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Storia della popolazione nel Lazio

    La popolazione del Lazio

    L’aumento della popolazione dall’età romana al 1871

    Si è visto che l’uomo è antichissimo abitatore del Lazio, ma è estremamente diffìcile calcolare, anche approssimativamente, la popolazione dell’attuale regione nelle epoche passate, anteriormente al secolo XVI. Se si ritiene, secondo i computi del Beloch, che il territorio romano potesse avere, al tempo della guerra annibalica, una densità di 40 ab. per kmq., ne risulterebbe per la nostra regione una popolazione di poco inferiore a 700.000 ab.; senonchè il valore su accennato per la densità è ammissibile forse per le aree pianeggianti e collinose, ma è indubbiamente troppo elevato per il Lazio montano, la Sabina, ecc.

    Si sa che al tempo di Augusto, esattamente nel 28 a. C., fu fatto un censimento, ma sull’interpretazione dei dati che ne abbiamo gli studiosi moderni sono discordi anche per la stessa Roma: intorno al valore medio di un milione (che si trova spesso indicato per quell’epoca) si oscilla fra un massimo di un milione e un quarto (Oates, 1934) e un minimo di 700.000 ab., compresi gli schiavi (Gerkan, 1940). Per le altre città del Lazio vi è una estrema penuria di dati attendibili, mentre per l’entità della popolazione delle campagne manca quasi ogni indizio. Se ci si azzardasse ad accettare, per il periodo del primo Impero, il valore di un milione e mezzo di abitanti, ciò potrebbe valere solo come indicazione dell’ordine di grandezza.

    Per l’epoca del più tardo Impero le congetture sono ancora più vaghe, e per quasi tutto il Medio Evo si può dire che si brancoli nel buio; molti fatti stanno tuttavia ad attestare che il territorio laziale, come altre parti d’Italia, subì un depauperamento demografico: per Roma la congettura può considerarsi sicura; ma certo, o probabile, è anche che il deperimento si verificò attraverso alternative di ripresa.

    Per la fine del secolo XIII e la prima metà del secolo XIV si desume, per lo meno, una rappresentazione della distribuzione delle località del Lazio, dalle Rationes deci-marum delle quali si hanno elenchi più o meno completi; dalle quote delle decime corrisposte possiamo farci anche una idea molto approssimata della entità demografica. Ma per nessuno degli anni, nei quali furono riscosse le decime (biennali o triennali), si posseggono elenchi completi per tutte le diocesi del Lazio: una cifra di 250.000 ab. può pertanto indicarsi solo come congetturata.

    Il periodo della così detta « Servitù Avignonese » determinò una profonda decadenza, anche demografica, per Roma che, al ritorno del papa Gregorio XI (1377), non avrebbe avuto più di 17.000 ab. (di contro a 35.000 all’epoca di Innocenzo III); quanto la decadenza incidesse anche nel resto del Lazio, non si può accertare con sicurezza.

    A partire dalla metà circa del secolo XV è possibile dedurre qualche buon elemento dal valore dell’imposta obbligatoria sul sale; ma solo per il 1503, sotto Giulio II, si hanno su tale imposta dati alquanto sicuri, anche se non completi. Questi dati, discussi dal Beloch, conducono, con opportune correzioni ed integrazioni (1), ad attribuire al Lazio, nei confini attuali, circa 225-250.000 ab. cui sono da aggiungere quelli di Roma, che poteva avere circa 50.000 abitanti.

    Il sacco di Roma del maggio 1527 portò, come si vedrà in altro capitolo, un grande colpo alla città, ma presumibilmente colpì meno gravemente il Lazio.

    Il primo censimento regolare fu eseguito nel 1656 in tutto lo Stato Pontificio e ne abbiamo i dati pressoché completi (esclusi i bambini sotto i tre anni, che si possono calcolare a circa un decimo della popolazione totale) ; tenuto conto che mancano i dati di alcune diocesi, si arriva per le cinque province in cui si divideva allora la regione (Lazio, Sabina, Patrimonio, Campagna e Marittima) ad un totale di circa 325.000 ab., cui sono da aggiungere quelli della città di Roma, in numero di quasi 125.000. Ma è da notare che il censimento fu fatto durante la terribile pestilenza che infierì in maggiore o minor misura in tutta l’Italia e in modo grave anche a Roma e nel Lazio: prima di essa, verso il 1650 dunque, la popolazione totale della regione doveva essere non lontana dal mezzo milione.

    A questa cifra bisogna peraltro aggiungere quelle dei due territori oggi inclusi nel Lazio amministrativo che allora facevano parte del Regno di Napoli, per i quali non possediamo dati contemporanei, ma solo una «situazione di fuochi» del 1669: per i territori meridionali (Sora e dintorni, Val di Cornino, bassa valle del Liri, Fondi, Gaeta e dintorni, ecc.) si debbono calcolare intorno a 50.000-60.000 ab.; per i territori abruzzesi (Amatrice, Leonessa, ecc.) forse 15.000 abitanti. Si arriverebbe così ad un totale di 560-575.000 abitanti.

    Questa breve disamina, che, per non tediare il lettore, rinunziamo a complicare con ulteriori rilievi particolari, mostra se non altro quanto complesso sia il problema di ottenere valori anche solo approssimativi della popolazione per i secoli passati. Nella tabella a pagina seguente si riportano ad ogni modo anche i dati desunti da altre fonti, diverse dal Beloch.

    Durante il secolo XVIII abbiamo cinque censimenti, effettuati rispettivamente nel 1701, nel 1708, nel 1742, nel 1769 e nel 1782. Per il 1701 le cifre ufficiali, rettificate dal Beloch, darebbero circa 371.500 ab. nelle province; la popolazione di Roma si può calcolare di 142.000 ab. (erano 138.500 nel 1693), in totale perciò gli abitanti della regione erano circa 515.000 (esclusi i territori napoletani). L’aumento assai lieve, rispetto al 1656, potrebbe trovare la sua spiegazione nel fatto che le conseguenze della pestilenza si fecero sentire — nel campo demografico — anche nel periodo successivo alla gravissima epidemia. Tali conseguenze determinarono ancora negli anni seguenti leggeri aumenti nella popolazione della regione laziale: nel 1708 i dati del Beloch danno appena 373.500 abitanti.

    Per il 1742 si calcolano circa 419.000 ab. nelle province e 155.000 a Roma, in totale circa 575.000; per il 1782 circa 462.000 ab. nelle province e 165.000 a Roma, in totale oltre 625.000. A tutte queste cifre debbono aggiungersi sempre quelle dei territori appartenenti al Reame di Napoli. In tutto questo periodo vi fu dunque un incremento, or più or meno notevole.

    Coi tre censimenti pontifici del secolo XIX siamo in terreno più solido. Il censimento del 1816 vede la popolazione diminuita a circa 605.000 ab., dei quali 128.000 a Roma : la notevole diminuzione è conseguenza — qui come altrove in Italia — degli avvenimenti connessi con la Rivoluzione francese e con le guerre napoleoniche (a Roma furono censiti nel 1812 meno di 118.000 ab., cioè il più basso valore dalla metà del XVII secolo in poi). I due censimenti successivi ebbero luogo nel 1833 e nel 1853.

    La popolazione dal 1871 ai giorni nostri

    Dopo l’annessione di Roma all’Italia fu effettuato subito (1871) un censimento regolare in tutto il Regno ; seguirono, come è noto, censimenti regolari ogni decennio, con eccezione del 1891, e perciò nel 1881, nel 1901, nel 1911, nel 1921, nel 1931. Sotto il passato regime si era stabilito che i censimenti dovessero effettuarsi ogni cinque anni; e perciò si ebbe ancora un censimento nel 1936; poi, dopo la seconda guerra mondiale, si effettuarono i due censimenti del 1951 e del 1961.

    Si deve avvertire peraltro che dal 1871 in poi i censimenti non furono eseguiti sempre nello stesso giorno : dapprima fu scelto il 31 dicembre, ma in seguito un censimento fu eseguito in febbraio, uno in giugno, due (1931-1936) il 21 aprile e i due ultimi furono eseguiti rispettivamente il 4 novembre e il 15 ottobre. Trai vari censimenti non intercorrono perciò intervalli uniformi e i dati non sono esattamente paragonabili.

    La seguente tabella fornisce i dati della popolazione del Lazio secondo i due ultimi censimenti pontifìci e secondo tutti i successivi fino al 1961. Fino al 1921 i dati escludono i comuni del Reatino e del Casertano, ma tra parentesi si è aggiunta, per confronto, la cifra approssimativa che risulta includendo anche questi ultimi.








    Anno

    Popolazione

    Anno

    Popolazione

    1833

    672.101 (705.000)

    1921

    1.894.046 (1.997.046)

    1853

    765.789 (805.000)

    1931

    2.348.392

    1871

    1.161.771 (1.211.371)

    1936

    2.654.924

    1881

    1.198.260 (1.256.910)

    1951

    3.340.798

    1901

    1.516.172 (1.585.939)

    1961

    3.958.957

    1911

    1.694.150 (1.770.870)

    Si deduce da questa tabella che, prescindendo dal primo ventennio che vede un aumento molto lento, dal 1853 al 1961, cioè in poco più di un secolo, la popolazione si è moltiplicata di circa cinque volte. Ma questo straordinario incremento si è verificato in misura molto disforme nei vari periodi : poco più di 24.000 in media all’anno nel periodo 1853-71 e ancor meno nel decennio successivo all’annessione, poi con graduale ritmo più rapido fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Fattore essenziale, anzi preponderante, è stato il comportamento demografico della città di Roma, soprattutto in taluni periodi; ad esempio, nel decennio dopo l’annessione, l’aumento è dato quasi soltanto dalla città di Roma e da alcune località del suo antico circondario, la cosiddetta Comarca. Durante il primo, e più durante il secondo conflitto mondiale, esodi ed affluenze si sono alternati a Roma; dalla fine del secondo conflitto il richiamo dell’Urbe si è fatto sempre più poderoso. Roma, con la sua provincia, nel 1911, rappresentava il 47% della popolazione laziale; nel 1961 il 70% circa della popolazione laziale risiede a Roma e nella sua provincia. Ma di ciò diremo più a lungo nel capitolo destinato particolarmente a Roma.

    Qui, anche senza scendere a molti particolari, è opportuno procedere, sia pur brevemente, dalla considerazione del movimento della popolazione nell’intero Lazio, ad un più particolare esame di esso nelle varie parti della regione, esame che limiteremo tuttavia al cinquantennio decorso fra i due censimenti del 1901 e del 1951, aggiungendo alcuni cenni sul decennio 1951-61.

    Movimento della popolazione nel periodo 1901-61

    Per quanto riguarda l’incremento percentuale (che in quell’intervallo fu, come media dell’intero Lazio, del 145% circa) il massimo è presentato, come è ovvio, dalla provincia di Latina, che prima del compimento della bonifica pontina aveva vaste aree del tutto spopolate; la popolazione complessiva è ivi più che raddoppiata nel cinquantennio. La provincia di Roma (esclusa la città) accusa un incremento del 62% circa; le due province di Viterbo e Frosinone si comportano in modo analogo (con un aumento che è rispettivamente del 32 e del 37%), in profondo contrasto con la provincia di Rieti nella quale l’incremento della popolazione non arriva al 10%. Nel decennio 1951-61, la popolazione diminuisce nella provincia di Rieti di ben il 10% e l’area di depauperamento demografico si estende anche alla provincia di Frosinone (circa il 7%), mentre l’aumento percentuale maggiore si registra nella provincia di Roma (29%); in quella di Latina è quasi del 13%, in quella di Viterbo è solo del 2%. Si noti pure che, fra il 1951 e il 1961, mentre l’incremento medio della regione laziale è stato del 18,5%, quello dell’intero Paese è stato pari al 6,5%. La carta a pagina seguente si riferisce al cinquantennio 1901-51 offrendo un’immagine più particolareggiata del movimento della popolazione nei vari settori del Lazio : essa suggerisce qualche commento che verrà completato con alcuni cenni sulle successive variazioni del decennio 1951-61.

    Lo sviluppo recente di Roma: un contrastante aspetto del quartiere Nomentano.

    Variazioni demografiche tra il 1901 e il 1951

    La grande area di incremento è quella marittima e submarittima, dai confini settentrionali del Lazio fino a Terracina. L’incremento è già notevole nei comuni della provincia di Viterbo, che superano il doppio della media provinciale (aumento del 95% a Montalto di Castro, del 75% a Tarquinia) e cresce rapidamente verso sud, raggiungendo punte superiori al 300%, fino al 500%. Appare così, con impressionante evidenza, uno dei fenomeni più importanti che il Lazio presenti in campo demografico. Come è ben noto e come già si è accennato, esso è l’effetto non di un semplice « richiamo del mare », ma delle grandi opere di risanamento e di bonifica integrale, che hanno trasformato aree prima vuote o quasi di abitanti stabili, in plaghe disseminate di popolazione sparsa, di nuclei e anche di centri notevoli. Le attività marinare vere e proprie hanno avuto in complesso — a differenza che in altre zone marittime d’Italia — importanza minore: primeggia in ogni modo tra esse l’attività balneare, seguono il traffico marittimo (Civitavecchia) e la pesca. L’opera di trasformazione cui si è accennato comprende parte della Maremma Laziale (bonifica di Maccarese), l’Agro Romano, e in prima linea la regione Pontina. Qui, ad esempio, nell’area dell’attuale comune di Latina, non vi erano nel 1901 forse più di 200 ab.; il censimento del 1951 ne ha trovati oltre 35.000; quello del 1961, oltre 49.300. E pure notevolissimo è l’aumento della popolazione nei recenti centri di Aprilia e Pomezia per il sorgere di industrie. La popolazione totale dei due comuni è passata da 13.000 ab. ( 1951 ) a 26.400 nel 1961.

    Per il comune di Roma l’incremento è dovuto naturalmente in massima parte alla città, ma pur sottraendo questa il fenomeno rimane assai manifesto, come altrove si dirà. Per riflesso di Roma, e per cause concomitanti, molto notevole appare l’aumento dei comuni circostanti a nordest (Mentana ha più che triplicato la sua popolazione dal 1901 al 1951 e nell’ultimo decennio è passata da 6400 ab. circa a oltre 10.500) e di quelli tra i comuni laziali rivolti al mare. Il caso di Guidonia, centro di attività industriali o assimilate, sorto (1935-37) in area dove non era che un modesto comune agri-colo-pastorale (Montecelio), sta a sè ed ha un riscontro in Colleferro, il maggior centro industriale del Lazio sviluppatosi in un’area pochissimo popolata appartenente in passato ai comuni di Roma e Valmontone. In questi due comuni l’aumento è continuato intensissimo anche nell’ultimo decennio: Guidonia è passata da circa 13.000 a oltre 22.000 ab. e Colleferro da 10.000 a 15.000. Lo sviluppo delle industrie ha portato ad un altissimo aumento della popolazione anche a Monterotondo nell’ultimo decennio (da 10.165 ab. a 15.674). Anche nella zona dei «Castelli Romani» l’incremento continua nel decennio 1951-61 (Velletri da circa 35.000 raggiunge i 40.000 ab., Albano da 14.775 passa a circa 19.700, Frascati da poco più di 13.000 a circa 15.800; Grottaferrata, che aveva già triplicato la popolazione, passa dai 6700 ab. del 1951 ad oltre 8500 nel 1961).

    Continuando l’esame della cartina colpiscono, di contro alle aree di massimo incremento, quelle che mostrano una stasi demografica o aumenti debolissimi, come alcune della regione vulsinia, con qualche accenno di diminuzione (Onano ha perduto nel cinquantennio un decimo della popolazione, e nel periodo 1951-61 la riduzione è stata ancora del 14,2%). Nel decennio 1951-61 il fenomeno si accentua e la diminuzione (dal 4,7% fino al 16%) si estende a comuni anche fra i maggiori: così, ad Acquapendente (da oltre 7100 a meno di 6800), Bagnoregio (da circa 5000 a meno di 4500), Valentano (da 3800 a 3200). La diminuzione in questo stesso decennio interessa anche quasi tutti i comuni della zona dei Monti Cimini (ad es., Capranica, Ronci-glione, Soriano, Vetralla, che passa da 9800 a 9620 ab.), ma non quelli di alcuni settori dei Monti Sabatini (Oriolo Romano, Monterosi) ; colpisce ancora la stessa Orte, in Val Tiberina, dove la popolazione cala da 9623 ab. a 8186. Già nel cinquantennio in alcuni comuni a confine col Napoletano si nota una stasi demografica, anzi Santi Cosma e Damiano è in forte decremento e questo continua anche nel decennio 1951-61 (da 3148 ab. a 2882), durante il quale l’area in diminuzione si è estesa anche ai vicini territori di Castelforte e Spigno Saturnia che non includono zone di bonifica e si estendono sui Monti Aurunci.

    Variazioni demografiche tra il 1951 e il 1961.

    Ma conviene ora dare uno sguardo alle aree in decremento che formano, come la carta mette in vista, una fascia pressoché continua alla periferia montana e submontana del Lazio. Essa si inizia coi comuni che, per il complesso delle loro caratteristiche fisiche e antropiche, possono designarsi come «abruzzesi »: il massimo ci è presentato da Leonessa che ha perduto, nel cinquantennio considerato, il 37% della sua popolazione; nel decennio 1951-61, è ancora scesa da 5168 ab. a 4451. Ma il decremento interessa anche molti comuni non propriamente montani della provincia di Rieti, tra i quali tutto il blocco dei comuni meridionali; e non è compensato che in modesta misura dairaumento del capoluogo e di alcuni comuni tiberini. Nel decennio 1951-61 la diminuzione si estende a tutti i comuni della provincia di Rieti: è stata del 12,4% nelle zone montuose, ma ha toccato il 23% nell’alta valle del Velino e del Tronto e il 25% nel comune di Amatrice. Notevole è stata ancora la diminuzione nella valle del Turano con una punta massima di decremento (34%) a Paganico. Nell’altopiano di Leonessa si è avuta una flessione del 14% ed identica è stata nelle valli del Salto e del Velino. Sensibile anche la flessione in alcuni comuni nella zona di collepiano del Tevere ed in altri comuni del montepiano reatino con decrementi fra il 2 ed il 6%. Fanno eccezione solo il capoluogo, che passa da 33.241 a 35.441 ab., e pochi altri comuni come Stimigliano, Fara Sabina e Forano. L’area di decremento reatino si continua senza soluzione di continuità nei comuni montani della provincia di Roma, tra i quali, nel cinquantennio 1901-51, Percile ha perduto più della metà della sua popolazione, Saracinesco quasi due terzi, Cervara di Roma quasi la metà, Filettino (che è in provincia di Frosinone) il 60%! Il confronto fra gli ultimi due censimenti non fa che sottolineare il fenomeno, che si estende a tutto il gruppo dei comuni del settore tra i Monti Simbruini e Prenestini: Affile, Arcinazzo, Olevano, Genazzano (da 5392 a 4836) e la stessa Subiaco (da 9178 a 8595).

    La carta di pag. 216 mostra una interruzione dell’area di decremento corrispondente alla valle del Liri e regioni finitime, ma nell’ultimo decennio la diminuzione di popolazione si è estesa anche a questi comuni, compresi i maggiori come Sora (dove la popolazione è diminuita, sebbene di poche unità) e Arpino (da 10.380 a 8380), e a quelli dell’ampio solco pianeggiante percorso dal Sacco e dal basso Liri, come Ceprano (da 8812 a 8030), Pontecorvo (da circa 13.400 a 12.240) e, a monte di Frosinone, Ferentino (da 16.328 a 15.794). Decrementi elevatissimi presentano poi vari altri comuni della Ciociaria: Ausonia (del 60%), Strangolagalli (44%), Terelle (25%), S. Donato Val di Cornino (20%), Vicalvi (19%), ecc.

    L’area di decremento si prolunga, come mostra la carta, fin dal cinquantennio 1901-51 nei comuni del versante laziale del massiccio della Meta, con un massimo a San Biagio Saracinisco che ha perduto quasi un terzo della sua popolazione.

    Un’altra area di parziale decremento appare nella regione lepina, dove otto comuni sono in decremento (Falvaterra ha perduto quasi un quarto dei suoi abitanti), altri in aumento lievissimo. Fanno eccezione quei comuni che si estendono su territori di pianura popolati in seguito alla bonifica pontina, ma appena ci si inoltri sulle pendici della montagna il confronto dei due ultimi censimenti mette in evidenza l’allargarsi del fenomeno della diminuzione di popolazione: anche a Sezze dai 18.400 ab. circa del 1951 si è scesi a 17.800 nel 1961.

    Una parola si deve dire anche dei comuni nelle Isole Ponziane, tra i quali mentre Ponza è in aumento lievissimo, Ventotene ha invece visto una diminuzione del 34%. Nel decennio 1951-61 la popolazione è diminuita anche a Ponza. Qui si tratta di comuni a densità altissima (Ventotene 690 ab. per kmq. al 1961), da considerarsi perciò come sovrapopolati, fenomeno frequente anche in altre isole italiane. La stessa spiegazione può addursi per spiegare la stasi demografica di taluni comuni del contiguo litorale, come Gaeta, densissimamente popolata: nell’ultimo decennio peraltro la

    popolazione di questa città è passata da circa 18.400 ab. a quasi 20.600. Invece in tutte le zone montuose del Lazio senza eccezione (salvo solo il settore dei Colli Albani) la popolazione diminuisce in modo sempre più preoccupante.

    Lo spopolamento della montagna laziale

    Il fenomeno dello « spopolamento montano » limitato ai comuni di vera e propria montagna si è manifestato già da alcuni decenni e fu oggetto di una vasta inchiesta, eseguita prima della guerra ed estesa anche ai comuni montani del Lazio. A proposito di esso alcuni altri fatti meritano di essere accennati. Anzitutto che il fenomeno ha solo parziali e deboli precedenti nel secolo XIX, come risulta dai primi censimenti del Regno d’Italia; la maggior parte dei comuni depauperati dal 1901 in poi (specie quelli del Reatino), sono in incremento nel periodo immediatamente precedente. Così Leonessa e Filettino, i due comuni laziali maggiormente depauperati, avevano nel 1871 rispettivamente 5451 e 1458 ab. e nel 1901, 8323 e 2532 abitanti. Nel secondo anzi l’incremento continua fino al 1921: il deperimento demografico interessa dunque solo gli ultimi 40-50 anni e questo fatto si riscontra anche altrove, per esempio nei comuni alle falde della Meta (San Donato Val di Cornino, San Biagio Saracinisco). Il periodo 1901-n presenta in generale nel Lazio, come altrove in Italia, un notevole incremento demografico — per la diminuita mortalità infantile, per l’attenuarsi del grande flusso dell’emigrazione transoceanica — e questo periodo si prolunga anche di regola fino allo scoppio della prima guerra mondiale.

    Si noti ancora che i dati su cui ci basiamo sono quelli della popolazione residente; per i censimenti eseguiti nei mesi invernali, i presenti sono in genere in numero minore perchè molti vanno a Roma o altrove ad esercitare vari mestieri per integrare i magri proventi che offre il paese nativo. Il censimento del 1911, che fu invece eseguito il 10 giugno, ci dà spesso un quadro apparentemente anomalo perchè dà come presenti, molti di coloro che nei mesi invernali sono temporaneamente assenti.

    Il decremento, nella prima metà del secolo, non ha in ogni modo avuto dovunque carattere di continuità, ma il confronto dei dati degli ultimi due censimenti, come sopra si è visto, mostra che è divenuto ormai un fenomeno continuo, anzi sempre più rapido. Per alcuni paesi si può prevedere un abbandono completo : esso si è già verificato in piccoli centri o nuclei di montagna appartati, non raggiunti da strade.

    Non meno grave è il fatto che lo spopolamento si estende in modo da interessare territori non propriamente di montagna, ma piuttosto di alta collina, come è avvenuto nel Reatino, se pure in molti casi, scendendo dall’esame dei dati per comune a quello dei dati per frazioni e centri, si può osservare che la popolazione, se ha abbandonato in gran numero le sedi più alte e disagiate, ha disertato assai meno i centri meno elevati, più vicini ai fondivalli e alle maggiori strade di comunicazione. Il fenomeno dello spopolamento della montagna laziale si inserisce ormai in quello comune — se pure con vari aspetti — a tutte le zone montuose e collinose d’Italia, legato a problemi di ordine economico e sociale che investono l’intera agricoltura e le popolazioni dei settori rurali ; tuttavia, prima di accennare a questi aspetti più recenti, vale la spesa di utilizzare alcune delle osservazioni, frutto di uno studio molto accurato, dell’inchiesta di cui sopra si è detto e che per il Lazio fu pubblicata nell’anno 1937. Essa non ha fatto oggetto purtroppo l’intero Lazio, avendo esclusa ad esempio una buona parte della valle del Sacco e della montagna lepina, e si basa su dati che oggi appaiono sorpassati, derivando per la parte demografica dai censimenti 1921 e 1931, e per quella economica dal Catasto Agrario del 1929. Vogliamo tuttavia riferire le conclusioni cui è giunto il Cri-spolti, che ebbe affidato lo studio di questa regione. Per Saracinesco, uno dei paesi che con Filettino divide il primato dello spopolamento nel Lazio, egli così si esprime: « La popolazione presente è bensì indicata (nel censimento 1931) di 290 ab., ma quella residente è ancora di 505, perchè vi è fluttuazione di ritorni nella stagione dei lavori della terra. Durante l’inverno buona parte delle case sono chiuse e si riaprono al sopravvenire dell’estate. La superficie lavorabile, di fronte a quella di ha. 1084, è ormai meno di 400 ha. ; divisa in minuscole parcelle appartenenti ad altrettanti piccoli proprietari, più 0 meno ben definiti nella loro posizione giuridica, coltivatori diretti. E frequente la estensione delle parcelle di pochi metri quadrati. La massima estensione è di mezzo ettaro. Si coltivano, in alternanza con il riposo, il frumento e il granturco con produzioni miserrime. Né si vede la possibilità di aumentarle, data la povertà dei terreni e la difficoltà di adottare sistemi razionali di coltivazione.

    Paesi di montagna del Lazio: Cervara di Roma (m. 1053).

    Il suolo, non essendo in grado di dare sufficiente sussistenza alla popolazione, questa ha cercato e trovato altre vie per vivere. Vi è chi ha dimenticato il luogo natio e non è più tornato, ma molti ancora si sentono legati alla minuscola proprietà terriera e tornano al tempo della semina, della scerbatura e del raccolto, pure sapendo che ciò che ricavano non basta al loro sostentamento.

    A Roma, soprattutto a Roma, essi trovano occupazione, ove si sono dati, sull’esempio di alcuni che dopo la guerra accorsero primi alla capitale, al commercio spicciolo dei fiori. Molti dei fiorai nei pressi del Verano o di Piazza di Spagna, o altrove, sono giunti di lassù e vivono comodamente. Per parecchi il borgo fresco e salubre durante l’estate è luogo gradito di sosta dove le costumanze di una grande città sono per essi mantenute.

    Siamo in Saracinesco colla constatazione del caso tipico di un comune di montagna su cui la gente si riduce di numero perchè la terra non dà tutti i dì il necessario sostentamento, e quella che resta, mediante altre risorse trova di che vivere, ma non del tutto abbandona quella terra che le si mantiene ingrata… ».

    Ciò nondimeno, come nota lo stesso Crispolti, Saracinesco è un paese la cui popolazione gode di una relativa agiatezza. Lo dimostrano la pulizia delle strade, l’aspetto lindo delle case, se pur fedeli al tipo tradizionale, la separazione dei locali per il bestiame, che è alloggiato in capanne lontane dall’abitato, sotto la vigilanza di custodi, il decoroso vestire degli abitanti.

    Oggi le condizioni sono alquanto mutate: la bella strada rotabile e i servizi automobilistici giornalieri agevolano la possibilità degli abitanti di migrare temporaneamente a Roma, di mandare i giovani a frequentare le scuole a Tivoli, ma d’altro lato una nuova fonte di guadagno si è aggiunta con un buon inizio di attrezzature per soggiorno di villeggiatura estiva; nonostante questo la popolazione residente censita nel 1961 è stata di soli 180 abitanti.

    Un paese di montagna del Lazio: Saracinesco (m. 908).

    Per Jenne, un altro comune su cui si è particolarmente svolta l’indagine del Cri-spolti perchè è tra quelli con massima quota di spopolamento nel periodo 1921-31, le condizioni sono analoghe, con l’aggravante che la terra lavorabile si ragguaglia a poco più di un quinto della totale e che l’isolamento è ancor maggiore (la rotabile per Subiaco fu aperta solo nel 1935); la proprietà privata è ancor più sminuzzata. L’emigrazione temporanea dura più a lungo ed è data da pastori nella Campagna Romana, da terrazzieri, ecc. La popolazione presente nel 1921 (i° dicembre) era di 1601 ab. contro 2271 residenti, nel 1951 le due cifre erano 1009 e 1267.

    Come si è già detto la diminuzione di popolazione nei settori collinoso e montuoso del Lazio, cui fa contrasto il rapido e fortissimo incremento del centro urbano di Roma, quello di alcuni centri costieri e quello della fascia pianeggiante, là dove si dà compimento alle bonifiche con il sorgere di forme di agricoltura intensiva (come in certi settori delle province di Latina e Roma), si inserisce in un fatto più generale, che si riscontra ormai senza eccezioni in tutta la Penisola. Nel Lazio lo spopolamento della collina e della montagna (che in alcuni comuni si presenta contenuto per l’alto saggio di incremento naturale) è, per così dire, particolarmente favorito dalla presenza di un grande centro urbano di attrazione posto nella regione stessa, e per contro da condizioni di più grave disagio nel settore montano, che viveva di un’agricoltura spesso poverissima e dell’allevamento ovino legato alla transumanza. Il depauperamento demografico della montagna potrà essere frenato ma non è pensabile che possa farvi riscontro un ripopolamento vero e proprio. Prospettive migliori si possono prevedere per le regioni di collina, in particolare per le vallate più basse e meglio inserite nelle grandi direttrici delle comunicazioni, dove l’industria potrà integrare un’agricoltura rinnovata nei sistemi e nelle strutture (aziende agricole o di allevamento specializzate e orientate verso l’esportazione dei prodotti). Più difficili le condizioni nella montagna vera e propria, dove tuttavia un motivo di vita potrà essere l’attività turistica; questa non richiama però che modeste aliquote di popolazione stabile. Trasformazioni economiche e sociali, dunque, che potranno rinnovare il volto delle colline e montagne laziali e — ci si augura — far superare quel senso di abbandono e qualche volta di rovina che caratterizza ormai molti settori, particolarmente nelle montagne reatina, lepina ed ernica in genere, ma queste regioni avranno pur sempre una modesta densità di popolazione stabile.

    L’emigrazione all’estero e le correnti interne di migrazione

    I fatti ora brevemente esaminati conducono a trattare un argomento strettamente connesso, che per il Lazio ha grande importanza: quello deiremigrazione. Ma a questo riguardo è necessario fare una duplice distinzione: una prima, che può dirsi cronologica, in quanto in un periodo più antico prevale remigrazione per l’estero (anteriore al 1925 circa, intensificatasi poi di nuovo dopo la seconda guerra mondiale) e in un periodo più recente prevale l’emigrazione interna; una seconda distinzione che può dirsi spaziale, cioè in paesi nei quali prevalse sempre l’emigrazione interna, e in altri nei quali l’emigrazione all’estero fu sempre più intensa, magari associata a quella interna.

    Occupandoci dapprima deiremigrazione per l’estero, si deve anzitutto avvertire, come del resto è ben noto, che le statistiche che possediamo, di anno in anno, non sono fra loro paragonabili, perchè ora ci forniscono dati globali per il numero degli emigrati, ora, più spesso, distinguono fra emigrazione per l’Europa e paesi mediterranei ed emigrazione transoceanica, ora sì ora no permettono di seguire anche l’emigrazione interna, né sempre si può distinguere tra emigrazione temporanea e permanente.

    Come risulta da una tabella alla fine del volume, dal 1876 al 1940 emigrarono dal Lazio (esclusi i lembi allora appartenenti ad altre regioni), circa 280.000 individui, il che rappresenta un po’ meno dell’8% del totale degli emigrati dall’Italia; di essi meno di 60.000 erano diretti in Europa o paesi mediterranei, il resto oltre Oceano; gli emigrati oltre Oceano erano l’ 11,6% della totale emigrazione transoceanica dall’Italia.

    Da questa stessa tabella risulta che nel Lazio, come in altre regioni d’Italia, fino agli ultimi anni del secolo scorso, l’emigrazione all’estero fu minima — tra il 1876 e il 1900, meno di 16.000 in complesso — e che per contro il periodo di acme fu quello dal 1905 all’inizio della prima guerra mondiale (circa 142.000 in quel periodo, cioè 1’ii~I2% della totale emigrazione italiana), caratterizzato da una grande prevalenza deH’emigrazione transoceanica (oltre 120.000, cioè il 17% della totale italiana). Questo periodo era stato preannunziato da un incremento nel primo quinquennio del secolo. Un altro periodo di acme, ma molto meno intenso, si verifica tra il 1926 e il 1930, poi il fenomeno migratorio si assottiglia rapidamente per ben noti motivi di carattere generale. Riprende dopo la seconda guerra mondiale, ma la percentuale del Lazio rispetto al totale degli emigrati italiani è molto più modesta e non arriva al 10%.

    I paesi dai quali l’emigrazione data da più lungo tempo sono quelli del cantone montano che abbiamo denominato Lazio abruzzese: è quel gruppo di comuni oggi aggregati alla provincia di Rieti, ma che per questa come per altre caratteristiche sono in realtà da ascriversi piuttosto all’Abruzzo: ad esempio nel 1897 l’emigrazione (vera e propria) era già notevole ad Antrodoco, a Cittaducale, ad Amatrice e anche a Petrella Salto; gli emigranti si dirigevano nell’Argentina, nel Brasile, negli Stati Uniti. Questi ultimi cominciano negli anni successivi a prevalere, mentre l’emigrazione si estende ai paesi del Cicolano e contermini: Pescorocchiano, Fiamignano, Borgocol-lefegato (oggi Borgorose). Pescorocchiano vede partire nel 1901 oltre 400 individui su 5500 circa, quanti allora ne contava; Petrella e Fiamignano oltre 200. L’emigrazione continua in seguito e dilaga a Leonessa, ad Accumoli, a Posta e altrove. Petrella, nel biennio 1905-07, perde 350 ab. (su 4500); altre perdite gravi si registrano nel 1912-13. Stati Uniti in prima linea, poi Argentina e Brasile sono sempre gli stati di destinazione preferiti. L’emigrazione riprende intensa dopo la prima guerra mondiale, anzi infligge le maggiori perdite, ma essa è ormai prevalentemente migrazione interna che ha per mèta in prima linea Roma; relativamente modesta è la ripresa del flusso transoceanico ad Amatrice, Leonessa, Posta, Borgorose.

    Gli ultimi anni del secolo XIX vedono anche gli inizi dell’emigrazione da alcuni paesi ad ovest del Lago di Bolsena: Grotte di Castro, Latera, Gradoli, Valentano e Ischia di Castro; l’emigrazione è diretta oltre Oceano, ma anche in Germania, Francia, Austria. Nei primi anni del secolo nostro, pur senza assumere proporzioni molto gravi, si estende ad altri paesi vulsini ed ai limitrofi cimini: nel 1904 e anni seguenti danno contributi notevoli, oltre i paesi già nominati, Onano, Bagnoregio, Faleria, Corchiano, Acquapendente, Farnese, Caprarola; e anche Montefiascone, Soriano nel Cimino, Calcata, Fabrica di Roma, Vignanello, Gallese, Caprarola, Cellere. Gli anni fra il 1908 e il 1913 segnano qui il periodo acuto. Il notevole eccesso della natalità sulla mortalità basta appena a compensare la perdita per emigrazione: un piccolo paese come Calcata perde, nel biennio 1908-09, 100 individui su un totale di 900 ab. circa; tra il 1911 e il 1921 sono in decremento Bagnoregio, Bomarzo, Faleria, Farnese, Gradoli, Onano, Valentano. Purtroppo i dati che abbiamo non consentono maggiori precisazioni sulla direzione dell’emigrazione.

    Un po’ più tardiva è l’emigrazione dalla Sabina sudorientale (valli del Farfa, del Turano e paesi contermini); ma anche qui è difficile separare l’emigrazione vera e propria a carattere permanente da quella temporanea, diretta a Roma o nella Campania : a questa partecipano dal 1906 in poi i paesi di Palombara Sabina, Monteflavio, Mon-telibretti, San Polo, Vallinfreda, dove nel solo anno 1907 un decimo della popolazione abbandona il paese; Vivaro Romano perde un decimo dei suoi abitanti nel biennio 1908-09.

    Grossi contributi all’emigrazione, negli anni anteriori alla prima guerra mondiale, dànno Castel di Torà, Longone, Concerviano, Poggio Catino, Torricella in Sabina, Monteleone Sabino, Poggio Moiano, Nerola, ecc. Tutti questi paesi appaiono, tra i due censimenti 1911 e 1921, o in decremento o in stasi.

    L’emigrazione è ora diretta con assoluta prevalenza negli Stati Uniti: per dare un solo esempio, nel 1905, su 14.700 individui che (da tutto il Lazio) varcarono l’Oceano, 12.300 circa erano diretti agli Stati Uniti.

    Volgiamoci ora al Lazio meridionale, dove l’emigrazione transoceanica si presenta in assai più larghe proporzioni. Possiamo distinguere diversi gruppi di centri migratori. Il più importante è quello che può dirsi ciociaro, nel quale gli inizi si vedono negli ultimi anni del secolo scorso nei paesi posti alle falde dei Lepini e della valle del Sacco (Mordo, Supino, Pàtrica, Castro dei Volsci) ; ma è in parte emigrazione temporanea, in parte maggiore diretta oltre Oceano, in prima linea sempre negli Stati Uniti, poi nell’Argentina e nel Brasile.

    Nei primi anni del nostro secolo si assiste anche qui a un vasto dilagare del fenomeno: vi concorrono Alatri, Anagni, Ceccano, Ferentino, Véroli, Frosinone, Ripi. Nel 1905, che è un anno di punta, più di 600 ab. lasciano Ceccano, 636 Ferentino, cioè il 5% della popolazione, più di 400 Véroli e Frosinone; altri paesi meno popolati perdono pure in quel solo anno il 5% degli abitanti. Il flusso seguita negli anni seguenti: Ceccano nel biennio 1906-07 perde più di un decimo della popolazione. In parte essa è diretta in Europa, in parte maggiore oltre Oceano: negli Stati Uniti si formano vere colonie o villaggi di compaesani. Anche negli anni seguenti Ferentino dà un altissimo contributo: altri paesi si aggiungono, come Boville Ernica, Monte San Giovanni Campano, Ceprano, Guarcino, Amara, Giuliano, Collepardo.

    Per non tediare il lettore con troppe cifre, ne citiamo solo alcune relative agli anni 1913-14. Tra le località più importanti Alatri vede partire 1300 ab. e più, Anagni 650, Ceccano 1280, Ferentino, già dissanguato, 1550, Verdi 1500. Ma forse anche più grave è il fenomeno che colpisce comuni minori: Amara perde 300 ab. su 2450, Giuliano 550 su 2700, Guarcino poco meno di 600 su 2900, Pàtrica 550 su poco più di 3000. E si potrebbe continuare.

    Anche in questo caso i dati dei censimenti, per quanto da interpretarsi con cautela, ci dànno una parziale conferma segnalando una stasi demografica o un lentissimo incremento, nonostante l’alta natalità.

    Un altro centro di emigrazione, che del resto può considerarsi come una continuazione di quello ciociaro, è nella zona dei Lepini. Qui l’emigrazione sembra prendere consistenza notevole, nei primi anni del secolo, da Cori, Norma, Carpineto, Artena, ed anche qui dapprima con carattere temporaneo; ma presto si aggiungono Segni, Sezze, Montelànico, Terracina, San Felice Circeo; il piccolo paese di Roccamassima nel biennio 1906-07 perde un decimo degli abitanti. Gli anni che segnano le perdite maggiori sono anche qui i due prebellici 1912-13; da Cori ad esempio in quei due anni si allontana un decimo degli abitanti.

    Ancor più gravi sono le condizioni in alcuni paesi degli Ausoni e degli Aurunci, compresi alcuni dei marittimi.

    Dànno forti contributi Vallecorsa, Pàstena, Itri, Campodimele, Spigno Saturnia, Ausonia, Castelforte, e anche Fondi; ma in molti casi, non sappiamo dire in quale proporzione si tratti di migrazione interna. Da Formia, per la quale risulta pure un notevole depauperamento, abbiamo anche una parziale conferma dai censimenti 1901, 1911, 1921; ma all’emigrazione partecipano anche (in alta misura) Gaeta con Elena (1), ed ancora Itri e Minturno. Disgraziatamente per questo periodo le statistiche, come si è detto, non distinguono tra emigrazione propria ed emigrazione temporanea. E per questa ragione è difficile precisare quali siano le condizioni di Ponza, che, isola sovrapopolata rispetto alle risorse del suolo, mostra, nei soliti anni di punta, flussi ingenti di emigranti. Pescatori ponzesi hanno di fatto lasciato l’isola per stabilirsi in piccoli gruppi permanenti su tutto il litorale tirrenico, dal Napoletano fino al Promontorio Argentario, e anche in Sardegna; ma si tratta dunque di migrazione interna.

    Un’inquadratura del borgo di servizio di Pescia Romana, realizzato dall’Ente Maremma nel Viterbese.

    Dopo la prima guerra mondiale l’emigrazione, dal 1920, riprende in misura molto più limitata. La ripresa è modesta nel Viterbese e nei Cimini, notevole invece nella Ciociaria e nella regione lepina, da quasi tutti i paesi precedentemente menzionati

    (Ferentino nel 1920 segna 665 emigranti) e con direzione transoceanica; notevole anche nella regione aurunca (Minturno, Gaeta-Elena, Itri, Formia, ecc.), ma qui in parte indirizzata all’estero, in parte nell’interno.

    Le statistiche posteriori alla seconda guerra mondiale indicano un’emigrazione transoceanica (con preferenza per il Canada e gli Stati Uniti) che si mantiene tra i 7000 e gli 8000 ab. per anno, con qualche punta sopra i 10.000 (1956); negli ultimi anni l’emigrazione è ancora diminuita (i960: 5546; 1961: 4839; 1962: 4076). Sono, in genere, sempre i comuni montani, lontani dalle vie di comunicazione, con economia agricola povera e privi di risorse naturali che danno al movimento emigratorio le maggiori quote. Le perdite sono parzialmente compensate dai rimpatri — in misura di circa 2000 persone — con tendenza ad aumentare (1958: 8404 espatri e 2960 rimpatri); nel i960 i rimpatri (in prevalenza dal Venezuela e dall’Argentina) sono stati soli 1129, 1257 nel 1961 ed appena 751 nel 1962, ma, come si è visto, è molto diminuito il numero degli espatri.

    Molte maggiori difficoltà presenta la determinazione delle migrazioni interne, specialmente riguardo alla loro direzione, perchè le statistiche non ci soccorrono che in piccola parte. Si può affermare in genere che le migrazioni interne assumono, rispetto all’emigrazione per l’estero, notevoli proporzioni dopo la prima guerra mondiale e soprattutto dopo la seconda. Questo particolare movimento di popolazione si inizia spesso come temporanea, invernale ovvero anche estiva, e più tardi diviene permanente. Come caso tipico e interessante, perchè verificatosi quasi alle porte di Roma, può menzionarsi quello degli abitanti di Rocca di Cave, Caprànica Prenestina e qualche altro centro vicino, che scendevano di estate ai piedi dei Colli Laziali, trovando impiego nei lavori agricoli durante i mesi estivi, poi vi si trasferirono definitivamente con le loro famiglie ed anche coi greggi di ovini, abitando in villaggi di capanne (San Cesareo, Carchitti, Colle di Fuori, ecc.). Le capanne sono ormai ovunque scomparse e sono sorti dei nuovi paesi, tutti con case di pietra — l’esempio più cospicuo è San Cesareo — che si sono rapidamente accresciuti.

    Per alcuni comuni lepini la già menzionata inchiesta sullo spopolamento montano, pubblicata nel 1937, segnala l’immigrazione da Segni, Carpineto, Gorga, ecc. verso il sorgente centro industriale di Colleferro, immigrazione che assumerà in seguito notevole sviluppo.

    Da alcuni paesi della media valle dell’Aniene e della Val Licenza si segnala uno spostamento di lavoratori verso Tivoli, che si è venuta sviluppando per crescenti attività industriali : emigrazione dapprima temporanea, poi, per il definitivo trasferimento delle famiglie, divenuta permanente. Da San Polo dei Cavalieri nel 1930 una sessantina di famiglie si è trasferita a Marcellina.

    Più recente è (a partire dal 1951) l’insediamento di circa 3000 famiglie nei poderi laziali e borghi di servizio dell’Ente Maremma, che provengono dal Fucino, dalla zona di Subiaco e dalle aree contermini allo stesso comprensorio di riforma fondiaria.

    Dopo la seconda guerra mondiale, il grande centro di attrazione delle migrazioni interne laziali è Roma. Nel 1945, circa il 37% degli emigranti affluiti a Roma proveniva dal Lazio; negli anni seguenti la quota di provenienza laziale si mantiene sempre sopra al 25%. Vengono in buona parte da regioni del Lazio vicine alla capitale, come i Castelli Romani, ma anche da territori di montagna, come la media valle dell’Aniene,

    o dai paesi degli Ernici e dell’Abruzzo laziale, per esempio Leonessa, dai quali i trasferimenti a Roma hanno una vecchia tradizione; esercitano ogni sorta di mestieri, ma spesso sono piccoli commercianti, venditori ambulanti o proprietari di osterie, negozi di generi alimentari o vari. Ma non sono pochi quelli che nella capitale non trovano occupazione o vanno a cercarla altrove, come dimostrano le alte cifre dei cancellati annualmente (4000-5000 e più) di provenienza laziale.

    L’Agro Pontino, la Campagna Romana e le regioni vicine nella carta del Blaeu.

    Tuttavia, anche se la presenza del centro urbano di Roma fa sì che dal Lazio non si vada generalmente in altre regioni, una maggiore mobilità in tal senso si è cominciata a verificare in questi ultimi anni : i grandi distretti industriali dell’Italia del Nord esercitano la loro attrattiva anche sulle campagne e centri minori del Lazio.

    Il quadro delle migrazioni si deve infine completare ricordando le immigrazioni nel Lazio di abitanti provenienti da altre regioni d’Italia: di queste, due sono i momenti da essere particolarmente ricordati. Anzitutto l’immigrazione per così dire « diretta dall’alto » per il popolamento della Pianura Pontina al tempo della grande bonifica integrale, quando si fecero affluire in questa zona gruppi di famiglie della regione veneta e in parte anche emiliana, di cui daremo cenni fra breve. L’altro « momento » è stato il grande afflusso di popolazione a Roma nel periodo della seconda guerra mondiale e successivo; ma di questo si parlerà in apposito capitolo, facendone qui soltanto un cenno. Roma era già stata mèta di immigrazione da tutte le regioni d’Italia, in rapporto alle sue funzioni di capitale, e aveva ricevuto contingenti sia dal nord che dal sud; dal Mezzogiorno in particolare l’afflusso si era fatto sempre più vivace, nel periodo fra la prima e la seconda guerra mondiale, non solo per motivi di lavoro, ma anche per l’incremento dell’Università di Roma e per il sorgere di enti e uffici di ogni specie.

    Ma le condizioni particolari di Roma, « città aperta » durante la seconda guerra mondiale, lo svolgersi stesso delle operazioni militari, richiamarono nell’Urbe vere folle di popolazione soprattutto dalle regioni meridionali, col ben noto fenomeno, di cui si parlerà in seguito, degli insediamenti in rifugi di fortuna alla periferia della città.

    Gran parte di questi immigrati sono rimasti nella capitale e ne hanno richiamati altri, contribuendo ad una sua trasformazione, non solo nella composizione della popolazione, ma nell’aspetto stesso e nelle abitudini di vita della città.

    Il popolamento dell’Agro Pontino

    Prima della recente bonifica (iniziata nel 1926) tutta la regione Pontina, infestata dalla malaria in misura intensissima e nella massima parte coperta da acquitrini, si presentava pressoché disabitata e diffìcile anche a percorrersi. Sul mare, tra Torre Astura ed il Circeo, non vi erano che due casali, uno sul Lago di Fogliano, l’altro su quello di Paola (Sabaudia). L’unica via di comunicazione era — prescindendo dalle due linee ferroviarie Roma-Velletri-Terracina (dal 1892) e Roma-Formia (1923) — l’antica Via Appia, la quale, proveniente da Roma, per Velletri e Cisterna, si dirige verso Terracina con un lungo rettilineo. E lungo l’Appia non vi erano che pochi casali (tre o quattro) abitati in permanenza.

    Dall’Appia si partivano strade inerpicantisi sulle ripide balze dei Lepini per raggiungere i vecchi centri posti in alto; tra l’Appia ed il mare si avevano pochissime strade percorribili da carri nella buona stagione ed una rete di tortuosi sentieri attraverso la macchia, tra una radura e l’altra, noti e percorribili solo dalla popolazione locale. In questo ambiente paludoso e malarico, quasi impenetrabile — tipicamente inadatto per un insediamento umano stabile — si aveva una popolazione che, se si prescinde dai sei o sette casali, era esclusivamente temporanea, in relazione ad una forma di economia rudimentale, imposta dall’ambiente e risalente a tempi forse remotissimi, che consisteva nel taglio della macchia, nella preparazione del carbone, nella pesca, nella caccia e nell’allevamento di bufali, ovini ed anche suini. Gli abitanti provenivano in genere dai paesi montani circostanti, dal Subappennino laziale (Filettino, Véroli, Alatri, ecc.), dall’Abruzzo ed anche dall’Umbria, e trascorrevano nella regione il periodo da ottobre a giugno. Quasi tutti si accentravano nelle radure della macchia — le lestre — vivendo una vita piena di stenti in capanne primitive a contorno circolare o ellittico, che descriveremo nel capitolo seguente (i).

    Le capanne raramente si incontravano isolate; più spesso erano riunite in piccoli gruppi di tre o cinque, talvolta in gruppi più numerosi, fino a formare piccoli villaggi di un centinaio di abitanti o più. Il Bianchini ha calcolato che la densità della popolazione pontina — all’inizio del nostro secolo — era di appena 3 ab. per kmq. Una ricerca di M. De Mandato, relativa al periodo 1928-32, aveva identificato 40 lestre con una popolazione complessiva di circa 1200 individui. Le lestre più popolate erano la lestra Cocuzza (139 ab.), la lestra Rio della Nespola (136 ab.), la lestra San Vito (107 ab.), la lestra Molella (98 ab.), la lestra Montanaro (63 ab.), la lestra Campo di Grano (60 ab.), la lestra Portosello (51 ab.). Tutte le altre lestre avevano una popolazione inferiore ai 50 abitanti. Dei lestraioli, 239 provenivano da Filettino, 213 da Terracina, 186 da Trevi, 161 da Veroli, 86 da Bassiano, i rimanenti da una decina di altri comuni (1).

    Gruppo di capanne di una lestra.

    Capanna dell’Agro Pontino.

    Scomparsa la macchia, sono scomparse anche le lestre e le relative abitazioni temporanee. La popolazione stabile della regione Pontina intorno al 1930 (alcuni anni dopo l’inizio della bonifica), raggiungeva circa 3500 ab.; poco dopo iniziò quel regolato flusso immigratorio che ancor oggi — sebbene di origine diversa, come si dirà poi — non è del tutto cessato.

    L’esecuzione del piano di popolamento dell’area bonificata (affidato all’Opera Nazionale Combattenti), infatti, non è avvenuto solo con l’insediamento stabile dei vecchi abitatori temporanei, in numero ridottissimo, e neppure con la graduale discesa della popolazione dei centri circostanti e sui Lepini, ma massimamente con il trasferimento, preordinato e disciplinato, di famiglie da regioni dell’Italia settentrionale che mostravano, allora, una preoccupante pressione demografica e sociale. A questa immigrazione obbligata — preferibilmente di ex combattenti e con precedenza dei nuclei familiari più numerosi — che terminò nel 1942, parteciparono complessivamente 2953 famiglie (pari a poco più di 30.000 persone), con notevole prevalenza dei Veneti (famiglie 1496 = 50%); seguono poi gli Emiliani (famiglie 680 = 23%) ed i coloni reclutati nel Lazio e nella stessa provincia di Latina (famiglie 366 = 13%); le restanti famiglie provenivano da varie altre regioni d’Italia. Da uno sguardo agli immigrati per province del Nord si ha che il maggior numero delle famiglie proveniva dal Ferrarese (397) e dal Trevisano (337). Un po’ inferiore erano quelle dall’Udinese (306) e dal Padovano (274), ecc. La presenza di tutti i componenti le famiglie degli assegnatari — insediati per più del 90% nei centri urbani, nei borghi di servizio e nelle dimore rurali isolate di nuova istituzione, mentre i restanti furono assegnati nei nuovi borghi costituiti nei vecchi comuni di Cisterna, Terracina e San Felice Circeo — venne a dare nuova vita alla zona bonificata con conseguente immigrazione di impiegati, professionisti ed operatori economici da altri comuni della stessa provincia di Latina o di quelle confinanti o, ancora, di altre regioni italiane. Nel dopoguerra l’immigrazione è stata caratterizzata dall’afflusso in Agro Pontino di famiglie provenienti dall’Istria e dalla Tunisia; queste ultime hanno fissato la loro residenza nella zona di Aprilia, dando inizio ad una proficua attività vitivinicola. Verso Latina si è registrato, nel contempo, un fenomeno di spostamento di numerosi nuclei familiari provenienti dalla parte meridionale della provincia (Minturno e Castelforte) e della Penisola, nonché dai comuni della fascia lepina.

    Ora, avendo illustrato rapidamente il popolamento dell’Agro Pontino bonificato, è interessante analizzare sinteticamente le conseguenze dell’opera di trasformazione agraria sulle popolazioni dei comuni lepini, i cui territori furono più o meno interessati dai comprensori di bonifica.

    Il risanamento della palude, dunque, facendo diminuire fortemente la mortalità ed offrendo alla coltivazione nuove terre produttive, ha determinato nei centri di pianura e pedemontani un notevole incremento demografico; ma nei comuni montani, al miglioramento della salubrità, anche qui avvertibile, ha fatto riscontro uno scadimento delle condizioni economiche. Per i numerosi pastori della zona la bonifica significò solo la perdita di estesi ed economici pascoli invernali e, quindi, per molti di essi, della possibilità di vita; a loro volta molti dei braccianti agricoli e dei piccoli coltivatori, che in primavera ed in autunno scendevano a lavorare nelle terre emerse dalla palude, preferirono stabilirsi definitivamente in pianura lasciando la grama vita dei paesi d’origine. All’aumento del saggio di incremento naturale in quei centri si venne a contrapporre la graduale scomparsa della popolazione transumante e l’esodo degli elementi più abili, segnando così l’inizio di quel processo di spopolamento montano, cui già si è fatto cenno.

    Il movimento naturale della popolazione

    Il Lazio, con più del 19 per mille di nati vivi (1962: 19,6 per mille) è oggi di poco superiore alla media nazionale (18,4 per mille), ma poiché vi si registra uno dei più bassi valori della mortalità (8,6 per mille), l’eccedenza dei nati sui morti è sensibilmente superiore alla media (11 per mille di contro a 8,4 per mille); si trova quindi in una posizione intermedia tra le regioni del Nord (Trentino-Alto Adige e Veneto eccettuati), caratterizzate dai più bassi valori della natalità e da lieve eccedenza dei nati, e il gruppo delle regioni del Sud, ad alto tasso di natalità ed elevata eccedenza dei nati sui morti (Abruzzo e Molise esclusi).

    Se si confrontano i dati regionali con quelli delle singole province (al 1962), si nota come il valore più elevato della natalità si riscontri nella provincia di Latina (circa il 22 per mille), seguita da quella di Roma (oltre il 20 per mille), mentre si abbassa nella provincia di Frosinone (18,2 per mille) e ancor più in quelle di Viterbo (15,2 per mille) e di Rieti (14,3 per mille): in queste due ultime l’eccedenza è solo del 5 e del 3,7 per mille. Viene così confermata la decadenza demografica delle zone montuose, dove la popolazione diminuisce soprattutto perchè si allontanano i giovani che vanno a fissare altrove i nuovi focolari. Quanto alla provincia di Roma va notato che — al confronto con le altre province nazionali includenti i più grossi centri urbani — è superata per il tasso della natalità solo da Napoli (26,9 per mille) e da Palermo (23,2 per mille), ma supera di poco Venezia ed è molto superiore a Milano, Torino, Genova (da 12,2 a 16 per mille).

    Il tasso di mortalità è, come già si è detto, fra i più bassi, particolarmente nelle province di Latina (7,1 per mille), di Roma e di Frosinone (circa 9 per mille); ma solo le prime due registrano il più elevato incremento naturale (14,2 e 11,9 per mille); molto più alta la mortalità nelle altre due province (10,6 per mille), perchè nella zona montuosa rimangono soprattutto gli anziani, mentre i giovani abbandonano sempre più numerosi il paese di orìgine.

    Ricordiamo ancora come nel Lazio sia inferiore alla media dell’Italia (meno del 35 per mille dei nati vivi contro il 40,8 per mille della media nazionale) la percentuale dei morti nel primo anno di vita.

    Passando in rassegna i dati demografici possiamo ancora dire qui come sia interessante notare che, se nel Lazio considerato nel suo complesso la popolazione femminile supera quella maschile (al censimento 1961, 2.021.358 donne e 1.937.599 uomini), confermando una caratteristica comune a tutta l’Italia, il confronto tra le province mostra che ciò si verifica di fatto solo in quelle di Roma e Frosinone; nelle province di Viterbo, Rieti e Latina gli uomini sono in numero superiore alle donne, e ciò sia al censimento 1961 come a quello del 1951. Solo in alcune province della Sicilia, ma in tutta la Sardegna ed in altre due province (11 in tutto) si verifica un fatto analogo.

    Densità della popolazione e sua distribuzione

    La popolazione del Lazio (escluso il comune di Roma) era alla data del censimento 1951, di 1.689.044 ab., distribuita su 15.695 kmq. (area del Lazio meno il comune di Roma); la densità era perciò di circa 108 ab. per kmq. Al 15 ottobre 1961 la popolazione è risultata di 1.770.797 e la densità di 112 ab. (incluso il comune di Roma, rispettivamente 3.958.957 e 230). La densità delle singole province risulta come segue (la cifra tra parentesi è quella del 1961): Roma (senza il comune) 130 (152); Frosinone *45 (135); Latina 126 (142); Viterbo 72 (73); Rieti 65 (59). La densità è pertanto diminuita nelle province di Frosinone e Rieti, sottolineando il fenomeno, già segnalato, dello spopolamento di queste zone.

    Guardando ai singoli comuni si notano divari enormi. La provincia di Frosinone ha il comune a più alta densità (Isola del Liri : 785 ab. per kmq.) e quello a densità più bassa: Filettino (15 ab. per kmq.). Nella provincia di Roma si oscilla fra 621 e 22, in quella di Latina fra 730 e 33, in quella di Viterbo fra 277 e 24, in quella di Rieti fra 168 e 17.

    La carta qui unita rappresenta la distribuzione della densità per comuni : essa deve essere consultata con qualche cautela, sia perchè i divari molto considerevoli nell’area dei comuni si riflettono notoriamente sul valore della densità, sia perchè molti comuni hanno, accanto ad aree ad alta densità intorno al capoluogo, aree pochissimo popolate o addirittura spopolate alla periferia : ciò si avverte soprattutto in comuni di montagna o in quelli nei quali il capoluogo ha situazione eccentrica o ancora in altri a configurazione molto irregolare, come si è già detto nel capitolo precedente. Come esempi di comuni montani il cui capoluogo, intorno al quale si addensa la popolazione, è situato in basso, nel centro della zona meglio suscettibile di coltura, se ne incontrano molti in provincia di Frosinone: Vérdi, Collepardo, Vico nel Lazio, Sora, Pescosólido, Monte San Giovanni Campano, Campoli, Vallerotonda e altri; come esempi di comuni a confini irregolari o con exclaves separati, già ricordati, ve ne è un gruppo in provincia di Rieti: Ascrea, Longone, Concerviano, Rocca Sinibalda, ecc.; altri sono nelle restanti province laziali.

    Densità della popolazione secondo il censimento del 1961.

    Nonostante queste riserve, dalla carta possono rilevarsi alcuni fatti di interesse generale. Non consideriamo qui l’area sottoposta airimmediata influenza della città di Roma, della quale si parlerà altrove.

    Risalta anzitutto l’area popolata solo di recente, che può dirsi maremmana, dal confine con la Toscana a Capo Circeo. In essa si notano peraltro due aree di addensamento, una corrispondente a Civitavecchia-Santa Marinella, dovuta a due cause — attività industriale-marittima e sviluppo balneare — l’altra minore, ma di tipo analogo, corrispondente ad Anzio-Nettuno. Una terza area di addensamento corrisponde alla foce del Tevere col Lido di Ostia; essa mette in evidenza l’influenza del Lido e delle nuove marine ed è recentissima.

    La regione costiera dal Circeo al confine campano è già più notevolmente popolata e presenta all’estremo sud un forte addensamento: il comune di Gaeta ha quasi 730 ab. (1961) per kmq.! Il gruppo costituito dai cinque comuni al confine meridionale presenta una densità di circa 300 ab. per kmq., densità che può già dirsi « campana ». Diverse circostanze concorrono a determinare questa alta densità : la piccola fascia costiera pianeggiante, abitata da epoche remote, di contro al restante territorio in gran parte montuoso, lo sviluppo industriale e marittimo (Gaeta), le attività balneari (Sérapo, Scauri, ecc.), la fertilità del suolo intensamente coltivato. Aggiungiamo che densità altissime hanno i due comuni insulari di Ponza (464) e Ventotene (690).

    L’altra più vasta area a bassa densità del Lazio è quella montana, corrispondente essenzialmente alle zone del Lazio calcareo al disopra di 600-700 metri. Essa può distinguersi in tre sezioni. La prima, più estesa, comprende il territorio dei comuni posti tutto in giro a confine tra la provincia di Rieti e quelle limitrofe (con minimo nel comune di Micigliano, 17 ab. per kmq.); le interruzioni sono apparenti perchè comprendono porzioni di territori comunali in realtà spopolate, la cui densità alquanto maggiore è determinata esclusivamente dalla presenza in basso del capoluogo. Questo blocco di comuni costituisce nell’insieme un territorio di circa 1000 kmq. che ha una densità inferiore a 35 ab. per kmq.

    I comuni dell’alta valle dell’Aniene a maggiore densità separano questa prima sezione da una seconda, estesa da Cervara di Roma, il più elevato comune del Lazio (a 1053 m.), fino al territorio di Sora, con interruzioni anche qui solamente apparenti. In questo territorio, su un’area che si può ragguagliare a circa 350 kmq., la densità non supera i 25 ab. per kmq. ; si tratta della zona a più debole densità di tutto il Lazio.

    Il territorio di Sora e il Cominese isolano la terza sezione, a confine con le province dell’Aquila e di Campobasso, che comprende gli elevati massicci della Meta e le sue propaggini (da Settefrati a Viticuso), dove, su un’area di circa 230 kmq., vivono meno di 8500 ab., il che equivale ad una densità di circa 36 ab. per kmq.

    Le aree nelle quali la densità non si allontana molto dal valore medio dell’intero Lazio si trovano nella Tuscia Romana e nella Sabina, al disotto di 600-700 metri. Nella Tuscia Romana vi è in complesso maggiore uniformità: le basse densità dei comuni circostanti al Lago di Bracciano sono apparenti, perchè nell’area comunale è inclusa anche la porzione di lago spettante a ciascun comune. In Sabina le aree elevate, anche fuori di quelle periferiche, mostrano, come è ovvio, una tendenza a decremento di densità. Viceversa aree di concentrazione, come quella molto notevole di Tivoli e altre prossime (Guidonia), sono dovute soprattutto allo sviluppo industriale che si manifesta con crescente intensità; l’area tiburtina si insinua alquanto per la valle dell’Aniene, ravvivata ora dalle utilizzazioni idroelettriche. Ma il territorio alla sinistra dell’Aniene, come quello dei Monti Prenestini, si segnala per la varietà di condizioni altimetriche, di caratteristiche geolitologiche e di possibilità di coltivazioni, ed anche per diversità di condizioni demografiche che si rispecchiano nella densità: alta in comuni con larghezza di terreni coltivabili (Cave, Olévano Romano, San Vito Romano), bassa nei comuni costituiti in massima parte da nuda montagna calcarea che presenta il fenomeno di spopolamento già segnalato (Saracinesco, Castel San Pietro Romano, Caprànica Prenestina).

    È messa bene in evidenza dalla carta l’area ad alta densità dei comuni dei Colli Laziali con massimo ad Albano (621 ab. per kmq.). Quivi, su un’area di 450 kmq., vivono circa 135.000 ab. il che dà nuovamente una densità di 300 ab. per kmq. Si osservi che quasi tutti i comuni periferici si estendono su aree più o meno vaste di pianura; nei due comuni più elevati si avverte l’influenza dell’altitudine (Rocca Priora 125, Rocca di Papa 158).

    La densità della regione Pontina appare già abbastanza elevata, se si consideri che si tratta di un’area di recente popolamento; al censimento 1961 (tenendo solo conto dei comuni della provincia di Latina) raggiungeva circa 134.000 ab. (130 per kmq.) ed è notevolmente aumentata in confronto al 1951 — quasi del 28% — perchè nell’ultimo decennio la popolazione si è accresciuta assai rapidamente: ricordiamo solo che il comune di Latina è passato da 35.187 ab. nel 1951, a 49.331 nel 1961, e quello di Aprilia, che nel 1951 aveva ancora una bassa densità (39), è passato, nel medesimo tempo, da 6943 a 15.782 ab.; pertanto le densità per il 1961 risultano rispettivamente di 177 e 88. Inferiore aumento di popolazione, ma pur sempre elevato (in^media oltre il 14%), hanno avuto gli altri comuni della Pianura Pontina (Terracina, Cisterna, Sabaudia, ecc.).

    Nella regione lepino-aurunca le densità più basse corrispondono, come è ovvio, ai comuni che includono le più vaste aree di montagna, con una punta minima per Gorga (46) e Montelànico (59). Delle due oasi ad alta densità che la carta mostra in questa regione, quella di Colleferro (367) corrisponde ad uno dei centri industriali più importanti del Lazio, quella di Priverno invece (207) ha la sua ragion d’essere nell’intensità delle coltivazioni e delle attività rurali, che si esprime anche nella notevole percentuale della popolazione sparsa (22%).

    La carta mette in vista infine le alte densità della Ciociaria, regione agricola tra le maggiori di tutto il Lazio, con percentuali altissime di popolazione rurale. Il blocco dei comuni disposti da Alatri e Frosinone fino a Sora, in una vasta area di circa 650 kmq., aveva nel 1951 circa 180.000 ab., pari a una densità di oltre 275 ab. per kmq.

    A spiegare questa alta densità entrano qui in causa lo sviluppo urbano risalente per alcuni centri ad epoca antica, e le attività industriali accentrate soprattutto nella valle del Liri (Isola del Liri, 785 ab. per kmq.) e a Frosinone.

    Un’area di bassa densità ci è presentata dai comuni limitrofi di Casalattico e Colle San Magno; un’oasi di alta densità è invece il comune della ricostruita Cassino, dove la popolazione è particolarmente affluita nella pianura solcata dal Rapido; siamo già in area di densità « campana ».

    Un aspetto delle Paludi Pontine.

    Condizioni culturali

    Come indice generale del grado di istruzione si suole assumere l’analfabetismo a proposito del quale si posseggono anche i dati del censimento 1961. Allora gli analfabeti di età superiore ai sei anni erano in tutto il Lazio 304.172, cioè il 10,3% della rispettiva popolazione, con un minimo del 6% in provincia di Roma ed un massimo del 22% in quella di Frosinone, con lievi oscillazioni intorno al 14-16% nelle altre. La media dell’intera Italia era del 12,9%. Secondo i risultati del censimento 1961 gli analfabeti erano scesi nel Lazio a 6,6%, cifra un po’ inferiore a quella dell’Italia (8,4%). Ma è opportuno riferire altri recenti dati, che sembrano particolarmente significativi per avere un quadro relativo alle attuali condizioni culturali della popolazione del Lazio. Il primo dato si rileva dal numero degli alunni che hanno frequentato (nell’anno 1960-61) i corsi per adulti analfabeti: nel Lazio sono stati quasi 31.450 (cui sarebbero da aggiungere i 9580 alunni dei corsi per adulti semi-analfabeti ed i 4270 dei corsi di aggiornamento). Se si confronta la prima cifra con quelle quasi insignificanti (1260 e 1230) del Piemonte e del Veneto, che hanno una popolazione assoluta quasi uguale a quella del Lazio, si deduce quanto la piaga dell’analfabetismo sia stata diffusa e durevole nel Lazio e come questa regione si sia trovata in condizioni di inferiorità rispetto a quelle settentrionali. Il confronto con le regioni meridionali torna invece a vantaggio del Lazio, ma il fenomeno rimane pur sempre grave, sebbene vada attenuandosi gradatamente. Esso è dovuto alle condizioni arretrate delle aree agricolo-pastorali della montagna e all’afflusso recente anche di gente dal Mezzogiorno che in gran parte vive in baracche, tuguri, ecc., avulsa dalla vita culturale dei centri urbani.

    Per i vari tipi di scuole ci possiamo riferire ai dati pure dell’anno scolastico 1960-1961: vi erano allora nella regione laziale 1137 scuole classificate come di grado preparatorio, frequentate da oltre 87.800 allievi, 2720 scuole elementari con circa 342.500 allievi, 504 scuole medie e di avviamento professionale con più di 141.500 allievi. Nel 1961-62 il 42,3% dei comuni del Lazio risultavano non dotati di scuola media inferiore. Questa cifra va però corretta se si raffronta ai dati relativi alla popolazione; si nota infatti che solo il 6,1% della popolazione risiede in comuni non dotati di questo tipo di istituti. Naturalmente l’assoluta prevalenza delle scuole spetta, sotto ogni aspetto, alla provincia di Roma; per le altre province non vi sono grandi divari rispetto all’istruzione elementare in rapporto al numero degli abitanti e neppure molto differente è, sempre in rapporto alla popolazione, la proporzione degli allievi delle scuole medie inferiori.

    Per quanto riguarda l’istruzione media superiore, prevalgono ancora (al 1961) nel Lazio i Licei (87 classici e 24 scientifici) e gli Istituti Magistrali, che sono 65 (176 in tutto con circa 39.600 allievi), sugli Istituti Tecnici di vario tipo (62) con oltre 33.400 allievi; ma a questi sono da aggiungere le Scuole Tecniche e gli Istituti Professionali maschili e femminili, che sono sempre più numerosi, ed infine gli Istituti d’istruzione artistica. Notevole è anche l’incremento dell’istruzione tecnicoindustriale e commerciale.

    Nel 1960-61 gli alunni degli Istituti Tecnici commerciali e per geometri erano a Roma assai più numerosi (12.620) degli studenti liceali (6675 nel Liceo classico e 4860 nel Liceo scientifico); anche il numero degli iscritti negli Istituti Industriali è diventato, da qualche anno a questa parte, considerevole (6200). Naturalmente agli istituti statali si affiancano molti istituti non statali che accolgono a Roma ben 18.100 studenti nelle scuole medie e d’avviamento (contro 70.000 nelle scuole statali). Anche nelle scuole medie superiori (e soprattutto negli Istituti Magistrali) il numero degli studenti che frequentano scuole private, rette per lo più da religiosi, è considerevole (15.300 contro 48.100 delle scuole pubbliche). Alcuni degli istituti statali e privati di Roma (come il Mamiani, il Visconti, il Massimo, il Nazzareno, ecc.) hanno buona rinomanza per la serietà degli studi ed il nome dei docenti.

    Ogni anno vengono abilitati nel Lazio circa 2000 maestri, numero solo apparentemente rilevante, di fatto inadeguato alle necessità dell’istruzione elementare. Insegnano nel Lazio anche molti maestri abilitati in altre regioni, ma in numero forse non inferiore a quello dei maestri usciti da scuole del Lazio, che iniziano la loro carriera altrove. Riguardo poi ai docenti delle scuole medie inferiori e superiori è da non sottovalutare il rilevante numero degli insegnanti non di ruolo e tra questi quelli privi di una laurea specifica.

    Il grande centro dell’istruzione universitaria nel Lazio è Roma, meta di attrazione per i giovani studenti delle regioni del Mezzogiorno e dell’Italia Centrale. L’Università di Roma (fondata da Bonifacio Vili nel 1303) è dotata di dodici Facoltà e numerosissime Scuole di perfezionamento ed Istituti scientifici. L’Università aveva nel 1960-61 appena 188 professori di ruolo, e poco meno di 280 non di ruolo; 3000 unità fra aiuti ed assistenti. Essa conta ben 46.500 studenti iscritti nel 1961-62, ma quasi 12.800 risultano fuori corso. Del totale degli universitari il numero dei maschi è poco superiore agli studenti in corso. La prevalenza degli iscritti in corso spetta agli studenti delle Facoltà giuridico-politiche (8950); seguono quelli di Economia e Commercio (6435), Ingegneria (civile, industriale, mineraria, aeronautica = 3365), di Scienze (3365), di Lettere, ecc. Molte Facoltà concedono lauree speciali. Frequentavano l’Università intorno a 1000 studenti stranieri. Molto notevole, anche dal punto di vista geografico, è che il numero degli universitari dell’Ateneo Romano proviene, come si è detto, in larga misura dall’Abruzzo, dall’Umbria, dalle Marche e dalle regioni meridionali (in specie Calabria e Puglia). E da rilevare ancora che l’Università di Roma supera tutte le Università d’Italia per numero di iscritti e di laureati. Gli iscritti in corso alle varie Facoltà rappresentano oltre un sesto del totale degli iscritti in tutte le Università italiane: a Milano le tre Università (Statale, Bocconi, Cattolica) unite insieme al Politecnico raggiungono solo quasi 23.000 iscritti; l’Università che per numero di studenti in corso si avvicina di più a quella di Roma è l’Ateneo di Napoli (19.865 studenti). I laureati a Roma nel 1959-60 sono stati oltre 3100 (a Milano poco più di 2100 ed a Napoli 2650).

    Roma. Via Margutta. Esposizione all’aperto di quadri d’autori moderni.

    Sede principale di gran parte delle Facoltà è dal 1935 la Città Universitaria (presso Castro Pretorio) ; ma altre facoltà sono disperse in divers i punti dell a città (la Facoltà di Architettura è a Valle Giulia; la Facoltà di Ingegneria è a fianco della Chiesa di San Pietro in Vincoli, sull’Esquilino; la Facoltà di Economia e Commercio a Piazza Borghese; ecc.), cosicché non esiste un unico quartiere degli studi universitari e tale disposizione è di grave danno.

    All’Università degli Studi si devono aggiungere l’Istituto Universitario di Magistero « SS. Assunta » (per sole donne), la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, la Pontificia Università Gregoriana, l’Università Internazionale degli Studi Sociali, ecc., oltre ad un Istituto Superiore di Educazione Fisica.

    Ma Roma ha numerosissimi altri istituti di alta cultura: in prima linea l’Accademia Nazionale dei Lincei, fondata nel 1603 (scienze fisiche, naturali, storiche ed umanistiche), che ha la sua sede nel Palazzo Corsini alla Lungara; il Consiglio Nazionale delle Ricerche ; l’Accademia Nazionale di San Luca (arti) ; quella di Santa Cecilia (musica); la Pontificia Accademia delle Scienze; l’Istituto di Studi Romani; l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana; molti altri istituti specialmente storici e archeologici (Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte; Istituto Storico Italiano per il Medio Evo; ecc.) ma anche scientifici e medici. Tra gli istituti a carattere prevalentemente culturale ve ne sono molti stranieri (Britannico, Francese, Germanico, Belga, Austriaco, Olandese, Danese, Statunitense, ecc.).

    Roma ha due grandi biblioteche: la Nazionale Centrale (di cui è imminente la costruzione della nuova sede al Castro Pretorio) e la Vaticana. Altre quattro notevoli biblioteche sono statali: l’Universitaria Alessandrina, la Casanatense, l’Angelica e la Vallicelliana. Altre insigni biblioteche (alcune ancora statali) sono annesse ad accademie ed istituti, sopra ricordati, come la Biblioteca Corsiniana, annessa alla Accademia dei Lincei (che ha pure una propria, importante biblioteca), la Biblioteca Lancisiana, la Biblioteca dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, la Biblioteca dell’Istituto di Storia Moderna e Contemporanea, la Biblioteca Musicale di Santa Cecilia, e numerosissime altre ancora (alcune straniere), fra le quali diverse specializzate. Importanti, altresì, gli Archivi di Stato, Storico Capitolino, ecc.

    Il Lazio non ha altre Università. Alcune accademie locali che ebbero pure un passato glorioso (come ne ebbe anche a Roma l’Arcadia, che sopravvive tuttora) non esercitano più influenza ragguardevole nell’alta cultura.

    Celebre in tutto il mondo è Roma per i suoi musei e le sue gallerie: in prima linea i Musei Pontifìci (Vaticani e Lateranensi) e Capitolini, che conservano cimeli d’ogni sorta; il Museo Nazionale di Villa Giulia, il Museo Nazionale Romano, il Museo Borghese, la Galleria Nazionale d’Arte Antica e d’Arte Moderna, le Gallerie Doria-Pamphili, Colonna, Spada, Borghese, il Gabinetto Nazionale delle Stampe, il Museo di Storia della Medicina, ecc.

    Né bisogna dimenticare, tra gli enti che in larga misura contribuiscono ad alimentare i vari settori della cultura, il grande e frequentatissimo Giardino Zoologico, il Museo Preistorico ed Etnografico del Collegio Romano, di alto valore istruttivo, il Museo Etnologico Lateranense, il Museo Africano, il recente Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, ordinato in un palazzo dell’EUR., appositamente costruito, ecc.

    Anche altre città del Lazio posseggono musei e biblioteche meritevoli di menzione anche se interessino talora solo alcuni settori: tra i musei, quello di Viterbo, quello di Rieti ed il Museo Etrusco di Tarquinia; tra le biblioteche, quelle annesse alle Abbazie di Subiaco e Montecassino.

    Per dare un’idea della frequenza ai Musei e Istituti d’Arte basterà ricordare che nel 1961 i soli istituti statali del Lazio ebbero oltre 2.420.000 visitatori. Altrettanti se ne debbono certamente aggiungere per i Musei Vaticani, Capitolini e comunque non dipendenti dallo Stato.

    Nel Lazio si pubblicavano alla fine del 1959 poco più di 1310 periodici, nella quasi totalità a Roma. Qui soltanto i giornali quotidiani (22) ed i settimanali (circa 125), oltre ai periodici semestrali (47) ‘ed annuali (34); nelle altre province pochi altri a periodicità quindicinale o mensile. Non si hanno dati sicuri sul numero di copie, del resto variabile, dei quotidiani stampati. Ma arrivano a Roma e sono molto diffusi anche giornali di Torino, Milano, Firenze e Napoli.

    Roma non è un grande centro librario: nel 1959 vi si pubblicarono (prescindendo dai libri scolastici) 425 opere contro 2503 a Milano e 661 a Torino (non più di 5200 in tutta Italia). Molto diffusi sono in realtà i libri stampati fuori di Roma, anzi sono questi che animano soprattutto la circolazione libraria. Ma in complesso a Roma si legge non molto (e ancor meno negli altri centri del Lazio): ne è riprova la scarsezza di biblioteche popolari, comunali, circolanti, ecc., anche di modeste consistenze.

    Roma ebbe nel passato teatri celebri, la cui fama varcò i confini non solo del Lazio, ma dell’Italia. Questa funzione conservano il Teatro dell’Opera nel campo della lirica, l’Auditorium di Santa Cecilia nel campo dei concerti. Numerose ancora nei teatri le rappresentazioni di prosa (qualcuna anche dialettale) e non molte quelle di rivista e varietà, ecc. E di queste se ne hanno poche nei vari centri del Lazio. Né mancarono d’altra parte alcuni teatri che godettero un tempo di qualche notorietà. Senza dubbio il cinema ha, soprattutto presso alcuni ceti, sopraffatto il teatro. Se qualche elemento può trarsi dalla spesa sostenuta dalla popolazione del Lazio, si può accennare che nel 1961 il pubblico spese poco più del 74% per il cinema; il residuo 26% resta diviso in parti quasi uguali fra altre tre partizioni: teatro (appena l’8,8%), manifestazioni sportive (9,2%) e trattenimenti vari. Per confronto si potrà rilevare che in tutte le regioni del Mezzogiorno la spesa per il cinema sfiora o supera l’8o% e si avvicina a questa percentuale anche nel Trentino-Alto Adige. Ogni abitante del Lazio spese, in media, per il cinema nel 1961, 3439 lire, cifra non superata che dalla Liguria e dall’Emilia-Romagna (media dell’Italia, 2490 lire). I cinematografi erano 650 al 1962, dei quali oltre 280 a Roma. Rispetto al 1961 i locali cinematografici nei comuni non capoluoghi di provincia hanno subito una notevole flessione (da 368 a 350) e questo dato è indice di una certa crisi, in questo settore, legata a fattori vari.

    Ma nulla uguaglia la rapidità con la quale si sono diffuse la radio e la televisione. Gli abbonati del Lazio alle radiodiffusioni nel 1962 erano circa 778.000, cioè 19 per ogni 100 abitanti.

    Quale che sia il giudizio che si voglia dare della televisione, questo nuovissimo mezzo di comunicazione — bilanciandone vantaggi e inconvenienti — non si può negare che essa costituisce, e molto più potrà costituire in avvenire, un potente e rapido strumento di diffusione di informazioni e notizie di ogni genere, di spettacoli istruttivi, contribuendo in alto modo, specie nei piccoli centri, all’elevazione della cultura. In molte regioni appartate del Lazio, la sua benefica influenza appare manifesta.

    Vedi Anche:  I corsi d'acqua e i laghi