intensità ha costituito una delle maggiori cause dell’attardamento dell’isola e di immiserimento della sua popolazione.

    Nonostante l’aumento della mortalità del periodo bellico e postbellico, anche per il forzato abbandono delle opere di bonifica, la popolazione della Sardegna era salita nel 1951 a 1.269.000 ab. e quel che più conta aveva subito importanti modificazioni nella sua distribuzione in quanto, con la progressiva diminuzione della malaria e la bonifica di molte pianure costiere, aveva dato inizio a quel ripopolamento della fascia litoranea che ha prodotto le più recenti modificazioni del paesaggio.

    Successivamente il Governo, nel quadro della redenzione del Mezzogiorno e delle isole, disponeva a favore della Sardegna un vasto piano da realizzarsi mediante l’intervento della « Cassa per il Mezzogiorno » per l’opera di bonifica e per quanto attiene all’agricoltura, con la riforma agraria svolta in particolare per la Sardegna dall’Ente per la trasformazione fondiaria in Sardegna (ETFAS). Tale poderosa azione statale si è rivolta in un secondo tempo anche all’attività industriale ed ha portato già frutti cospicui col rifiorimento di varie parti della regione e con la realizzazione di opere colossali che descriveremo a suo tempo. Essa è ora affiancata da un altro intervento, per cui lo Stato ha già assicurato il finanziamento e la Regione fissato le linee di sviluppo : il cosiddetto Piano di rinascita, cioè « un piano organico per favorire una rinascita economica e sociale dell’isola » previsto dallo Statuto regionale e applicato a regioni economicamente omogenee per il loro armonico e coordinato sviluppo.

    Il miglioramento delle condizioni di vita ha provocato un ulteriore aumento dell’incremento demografico, sicché negli ultimi anni la popolazione ha superato il milione e mezzo di abitanti e quel che più conta si è verificata un’intensificazione e una diversificazione delle attività economiche, che sono in corso di rapida evoluzione.

    Si aprono così alla Sardegna, dopo secoli di abbandono e di trascuratezza prospettive nuove che saranno senza dubbio tradotte in realtà se, al poderoso sforzo finanziario in atto da parte della Nazione, si affiancherà la volontà concorde dei Sardi e la loro perseveranza nel proposito di attuare il processo di sviluppo progettato che porterà l’isola ad allinearsi, anche dal punto di vista economico, con le altre regioni meglio progredite d’Italia.