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Lingua, dialetti e letteratura dialettale

    Lingua, dialetti e letteratura dialettale

    La Campania ha conservato il primo documento in volgare (960) ed ha avuto una notevole letteratura dialettale, in alcuni periodi, come, ad esempio, nel secolo XIV, nell’età barocca, col famoso Lo cunto de li cunti di G. B. Basile, e nella seconda metà del secolo scorso con Salvatore di Giacomo.

    In essa hanno, d’altra parte, avuto i natali e si sono formati poeti illustri, quali Bernardo e Torquato Tasso, il Pontano, il Sannazzaro, il Marino, e scrittori di chiara fama, come Giordano Bruno, Giovan Battista Vico, Benedetto Croce, senza parlare dei numerosi giuristi, storici ed economisti.

    Il dialetto napoletano è la lingua comune della Campania e di alcune zone confinanti, e conserva un ricco corredo di parole d’origine greca e spagnola, ma alla periferia della regione risente gli influssi delle parlate vicine. Esso assume sfumature diverse dalle città alle campagne e da una classe sociale all’altra: è più armonioso nelle città e nelle terre che sono rimaste più legate a Napoli (Penisola Sorrentina) e diventa più gutturale nel Piano Campano.

    Residui della parlata provenzale non si rinvengono più in Campania e così sono stati completamente assorbiti i piccoli gruppi di Slavi e di Bulgari immigrati, mentre

    si conservano ancora tracce della parlata albanese a Greci, dove si insediò un gruppo di Albanesi nel secolo XVI.

    generi) o indeterminata (nu per il maschile; na per il femminile) e qualifica il sostantivo al singolare, dato che non servono a tale scopo le vocali finali fortemente attenuate. Al plurale invece la distinzione tra i generi avviene con la modificazione della vocale tonica, quando ammette confusione tra il maschile e il femminile.

    Caratteristico è in Campania l’indebolimento delle vocali finali, al contrario di quanto avviene in Calabria, in Lucania, in Puglia e altrove, per cui nelle parti periferiche della regione si sente l’influenza delle parlate di quelle vicine (sole = sole diventa suli nel Cilento; neve suona nivi). L’indebolimento della vocale finale determina l’allungamento della vocale precedente o la sua trasformazione in vocale aperta e in dittongo (piettè — petto; cuollè = collo) e porta talvolta a stringerla (meta-fonia), per formare il plurale (mese al singolare; mise al plurale) o per indicare un genere diverso (chellè = quelle; chillè = quelli; chestè = queste; chistè — questi).

    Talvolta sono le consonanti iniziali ad attenuarsi (vocca per bocca; véverè per bere) o a rafforzarsi (bbenè; bbellè). Comune è anche il passaggio dalle dentali alle liquide (rurècè = dodici ; renare = denaro) per influenza umbro-sabina. Nel Cilento invece si ha il passaggio della doppia l napoletana in doppia d (chillè in chiddi) per influenza calabrese o pugliese.

    La g si trasforma in j e quindi gennaio si muta in jennarè, gatta in jattè, ma al plurale spesso si rafforza (ggattè = gatte ; ggallinè = galline, ma nel Cilento gad-dini). Il rafforzamento della consonante iniziale è in relazione con il genere neutro (o ffierré— il ferro; ma ofierrè per indicare l’arnese o il ferro del mestiere). Il gruppo consonantico latino fi è reso con se nel Napoletano, con ju nel Cilento (sciummè e jummo = fiume).

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    La vocale e risulta spesso aperta, mentre in toscano è chiusa (vére = vero ; varchèttè = barchetta), o chiusa mentre in toscano sarebbe aperta (martiéllè = martello). Queste differenze fonetiche rispetto al toscano fanno sì che la lingua italiana sulla bocca dei Napoletani risenta di una certa influenza dialettale, perchè i docenti si sottraggono dal rispettare le rigorose regole di fonetica della vera lingua italiana e gli studenti non si abituano alla buona pronuncia. Ciò avviene, invero, anche nelle altre regioni d’Italia, con sfumature diverse, e non può costituire accusa per i Napoletani, a meno che non sia estesa agli abitanti di tutte le altre regioni d’Italia o di alcune province della Toscana stessa.

    Il dialetto napoletano, specie sulle terre che fanno corona al Golfo Partenopeo, è senza dubbio più armonioso, e il linguaggio diventa gaio e faceto sulla bocca delle persone più evolute. La letteratura dialettale vanta, come forse nessun’altra al mondo, un patrimonio di canzoni di fama internazionale, che sono scaturite dall’anima del popolo e ispirate dalle straordinarie bellezze della natura.

    Il canto è una delle manifestazioni più spontanee e comuni di questo popolo sin dai tempi più antichi, se Ulisse, già conscio del pericolo che i suoi compagni ne restassero ammaliati, volle non rinunziare alla gioia di ascoltarlo e riservare conseguentemente solo a sè il tormento di non poterne prolungare la durata, sospinte le navi dai venti freschi verso i patrii lidi e resi i compagni insensibili ai suoi flebili richiami.

    La tarantella è l’espressione tipica della gioia del vivere del popolo campano e si distingue per l’andamento rapido del ritmo che regola la danza, per le sue sfumature artistiche e per un notevole contenuto folcloristico. Alla danza si accompagna spesso il canto, col quale si esprimono particolari stati d’animo e situazioni sentimentali. La tarantella si fa risalire alle mitiche Sirene, ma l’associazione del canto al ritmo pare abbia un’origine molto più recente. Dal secolo XIII, infatti, gruppi di popolani avrebbero cominciato a riunirsi per divertire il popolo, con l’improvvisazione di musiche e di canti, traendo motivo da particolari avvenimenti e da amori reali o immaginari.

    Il periodo aureo della canzone napoletana comprende gli ultimi decenni del secolo scorso e i primi del nostro ed è stato dominato da illustri personalità, quali Salvatore di Giacomo, Vincenzo Russo, Luigi Turco e, più tardi, E. A. Mario. L’amore ha ispirato melodie appassionate, parecchie delle quali conservano una grande freschezza, e molte sono le donne a cui esse sono state dedicate, allegre e pensierose, belle e vanitose, fedeli e traditrici.

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    Tra i nomi di donna più cari ai nostri poeti è senza dubbio quello di Maria e tra le canzoni dedicate alla propria innamorata un enorme successo ha conseguito Maria Mari di Vincenzo Russo (1899), che è annoverata tra le più melodiose ed esprime il desiderio dell’innamorato di vedere la donna dei suoi sogni affacciata alla finestra e la sua speranza di dormire una notte abbracciato con lei. Il mese delle canzoni è maggio, il più bello dell’anno, perchè prelude alla stagione calda e a quella dei canti e delle feste. E il mese in cui i cuori degli innamorati pulsano più forte e i canti sono più appassionati, come prova la notissima melodia Na sera e maggio.

    Il popolo esprime, attraverso la canzone, i dolori e le gioie e la sente come una necessità quotidiana, di cui non può fare assolutamente a meno. La radio e la televisione hanno contribuito efficacemente al soddisfacimento di questo bisogno, più urgente di qualsiasi altro, che gli consente di superare le difficoltà e di sorridere pur nell’indigenza. Ne sono una prova il gran numero di apparecchi televisivi e di radio nelle baracche dei senza tetto e nei bassi della città.

    I Napoletani amano la loro terra, la loro città, con le sue strade, i giardini, i dintorni, il mare e il cielo, e non se ne allontanano senza grande nostalgia e rimpianto e senza il desiderio vivissimo di ritornare. Il loro paradiso è là, sulle sponde del Golfo di Napoli, per cui — in una nota canzone — chiedono venia a San Pietro e a Dio se essi non sentono il desiderio del Paradiso Celeste e sono paghi di quello nel quale sono nati e cresciuti.

    II pianto di coloro che emigrano in cerca di fortuna ha trovato in una canzone di E. A. Mario (1920), Santa Lucia luntana, l’espressione più vera ed efficace; in quanto « la disperata nostalgia degli emigranti diventa canto pieno, vibrante, solenne come una preghiera » (Sarno).

    Fatti e avvenimenti importanti hanno trovato un appropriato posto nel patrimonio canoro napoletano. L’inaugurazione della funicolare per il Vesuvio suggerì al Turco

    la canzone di Funiculì funiculà (1881), il cui motivo si diffuse da un estremo all’altro del mondo, conseguendo un successo che dura tuttora; all’impresa d’Africa della fine del secolo scorso è legata Africanella; il secondo dopoguerra ha originato varie canzoni allegre e sentimentali, di cui non poche pregevoli.

    Le terre intorno al Golfo Partenopeo, con i piccoli golfi, con i giardini profumati, con l’incantevole bellezza dei loro paesaggi hanno ispirato centinaia di poeti, che hanno tradotto in versi e musica le loro emozioni ed arricchito di intramontabili melodie il patrimonio canoro di Napoli e del mondo intero. Senza indugiare sulle pur numerose e pregevoli canzoni dedicate alle isole e alla Penisola Sorrentina, tra le quali non ci possiamo astenere dal ricordare Scalinatella (1948), in cui l’autore trae motivo dalle note rampe di Capri per rievocare il dolore per il perduto amore, e Torna a Surriento (1904), delicata melodia, derivata dalla contemplazione di un placido mare, in cui si specchia la gemma della sua penisola dall’orlo di una terrazza rivestita di floridi giardini di olezzanti aranci.

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    Capodimonte ed i Camàldoli, Santa Lucia e Posìllipo, con i parchi e le ville, hanno stimolato di più la fantasia del popolo e dei poeti; ma sono soprattutto i pic-

    coli specchi eli mare di Santa Lucia, di Mergellina, di Marechiaro, borghi di pescatori, ricchi di vita marinara e di folclore, ad esercitare un fascino irresistibile. Il quotidiano lavoro dei pescatori e la loro semplice vita hanno trovato adeguata illustrazione in Piscatore e Pusìlleco (1925), che ripete con note melodiose il lento dondolio delle barche in un mare illuminato dalla luna.

    La luna di Napoli non trova l’uguale in altre parti della terra. Essa appare d’improvviso, già alta nel cielo sereno, da dietro i monti ed ha sin dal sorgere il colore argenteo. Napoli non conosce le tonalità arancioni di quest’astro, che adorna il suo cielo, che illumina il suo mare e dà risalto alla vita dei suoi piccoli golfi e dei borghi sorti presso la riva. L’anima di Salvatore Di Giacomo ha sentito il potente fascino di Marechiaro in una notte di luna (A fenestella e Marechiaro) e meglio di chiunque altro è riuscito a tradurre in canto l’estasi che ha provato al sorgere di quell’astro d’argento, tanto caro agli innamorati e tale da fare innamorare anche i pesci.

    Il mare è parte fondamentale e preminente del paesaggio e influisce su molte manifestazioni della vita dei Napoletani, i quali ne sentono la presenza anche quando non vi sono direttamente a contatto. Sulle sue sponde vi sono stazioni di gioia e di dolore, di riposante tranquillità e di malinconica attesa. Al mare è dedicata la prima canzone napoletana di cui si abbia notizia, ad esso si sono ispirati in tutti i tempi moltissimi autori di canzoni, facendo spesso alta poesia, oltre a melodie famose.

    A completamento di questa breve rassegna si deve ricordare che Napoli stessa, con le sue strade strette e con i suoi balconi, così piene di vita e di folclore, ha dato a parecchi canzonettisti lo spunto per pregevoli componimenti melodici, tra i quali si distingue O paese d’o sole, in cui Libero Bovio ha trasfuso l’ammirazione e l’amore perla sua terra. Forse non c’è altra parte del mondo in cui l’Uomo sia talmente inserito nell’ambiente geografico e ne risenta un sì profondo influsso nelle manifestazioni della sua vita materiale e spirituale.