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Le montagne calcaree

    Le montagne calcaree.

    Le montagne dolomitiche e calcaree sono caratterizzate da forme aspre, a tratti quasi alpestri, ed emergono talvolta dal mantello dei terreni argillosi ed arenacei come scaglie imponenti o semplici scogli. Presentano pareti dirupate, che terminano per lo più con orli seghettati e sono intaccate da valli e gole profonde, da pareti verticali e da orridi. Spesso assumono la forma di massicci compatti, attraversati da solchi longitudinali o trasversali, che dividono masse di diversa altezza e imponenza, talvolta sono costituite da serie di dorsali con versanti asimmetrici, a guisa di imponenti blocchi disposti a gradinata.

    I fianchi delle montagne calcaree, rivolti alla pianura o emergenti dal mare, indicano di frequente linee di faglia, in corrispondenza delle quali il sollevamento è stato più accentuato, e sono su lunghi tratti quasi verticali. La tormentata Costiera Amalfitana, l’isola di Capri (Salto di Tiberio), l’Alburno con le sue bianche pareti, il Matese, i Picentini, il Cervati, il Bulgherìa ci offrono esempi molto significativi di forme aspre e di gole selvagge, che creano nel visitatore un senso di grande suggestione; ma anche nelle altre montagne calcaree vi sono segni altrettanto evidenti, anche se meno noti, dell’azione delle forze orogenetiche e degli agenti esogeni.

    I rilievi calcarei, quando assumono l’aspetto di massicci (Matese, Picentini), accolgono nel loro seno vasti bacini senza deflusso superficiale e, quando hanno la forma di dorsali e di catene (Màssico, Maggiore, Tifata, Partenio, Lattari, Catena della Maddalena), conservano doline, inghiottitoi e numerose altre tracce dell’azione meccanica e chimica dell’acqua meteorica. E queste, anche quando non raggiungono

    la stessa estensione che sui maggiori e più complessi rilievi, sono tuttavia cospicue in alcune zone ed hanno una grande importanza antropogeografica, oltre che un notevole interesse per i fenomeni naturali dai quali sono stati originati e ai quali danno luogo. Le conche di maggiore estensione si indicano col nome di piani, quelle più piccole si chiamano campi: numerosi sono i toponimi derivati da tali forme carsiche. Orli scabri e coste povere di terreno agrario e di vegetazione — specie se esposti a sud, dato che la roccia superficiale è consunta dall’acqua della pioggia, che su quel versante è più abbondante — delimitano alcune conche od emergono dal mantello di materiali più teneri che fasciano alla base molte montagne. Le falde di queste assumono, pertanto, un aspetto squallido e sono solcate da profondi valloni, in cui scorrono al tempo delle piogge vorticosi torrenti, risonanti per l’abbondante ciottolame che rotola sul fondo.

    Le uniche vere montagne dell’Appennino Campano sono, dunque, quelle calcaree e si distinguono per asprezza di forme, per imponenza e per altezza. Tra di esse alcune rivestono un maggiore interesse e meritano un cenno a parte.

     

     

    Il Matese è uno dei maggiori massicci dell’Italia meridionale e uno dei meglio individuati dell’Appennino; esso ha un contorno ellittico, si erge con pareti ripidissime fin quasi a m. iooo sul mare e si divide sulla sommità, nel senso longitudinale, in due grandi dorsali separate da un solco centrale. Tali dorsali hanno altezze sensibilmente diverse e fanno somigliare la montagna ad un enorme divano in cui quella nord-orientale costituisce la spalliera e contiene le cime più alte: Miletto, 2050 m.; Gallinola, 1922 m. ; Mutria, 1822 metri. Essa segna lo spartiacque tra i tributari del Tirreno e dell’Adriatico o, per meglio dire, si presume che costituisca una linea di separazione tra le acque destinate ad alimentare i fiumi che si originano sugli opposti versanti, in quanto nel seno della montagna vi sono vaste zone senza deflusso superficiale, le cui acque, però, raggiungono per naturali vie sotterranee o per condotte forzate gli affluenti del Volturno.

    Il grande solco centrale si allargava già in origine in conche riempite parzialmente di terreni terziari su cui l’erosione delle acque superficiali è stata molto intensa. Ovunque notevole è stata la loro azione meccanica e chimica, che ha modificato il

    solco e ne ha approfondito ed ampliato le conche, in cui le acque si sono aperte sempre più numerose e capaci vie sotterranee, attraverso le quali esse sono state smaltite in quantità crescenti.

    Testimonianze imponenti di una più abbondante idrografia superficiale nelle epoche passate sono i profondi solchi che intaccano o squarciano i fianchi della montagna. Alcuni di questi valloni sono ora quasi completamente asciutti, perchè i corsi d’acqua che li hanno scavati sono stati inghiottiti successivamente nelle conche di sommità (Lete, Sava); altri, quali la gola del Torano col vallone dell’Inferno e le gole del Titerno, sono ancora percorsi da torrenti che ne continuano l’incisione. La morfologia del Matese riceve un’impronta particolare dalle valli laterali, che non penetrano molto in profondità, perchè nel mezzo della montagna c’è un succedersi di conche carsiche più o meno vaste, separate tra loro da soglie poco rilevate e quasi tutte ad un’altitudine di circa iooo metri. Tra le principali si possono ricordare quelle di Gallo, a poco più di 800 m., di Letino a circa 900 m., delle Sècine a circa 1000 m., del Lago Matese alla stessa altitudine e, inoltre, varie cavità minori

     

     

    (Camporuccio, Campo Rotondo, Campo Figliolo, Campo Brace, Capo di Campo, Il Campo). Numerose sono anche le doline, delle quali una delle più notevoli è quella sul Monte Ianara, a sud di Campo delle Sècine, e gli inghiottitoi, dei quali il più noto è quello in cui sprofondava il Lete nella conca di Letino, prima che la sua valle fosse sbarrata a monte con la creazione di un bacino di ritenuta allo scopo di eliminare la centrale idroelettrica di Pratella.

    Il Taburno costituisce un’altra vertebra della dorsale calcarea dell’Appennino e risulta diviso in due parti da un solco centrale e rivestito fino a grande altezza dal flysch. Le sue dorsali culminano nel Monte Camposàuro, a 1388 m., e nel Monte Taburno, a 1393 m., e presentano pianori terminali, delimitati da orli seghettati e da pareti ripide, e varie conche carsiche. Di queste le principali sono II Campo ad

    ovest di Vitulano con sorgenti e pascoli abbondanti (qui detti mazzoni come nel Piano Campano) e Campo Cepino a sudest di Frasso Telesino.

    Il Partenio è una dorsale che si innalza e si allarga verso oriente ed è diviso da un solco longitudinale in due parti che culminano rispettivamente nel Monte Avella a 1591 m. e nel Montevergine a 1480 metri. Tra di loro si allunga il Campo Sum-monte, ma la montagna è ben dotata di doline e piani carsici (Campo Maggiore, Piano del Pozzo, Piano Maggiore e Piano del Rapillo).

    I Picentini sono un importante gruppo di monti tra Salerno ed Avellino. Essi si compongono essenzialmente di tre parti, separate da un solco centrale, nel quale in opposte direzioni scorrono il Calore ed il Tusciano, e dalla valle del Sàbato. La sezione sud-occidentale (I Mai, 1618 m.) ha caratteri più alpestri e natura dolomitica,

    per cui l’idrografìa superficiale vi è più sviluppata; la sezione nord-orientale è di natura calcarea con esteso ricoprimento di terreni argillosi e si compone di varie alte montagne (Terminio, 1786 m. ; Cervialto, 1809 m.), nel cui seno si aprono molti piani carsici, dei quali alcuni assai vasti e privi di emissari superficiali (Piano del Dragone, Piano di Laceno, Piano di Verteglia), parecchi inghiottitoi (Bocca del Dragone) e numerose doline, tra cui si può ricordare quella che si apre sulla cima del Cervialto. Il complesso massiccio dei Picentini presenta pareti scoscese e coste incise da profondi valloni, cime arrotondate e dorsali minori {serre), e conta vaste aree senza deflusso superficiale e un’idrografia sotterranea molto sviluppata, come provano le copiose sorgenti che scaturiscono alla sua periferia.

    I Monti Lattari sono una serie di dorsali in parte dolomitiche (Catena dell’Addolorata), dovute a numerose fratture trasversali, e conservano un certo parallelismo. Esse sono formate da pile di dolomia e di calcare pendenti a nordovest e presentano una notevole asimmetria di versanti, con una parete a picco sul Golfo di Salerno e con l’altra degradante piuttosto dolcemente verso quello di Napoli. Si susseguono dal solco di Cava dei Tirreni fino alla Punta della Campanella e nell’isola di Capri, sebbene la loro direzione abbia subito una graduale distorsione verso sudovest, lasciando spazio sufficiente per la colmata di materiali di età posteriori (flysch, tufo) sul versante napoletano. La dorsale più alta, che culmina col Monte Sant’Angelo a Tre Pizzi (1443 m.), precipita direttamente sul mare di Amalfi ed è squarciata a sud dalla imponente gola del Furore, a nord dal solco non meno interessante ed evidente del Rio di Seiano.

    II gruppo che culmina nel Monte Marzano (1530 m.) è compreso tra le valli del-l’Òfanto, del Sele, del Tànagro e del Plàtano e si incunea tra i Picentini e l’Alburno. È un massiccio che presenta alla periferia pittoresche gole (Romagnano), forme molto aspre e pareti bianche, prive di terreno agrario e di vegetazione, ed accoglie nel suo seno due vaste conche (di Palo e di San Gregorio Magno), già occupate rispettivamente da un lago e da un acquitrino ed ora prosciugate. Nè mancano altri segni di carsismo superficiale, quali doline e cavità, delle quali una risalta sulla parete a nordovest della conca di Palo.

    Vedi Anche:  Il Volturno

    La Catena della Maddalena si allunga dal Monte Marzano al Sirino (2005 m.) e si erge tra il Vallo di Diano e le valli del Melandro e dell’Agri. Essa si distingue dalla maggior parte dei rilievi calcarei della Campania, perchè non ha la forma di massiccio, si mantiene per lo più al di sopra di 1000 m. e tocca la maggiore altitudine nella groppa detta Lo Serrone (1502 m.). Sebbene la sua larghezza sia modesta, non mancano sulla sommità i caratteri propri della morfologia carsica (Piano di Ma-gorno, Campo di Spigno, Mandrano, Mandranello) e depositi di farina dolomitica lungo i suoi fianchi, dove affiora la dolomia.

    L’Alburno riceve dalle sue bianche pareti verticali (coste) un’impronta inconfondibile; da un ciglione settentrionale (Monte Panormo, 1742 m.) si abbassa verso sud per quasi un migliaio di metri come un immenso piano inclinato ed è delimitato anche da questo lato con notevoli salti. Esso presenta molte cavità

    carsiche e rocce cariate e solcate, non solo sul piano di sommità, ma anche lungo le pareti calcaree (grandi doline presso la Grotta di Pertosa), e vaste cavità sotterranee.

    Nel Cilento si susseguono disordinatamente varie montagne calcaree e dorsali minori che costituiscono spesso dei ponti tra le maggiori montagne ed emergono con le loro creste dal mantello di flysch. L’Alburno trova la continuazione verso sudest in minori massicci, che rassomigliano ad esso per le bianche pareti verticali, tra le quali meritano di essere ricordate Le Balze che delimitano a sud Monte Cocuzzo (1410 m.) e alcuni fianchi del Mòtola (1700 m.). Sulle estreme pendici nord-occidentali di questa ultima montagna risalta una serpeggiante valle fluviale abbandonata, che termina con una notevole incisione presso Sacco. E una testimonianza sufficientemente chiara dell’azione erosiva di un corso d’acqua sul fianco della montagna nei tempi passati, quando la valle del Calore era ancora colma di terreni terziari e il torrente, che produsse la valle fossile, non era stato ancora deviato dal suo corso originario per cattura di un altro più attivo.

    Tra le montagne calcaree spicca il Cervati (1899 m.), la più alta della nostra regione dopo il Matese. Dai suoi contrafforti nascono il Calore, il Mingardo e il Bussento che hanno prodotto incisioni valli ve assai marcate sui ripidi fianchi dell’alto massiccio, il quale è molto piovoso ed alimenta numerosi torrenti minori, che hanno grande capacità erosiva e scorrono in valli incassate. A sud del Cervati i rilievi calcarei si vanno abbassando e si smembrano fino a continuare, di nuovo imponenti, oltre Sapri, dove precipitano a picco sul mare. Essi accolgono nel loro seno un vasto bacino chiuso, dal fondo piuttosto pianeggiante intorno a Sanza e per il resto inciso profondamente dal Bussento e da alcuni suoi affluenti. L’inghiottitoio presso Caselle in Pìttari, per la limitata altitudine (233 m.), ha accentuato nel ramo montano del fiume le differenze di livello e ne ha rinvigorito la forza erosiva.

    Il baluardo più meridionale della Campania (Monte Bulgherìa, 1225 m.) è anche esso calcareo-dolomitico e si erge imponente sul mare e sulla valle del Mingardo,

    che ne intacca fino alla base il contrafforte occidentale, creando una delle più pittoresche gole della nostra regione. Tipici sono i canaloni incisi dai torrenti sui suoi fianchi.

    Tra le dorsali minori che costituiscono le appendici dell’Appennino occorre ricordare ancora il Màssico (811 m.), il Monte Maggiore, i Tifata (804 m.), la dorsale tra Capaccio e Magliano, che culmina nel Monte Chianiello (1318 m.) e si distingue per l’eccezionale asimmetria dei versanti. Essa, nella parte occidentale, si scompone in due dorsali minori (Monte Soprano, 1082 m. ; Monte Sottano, 632 m.), che sono come gli orli di due enormi embrici con pareti verticali a sud e con strati fortemente pendenti a nord. Anche questi minori rilievi calcarei presentano una morfologia tipica e sono ricchi di cavità carsiche, come, ad esempio, quelli immediatamente a nord di Telese e i Tifata di Castel Morrone. Nel Cilento il calcare forma l’ossatura di parecchi altri monti, sia presso la costa che nell’interno, ma i terreni eocenici e oligocenici li rivestono spesso fino alla sommità (Monte Sacro, 1703 m. ; Monte Scuro, 1610 m.).

     

    Dorsali e colline terziarie.

    Le formazioni argillose ed arenacee sono, come si è visto, molto estese specie nelle conche interne, nell’Appennino Sannita e nel Cilento, rivestono i fianchi di molte montagne calcaree e si innalzano di più su quelle che fanno corona alle conche di Benevento e di Avellino. La stessa formazione riveste la sezione terminale della Penisola Sorrentina con una coltre che nel territorio di Massa Lubrense raggiunge il mare sull’uno e sull’altro golfo. Talvolta tali terreni sono costituiti da calcari marnosi e da potenti pile di arenarie compatte o da macigno (valle del Sele,

    Cilento) e sono intaccate da valli piuttosto marcate. Talora i solchi vallivi sono chiusi da soglie calcaree o da affioramenti di rocce più resistenti, per cui l’erosione accelerata subisce una sosta, le valli a monte assumono un aspetto più maturo e il fondovalle è più largo e solcato da ampi meandri. Le valli di parecchi fiumi appenninici hanno attraversato o stanno attraversando questa fase del ciclo erosivo, alla quale ne è seguita o ne seguirà un’altra di ringiovanimento.

    Notevolmente estese sono le sabbie e i conglomerati pliocenici e quaternari alla base dei maggiori rilievi, che si sono depositati in bacini o in valli antiche e coprono talvolta terreni terziari meno resistenti. Essi raggiungono maggiore estensione nel bacino pliocenico di Ariano Irpino, nelle valli dei fiumi adriatici e nel Preappennino Pugliese, dove risultano parzialmente ripiegati e sollevati e presentano strati pendenti verso occidente.

    La dorsale spartiacque dell’Appennino, le valli svasate, che i corsi d’acqua in esse hanno aperte, e le conche interne sono rivestite di terreni arenacei ed argillosi, impermeabili, plastici, instabili, incisi da numerose vallecole, umidi d’inverno, verdeggianti in primavera, aridi e squallidi d’estate. L’altitudine raggiunge o supera i iooo metri. La morfologia è piuttosto molle e caratterizzata da un succedersi di dolci ondulazioni e di piccole valli, interrotte solo di tanto in tanto da costoni calcarei e da scogli emergenti o appena affioranti. Sul versante meridionale del Matese, nelle valli del Tàmmaro, del Biferno e dell’Òfanto, nell’alta valle del Sele e nel Cilento, per la presenza di banchi di macigno o di sabbie cementate, per le precipitazioni più abbondanti e per le maggiori differenze altimetriche, la morfologia ha caratteri più giovanili, le valli sono più incise, il fenomeno delle frane è più imponente.

    I terreni terziari rivestono le falde alte di alcuni rilievi calcarei (Cusano Mutri) e assumono maggiore estensione sui versanti interni, degradanti verso le conche di Avellino e di Benevento, e verso il solco vallivo del Calore Lucano. Nel Cilento essi ammantano monti notevolmente alti (Sacro, 1705 m. ; Scuro, 1610 m. ; Stella,

    1131 m.)« Gli strati calcarei si immergono in molti luoghi sotto tali terreni, dai quali ne affiorano lembi isolati o stretti diaframmi, come la dorsale di San Marco tra le valli del Tammaro e del Fortore e i Monti Capitenali tra Roccagloriosa e Castel Ruggiero nel Cilento.

    Codesta formazione geologica è coperta qua e là da banchi di tufo vulcanico, di sabbie e di conglomerati pliocenici e di materiali alluvionali più recenti, che contribuiscono a limitare gli smottamenti e l’erosione accelerata e, per la maggiore stabilità, richiamano gli insediamenti e favoriscono colture più intensive. Nelle aree in cui essa è meglio rappresentata prevalgono il seminativo nudo o arborato, il pascolo o la macchia e insediamenti radi: i centri preferiscono speroni, dorsali, poggi, o cocuzzoli di rocce più resistenti; le case sparse si allineano di preferenza sulla sommità delle collinette o presso lo spartiacque, dove corrono anche le strade principali.

     

     

    I vulcani.

    La Campania è nota per vari apparati vulcanici. I principali ebbero origine sottomarina e, attraverso varie fasi esplosive, hanno portato le loro coniche costruzioni fino ad affiorare e ad emergere dalle acque nel grande golfo che si apriva tra gli Aurunci e i Lattari e che i materiali eruttivi hanno contribuito a colmare. Gli squarci, che il mare creava in origine sui fianchi dei vulcani più battuti dalle onde, sono stati mascherati dalle successive emissioni di lave e di ceneri, per cui è possibile riconoscere solo alcune ferite più recenti, sui coni lontani dal mare, e quelle che le onde vanno ingrandendo tuttora lungo la linea di costa delle isole vulcaniche e dell’arco partenopeo.

    Le violente esplosioni subaeree, a più riprese e fino ai nostri giorni, hanno innalzato nell’atmosfera immense nubi di ceneri, di lapilli e di sabbie, che, spinte dai venti verso il mare o sulle terre, hanno formato banchi sottomarini di tufo, creato

    buona parte della pianura campana, riempito le conche interne occupate dalle acque, rivestito o fertilizzato periodicamente i monti calcarei circostanti. Da essi le acque superficiali strappano gradatamente tali materiali piroclastici e li accumulano in maggior copia allo sfocio dei torrenti, nelle pianure, sui fondivalle o nel mare.

    Le montagne vulcaniche crescono di mole col tempo e la loro figura si altera per la creazione di crateri avventizi e per la parziale demolizione dei recinti più antichi. Alcuni coni sono dovuti ad eruzioni di breve durata e sono entrati per sempre nella fase di riposo. Invece in molti crateri i fuochi si sono andati spegnendo lentamente, ma non sempre in modo definitivo, e in altri perdura un’attività secondaria, interrotta talvolta da parossismi. Piuttosto frequenti sono i movimenti sismici, ultimi fremiti delle loro forze sopite (Casamìcciola, 1883; Roccamonfina, i960), e le sorgenti termali.

    Vedi Anche:  Le sorgenti

    I banchi di tufo, portati fuori dalle acque, costituiscono terrazze marine (Sorrento) e fluviali (Sant’Agata dei Goti) e sono stati incisi da fiumi o torrenti. Su di essi sono sorti fitti insediamenti e vengono praticate floride colture.

    II Roccamonfina, inserendosi tra il Monte Maggiore, le Mainarde e gli Aurunci, sbarrò le valli del Garigliano e del Volturno, originando due vasti bacini lacustri, che sono stati in parte colmati e in parte svuotati con l’incisione delle soglie ad opera dei loro emissari. Il Volturno ha dovuto addirittura cercare un altro varco per giungere al mare e l’ha trovato tra il Matese ed il Monte Maggiore, incidendo la soglia che separava il bacino del Calore da quello di alcuni suoi affluenti, che sono stati deviati nel senso della corrente del loro fiume recipiente. Di conseguenza la rete idrografica di buona parte della nostra regione si è modificata profondamente con un aumento dei trasporti solidi verso la pianura campana e verso il mare che la lambiva.

    Ed ora qualche accenno alla formazione, alla costituzione e alla morfologia dei vari apparati vulcanici. Il Roccamonfina non ha dato luogo in epoca storica ad alcuna eruzione e si può considerare ormai un vulcano spento, sebbene il monte sia di tanto in tanto scosso da qualche movimento sismico e dalle sue visceri traggano alimento alcune sorgenti termali e minerali. La montagna è formata di rocce diverse secondo i periodi di eruzione, perchè la costituzione dei materiali eruttati è cambiata col tempo. La maggior parte del basamento più antico è di rocce leu-citiche e il cono terminale (Santa Croce), con alcuni crateri avventizi, di tra-chiandesiti e di trachiti. Nè sono mancati, in tempi più recenti, sbocchi laterali di lave più basiche e colate di basalti sulle falde settentrionali e orientali della montagna.

    Il Roccamonfina è un cono, con una base dalla circonferenza di oltre 25 chilometri, presenta i fianchi poco inclinati e si compone di un grande cratere più antico, meglio conservato nel tratto occidentale, che nel Monte Frascara raggiunge la quota più alta di 926 metri. Questo cratere semidemolito dal lato di sudest costituisce il recinto entro cui si è formato il cono lavico posteriore di Monte Santa Croce (1003 m.). Come il Vesuvio, si distingue per una grande caldera terminale, in cui è sorto il cono più recente, che costituisce la cima principale ed è separato dalla cerchia più antica per mezzo di un solco anulare solo in parte colmato da lave o da materiali piroclastici.

    La forma conica della montagna è alterata da crateri laterali specie sul versante di Teano, non molto numerosi, ma di notevole altezza. Parecchi solchi vallivi, anche piuttosto profondi, ne incidono le falde e il Garigliano lo separa dagli Aurunci con un alveo abbastanza incassato presso Suio, dove si trovano note sorgenti termali, ma in territorio laziale.

    L’Epomeo, attraverso i coni o le bocche apertesi sui suoi fianchi, ha continuato l’attività esplosiva ed effusiva fino in epoca storica. Infatti l’insediamento preistorico di Castiglione fu abbandonato, forse nel secolo Vili a. C., in seguito ad una eruzione di un cratere laterale. Altre ne seguirono nei secoli successivi, secondo le testimo-

    manze degli autori antichi, e originarono estese colate laviche e coni avventizi. L’ultima di esse risale al 1302 e fu preceduta e accompagnata da scosse telluriche. Durante tale eruzione sgorgò da una spaccatura, prodottasi sul versante occidentale del Monte Trìppodi, una colata di fluida lava trachitica, che da circa 150 m. di altitudine si incanalò in un ampio solco e, dopo un percorso di oltre 2 km., avanzò nel mare, formando Punta Molina. E questa la lava dell’Arso, che raggiunge una larghezza fino a mezzo chilometro ed ha di solito uno spessore di pochi metri. Il rimboschimento vi ha creato sopra una magnifica pineta.

    L’isola presenta tuttora interessanti fenomeni di vulcanesimo secondario: numerose sorgenti termali e minerali, utilizzate per scopi terapeutici, e parecchie fumarole, che sono più numerose in corrispondenza della spiaggia di Citara, dove la fumarola Cuotto sprigiona gas ad 8o°, e della Marina dei Maronti dove ne è visibile,

    presso l’abitato di Sant’Angelo, una che ha carattere di soffione per la veemenza dell’emissione.

    L’Epomeo (788 m.) termina con un ciglione di tufo verdognolo, con pareti a picco verso nord e poco inclinate verso sud. Dalla sua cima si sono staccati in epoche diverse enormi massi di tufo e sono rotolati fino al mare, dove ne è stato modellato dalle onde uno a forma di fungo (Fungo di Lacco Ameno). L’Epomeo è una montagna complessa con varie appendici laviche (sezione orientale), ma è formata in buona parte di tufo, che è inciso da profondi valloni. Alcuni crateri laterali ne alterano ulteriormente il contorno; tra di essi i più noti sono Monte Rotaro, Monta-gnone e quello che accoglie il porto di Ischia da quando, nel 1854, fu messo in comunicazione col mare.

    Le altre isole vulcaniche del Golfo Partenopeo sono formate di tufo e di colate laviche (basalti) e non sono state interessate, a memoria d’uomo, da alcun fenomeno endogeno di rilievo.

     

     

    I Campi Flegrei, invece, che si considerano legati geneticamente alle isole vicine, hanno continuato la loro attività esplosiva fino a tempi molto vicini a noi ed hanno eruttato per lo più materiale frammentario (ceneri, lapilli, scorie, pomici). 11 Monte Nuovo si è formato in pochi giorni, nel 1538, durante una delle tante imponenti manifestazioni esplosive, che si sono susseguite periodicamente nei Campi Flegrei, precedute da vibrazioni e da innalzamento del suolo, ed hanno ricoperto la regione circostante di una abbondante coltre di ceneri e di lapilli. La Solfatara, che pure ha dato luogo a qualche colata lavica, forse anche in epoca storica, ormai presenta solo un’attività secondaria e riveste un grande interesse per le emissioni di anidride carbonica, di vapore acqueo, di fumarole ad alta temperatura e di idrogeno solforato, e per la presenza sul fondo del cratere di una fanghiera in cui ribolle fango ad alta temperatura (di poco inferiore o superiore a ioo°). Il vulcano attraversa fasi in cui l’attività fumarolica è più intensa e la temperatura dei gas più elevata (mas-

    sima temperatura registrata nei Campi Flegrei: 162°,5). Si formano di tanto in tanto nuovi soffioni e nuove fanghiere e si rinnovano i fenomeni, che in quelli meno recenti si vanno di solito attenuando. Nell’interno del cratere della Solfatara e sul suo versante esterno rivolto ad Agnano l’attività fumarolica accentua il fenomeno di caolinizzazione dei feldspati e dà luogo alla formazione del così detto bianchetto, che è utilizzato fin dai tempi antichi. Da esso deriva il colore bianco, accecante in estate sotto i raggi solari, del fondo del cratere e del versante rivolto ad Agnano che porta tuttora il nome greco di Colli Leucogèi per il colore della terra.

    Anche sul versante esterno della Solfatara è notevole l’attività fumarolica, con emissione di acido carbonico, mentre ad Agnano, a Pozzuoli e a Lucrino (Stufe di Nerone) si contano numerose sorgenti termali e termo-minerali, utilizzate per scopi terapeutici in grandi stabilimenti fin dall’antichità ad Agnano, a Pozzuoli e nel grandioso complesso termale di Baia. Sono degne di menzione anche alcune emissioni di anidride carbonica (mofete) nella Solfatara e ad Agnano, dove è molto nota la

    Grotta del Cane, così chiamata perchè l’anidride carbonica, gas relativamente pesante, stratificandosi sul fondo della grotta, riesce fatale agli uomini e agli animali, che in essa rimangono immersi, e colpiva di asfissia i cani che vi si introducevano un tempo per far osservare il fenomeno ai turisti.

    L’attività vulcanica si è andata restringendo nel corso dei millenni alla zona centrale dei Campi Flegrei, dove si trovano i vulcani più recenti e meglio conservati: i principali fenomeni attuali di vulcanesimo secondario si manifestano lungo la direttrice Agnano-Monte Nuovo.

    periodi in cui essa sarebbe stata per lo più sottomarina, con emissione di tufi grigi, di lave e di scorie. Al primo periodo sarebbero da attribuire i banchi di piperno affioranti alla base dei Camàldoli, del Monte di Pròcida, a Cuma e in pochi altri luoghi; nel secondo periodo si sarebbe formata buona parte delle cerchie crateriche costituite di tufo giallo (Gàuro, Nìsida, Poggioreale, Posìllipo e alcune altre ad occidente del Gàuro). Nel periodo più recente l’attività vulcanica ha dato luogo successivamente ai crateri di Agnano, Averno, Astroni, Cigliano, Senga, Solfatara e Monte Nuovo, a rupi di trachite (Astroni, Olibano) e ad ammassi di conglomerati e di lave scoriacee e di scorie grige (Solfatara, Pagliaroni sul fondo degli Astroni, Senga, Monte Nuovo).

    Per il Rittmann, invece, si ebbe in origine un grande vulcano « Archiflegreo », successivamente sprofondato a formare una vasta caldera invasa dal mare. Il ciglio dei Camàldoli sarebbe un tratto residuo dell’antica cerchia craterica. La formazione, nel suo àmbito, di numerosi altri crateri, dei quali alcuni sono stati smembrati dalle eruzioni posteriori e altri si conservano tuttora, sarebbe avvenuta attraverso due cicli eruttivi. L’attività effusiva ha avuto importanza secondaria rispetto a quella esplosiva, la quale, nel primo ciclo, sarebbe stata molto intensa e si sarebbe accompagnata abbastanza di frequente a quella effusiva, mentre nel secondo ad un periodo caratterizzato da esplosività crescente con qualche manifestazione effusiva ne sarebbe seguito un altro con attività esplosiva ad intensità decrescente.

    Vedi Anche:  La temperatura

    I Campi Flegrei hanno una morfologia caratteristica ed estremamente complessa. In essi si alternano orli craterici, semidemoliti dal mare o dalle eruzioni posteriori, a cavità circolari o allungate. Lo sprone dei Camàldoli, tra i crateri di Pianura e di Soccavo, si innalza con pareti ripidissime fino a 458 m. sul mare. Da esso si può avere un’idea precisa della morfologia dei Campi Flegrei e della successione delle varie cerchie crateriche meglio conservate.

    Connesso con la natura litologica è il grande sviluppo dei solchi superficiali di erosione, approfonditi spesso dall’Uomo (cupe), ma numerose sono anche le incisioni artificiali degli orli e delle cerchie crateriche per mettere in comunicazione una conca con l’altra. Sono queste le così dette montagne spaccate, delle quali la più nota sin dai tempi antichi è quella che consente il passaggio nella conca di Quarto, aperta per la costruzione della Via Campana, allo scopo di collegare direttamente Pozzuoli con Capua e con la Via Appia.

    II Vesuvio è l’unico vulcano ancora attivo dell’Europa continentale e non è da annoverare tra i maggiori della terra. Esso è un vulcano composito, in cui l’asse eruttivo si sarebbe spostato di circa 250 m. verso sudovest, determinando la demolizione parziale del Somma, nel quale il Vesuvio si è inserito. Pochissime sono state le bocche laterali del vulcano, in quanto le eruzioni sono avvenute quasi tutte dal condotto principale. Il cono del Vesuvio è di costruzione relativamente recente, e alcuni studiosi, sulla base di una raffigurazione pittorica venuta alla luce negli scavi di Pompei, in cui la montagna è rappresentata con una sola cima, hanno pensato — forse erroneamente — che la sua origine si dovesse riportare alla spaventosa eruzione del 79 d. C., durante la quale furono sepolti Ercolano, Pompei, Stabia ed altri minori insediamenti intorno al vulcano.

    Questa è la prima eruzione vesuviana ricordata dall’Uomo ed è anche la più violenta di quelle avvenute in epoca storica. Ad essa ne sono seguite numerose altre, ad intervalli diversi, fino ai nostri giorni, perchè il vulcano suole alternare periodi di riposo o di emanazione a fasi di esplosione e di effusione lavica. L’Uomo ricorda poco meno di un centinaio di eruzioni del Vesuvio, la maggior parte avvenute nell’età moderna; ma quelle effettive sono state di gran lunga più numerose, perchè nel Medio Evo di molte non si è tramandata la memoria o perchè meno imponenti o perchè non hanno trovato un cronista. La storia vera del Vesuvio comincia con la grande eruzione del 1631, in quanto da allora il vulcano è diventato oggetto di studio e sono state registrate anche le eruzioni di secondaria importanza.

    Il Marinelli in La Terra ricorda otto eruzioni anteriori al 1000 ed altrettante tra l’XI e il XVII secolo; ne ricorda sei per il XVII secolo, venticinque per il successivo, un ugual numero per il XIX secolo. Dalla seconda metà del secolo scorso l’attività esplosiva ed effusiva del Vesuvio ha avuto solo brevi periodi di sosta fino al 1944, quando si è conclusa con una grande eruzione, dopo la quale il vulcano è entrato in una fase di riposo che dura da 20 anni ed è certo la più lunga degli ultimi tre secoli. Il Mercalli indicò undici periodi eruttivi ben definiti dal 1712 al 1872, ai quali se ne sono aggiunti altri due, ciascuno della durata di circa un trentennio, il primo dal 1875 al 1906, il secondo dal 1913 al 1944.

    La più spaventosa eruzione dell’età moderna è quella del 1631, che avvenne dopo un lungo periodo di riposo. L’attività esplosiva fu imponente e sorprese uomini e animali, facendo molte vittime e produsse un forte maremoto. Una colata lavica raggiunse Torre Annunziata, altre colate si riversarono in varie direzioni verso Pòrtici e nel solco tra il Somma e il Vesuvio. La cenere e il fango ricoprirono le falde del vulcano e la regione circostante.

    Nel ‘700 si ricordano parecchie tremende esplosioni negli anni 1730, 1737, 1760, 1767, 1794; ma il vulcano fu per lunghi periodi in eruzione. La più violenta fu quella del 1794, la seconda per importanza nei tempi moderni, che fu preceduta da estesi movimenti sismici. Poi il cono si spaccò lungo due generatrici opposte e attraverso varie bocche il magma defluì sui fianchi della montagna, invadendo anche l’Atrio del Cavallo. La lava investì Torre del Greco e si inoltrò nel mare per oltre 100 metri. Le onde, demolendo poi la fronte della colata lavica, ne hanno messo in evidenza la struttura colonnare.

    Molte furono anche le eruzioni avvenute nel secolo XIX, durante il quale l’attività del Vesuvio quasi non conobbe soste. Le più note sono quelle del 1822 e del 1839; un enorme volume di magma fuoriuscì nel 1858 e rivestì le falde alte del vulcano. L’attività effusiva degli anni 1895-98 formò Colle Umberto (888 m.), a nordovest del Gran Cono. Nel nostro secolo si devono registrare due grandi eruzioni, una del 1906 e l’altra del 1944. La prima chiuse un lungo periodo di attività del Vesuvio

    (30 anni) e mandò lave verso Terzigno, Boscoreale e Torre Annunziata e coprì di scorie, lapilli e ceneri vaste estensioni della nostra regione, danneggiando vari centri abitati (Ottaviano, San Giuseppe Vesuviano). In tale occasione la cima, che il Vesuvio si era formata attraverso un lungo periodo di attività costruttiva, sprofondò con immane fragore e al suo posto rimase una voragine. Il riposo durò circa sette anni, poi riprese l’attività esplosiva ed effusiva, che riempì lentamente il cratere, dal quale le lave traboccarono nel 1926 nella Valle dell’Inferno e defluirono a più riprese verso Terzigno, investendo la parte alta dell’abitato nel 1929. Ancora un periodo di riposo e poi nel 1933 la ripresa dell’attività, che si concluderà nel 1944 con un’altra grandiosa eruzione ed originerà colate laviche in varie direzioni e soprattutto verso gli abitati di San Sebastiano e Massa, che, già altre volte minacciati (1872), furono allora in buona parte seppelliti. Il pino vulcanico sospinto dai venti, ora verso sud, ora verso est, rivestì con uno strato di cenere grigia, spesso vari centimetri, la Penisola Sorrentina e ne distribuì fino alla Puglia e in Albania.

    Il Vesuvio e il Ciglione del Somma con parte della città di Napoli.

    Per il Vesuvio sono stati distinti vari periodi di attività e di riposo (Palmieri-Mercalli): dal 1652 ai giorni nostri se ne contano venti, molti dei quali si sono chiusi con parossismi. Il periodo di riposo attuale, che dura dal 1944, è uno dei più lunghi degli ultimi tre secoli. I grandi parossismi sono stati annunziati di solito da movimenti sismici più o meno intensi, da un abbassamento improvviso della falda freatica intorno al vulcano e da un sollevamento di tutta la montagna col conseguente ritiro del mare dalla normale linea di spiaggia.

    La montagna è formata per tutta la sua mole di rocce della stessa costituzione, che sono diventate sempre più basiche. Il Somma primitivo ha eruttato rocce tra-chitiche, che formano la base del cono antico, coperto successivamente da prodotti di diversa composizione ; il Vesuvio, invece, ha eruttato materiali e lave sempre più ricche di leucite. L’evoluzione del magma del Somma-Vesuvio si deve attribuire probabilmente ad un graduale avvicinamento alla superficie del focolaio magmatico (Malladra).

    Il Vesuvio è un tipico vulcano a recinto, costituito dalla cerchia semidemolita del Somma, che nella Punta Nasone tocca i 1132 m., dal cono più recente del Vesuvio (1277 m.) e dal grande solco intercraterico, in parte colmato. Questo prende il nome di Atrio del Cavallo nel tratto nord-occidentale e di Valle dell’Inferno in quello sud-orientale. La cerchia residua del Somma ha pareti assai ripide e pressoché verticali nell’interno, come anche il cono del Vesuvio; ma le falde più basse della montagna hanno generalmente un declivio molto dolce.

    Essa ha, quindi, una forma conica, con base larga, alterata solo eccezionalmente da piccole formazioni laterali (Camàldoli della Torre), ma il pendio si accentua oltre i 400 m. e sempre più fino alla cima. Estesi ammassi di lave cordate si alternano a zone di ceneri e scorie, numerosi solchi torrentizi incidono i vari versanti della montagna e trasportano, durante le piene, grandi quantità di materiali. Alcune estensioni laviche sono state sottoposte con successo al rimboschimento, ma buona parte del cono grande e delle colate più recenti rimangono nude.