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Proprietà e impresa

    Proprietà e impresa

    La Campania si distingue, oltre che per il grande frazionamento colturale e per la promiscuità delle colture a diversi piani vegetativi, anche per la polverizzazione della proprietà fondiaria e per l’ulteriore ripartizione dei maggiori poderi a parecchi coltivatori. Secondo il censimento dell’agricoltura del 1961 sono state rilevate nella regione 357.176 aziende, per oltre due terzi inferiori a tre ettari. Queste sono divise in parti quasi uguali tra unità poderali inferiori a 1 ha. e di 2-3 ha. e sono molto diffuse nella pianura circumvesuviana e sulle colline intensivamente coltivate. Ad esse spetta solo un quarto della totale superficie agraria della regione, che naturalmente corrisponde alle terre più fertili e meglio coltivate.

    Le aziende da 5 a 10 e da 10 a 25 ha. di estensione sono rispettivamente 26.971 e 10.301 ed hanno una superficie complessiva di poco superiore ad un quarto di quella utilizzabile per l’agricoltura. Le aziende di oltre 25 ha. sono circa 3000 e comprendono poco più di un terzo della superficie totale, ma pochissime si estendono su terreni fertili e pianeggianti e molte inglobano notevoli estensioni di boschi, di boscaglie, di incolti produttivi e di aree pascolative.

    Il frazionamento fondiario si è accentuato in questi ultimi decenni ed ha interessato sia le maggiori che le minori unità poderali, e in special modo quelle delle pianure bonificate di recente, dove prevaleva l’azienda pastorale bufalina. Esso è portato fino alla polverizzazione nelle zone ortofrutticole, dove molto rare sono le aziende di oltre 10 ettari.

    Nella pianura subvesuviana e nelle isole quelle inferiori a 5 ha. si aggirano intorno al 95% del numero complessivo e corrispondono al 75-80% della superficie totale (pianura subvesuviana, 78%; isole, 86%). Nelle conche e nelle valli interne più fertili, le dimensioni delle aziende risultano più grandi, ma quelle sotto i 5 ha. comprendono oltre la metà della superficie territoriale; sulle colline fertili e ben coltivate questo rapporto è leggermente più alto.

    Nelle zone montane e in quelle collinari ad economia povera predominano aziende più vaste di tipo latifondistico, che coesistono con altre molto piccole. Sul Matese,

    nell’alto bacino del Calore e in quello del Bussento le aziende superiori a 50 ha. coprono oltre la metà della superficie totale.

    Da un confronto con le varie province si deduce che in quella di Napoli le unità poderali sotto i 3 ha. corrispondono ai due terzi della superficie totale, mentre in quella di Salerno ne comprendono soltanto la sesta parte e nelle altre poco più di un quarto.

    Nelle zone dove il frazionamento poderale è avvenuto in tempi relativamente lontani, accompagnandosi anche alla diffusione di colture legnose ad elevato reddito, il paesaggio ne ha ricevuto un’impronta particolare, perchè le proprietà sono recinte con muri più o meno alti, prevalgono le case rurali sparse sui campi e la rete delle strade e dei sentieri è molto fitta. La Penisola Sorrentina, le isole e, in minor misura, il Vesuvio e la fascia pedemontana ai margini del Piano Campano presentano inscritti nel paesaggio segni profondi della non recente ripartizione fondiaria della loro terra. E per risalire ancora più addietro nel tempo, la centuriazione romana della pianura è non solo un ricordo storico, ma anche una realtà geografica di cui si conservano tracce durature attraverso la rete attuale delle strade e dei sentieri e la distribuzione dei centri abitati.

    Per quanto riguarda i tipi d’impresa ci si può riferire all’apposita carta costruita dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria, dalla quale abbiamo ricavato il sintetico cartogramma qui inserito. L’impresa con salariati e compartecipanti è molto diffusa sulle aree collinari e montane a spiccato carattere silvo-pastorale o in quella ad agricoltura estensiva ed interessa maggiormente il Cilento, i Picentini e la valle dell’Òfanto.

    La colonia parziaria, appoderata e non appoderata, viene praticata solo su piccole aree e si associa di frequente all’impresa che impiega salariati e compartecipanti. I due tipi d’impresa più comuni sono la proprietà coltivatrice e l’affittanza, la prima più diffusa nelle zone collinari, la seconda nella pianura, ma non si possono non ricordare alcune forme particolari di compartecipazione anche nelle zone più intensivamente coltivate. Nella Penisola Sorrentina, dove sono assai considerevoli le spese d’impianto e di coltura e dove i redditi ricavati dai fondi, dal lavoro e dai capitali di esercizio concorrono in misura pressoché uguale alla formazione del reddito lordo. Questo viene diviso in tre parti, di cui una va al proprietario, una al coltivatore e

     

     

    una divisa tra l’uno e l’altro, proporzionalmente ai capitali di esercizio impiegati da ognuno di essi.

    E opportuno segnalare che esiste una certa coincidenza fra le zone con più fitta popolazione sparsa e quelle in cui prevale la proprietà coltivatrice e che l’insediamento accentrato è più diffuso là dove sono praticate su scala maggiore l’impresa con salariati e l’affittanza coltivatrice.

    Il voler far risalire a quest’ultimo tipo d’impresa la causa della grande povertà della popolazione rurale ci sembra ingiusto, perchè in molte zone « l’affitto non ha le conseguenze dannose che presenta altrove per la mancanza di capitali necessari alle colture » (Milone). Più che al tipo d’impresa saremmo portati ad imputarla all’alta pressione demografica, al prevalere dell’offerta rispetto alla domanda sul mercato della mano d’opera, al bisogno di procurarsi terra da coltivare e di insediarsi in un podere, particolarmente sentito nella regione partenopea, e di conseguenza all’aumento dell’offerta per ottenerlo. I margini di guadagno, in tal modo, si riducono per il coltivatore, il quale nelle annate sfavorevoli si trova in disagio.

    Forme di utilizzazione del suolo e produzione agricola.

    Nella Campania oltre un terzo delle forze di lavoro sono occupate (1961) nell’agricoltura, dalla quale proviene la quinta parte del reddito complessivo della regione. Se però si includono gli addetti ad attività secondarie e terziarie connesse con quella agricola e il reddito da esse prodotto, la Campania si colloca ancora ai primi posti tra le regioni d’Italia per l’importanza di quel settore della vita economica.

    Per quanto concerne le forme di utilizzazione del suolo, oltre metà della superficie territoriale è destinata al seminativo, nudo o arborato, di cui il 55% a cereali, il 10% alle coltivazioni legnose specializzate, l’i 1% alle formazioni erbacee permanenti, il 20% a boschi e il resto ad incolto produttivo (3%) e ad improduttivo (5%). Le colture legnose specializzate interessano di più la fascia costiera pianeggiante e le pendici dei monti circostanti (circa i quattro quinti della totale superfìcie di esse), mentre i boschi e le coltivazioni erbacee permanenti sono molto estese nelle zone più interne.

    Un noto studioso di economia agraria delle regioni meridionali, il Rossi Doria, ha ripartito il territorio della Campania in tre grandi zone economico-agrarie e ne ha con grande competenza messo in risalto i caratteri distintivi, per quanto concerne sia le forme di utilizzazione del suolo, sia il valore e la destinazione della produzione

    vendibile, sia la distribuzione del reddito e le prospettive di sviluppo futuro. Il suo studio si riferisce purtroppo al 1956, cioè ad un anno dalle condizioni climatiche assai sfavorevoli che si ripercossero in misura notevole sulla produzione di parecchie colture; pertanto i risultati di esso richiedono di essere aggiornati per offrire un quadro, non tanto più attuale, quanto più normale della realtà economico-agraria della regione. Ciò tenteremo di fare sulla guida di quell’eccellente studio e in base ai dati delle più recenti rilevazioni statistiche.

    Vedi Anche:  Napoli

    dal Garigliano ad Agròpoli, è circondata dai primi rilievi dell’Appennino e include anche il Vesuvio, i Campi Flegrei, la Penisola Sorrentina e le isole; zona intermedia quella alle spalle della precedente, che comprende le valli e le conche interne di Avellino e di Benevento fino alle pendici del Matese e della dorsale spartiacque dell’Appennino; zona estensiva quella che fa corona alle prime due e si sviluppa dai rilievi a nordovest del Roccamonfina al Golfo di Policastro, includendo il Matese, l’Appennino Sannita, parte dei Picentini, l’alta valle del Sele, il Vallo di Diano e il Cilento.

     

     

    ficie della regione, la seconda al 26% e la terza al 53%; ma esse danno rispettivamente il 56%, il 26% e il 18% della totale produzione lorda vendibile.

     

     

     

     

     

     

    Secondo il Rossi Doria, nel 1956, nella zona attiva risultava costituito da sottooccupati il 9% circa degli addetti all’agricoltura, nella zona intermedia il 26% e in quella estensiva il 24% ; mentre per tutta la regione il 20% delle forze di lavoro rurali spettava ai sottoccupati e il 7% ai disoccupati. Pur essendo migliorata la situazione, il flusso emigratorio delle zone interne dovrà continuare intenso, per creare un equilibrio più stabile fra forze di lavoro ed esigenze dell’agricoltura.

    Il citato autore prevede fino al 1971 una riduzione delle forze di lavoro dell’agricoltura, tale da assorbire tutti i sottoccupati; ma col generale miglioramento delle condizioni generali di vita non è improbabile che il contrasto fra le varie zone si accentui, tendendo ad aumentare il disagio per le popolazioni più povere, tanto più che il reddito agricolo si prevede possa aumentare in misura molto modesta per le zone interne.

    Le colture erbacee principali.

    Nelle pagine precedenti si è fatto cenno della diversa intensità dell’agricoltura campana, dell’incremento della resa per alcune colture, ma ora conviene considerare brevemente le varie coltivazioni, soprattutto per quanto riguarda l’area di diffusione e l’andamento della produzione negli ultimi decenni. Un confronto tra i dati riportati nel Catasto Agrario del 1929, riferiti al sessennio 1923-28, e quelli del quadriennio 1957-60, ricavati dall’Annuario di Statistica Agraria, ci permette di vedere le principali variazioni della produzione. Tale confronto tradisce un sensibile aumento di quella dei cereali, sebbene l’area ad essi destinata si sia ridotta, degli agrumi, degli ortaggi di ogni specie, dei fiori, della frutta nel complesso. Per la canapa, per la vite, per l’albicocco e per qualche altra coltura di minore importanza la produzione si è sensibilmente ridotta.

    La coltura del frumento è senza dubbio la principale della regione, sia per la superficie ad essa annualmente destinata (27.000 ha.), sia per il valore della produzione vendibile annua (21 miliardi circa nel quadriennio 1957-60). La sua resa è di 13 q./ha., sensibilmente superiore rispetto ad un trentennio addietro, per cui l’aumento della produzione è strettamente legato a quello della resa. Il frumento dà annualmente una produzione di 3,4 milioni di quintali, proveniente per un terzo dalla provincia di Caserta, dove la pianta si è diffusa con successo nelle zone di bonifica. Nella provincia di Napoli esso ha scarsa importanza, mentre ne assume una considerevole nelle altre, donde proviene la cospicua produzione di frumento duro, che è pari ad un terzo di quella complessiva (812.000 q.). Quest’ultima varietà è andata sempre più guadagnando terreno, specie nelle conche interne e nell’Appennino Sannita.

    L’area del frumento si è andata arretrando dalle sponde del Golfo di Napoli, con la diffusione delle colture ortofrutticole. Essa comprende la parte centrale del Piano Campano e quella centro-meridionale della Piana del Sele, dove la resa per ettaro è molto elevata (almeno il doppio di quella regionale), alcune valli interne, le conche carsiche e la serie delle colline argillose del Sannio, dell’Irpinia e del Cilento, sebbene la coltura sia talvolta scarsamente conveniente per la bassa resa e l’alcatorietà del raccolto. Una agricoltura più razionale non può non favorire la sottrazione di alcune zone al frumento a vantaggio di foraggere e di colture più redditizie.

    Tra gli altri cereali solo il mais assume una certa importanza nella regione, essendo la produzione degli altri (avena, 244.000 q. ; orzo, 78.000; segala, 66.000) molto modesta. Il mais, o granone per le popolazioni locali, è coltivato in estate nelle zone interne, dove dà una limitata resa per ettaro, o entra negli avvicendamenti delle

    pianure più fertili ed irrigue con patate, cavoli ed altri ortaggi. Esso è diffuso soprattutto nella bassa piana del Sarno e nell’Agro Nolano, è per lo più irrigato e dà una produzione unitaria anche superiore a 30-40 quintali.

    Il mais e la patata sono stati diffusi su vasta scala in Campania dal secolo XVIII e insieme con altre due piante di origine americana, il pomodoro e il tabacco, hanno esercitato una notevole influenza sulla composizione della sua produzione agraria e sulla formazione del reddito, oltre che sulla alimentazione della popolazione.

    più noti della Campania bisogna ricordare diverse varietà di cavoli, dei quali assai abbondante il cavolfiore (quasi un terzo della produzione nazionale), finocchi, cipolle, indivia, lattuga, poponi e cocomeri, melanzane, peperoni, cetrioli, zucchini, zucche, asparagi, fragole e così via, senza ricordare i legumi destinati al consumo fresco, le patate e pomodori. Prima di far più ampio cenno di alcuni di essi occorre premettere che la zona degli orti, già limitata alle valli del Sebeto e del Sarno, si è andata allargando soprattutto verso l’Agro Nolano e nel Piano Campano e più recentemente nella Piana di Salerno, con la diffusione dell’irrigazione.

     

     

    Le fragole e gli asparagi trovano l’area di maggiore diffusione a nordest dei Campi Flegrei, nell’alta pianura tra Afragola, Cardito e Frattamaggiore ed hanno in quest’ultima città il principale centro di smistamento e a Napoli il grande mercato di assorbimento. I poponi ed i cocomeri provengono in maggior quantità dalla bassa pianura del Volturno e del Sele e in particolare dalle depresse zone retro-dunali a falda acquifera affiorante o molto superficiale.

    Per gli altri più comuni ortaggi non è agevole indicare le zone particolari di coltura in quelle tipiche degli orti. Essi si mescolano, si avvicendano e si ripartiscono

    i campi in tanti piccoli domini, sempre cangianti da un anno all’altro e nel corso dell’anno. Le aree dove l’intensità colturale diventa eccezionale sono le paludi di Napoli, la bassa valle del Sarno, la conca di Striano-Poggiomarino, quella di Nola-Acerra-Marigliano, la piana tra Salerno e Battipaglia e lembi minori nei Campi Flegrei e nel Piano Campano, a nord e a sud dei Regi Lagni. Dallo stesso terreno si ricavano vari raccolti all’anno.

    Vedi Anche:  La zona di media intensità colturale

    A cavoli vernini e a cavolfiori succedono patate primaticce, a queste ortaggi vari o granturco, al quale si associano pomodori e fagioli a filari alterni, così che mentre un prodotto matura l’altro cresce. In tal modo su ogni filare, con rotazione biennale o triennale, si ottengono due o tre prodotti all’anno e la loro coltivazione è sfasata nel tempo, in modo che, quando la pianta di un filare comincia ad ostacolare la rapida crescita delle giovani pianticelle del filare vicino, viene raccolta e sostituita con altre mediante la semina o il trapianto. La campagna è sfruttata al massimo, grazie alla naturale fertilità del terreno e alla somministrazione di abbondanti concimi e si presenta sempre verdeggiante e animata da lavoratori.

    Nelle colture ortensi si possono anche far rientrare la patata e il pomodoro, che sono largamente coltivati sia nelle pianure che nell’interno. Il pomodoro deve la fortuna alla sua utilizzazione industriale per la fabbricazione di conserve e, per quanto coltivato in tutta la regione, cresce di preferenza nella valle del Sarno, donde proviene la varietà pregiata di San Marzano — nota con questo nome anche in altre parti d’Italia — nella Piana di Salerno e nel territorio di Nola, di Acerra e di Mari-gliano. La Campania contende il primo posto all’Emilia-Romagna per la produzione di pomodori, che si è più che raddoppiata nell’ultimo trentennio ed è assorbita per la maggior parte dalle industrie conserviere sorte nelle zone di coltura.

    La patata è un’altra pianta largamente coltivata in Campania, specialmente nella pianura circumvesuviana, nei Campi Flegrei e nella Penisola Sorrentina, e fornisce, oltre al normale raccolto estivo, una discreta produzione primaticcia di grande valore, destinata in buona parte alle regioni settentrionali e all’estero.

    Il commercio della patata è controllato da potenti intermediari, ma non sono rare le crisi per crollo dei prezzi, sebbene negli ultimi anni questi siano rimasti più stazionari e comunque più remunerativi. I gravi fatti di Marigliano del 1959 furono legati appunto ad una di tali crisi : il popolo si sollevò e reagì con violenza contro gli organi dello Stato, ai quali attribuiva l’incapacità di disciplinare i prezzi al produttore e al rivenditore e di limitare il margine di guadagno ai commercianti.

    Si possono considerare tra gli ortaggi anche le leguminose che danno un prò-* dotto destinato al consumo fresco. Fave e piselli sono le tipiche colture invernali che rinverdiscono in primavera le falde del Vesuvio o coronano le strette terrazze dei Campi Flegrei, mentre il fagiolo è coltura primaverile sui terreni asciutti ed estiva su quelli irrigui e dà un prodotto assai apprezzato. Essi, se le condizioni atmosferiche non sono sfavorevoli, danno prodotti di alto pregio, destinati ad uscire in gran quantità dai limiti regionali. La Campania occupa uno dei primi posti per produzione di legumi freschi e da granella, che provengono soprattutto dalle terre intorno al Golfo di Napoli e passano per i mercati all’ingrosso di Napoli e di Giugliano.

    Tra le altre piante erbacee non sono da trascurare quelle industriali, quali la canapa, il tabacco e la barbabietola da zucchero. Di queste l’ultima ha assunto importanza nel secondo dopoguerra, dopo l’impianto degli zuccherifici di Capua e di Battipaglia, e dà una produzione in sensibile aumento, ma non destinata ad un grande sviluppo ; il tabacco ha subito una rapida espansione e la canapa un graduale declino.

    compartecipanti, i quali hanno trovato in tale pianta quella da sostituire alla canapa all’ombra dei filari di pioppi e delle ghirlande di viti.

    Beneventana, la quasi totalità del Maryland e i tre quarti del Burlev di produzione italiana.

    Il tabacco rifugge dalle terre irrigate e preferisce quelle ombreggiate dalle chiome di alti alberi. La sua coltivazione è praticata per il 90% da coltivatori diretti o da

    Per esso non si può parlare di commercio, non essendo la vendita e gli acquisti regolati dalle leggi della domanda e dell’offerta; ma importa sottolineare che, a parte il valore della produzione vendibile (7 miliardi di lire), la manipolazione del tabacco campano, fatta quasi tutta nella nostra regione, ha elevato, nel quadriennio considerato, il valore del prodotto ad 83 miliardi di lire al prezzo di tariffa. E poiché l’incidenza fiscale è di circa l’8o% di tale prezzo, la Campania contribuisce con questo suo prodotto alle entrate dello Stato con oltre 60 miliardi all’anno, somma veramente molto cospicua che dovrebbe consigliare agli organi responsabili una maggiore larghezza in favore dell’economia agricola regionale.

    L’altra coltura industriale, che ha avuto in Campania una notevole fortuna, è quella della canapa, la quale era diffusa fino a pochi anni addietro dal Vesuvio al

    Màssico ed ha lasciato tracce nella toponomastica, come provano Macerata Campania e Marcianise, due grossi centri nel cuore della zona di produzione e di macerazione della canapa.

    sima espansione (circa 25.000 ha.) negli anni anteriori alla seconda guerra mondiale per ragioni autarchiche.

    Nel secondo dopoguerra la superfìcie coltivata a canapa si è andata rapidamente restringendo per la concorrenza di altre fibre (iuta, sisal, fibre sintetiche) e per la diffusione di colture più redditizie. Negli ultimi tempi la produzione ha subito una sensibile riduzione e non è improbabile che, per la mal compensata fatica necessaria, la coltura sia destinata ad una estrema rovina.

    La canapicoltura campana ha resistito di più alla crisi che ha colpito fin quasi al totale annientamento quella emiliana, per vari fattori. Innanzi tutto la qualità superiore ne ha sostenuto i prezzi; inoltre nella nostra regione non è risultato così agevole come in Emilia-Romagna sostituirla con altre colture. I rapporti tra proprietà ed impresa erano regolati da contratti che imponevano un estaglio in natura, e quindi una certa quantità di canapa da parte dei coltivatori, che non potevano correre il rischio di essere accusati di inadempienza contrattuale; infine la fitta popolazione non trovava facilmente impiego in altri settori. La fortuna della canapa, come quella del tabacco, è legata alla stabilità dei prezzi, che non riserva ai coltivatori sorprese molto spiacevoli.

    La canapa, per le complesse e faticose operazioni di coltura e di estrazione della fibra, si è andata riducendo alla zona a destra e a sinistra dei Regi Lagni, lungo i quali si trovano grandi vasche di macerazione di facile accesso. La superficie destinata a tale coltura si aggira intorno a 10.000 ha., in lenta riduzione, e la produzione annua di fibra risulta di poco superiore a 120.000 q., mentre quella di seme è di 6-7000 q. all’anno.

    La canapa alimentava un discreto commercio di esportazione, specie verso Germania e Norvegia e aveva favorito la creazione di appositi stabilimenti industriali a Frattamaggiore e a Sarno, ma attualmente la maggior parte della produzione è destinata alle industrie della Lombardia.

    Vedi Anche:  Condizioni climatiche tipi di tempo vegetazione e fauna

    La costituzione di un apposito consorzio non è riuscita a salvare la coltura della canapa, perchè non ha assicurato al coltivatore l’assistenza necessaria e non gli ha garantito, con avvedutezza, prezzi remunerativi e la tanto auspicata stabilità di essi.

    Per avere un quadro più completo della diffusione e dell’importanza delle coltivazioni erbacee, la cui produzione ha un valore (98,9 miliardi di lire nel quadriennio 1957-60) superiore alla metà della produzione agricola regionale, occorre far cenno dei fiori, che hanno assunto una certa importanza negli ultimi decenni. Ad essi sono destinati piccole aree nella città di Napoli, la zona costiera alla base del Vesuvio, da San Giovanni a Teduccio a Torre del Greco, campi isolati nella bassa pianura del Sarno e presso il litorale dei Campi Flegrei e, più nell’interno, la conca di Striano e di Sarno. La produzione è molto varia (garofani, gladioli, crisantemi, rose, tulipani), ha un valore di poco inferiore a mezzo miliardo di lire e contribuisce ad alimentare in misura considerevole i mercati locali attraverso i centri di distribuzione di Pòrtici e di Napoli.

    Gli alberi da frutta.

    Come tutte le regioni meridionali, a lunga siccità estiva, la Campania si distingue per il più o meno fitto soprassuolo arborato e per la bontà dei prodotti delle colture legnose, dalle quali si ricava un terzo del valore della totale produzione lorda vendibile agraria, zootecnica e forestale.

    Le piante legnose figurano talvolta in coltura specializzata, ma più sovente in coltura promiscua, molto complessa e a più piani vegetativi, specie per gli alberi da frutta. Sebbene per i nuovi impianti non manchi la tendenza alla specializzazione, la produzione più considerevole proviene dalle coltivazioni miste. Quasi tutti gli alberi da frutta hanno subito una diffusione sensibile, tanto che per alcuni la Campania ha conservato o rafforzato il primato tra le regioni italiane. Solo per l’albicocco, per il susino e per il loto si sono registrate riduzioni nella superficie coltivata e nella produzione.

    Tra gli alberi da frutta, più tipici della Campania, meritano di essere ricordati l’albicocco, che estende il suo dominio sulle falde sud-occidentali del Vesuvio, donde proviene un terzo della produzione nazionale, e il nocciolo che dalle conche dell’Avellinese ha disceso le falde dell’Appennino e le valli aperte verso la pianura circumvesuviana e verso il Golfo di Salerno ed ha invaso larghi tratti della pianura fino a risalire le falde orientali del Vesuvio.

    La produzione del nocciolo si è quasi triplicata in un trentennio, a causa soprattutto delle limitate spese d’impianto, dei bassi costi di coltura e degli alti prezzi del prodotto. La Campania destina al nocciolo circa 10.000 ha. e fornisce il 75% della produzione nazionale di nocciole, per i tre quarti dalla provincia di Avellino e per il resto da quelle di Napoli e di Salerno.

    Il noce è un’altra pianta molto comune in Campania, per lo più in coltura promiscua. La varietà più diffusa e pregiata, per la grossezza del frutto e per la leggerezza del guscio, è la Sorrentina, già coltivata sulle terrazze tufacee della famosa penisola ed ora più frequente solo sui pianori alti di essa (Agèrola, Massaquano, Santa Agata). Costituiva con le sue chiome, a rivestimento fogliare tardivo, il piano vegetativo sovrastante agli agrumi, insieme con gelso, olivo e vite; ma l’applicazione di una più moderna tecnica colturale ha determinato una graduale specializzazione degli agrumeti sorrentini e l’eliminazione da essi degli altri alberi.

    Il noce è largamente diffuso nella zona alla periferia dei rilievi vicini al Golfo di Napoli, nelle valli che intaccano il Preappennino e nella Piana di Salerno fino a Battipaglia, ad Eboli ed oltre. E presente anche nel Cilento ed altrove, ma con esemplari appartenenti a varietà meno pregiate. La produzione di noci della Campania è oltre la metà di quella nazionale e proviene per il 52% dalla provincia di Napoli.

    Tra gli altri alberi da frutta hanno maggiore importanza, per superficie occupata e per produzione, il loto, il pero, il ciliegio, il pesco e il melo. Il loto ha avuto grande fortuna negli anni scorsi, poi ha iniziato il declino, ma dà una produzione ancora cospicua, di circa mezzo milione di quintali, che corrisponde ai due terzi di quella nazionale. Il pero figura per lo più in coltura promiscua sui pianori e nelle valli, oltre che in pianura, e dà anch’esso una produzione di poco inferiore a mezzo milione di quintali, collocando la Campania al primo posto tra le regioni dell’Italia centro-meridionale. Il ciliegio dà una cospicua produzione, per la quale alla Campania spetta il primo posto tra le regioni d’Italia. Le conche e le valli interne, specie dell’Avellinese, danno i maggiori contributi alla produzione. Il pesco è pianta di diffusione recente. La sua coltivazione, sebbene praticata da lungo tempo, ha conosciuto solo negli ultimi anni, un grande sviluppo, in relazione con il moltiplicarsi dei veloci mezzi di comunicazione, che possono riversare in breve tempo sui mercati il suo deperibile prodotto. La Campania segue l’Emilia-Romagna e il Veneto nella graduatoria per regioni e fornisce l’ottava parte della produzione nazionale. La pianta si è andata diffondendo nei Campi Flegrei e nella pianura a nord di essi fino a pochi chilometri dai Regi Lagni e la produzione, cresciuta enormemente fino ad avvicinarsi ad un milione di quintali, rifornisce i grossi agglomerati della Campania e, in minore misura, delle regioni vicine. Napoli e Giugliano sono i due principali mercati, il primo per la frutta matura, il secondo per quella acerba, che è destinata in gran parte a Roma e ad altre città.

    Il melo è la coltura tradizionale, con varietà molto pregiate e saporite (annurche, limoncelle). È pianta a fioritura tardiva e cresce bene sui pianori, nelle valli interne e sui versanti esposti a nord, in coltura specializzata o promiscua con svariati altri alberi da frutta. Il Piano Campano sia nella zona più prossima ai Campi Flegrei, sia in quella alla base dei monti che gli fanno corona, è l’area di maggiore diffusione; ma anche le valli dell’Avellinese e del Beneventano e la Piana di Salerno con i solchi che incidono le colline alla base dei Picentini, danno una notevole produzione. La Campania figura al quarto posto dopo Emilia-Romagna, Veneto e Trentino-Alto Adige per la produzione di mele, la quale si è triplicata nel corso dell’ultimo trentennio ed è di poco inferiore ad 1,5 milioni di quintali. Dopo la raccolta le mele annurche si lasciano sulla paglia a rosseggiare all’aperto e danno una certa vivacità ai frutteti spogli d’inverno.

    La produzione di frutta della Campania con gli agrumi, di cui si tratterà più avanti, ha un valore di oltre 46 miliardi di lire all’anno, pari a più della quarta parte del valore dei prodotti ricavati dalla coltivazione dei campi, ed acquista una importanza notevole anche per il commercio cui dà luogo e per l’utilizzazione industriale che se ne fa.