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I corsi d’acqua e i laghi

    I corsi d’acqua e i laghi

    Come si è già accennato, il Lazio attuale non costituisce un’unità dal punto di vista idrografico. Esso comprende infatti il bacino del Tevere dalla confluenza col Nera, poco sotto Orte, fino al mare (con gli affluenti di destra anche a monte di quella località), le valli del Salto e del Turano con la piana reatina, e l’intero bacino del-l’Aniene; inoltre i fiumi costieri a nord e a sud del Tevere ed infine il bacino del Sacco-Liri. Del piccolo lembo di «Lazio adriatico » scolato dall’alto Tronto si è già parlato. Ma come arterie fluviali del Lazio in senso stretto e più proprio si considerano il Tevere con l’Aniene (che nei vecchi scrittori si trova designato con l’appellativo di Teverone, un diminutivo di forma insolita, ma non isolata) ed il Sacco, la cui valle non a caso è denominata spesso Valle Latina.

    Il corso del Tevere nel Lazio

    Del corso superiore e medio del Tevere, che, come tutti sanno, è il maggior fiume della Penisola, potrà bastare un breve cenno. « Le Vene », come son chiamate sul luogo, ossia le sorgenti del celebre fiume, sono a circa 1268 m. di altezza sulle pendici del Monte Fumaiolo; ma il corso superiore non è che un breve torrentello a forte pendenza, rotto anzi da cascatelle subito sotto la sorgente: presto esso si quieta ed entra, a valle di Pieve Santo Stefano, in un primo vasto bacino, che è denominato Val Tiberina in senso stretto, residuo di un lago quaternario riempito da depositi del Villafranchiano terrazzati, da alluvioni recenti e da conoidi deposte dai maggiori affluenti, come il Nestore e il Niccone.

    Più a valle il corso attuale è assai complicato, perchè è il risultato di lunghe e complesse vicende geomorfologiche. La valle alterna sezioni più ampie a tronchi ristretti, come quello dominato dall’altura di Perugia, sotto la quale a Ponte San Giovanni il fiume è già a soli 190 m. sul mare; è dunque disceso di oltre 1060 m. in circa 80 chilometri. Uscito dalla stretta, il Tevere è raggiunto dal Chiascio che, col Topino e il Clitunno-Maroggia, traversa pure un ampio bacino facente parte un tempo del sistema dei laghi quaternari dell’Umbria, ora prosciugati. Il fiume principale si infila in un’altra ramificazione più occidentale dello stesso sistema lacustre e ne percorre il fondo divagando in numerosi e bizzarri meandri. A valle di Todi dove si versa il Naia, il Tevere, mutando bruscamente direzione, sfugge dal bacino quaternario per la gola del Forello, scavata in massima parte nei calcari. La valle si allarga di nuovo alla confluenza con la Paglia, che gli apporta le acque della sezione meridionale dell’antico Lago della Chiana i cui residui sono rimasti anche oggi nei Laghi di Chiusi e di Montepulciano. La Valdichiana è qui così piatta, che lo spartiacque Tevere-Arno fu dovuto sistemare artificialmente. Il solco Chiana-Paglia-Tevere viene indicato come uno dei tratti morfologici più caratteristici dell’Italia centrale; la confluenza Paglia-Tevere è a circa 6 km. a valle dell’erta rupe di Orvieto e a partire da poco dopo Baschi il fiume segna il confine tra Lazio e Umbria; appartengono perciò al Lazio i brevi affluenti di destra. La valle è ormai ampia, ma l’impluvio normale del Tevere, soggetto a frequenti spostamenti, ne occupa, anche tenendo conto degli ampi meandri, soltanto una parte; sui fianchi si riconoscono terrazzi a vari livelli. Nessun altro tributario importante si unisce al fiume fin sotto l’erta rupe tufacea di Orte, dove confluisce da sinistrali Nera (i), suo principale affluente, che determina un mutamento radicale nel regime idrologico del Tevere. Un motto popolare afferma: «il Tevere non sarebbe Tevere, se il Nera non gli desse acqua a bèvere ». Di fatto la portata media del Tevere a monte di Orte è di circa 70 me. al secondo; quella del Nera, su un bacino imbrifero pari ad un quarto di quello del fiume principale, supera i 90 metri cubi.

    Curva ipsografica dell’Aniene.

    Curva ipsografica del Tevere.

    Il tronco laziale del Tevere (con 205 km. sui 405 della sua lunghezza totale), a valle della stretta di Orte, si può dividere in quattro sezioni. Dopo quella stretta, il fondovalle si allarga gradatamente. Il fiume è accresciuto quasi nello stesso punto a sinistra dall’Aia, a destra dalla Treia che gli porta le acque del Lago di Vico. Tra Ponzano e Forano l’alveo è a circa 32 m. sul livello del mare, e largo quasi due chilometri e mezzo: il fiume vi divaga a meandri, uno dei quali proprio sotto Ponzano è quasi strozzato; un ben marcato terrazzo, a 180-205 m-> a partire dalla confluenza dei due tributari ora ricordati, è visibile su ambo le sponde, e su di esso si succede una serie di paesi: Ponzano, Filacciano, Torrita sulla destra; Poggio Som-mavilla, Stimigliano, Gavignano sulla sinistra, in Sabina, mentre il fondovalle, facilmente inondabile, è presso che disabitato. Questa prima sezione termina ad una nuova stretta, quella di Torrita, dove il fiume si insinua in un caratteristico meandro incassato, tra le opposte sponde non distanti più di 200 m. al ponte di Torrita.

    Oltre la stretta di Torrita il Tevere entra nella Campagna Romana e la valle di nuovo si allarga e di nuovo compaiono i meandri, taluni dei quali così accentuati che il collo potrebbe rompersi facilmente in caso di piene se non vi fossero difese artificiali. La massima larghezza è di circa 5 km. presso i casali di Scorano, dove l’alveo del fiume è a circa 22 m. sul mare e si appoggia al versante sinistro della valle; l’ampio fondo a destra, che il fiume può inondare nelle piene, è del resto cosparso da una fitta rete di canali che raccolgono e convogliano le acque di molti fossi (fossati di Lepri-gnano, Gramiccia, ecc.), mentre a sinistra affluiscono torrenti più grossi, il Farfa, il fosso Corese, il Moscio, il fosso della Buffala, l’Ormeto, ecc.; questi hanno modellato i rilievi costituiti da rocce facilmente erodibili, in modo che i terrazzi fluviali sono ridotti a lembi mal riconoscibili. Sul versante destro invece il terrazzo continua ben visibile fra 210 e 240 m. segnalato sempre da borgate e nuclei abitati. La profondità si mantiene fra m. 3,30 e 4,90.

    Il fondovalle si restringe a poco più di un chilometro alla Marcigliana, dove da ambo i lati le colline si avvicinano al fiume; poco più a valle al Tevere si unisce l’Aniene, l’ultimo dei suoi grandi affluenti.

    E qui possiamo dire cominci la terza sezione dove il fiume è racchiuso fra le colline di Tor di Quinto, Monte Mario e del Gianicolo a destra, i Parioli e poi i « Sette Colli » a sinistra, ma nell’alveo ormai tanto ristretto il Tevere continua a snodarsi in meandri. Questo è il sito di Roma; e, come vedremo nel capitolo dedicato alla città, l’imminenza dei colli sul fiume e la presenza delle serpentine sono stati elementi decisivi per il sorgere della città e per il suo sviluppo topografico: due meandri contigui, formanti nell’insieme una S sdraiata, erano già inclusi nella città antica e nel punto di unione vi era e vi è tuttora un’isola, che non è tutta formata da depositi alluvionali, ma ha un nucleo quaternario. Nella espansione attuale della città, l’abitato si è adattato ad altri due meandri, uno a monte ed uno a valle. Il fiume in città è cinto da alti mura-glioni ed ha una profondità assai variabile, da meno di 2 fino a 3 metri. La larghezza fra gli argini varia da 80 a 100 m. o meno (appena 75 m. a Ponte Sant’Angelo).

    La «scafa» sul Tevere presso Ponzano.

    Variazionedelle portate medie annue del Tevere (periodo 1921-50)

    Nella quarta sezione, dopo i rilievi dell’EUR a sinistra e del Trullo a destra, la valle si apre di nuovo e il fiume vi divaga ancora; compaiono meandri morti, uno dei quali presso Ostia fu rotto nella disastrosa inondazione del settembre 1557. Ma il fiume è ormai accompagnato da arginature in terra e il fondovalle è sistemato. Modesti ma frequenti i fossi confluenti ; i maggiori a destra sono il fosso Malafede e il fosso di Galeria, che si versa a Ponte Galeria. A valle sulla destra, come sulla sinistra, siamo ormai in aree di bonifica presso che ultimata.

    Il delta del Tevere

    Il delta del Tevere è oggi costituito da due rami — quello di Fiumara e quello di Fiumicino — che si bipartono a Capo Due Rami, distante circa 7 km. e mezzo in linea retta dal mare (Faro di Fiumicino). La storia del delta possiamo ricostruire solo nelle linee generali, soprattutto perchè — e questo è di per se stesso un fatto di gran rilievo — il suo incremento non è stato affatto regolare, ma anzi molto vario nelle diverse epoche; e per lunghi periodi ci mancano dati sicuri. Si può prendere come punto di partenza la linea di costa alla fine della età repubblicana, quando Ostia era ancora in piena attività come sbocco marittimo di Roma: la città aveva una porta a mare, detta appunto Porta Marina, della quale restano tuttora i due stipiti ad attestare la esatta posizione; lì presso, sulla sponda destra del fiume erano i magazzini portuali, dei quali rimangono cospicui avanzi. E proprio qui convergono due arcuati cordoni di dune, il cui percorso, nonostante alterazioni intervenute in seguito, si può ancora perfettamente ricostruire e indica la linea di spiaggia di allora, arretrata in corrispondenza alla foce di Fiumara di circa 4-5 km. rispetto a quella attuale. La foce nell’età regia, quando, secondo la tradizione, essa fu occupata da Anco Marzio, era forse circa 1 km. più all’interno, ma tracce sicure non sembrano riconoscibili. Verso la fine del I secolo a. C. l’accesso a Roma per via fluviale diveniva sempre meno facile, come apprendiamo da un passo molto interessante di Strabone (lib. V, cap. 3°), che vide i luoghi verso il 30 a. Cristo. Egli designa Ostia come importuosa — àÀ-jisvo; — per l’apporto del limo da parte del Tevere accresciuto da molti affluenti. Pertanto — aggiunge — le navi non senza pericolo si ancorano, ma preferiscono restare galleggianti al largo: piccole imbarcazioni accorrono per scaricare le merci dalle grandi navi e con carico leggiero risalgono a ritroso il fiume fino a Roma; il percorso è precisato in 190 stadi, pari a circa 35 km., computando evidentemente tutte le curve. Una pratica simile rimase poi sempre in uso e con mezzi e procedimenti diversi si applica tuttora.

    Il Tevere presso la foce.

    Un nuovo porto era già stato progettato da Cesare e poi da Augusto; ma Ostia era una grande città e nessuno poteva pensare a spostarla. Il nuovo porto fu creato da Claudio nel 42 d. C., poi ampliato e attrezzato da Traiano, che lo denominò Portus Romae; esso distava da Ostia appena 4 km.; il bacino principale aveva forma esagonale e vi si accedeva direttamente dal mare per un canale. In connessione con questi grandiosi lavori, Claudio fece scavare due canali o fosse che dovevano servire anche ad agevolare lo smaltimento delle acque di piena; Traiano ne conservò uno, che è l’attuale ramo settentrionale del Tevere, oggi denominato di Fiumicino; l’area interposta fu detta Isola Sacra.

    La foce del Tevere.

    Il delta del Tevere: fotografia dall’aereo (1944). Caratteristico il pennello alla foce di Fiumara. Si vede il regolare esagono del Lago di Porto e appaiono chiaramente i successivi cordoni di dune a nord del ramo di Fiumicino ed anche nell’Isola Sacra e a sud del ramo di Fiumara.

    Plinio, che scriveva al tempo di Tito (Nat. Hist., Ili, 5, 9), afferma con evidente esagerazione che il Tevere poteva accogliere dal Tirreno navi di qualsiasi grandezza, ma non fornisce altri dettagli utili. Qualche notizia si può ricavare, invece, da Procopio che parla del Tevere (Bell. Goth., I, 26) in connessione con l’assedio posto ad Ostia (già devastata da Alarico nel 408) nel 537 da Vitige; egli indica la distanza da Roma al mare in 126 stadi (km. 23,1) e quella dal punto di biforcazione alla linea di spiaggia in 15 stadi (km. 2,8); afferma inoltre che entrambi i rami del Tevere erano accessibili alla navigazione, ma che le merci erano caricate su navi che venivano poi trainate da buoi lungo la sponda fino a Roma.

    Ma per trovare un altro punto fermo nella determinazione dell’incremento del delta tiberino, bisogna arrivare al secolo XVI, cioè poco meno di 15 secoli dopo l’età di Claudio: una carta assai dettagliata, la Carta della Campagna Romana di Eufrosino Della Volpaja (1547), della quale qui si riproduce uno stralcio, ci dimostra lo stato delle cose a quell’epoca. L’avanzamento in circa 1500 anni sarebbe stato di circa 2 km. in corrispondenza della foce principale. Ma certamente in questo lungo periodo l’incremento non fu uniforme: rapido negli ultimi secoli dell’Evo Antico, più lento per tutto l’alto Medio Evo, di nuovo più celere a partire dal secolo XIII o XIV. Tali divari nel ritmo di avanzamento, che si sono probabilmente verificati anche per altri fiumi tributari del Tirreno, sono da porsi in relazione col fatto che nelle regioni interne più elevate del bacino tiberino si ebbe durante il Medio Evo un naturale rimboschimento, e, come conseguenza, una minore intensità nell’azione denudatrice e perciò un minore apporto di materiali in sospensione. La ripresa del diboscamento, conseguenza delle cresciute richieste di legname per la navigazione marittima e di altre esigenze, avrebbe determinato una rinnovata intensificazione dell’azione erosiva sulle pendici denudate del bosco.

    Il delta del Tevere ed il suo incremento approssimativo dall’età classica in poi.

    Carta della Campagna Romana di Eufrosino Della Volpaja (1547) con la foce del Tevere.

    Negli ultimi quattro secoli l’avanzamento del delta è stato più lento ; esso si può ricostruire in base a documenti cartografici, suffragati dalla determinazione di successivi cordoni di dune (o tumoleti) ed anche dalla posizione delle torri costiere di guardia, delle quali si conosce la data di fondazione. Come dato di fatto generale si può accennare che l’avanzamento sarebbe stato in ogni epoca maggiore se una parte dei materiali riversati in mare dal fiume non fosse trasportata da correnti litoranee. Queste sono per vero molto irregolari e variano di senso secondo i venti prevalenti nelle diverse stagioni ; ma sembra siano più attive nella direzione di sudest : sabbie con elementi di provenienza tiberina sono state raccolte fino a Torre Astura e più oltre.

    E poi da tener presente che l’opera dell’uomo — non assente nell’età classica — è intervenuta in vario modo dal secolo XVI in poi, soprattutto negli ultimi novanta o cento anni. Lungo il litorale vi erano stagni e lagune; aree acquitrinose occupavano le depressioni fra l’uno e l’altro cordone di dune; scavi di canali ed opere di prosciugamento furono avviati più volte, anche prima che intervenissero le più recenti, grandiose opere di bonifica, delle quali si farà cenno più avanti. Oggi la sistemazione della regione deltizia può dirsi ultimata, ma essa ha cancellato o alterato molti lineamenti naturali, con la demolizione di cordoni di dune, il colmamento di barriere, lo scavo di canali, ecc. Il ramo di Fiumicino è ormai canalizzato e il rettilineo canale fu protetto sin dalla fine del secolo XVI da una «palificazione»; oggi è accompagnato, nell’ultimo tratto (nei pressi dell’omonimo centro), da banchine e lo sbocco a mare costituisce il porto di approdo e di imbarco della navigazione fluviale. Nel ramo di Fiumara (che costituisce la vera foce del Tevere) si osserva un caratteristico pennello di foce, di figura assai mutevole, come dimostra il confronto fra i rilievi degli ultimi decenni; i cordoni di dune recenti sono in parte spianati, ma l’incurvarsi in avanti di essi in prossimità della foce è ancora visibile.

    Regime e navigabilità del Tevere

    La denominazione tanto comune di «biondo Tevere» risale all’antichità (jlavus Tiber) ed è dovuta, come è noto, alla quantità di materiali minuti in sospensione o torbide che il fiume trasporta nel corso inferiore. Il valore di essi fu calcolato, a Roma dove il Tevere ha già ricevuto tutti gli affluenti più attivi nel lavorìo di erosione, in kg- 335.7 al secondo in media, pari ad oltre io milioni e mezzo di tonnellate l’anno, un quantitativo quasi incredibile. Se tali materiali fossero asportati in ugual misura su tutta la superficie del bacino (17.156 kmq.), il valore medio annuo della denudazione sarebbe di 0,266 millimetri. Per denudare di un metro l’intero bacino occorrerebbero 3759 anni!

    Come è noto, il Tevere ha un regime molto irregolare nei vari tronchi, in relazione alla natura (costituzione e permeabilità) dei terreni ed al regime delle piogge; qui interessa dire qualche cosa solo del tronco laziale. Le portate di magra, calcolate in 10 mc./sec. a monte della confluenza col Nera, salgono a oltre 90 mc./sec. a valle di quella confluenza, il che significa che la portata di magra del Tevere è per nove decimi formata dal contributo del Nera. Tale portata ben raramente scende sotto i 100 mc./sec., ed è superata solo — fra i corsi d’acqua della Penisola — da quella del Po. La portata media a Orte è calcolata a 178 mc./sec., a Roma (idrometro di Ripetta, media 1921-50) è di 239 mc./sec., con un minimo in agosto-settembre (128-138 mc./sec.), un altro minimo in luglio (141 mc./sec.) e due massimi, in febbraio (350) e in marzo (330). Nelle piene la portata facilmente può essere decuplicata e in piene eccezionali può raggiungere, secondo calcoli ufficiali, fin verso i 3300 me./secondo.

    Il Tevere in piena all’Isola Tiberina (Roma).

    Le piene e le conseguenti inondazioni hanno perciò raggiunto non di rado proporzioni spettacolari e fino al principio del secolo XX hanno costituito un pericolo per la stessa Roma ed ancor oggi d’inverno possono trasformare vasti tratti delle campagne a monte ed a valle della città, in laghi o acquitrini dalle acque giallastre e limacciose.

    La menzione di gravi inondazioni è frequente già nelle fonti antiche: la prima fu quella del 414 a. C., cui seguirono altre nel 216, nel 202, nel 195 e nel 194, nel 191 (in corrispondenza a un periodo di copiosissime piogge), nel 69, nel 54, nel 23 e nel 14 a. C. ; infine nel 4 d. Cristo. L’inondazione del 194 viene indicata come la più disastrosa. Augusto, sotto il cui impero si verificarono le tre inondazioni ultimamente ricordate, istituì una speciale magistratura per attuare provvedimenti protettivi, che poi, riformata da Tiberio, ebbe il nome di curatores riparimi et alvei Tiberis. Si escogitarono opere di varia specie, che peraltro si rivelarono inefficaci: una più disastrosa inondazione si verificò nel 15 d. Cristo. Claudio in seguito provvide, come si è detto, a far scavare due canali o fosse a valle di Roma per smaltire rapidamente le acque di piena e ciò portò forse qualche vantaggio; ma nuove piene avvennero nel I e II secolo d. C., delle quali cinque o sei (negli anni 61, 105, 119, 139, 164) sono indicate come particolarmente gravi; un’altra poi si ebbe nel 271, una ancora nel 398, altre nei secoli seguenti.

    Per le epoche successive si ha un diligente catalogo in una opera ben nota: Il Tevere incatenato di Bonini. Gravissima fu quella del 1378 della quale è ricordo in segnali murati su alcuni edifici della città per indicare il livello raggiunto dalle acque; e segnali simili per piene posteriori si vedono ancora di frequente qua e là in città. Dopoché fu ordinata da Clemente XI la costruzione del porto di Ripetta (1703), furono segnati su due colonne i livelli raggiunti anche da piene più antiche; altri segnali rimangono sulla facciata della chiesa di Santa Maria della Minerva e nel cortile del Palazzo Corsini alla Lungara. Nel 1822 fu installato l’idrometro di Ripetta e da esso si deduce che la piena del 1598 raggiunse il livello di m. 19,56, mai per l’innanzi registrato. Una grossa piena si era avuta un quarantennio prima, nel 1557, altre, disastrose, nel 1660, nel 1870, nel 1900. Altre notevoli piene si ebbero ancora nel 1929, nel 1937 e nel 1947. In quella del 1870 si raggiunse il livello di m. 17,22, mentre in quella del 1900 si toccarono i m. 16,17, tanto da farle considerare fra le maggiori che la storia ricordi. Nella piena del 1870 l’acqua riversatasi nelle vie della Roma bassa superò in taluni punti i 3 m. ; anche in occasione di quella del 1900 le vie e strade della zona del Pantheon e vicinanze erano intransitabili. Ma il governo italiano con la gigantesca opera dei cosiddetti muraglioni — elevati dopo il 1870 — era riuscito finalmente a contenere o « incatenare», come voleva il Bonini, il Tevere in città.

    Il Tevere in piena a Ponte Vittorio Emanuele (Roma).

    Sulla navigabilità del Tevere le fonti antiche forniscono dati alquanto contrastanti: Livio ci informa che il re Perseo fatto prigioniero, fu tradotto a Roma su una nave dotata di 16 serie di rematori, e Ammiano Marcellino narra che l’obelisco laterano, lungo 31 m. e pesante 450 tonn., potè risalire il Tevere, su una nave provvista di 300 rematori, fino a circa 5 km. a valle di Roma. Qui si tratta di operazioni del tutto eccezionali; ma se prestiamo fede al passo già riferito di Plinio, il Tevere poteva essere utilizzato per prolungare la navigazione fino a Roma. D’altronde, in città, sotto l’Aventino ed in altri punti, furono trovati avanzi di banchine e di magazzini mercantili. Certo è, pertanto, che la città era accessibile dal mare, ma tanto meno quanto più crebbe col tempo la mole delle navi mercantili, onde spesso si ricorreva al sistema del trasbordo delle merci dalle navi stesse, ancorate alla foce, su imbarcazioni minori. Certo è del pari che fino a Roma giungevano dalla Sabina e dall’Umbria nei mesi invernali piccole navi adibite al trasporto di merci e soprattutto di commestibili: lo apprendiamo indirettamente anche da Plinio che aveva dei possessi rurali presso Tifanum. Anche l’Aniene era navigabile nel corso inferiore.

    Al principio del Medio Evo, con la decadenza di Ostia, si riduce anche il traffico fluviale ed i provvedimenti di vari pontefici intesi a ripristinarlo non ebbero che effetti temporanei o saltuari. Alla fine del secolo XVI si avviarono lavori per rimettere in efficienza la foce di Fiumicino e si pensò anche a ripristinare il porto di Traiano, ma bisogna arrivare alla fine del secolo XVII per vedere ripreso in esame il problema della navigazione sul Tevere. Innocenzo XII fece costruire (1692) il porto di Ripagrande con magazzini per ricevere le merci via mare; dieci anni dopo (1703) Clemente XI ordinò la costruzione del ricordato porto di Ripetta per le imbarcazioni provenienti invece dalla Sabina e dall’Umbria. Un accuratissimo rilievo del Tevere da Perugia al mare fu eseguito nel 1744 dagli ingegneri A. Chiesa e B. Gambarini e non pochi progetti furono elaborati (C. Meyer, ecc.) per ripristinare la navigazione almeno fino ad Orte.

    Portate medie del Tevere a Roma (periodo 1921-50).

    Portata media mensile della Marta a Traponzo (m. 48).

    Portata media mensile del Velino a Terria (m. 370).

    Portata media mensile dell’Aniene a Lunghezza (m. 23).

    Portata media mensile del Garigliano a Suio (m. 2).

    Roma. Come si presentava, poco più di mezzo secolo fa, il vecchio porto detto di Ripagrande sul Tevere.

    Nel secolo XIX il Tevere venne utilizzato dalla foce fino a Roma sia abitualmente per l’inoltro di merci a buon mercato (vino, legname), sia eccezionalmente per il trasporto di oggetti pesanti, come le colonne di granito per la basilica di San Paolo (nel 1827-28) e altri pezzi per la stessa basilica più tardi. Nel 1842, per opera di Alessandro Cialdi, fervente sostenitore del ripristino della navigazione sul Tevere, i primi battelli a vapore solcarono le acque del fiume.

    Vedi Anche:  La valle dell'Aniene

    Ma una regolare navigazione meccanica, nonostante molte proposte, non fu mai istituita. Oggi la navigazione a monte di Roma è presso che scomparsa, troncata dalla ferrovia; per quella a valle, utilizzata ancora da merci pesanti, fu costruito (all’inizio del sec. XX) il nuovo porto fluviale di San Paolo, detto, in senso stretto, porto di Roma; è cessato tuttavia il suo traffico interamente da un decennio (gennaio 1954).

    Legato strettamente alla navigazione fluviale verso Roma (avendo pure raccolto tutto il traffico di porto San Paolo) è ora il ricordato piccolo porto-canale di Fiumicino, presso l’omonimo ramo del Tevere. La sua funzione è, oggi come ieri, quella di porto di rifornimento della capitale, verso la quale si dirigono le merci sbarcate, soprattutto oli minerali, ma non mancano marmi, granito, sughero, ecc. Lo sbarco degli oli minerali avviene con tubature dalle petroliere, che sostano al largo, su piccole navi-cisterna (bettoline), che risalgono il Tevere verso lo stabilimento della raffineria Purfina, o su autobotti.

    Gli affluenti del Tevere

    Degli affluenti del Tevere non appartiene al Lazio il Nera, ma, in conseguenza dell’irregolare confine amministrativo, gli appartiene, per la maggior parte del suo corso, il principale tributario del Nera, il Velino con il Salto e il Turano; gli appartiene ancora, per tutto il suo corso l’Aniene. Tutti questi fiumi hanno in comune la caratteristica di essere in gran parte alimentati da sorgenti carsiche sovente assai copiose, alla base di massicci calcarei, il che ha influenza sul loro regime.

    Cotilia Terme (Rieti), Rovine della chiesa di Santa Maria (1613) nella Piana di San Vittorino.

    Il fiume Velino presso Antrodoco. Sullo sfondo il Monte Giano.

    Il Velino (90 km. di corso) ha origine in un anfiteatro di montagne sopra Cittareale da varie sorgenti, delle quali è considerata come principale quella denominata Capodacqua, e corre dapprima in una valle angusta che tra Posta e Antrodoco assume, come si è già altrove accennato, l’aspetto di orride gole, al piede orientale del Terminillo; poi attraversa incanalato in un alveo artificiale rettilineo una conca (la Piana di San Vittorino) nella quale è alimentato da un ingente tributo di acque sorgentizie, fra cui è la ricchissima sorgente Peschiera, una delle più copiose dell’Appennino calcareo; le sue acque sono oggi — dopo grandiosi lavori — in buona parte utilizzate per impianti idroelettrici, in parte captate e, immesse in un lungo acquedotto in galleria, contribuiscono all’alimentazione idrica di Roma e di altre località del Lazio. Il Velino si inoltra poi nella conca di Rieti, antico bacino lacustre, dove lo raggiungono il Salto e il Turano; dopo la confluenza di quest’ultimo ha portate medie di circa 51 mc./sec., ma nelle massime arriva ad oltre 320, nelle minime scende ad appena 3 mc./sec. Incanalato nella piana reatina, riceve le acque dei Laghi Velini (Piediluco, Lungo e Ripa Sottile) e salta il gradino che separa questa conca da quella di Terni, con le spettacolari cascate delle Marmore (m. 165), oggi interamente regolate dafl’uomo con opere grandiose il cui inizio risale peraltro già all’età classica.

    Il tronco superiore del Salto, denominato Imele, è in Abruzzo, in una regione tipicamente carsica nella quale anzi il fiume si perde in un grottone presso Tagliacozzo per risorgere più a valle. E la ricchezza di acque dipende quasi esclusivamente da alimentazione carsica, poiché affluisce con ogni probabilità al fiume una vasta rete sotterranea dei Monti Carseolani e forse anche del Monte Nuria; una diga a gravità — edificata nel 1939 — di m. 108 (che è la più alta di questo tipo, fra quelle costruite in Italia), lo sbarra ai Balzi di Santa Lucia dando origine ad un serbatoio di

    269,5 milioni di me., uno dei più ampi della Penisola. Altrettanto può dirsi del Turano che, per mezzo della diga di Posticciola (m. 80), forma un serbatoio di 150,1 milioni di me. Questo serbatoio è collegato a quello del Salto da una galleria lunga 9 km. circa; da quest’ultimo poi una galleria forzata alimenta la grande centrale di Cotilia.

    L’Aniene, che si unisce al Tevere a Roma (99 km. di corso e 1414 kmq. di bacino), nasce dai Monti Simbruini in due rami: l’Aniene vero e proprio, che ha la sua sorgente principale (Capo Aniene a 1200 m. sul mare) sul fianco meridionale del Monte Tarino ed è presto accresciuto da un’altra grossa sorgente, ilPertuso; e ilSimbrivio che si origina sui fianchi del massiccio del Monte Autore e vicini. Tutto il bacino sorgentifero è costituito da calcari in genere permeabili con complessa circolazione sotterranea e non è escluso anzi che arrivino all’Aniene acque sotterranee da aree appartenenti ad altri bacini. Dopo la confluenza dei due corsi d’acqua sopra menzionati, l’Aniene scorre in una valle longitudinale, molto angusta ed incassata, senza ricevere fino ad Agosta, tributi importanti tranne quello della sorgente detta deH’Inferniglio presso Ienne. La pendenza media del letto, tra la confluenza col Simbrivio e Subiaco, è del 18 per mille. A Subiaco, dove termina il corso superiore montano, il fiume formava nella tarda età antica, tre laghetti artificiali, fatti costruire da Nerone, i Simbruina stagna, prosciugatisi nel basso Medio Evo. Più a valle, tra Àgosta e Roviano, s’immettono altre grosse sorgenti carsiche, le più cospicue delle quali sono captate sin dall’Evo classico per approvvigionamento idrico: le condutture dell’Acqua Marcia forniscono ancora un notevole tributo a Roma per l’alimentazione idrica e per le numerose, ricche fontane.

    Veduta dell’Aniene a Castel Madama.

    Ma il solco vallivo, oltre Subiaco è poco abitato; i paesi sono in alto sulle ripide pendici a destra e a sinistra; solo dopo Roviano, dove il fiume cambia direzione, la valle si fa più ampia, fa posto ad aree coltivate e a strade, e qui vanno sorgendo nuclei abitati, da genti discese dalle zone più elevate. In questa sezione l’Aniene è accresciuto a sinistra dal Fiumicino e daH’Empiglione, a destra dal Licenza, l’antico Digentia.

    Poco a monte di Tivoli la valle si rinserra di nuovo; si approssima il gradino col quale l’orlo del Subappennino calcareo precipita sulla Campagna Romana e questo gradino l’Aniene salta con le pittoresche cascate e cascatelle ormai in gran parte regolate dairuomo anche con lo scavo di gallerie artificiali. Ma anche in tutto il tratto a monte delle cascate l’uomo è intervenuto con opere varie allo scopo di utilizzare le acque per la produzione di energia idroelettrica. Sono anzi questi tra i più antichi impianti del Lazio e tuttora tra i più cospicui.

    L’Aniene nella Campagna Romana è un fiume a carattere ben diverso e l’uso popolare lo designa infatti con un altro nome, Teverone. La valle è ormai assai ampia e il fiume vi divaga a meandri, ricevendo a sinistra il tributo dell’Acqua Felice e dell’Acqua Vergine e quello di modesti fossi provenienti dai Colli Albani, a destra quello della grossa sorgente solfurea delle Acque Albule. A Lunghezza, a circa 25 km. dalla confluenza col Tevere, la portata media è di 34 mc./sec., con minime inferiori alla metà (11,6 mc./sec.), e massime al colmo fino a 865! Le piene maggiori sono quelle invernali (dicembre-febbraio), un altro periodo di piena si ha di regola fra la metà di marzo e la fine di aprile; le portate minime sono quelle estive (luglio-settembre).

    Dopo un’ultima serpentina sotto la collina di Antenne, che perpetua il nome di un vecchissimo centro latino (Antemnae), l’Aniene si versa nel Tevere. La sua valle rappresenta la più comoda via da Roma al centro dell’Abruzzo. Come via navigabile, se pure il fiume fu utilizzato nell’età antica, oggi (e probabilmente sin dal Medio Evo) non ha più la minima importanza. E invece largamente utilizzato per produzione di forza motrice, come già si è accennato e come meglio vedremo in seguito.

    Il Liri-Garigliano ed il Sacco

    Il sistema idrografico del Garigliano (lungo 158 km.), il cui bacino è calcolato in 4950 kmq. (compreso il Fucino), rientra per intero nel Lazio attuale se si eccettui la regione superiore del Li ri — la vai Roveto — profondamente incassata tra ripide pareti di montagne calcaree, nella quale il fiume riceve (dal 1874) ^ tributo dell’emissario artificiale del Fucino (ora prosciugato). Il Liri ne esce poco a monte di Sora, dove si allarga in una conca (280 m. sul mare); è qui ancora poco più di un torrente irregolarissimo quanto a portate (massime fino a 390 mc./sec., minime al disotto di 4!), ma presto è impinguato dalle copiose acque carsiche convogliategli dal fiume Fibreno (originato dal Laghetto di Posta), cosicché ad Isola del Liri, dove forma una piccola, graziosa cascata, può azionare alcuni notevoli impianti idroelettrici. Una breve stretta lo avvia alla grande pianura — la più vasta del Lazio interno, come già si è avuto occasione di dire — nella quale lo raggiunge il Sacco, che gli porta il tributo della regione fra i Monti Ernici e Lepini. Di quest’ultimo fiume il Liri continua la direzione percorrendo per intero la pianura dove divaga in complicati meandri, fino alla confluenza col Rapido o Gari. In quella pianura riceve a sinistra il Melfa che si origina dai Monti della Meta e gli porta gran parte delle acque di questo massiccio e, per mezzo del Mollarino, quelle del piovoso versante meridionale delle Mainarde. Si dirige di nuovo il Liri a sudest passando sotto Pontecorvo e, dopo la confluenza col Gari (che raccoglie le acque del gruppo delle Mainarde), assume propriamente il nome di Garigliano; al cambiamento di nome corrisponde un mutamento di direzione: il fiume scorre tra le propaggini meridionali degli Aurunci e il Monte Camino, poi a monte delle Terme di Suio entra addirittura in una stretta tra gli Aurunci ed il rilievo vulcanico di Roc-camonfina, dai quali riceve ancora il tributo di copiose sorgenti anche minerali. All’uscita di questa gola inizia la piana terminale, formata in massima parte da tufi e materiali vulcanici eruttati dal Roccamonfina e dalle alluvioni del fiume stesso, che vi divaga con una successione di meandri. Qui — all’incontro con la Via Appia — lo raggiunge a destra l’Ausente. La portata media del Garigliano a Suio è di poco superiore a 120 mc./sec. ; si hanno altresì magre molto accentuate (43 mc./sec.) e piene in novembre-dicembre (1220 mc./sec.) e marzo. Nelle piene furono registrate portate fino a 1500 mc./sec. al colmo e le zone pianeggianti — specie a valle di Suio — sono spesso soggette ad inondazioni.

    La valle del Liri vista dall’Abbazia di Montecassino.

    Gli impianti per l’utilizzazione delle acque a scopo industriale sono numerosi: agli antichi di Isola Liri e del Fibreno, se ne aggiungono di nuovi, anche di grande rilievo (centrale e cartiera a Cassino, centrale nucleare nel territorio di Sessa Aurunca in Campania, in un’ansa a 7 km. dalla foce, ecc.).

    Dal 1927 il Garigliano segna il confine tra il Lazio e la Campania mentre più a monte tale confine è, come già si è accennato, segnato quasi sempre dalla cresta displuviale fra il Liri da un lato e il Sangro e Volturno dall’altro.

    Se pertanto il Liri-Garigliano ha una porzione marginale nel Lazio amministrativo attuale, fiume laziale per eccellenza è il suo principale affluente di destra, il Sacco, la cui valle, frequentata e abitata da tempi remoti come la miglior via di accesso dal Lazio alla Campania, è designata spesso addirittura come Valle Latina; e il Sacco stesso come fiume di Campagna. Il Sacco, lungo 87 km., ha origine dal Monte Casale nei Pre-nestini dove una bassa soglia, della quale si è già segnalata l’importanza, lo separa dal bacino del Tevere. Uno dei suoi primi affluenti, il Savo, ha intaccato la cinta craterica del Vulcano Laziale, erodendo a ritroso, così da dare origine ad una piccola, ma singolare e orrida gola. Tra i Lepini da un lato e i Monti Prenestini ed Ernico-Simbruini dall’altro, la valle del Sacco è, dopo la soglia su indicata, quasi sempre assai ampia e soggetta a inondazioni da parte del fiume, capriccioso e talora irruento; ma collinette e piccoli dossi emergono dal piano e su questi, come sulle alture circostanti, si sono insediati centri, villaggi e borgate agricole, muniti però di robusti castelli. La valle è continuata, come sopra si è detto, da quella del Liri cui il Sacco tributa sotto Ceprano. Questa città dette nome al «passo» dove più volte, nel corso dei secoli, si combattè per arginare l’accesso al Lazio di truppe provenienti dal Mezzogiorno.

    Il laghetto di Posta (tra Sora e Alvito).

    I fiumi minori tributari del Tirreno

    Dei fiumi laziali che tributano al Tirreno, a nord del Tevere, il più importante, la Fiora non rientra che in parte, a causa della irregolarità tante volte segnalata del confine attuale, entro il Lazio amministrativo: si tratta della sezione di pianura o maremmana e del versante sinistro, che raccoglie tutte le acque del fianco sudoccidentale e del rilievo Vulsinio, inciso dall’Olpeta e dal Timone in vallecole anguste divergenti a ventaglio. La rete idrografica si è qui probabilmente stabilita in epoca geologicamente recente, dopo il Pliocene ed è molto irregolare. Un altro torrente che si origina presso l’Olpeta e il Timone, detto Arrone, ha una foce a mare indipendente; il vicinissimo fosso Capecchio raggiunge invece la Marta. Questa è l’emissario del Lago di Bolsena, ma raccoglie, per mezzo del Biedano, del Rigomero e di altri torrenti, le acque del versante occidentale dei Cimini; ha perciò un bacino imbrifero relativamente ampio (975 kmq.) occupato in buona parte da terreni poco permeabili. Il suo regime dipende dalla piovosità (intorno a 900 mm.) ed è caratterizzato da periodi di magra (luglio-agosto), durante i quali talora l’acqua si riduce a poco più di un filo, e da piene invernali (dicembre-febbraio). La media annua della sua portata è di 7,5 me./secondo.

    A sud della Marta si versa nel Tirreno un altro Arrone (1), l’emissario del Lago di Bracciano, che, come diremo più avanti trattando del lago, è regolato all’incile, in modo che entra in funzione soltanto quando le acque del lago (delle quali una parte è perennemente immessa nell’acquedotto Paolo) superano un certo livello. Il bacino dell’Arrone è ristrettissimo perchè tra Marta e Arrone, altri torrenti, tra i quali il Mignone, vanno direttamente al mare, o più ad est il fosso di Galeria, che corre quasi parallelamente all’Arrone, tributa invece al Tevere. Questa così singolare e complessa rete idrografica è il risultato della formazione degli apparati vulcanici della Tuscia Romana e, come si è detto, si è stabilita solo in epoca recente.

    Recente, anzi in parte recentissima è la rete idrografica dei tributari del Tirreno fra la foce del Tevere e Gaeta. Dei numerosi fossi che scendono dai Colli Laziali l’unico di qualche importanza è l’Astura alla cui foce era nel Medio Evo un approdo frequentato da navi per carico di legname. Gli altri corsi d’acqua, il Sisto, l’Amaseno, l’Ufente, Ninfa e Cavata, alimentati da sorgenti carsiche, talora assai cospicue dei Lepini (l’Amaseno si origina proprio nel cuore della montagna), in pianura sono stati interamente sistemati dall’uomo contemporaneamente alla grande bonifica, della quale si parlerà più avanti. Il fiume Ninfa nasce dal lago omonimo e poi si getta nel Sisto, che con la bonifica ha assunto la funzione di collettore delle acque basse; il Cavata raccoglie le acque di molte sorgenti pedemontane e si getta nella Linea Pio, a Foro Appio; l’Ufente e l’Amaseno scorrono l’uno a destra e l’altro a sinistra di Priverno, si incontrano a Ponte Maggiore e sboccano con un ramo, detto Portatore, a Porto Badino. Egualmente di recente sono stati regolati tutti i corsi d’acqua (fossi) della Piana di Fondi bonificata.

    Alcuni dati caratteristici sui principali corsi d’acqua del Lazio sono riassunti nella seguente tabella:

    Fiume

    Superficie lei bacino imbrifero kmq.

    Lunghezza del corso km.

    Portate medie (mc./sec.)

    Tevere

    17.156 (a)

    405

    239 (Ripetta)

    Aniene

    1.414

    99

    34 (Lunghezza)

    Liri-Gagliano

    4.950

    158

    122 (Suio)

    Sacco

    961 (b)

    87

    Marta

    1.090 (c)

    70

    7,5 (Traponzo)

    Mignone

    487

    62

    Astura

    256

    51

    Amaseno

    382 (d)

    44

    8 (Fossanova)

    (a) Bacino complessivo (del quale 4500 kmq. appartenenti al Lazio),

    (b) Bacino sino alla confluenza col Liri.

    (c)    Compresa la superficie del Lago di Bolsena (114,53 kmq.).

    (d)    Bacino sino ad 11 km. dalla foce.

    I laghi vulcanici del Lazio

    Un elenco elaborato nel 1925 (R. Riccardi) novera 24 laghi entro i limiti amministrativi del Lazio attuale, senza contare i bacini e serbatoi artificiali. I dati morfome-trici dei principali laghi sono stati raccolti in una tabella, riportata nell’appendice. I più ampi ed importanti tra essi sono i laghi vulcanici, raggruppati in corrispondenza dei quattro maggiori apparati vulcanici laziali, già altrove descritti.

    Il più vasto è il Lago di Bolsena (Volsinienis lacus degli antichi), che occupa con la forma ellittica una posizione centrale nell’apparato Vulsinio, a 305 m. sul livello del mare. L’area è calcolata in kmq. 114,53, comprese due piccole isole, la Martana (kmq. 0,10) e la Bisentina (kmq. 0,17), forse resti di crateri secondari; la profondità massima (146 m.) si trova nella parte centrale, in una conca a lieve pendenza. Il declivio subacqueo ad est presenta una scarpata a forte pendenza nelle immediate vicinanze della costa, mentre ad ovest, tra la costa e la scarpata si interpone un’area sublitoranea a pendenza piuttosto dolce. Il fondo in tutta la parte centrale è pianeggiante. L’origine della conca lacustre si attribuisce alla fusione di più crateri vicini, le cui pareti divisorie sarebbero crollate, sia per effetto di esplosioni nei periodi di attività — ed è provato che questi furono parecchi — sia per opera di frane quando quella si spense. Si avrebbe perciò a che fare con un lago policraterico, ma la ricostruzione di tre cerehie crateriche, proposta da alcuni studiosi, non è affatto sicura, anzi la batimetría del lago non sembra favorevole a questa ipotesi. Del resto delle condizioni fisiche del lago si conosce poco: uno studio sistematico, proposto fin dal primo decennio di questo secolo dalla Società geografica italiana, è stato accantonato. Dalle poche misure di temperatura eseguite risulta che sotto i 100 m. le acque hanno una temperatura costante di 7°; ma serie sistematiche di scandagli termici difettano, come mancano raccolte di saggi di fondo. Si sa invece che nel lago si verificano sesse, dovute ad oscillazioni longitudinali, uninodali del livello del lago; esse sono sensibili special-mente a Marta, dove sembra che la differenza fra il livello minimo e il massimo possa raggiungere, talvolta, perfino 30 cm., cosicché essa è avvertita anche dagli abitanti che dicono che il lago « renfia ».

    La conca del Lago di Bolsena.

    Il lago è alimentato da modeste sorgenti e da piccoli fossi nel ristretto bacino imbrifero: appena 154,71 kmq. L’alimentazione è perciò prevalentemente piovana, ma della pioggia caduta nella parte asciutta del bacino imbrifero, costituito in maggioranza da terreni permeabili, una buona parte va perduta. Il livello del lago è perciò soggetto a notevoli oscillazioni stagionali. Il modulo medio annuo di evaporazione fu calcolata in 1300 mm. Emissario del lago è la Marta, sistemata nel secolo XIX.

    Il Lago di Bolsena con l’Isola Bisentina.

    Il Lago di Bolsena con Capodimonte.

    Il lago è noto per il fenomeno della «fioritura delle acque», già descritto da Plinio. Ed i Romani celebravano la prelibata qualità delle anguille (ricordate anche da Dante, Purg., XXIV, 24), cui si aggiungono altri pesci, tra cui tinche, carpe, lucci ed i coregoni bianchi introdottivi dal Lago di Como (nel 1897). Centro principale di pesca è Marta con l’Isola Martana; il pesce viene avviato al mercato di Roma.

    Tra i crateri secondari dell’apparato Vulsinio, uno tra i meglio conservati, quello di Làtera, ospita nel fondo (a 455 m. sul mare) il piccolo Lago di Mezzano (0,47 kmq. di superficie e profondo fino a m. 31) di forma circolare, che ha per emissario l’Olpeta tributario della Fiora. Si suole identificare in questa conca lacustre il Lacus Stato-niensis dei Romani.

    Molto singolare è il Lago di Vico — a 507 m. sul mare — che occupa la parte centrale dell’apparato vulcanico Cimino. Si è già visto che esso consta di due edifici, dei quali il più antico è mal ricostruibile perchè in esso si è sovrapposto e in parte incastrato l’edificio più recente la cui cinta craterica è tuttora ben conservata (Monte Fogliano 963 m., Poggio Nibbio 896 m.); entro di esso si è inserito un altro cono regolare, il Monte Venere (838 m.) prodotto da un’eruzione indubbiamente posteriore. Tra la cinta craterica ed il cono di Monte Venere è rimasto un atrio circolare, che, cessata l’attività eruttiva, fu per intero occupato da un lago a forma di anello, perfettamente chiuso. Il bacino lacustre cosi formato era alimentato quasi esclusivamente da piogge ed aveva perciò un livello molto variabile; nelle piene le acque trovavano sfogo da una slabbratura della cinta craterica, a sudest, tra il Poggio del Cavaliere e il Monte Tosto. Nel secolo XVI fu scavato un emissario artificiale, consistente in un cunicolo che si riversa nel fosso Vicano, affluente della Treia e perciò del Tevere. Ne derivò un abbassamento del livello delle acque di circa 20 m. e per conseguenza il prosciugamento della parte settentrionale del lago, dove non rimase che un’area acquitrinosa, le pantanacce; lo specchio lacustre assunse quasi la forma di un ferro di cavallo, del perimetro di 18 km.; l’area è di poco superiore a 12 kmq.; la massima profondità di m. 49,5; il bacino imbrifero di soli 30 kmq. Il lago è molto ricco di pesce (tinche, persici, lucci, ecc.); nel 1920 vi furono immessi, dal Lago di Bolsena, i coregoni che si sono ambientati e moltiplicati. Sulle rive del lago non vi è alcun centro abitato.

    Il Lago di Bolsena.

    Il Lago di Vico secondo una carta del 1878.

    Il Lago di Vico.

    I bacini lacustri dell’apparato vulcanico Sabatino erano in origine cinque: il Lago di Bracciano, il più esteso, il Lago di Martignano, i Laghi di Baccano e Stracciacappe, ora prosciugati, e un po’ più lontano a nordest il piccolo Laghetto di Monterosi.

    Il Lago di Bracciano, a 164 m. sul mare, ha un perimetro di 31 km. ed un’area di kmq. 57,47. La profondità massima di 160 m. si trova in un’area centrale a fondo piatto verso la quale il declivio subacqueo, dopo una scarpa assai ripida, discende dolcemente. Tale scarpa a nordovest e a nord si inizia subito sotto il pelo delle acque, continuando il declivio subaereo qui molto ripido, mentre a sud e ad est, tra la costa e l’inizio della scarpa, si stende una platea subacquea a piano dolcemente inclinato. Questa configurazione non si accorda molto con l’origine del lago, attribuita alla fusione di cavità crateriche contigue, ma è da osservare che le forme superficiali furono alterate da crolli e l’area centrale fu certamente colmata da materiali discesi dalle pareti circostanti. Una parte notevole del contorno del lago sembra formata da crateri minori sventrati in direzione del lago stesso. Uno, quanto mai caratteristico, è a nord quello di Trevigiano, che invaso dalle acque forma una singolare appendice del lago; altri due a est, la valle dell’Inferno e il Lagusello sono oggi all’asciutto (il Lagusello fu prosciugato artificialmente dai proprietari Mondragone).

    Vedi Anche:  La Sabina

    Il Lago di Vico e il Monte Fogliano.

    Il Lago di Bracciano: cratere di Trevignano.

    Il lago ha una forma quasi circolare e per sé un modesto bacino imbrifero (93 kmq.); è alimentato da piccole sorgenti, tra le quali le più note sono quelle termali di Vicarello, le antiche Aquae Apollinares, e da numerosi fossi; perciò il livello delle acque è soggetto a notevoli oscillazioni stagionali. In origine era un lago chiuso: fu captato dall’Arrone quando la più profonda slabbratura del l’orlo craterico, ad est di Anguillara, fu progressivamente abbassata per erosione. Ma quando fu costruito l’acquedotto Paolo, che porta a Roma le acque delle sorgenti Traiane, furono in esso immesse, per accrescerne la portata, le acque del lago, cosicché per questo intervento dell’uomo si verificò la singolarità che il lago è in parte tributario del Tevere per le acque immesse nell’acquedotto, in parte del Tirreno cui va l’Arrone. Alla fine del secolo XVIII l’incile dell’Arrone fu sbarrato da una diga, con 5 porte, e ad essa fu aggiunto nel 1877 uno sfioratore. Oggi come smaltitore permanente del lago funziona l’acquedotto Paolo; quando il livello delle acque si eleva a più di 70 cm. sopra la soglia di presa dell’acquedotto, il soverchio è immesso neH’Arrone. Il lago ha oscillazioni interne, simili alle sesse.

    Il Lago di Martignano che occupa un regolare cratere.

    Il Laghetto di Monterosi.

    Il Lago di Bracciano è abbastanza ricco di pesci: persico, luccio, tinca, latterini, anguilla, coregone; i centri di pesca sono Trevignano e Anguillara (sede di un’incubatrice ittica).

    Un cratere secondario — o meglio un gruppo di crateri secondari — dell’apparato sabatino, ottimamente conservato, è occupato dal Lago di Martignano, a 207 m. di altitudine, di regolare forma ellittica (perimetro km. 6), con un’area di kmq. 2,49, e profondo fino a 53 metri. Con la depressione paludosa che gli fa seguito ad est potrebbe considerarsi come originato dalla fusione di tre crateri. Il lago non ha emissario. Le sue acque alimentavano le sorgenti di Traiano delle quali si è parlato sopra.

    Un orlo rilevato separa il cratere di Martignano da quello gemello di Straccia-cappe, che era un tempo un lago, o piuttosto una palude di 31 ha. a rive incerte, che si espandeva nelle piene. Nel 1834 fu prosciugato per mezzo dell’acquedotto Paolo che portò le acque nel Lago di Martignano.

    Quasi nello stesso tempo fu prosciugato definitivamente il cratere di Baccano, anch’esso una cavità regolarmente circolare, a fondo piatto, sulla quale correva sin dall’antichità la Via Cassia; su di essa era anzi la stazione di Ad Bocanas che ha dato nome alla località. Opere di prosciugamento erano già state fatte più volte, forse sino dall’antichità; nel 1838 i Chigi fecero scavare un canale centrale, il fosso Maestro, che convogliando le acque dei minuscoli fossati scendenti dal versante interno della cinta craterica le immise, presso l’Osteria dell’Ellera, nel fosso della Mola.

    L’ampia cavità delle valle di Baccano, un tempo tristemente nota per la malaria, è divenuta dopo la bonifica un’area, con un diametro di circa 2 km., che presenta i pendii interni a prati ed il fondo (a 210 m.) intensamente coltivato.

    Il più settentrionale dei crateri avventizi nell’apparato Sabatino è occupato dal Laghetto di Monterosi, a 239 m. sul mare, a contorno quasi perfettamente circolare (km. 2), non più ampio di 32 ha. e poco profondo (fino a m. 8,2).

    L’apparato vulcanico Laziale comprende tre laghi maggiori, quello di Albano, quello di Nerni e quello di Ariccia, ora prosciugato, e parecchie altre conche lacustri minori, già ricordate ma ora tutte scomparse.

    Il Lago di Albano o di Castel Gandolfo (il lacus Albanus degli antichi, cioè il Lago di Alba), a 293 m. di altitudine, ha forma ovale con un perimetro di 10 km. e un’area di 6,02 kmq. Le sue rive, quasi ovunque molto ripide, presentano verso il mezzo due opposte sporgenze che determinano come uno strozzatura dell’ovale; secondo l’ipotesi più probabile, che considera il lago formato dalla fusione di due crateri contigui, tali sporgenze rappresenterebbero i superstiti frammenti del comune orlo demolito. La profondità massima, nella parte sudorientale, è di 170 m., molto rilevante rispetto all’ampiezza del lago, onde il volume della massa acquea supera i 464 milioni di metri cubi. Ristrettissimo è il bacino imbrifero (10,95 kmq.) onde l’alimentazione è dovuta solamente alle acque piovane; e pertanto il lago sarebbe soggetto a rilevanti oscillazioni stagionali, se il livello non fosse stato sin da tempi antichissimi regolato da un emissario sotterraneo, che si vuole scavato dai Romani nel 398 a. C., dopo una piena eccezionale, e che funziona ancora: esso ha il suo imbocco sotto l’altura di Castel Gandolfo e, con un percorso di circa 2500 m., porta le acque al fosso dei Preti, tributario a sua volta del rio Malafede, che le getta infine nel Tevere, 5 km. a valle di Roma.

    Il Laghetto della Doganella.

    Il Lago di Albano visto da Rocca di Papa.

    Il lago è menzionato frequentemente dalle fonti classiche perchè presso le sue rive sorgeva Alba Longa, da cui il nome di Lago di Alba; la cittadina di Albano non è ricordata che nei primi tempi del Cristianesimo, mentre sulle rive lacustri sorgevano nell’antichità numerose ville, ma dopo la distruzione di Alba non si ebbe alcun centro ragguardevole.

    Il lago è assai ricco di pesce (latterini, tinche, anguille, coregoni, cefali, ecc.) ed ha una propria singolare fauna pelagica. Fitti boschi discendono fino sulle acque dai fianchi orientali e sudorientali rendendo le rive particolarmente suggestive.

    Il Lago di Nemi, le cui acque sono attualmente a 316 ni. sul livello marino, occupa anch’esso il fondo di due antichi crateri laterali fusi insieme per il crollo dell’orlo contiguo: questa origine è più evidente che quella analoga del Lago di Albano, se non che una gran parte del fondo craterico settentrionale è ora all’asciutto e lo era già nell’antichità se qui era, come si ritiene, il tempio di Diana, che aveva dato anche nome al lago (speculimi Dianae). Il perimetro del lago è di km. 5,5, la superficie di kmq. 1,67 e la profondità massima di m. 34. Le sponde erano — e sono tuttora — ripidissime specialmente a nordest, sotto l’altura di Nemi e a sudovest sotto quella di Genzano, dove gli orli delle cavità crateriche sono talora addirittura a picco.

    Il Lago di Nemi.

    Il lago ha un piccolissimo bacino imbrifero (kmq. 13,53) ed è alimentato da modesti ruscelli ma soprattutto da acque piovane; esso è privo di emissario naturale, tuttavia le acque erano (e sono) smaltite da un cunicolo artificiale scavato in epoca antichissima, ma imprecisata, che ne diversa le acque nella Valle Ariccia; se non che tale emissario, frequentemente ingombro o semiostruito, era (prima del 1927) spesso poco efficiente, onde il livello del lago andava soggetto ad oscillazioni.

    Sin dal secolo XV era nota l’esistenza sul fondo del lago, a nordovest, di due navi romane (del tempo dell’imperatore Caligola) e più volte erano stati fatti tentativi per rimetterle a galla, ma inutilmente. Nel 1927 fu deciso di raggiungere lo scopo abbassando parzialmenente il livello del lago : fu ottenuto, con gigantesco lavoro, rialzando e rettificando l’emissario ed immettendovi l’acqua per mezzo di elettropompe. Il livello delle acque, che era a circa 318 m., fu abbassato di ben 22 m., onde il suo contorno risultò sensibilmente modificato. Le navi furono tratte in secco e sistemate in apposite tettoie, ospitanti anche un piccolo nucleo di oggetti ritrovati ; ma esse furono date alle fiamme — con atto inconsulto — da soldati tedeschi il 1° giugno 1944. Il livello del lago si è successivamente elevato ed ora, come si è detto, si trova a 316 m. sul mare; la profondità media risulta di 20 m. circa. Vi si pescano tinche, lucci e coregoni.

    Quanto alla cavità già lacustre detta ora Valle Ariccia, a forma di ovale regolarissimo, essa rappresenta pure, con ogni probabilità, un cratere di esplosione estraneo però alla cerchia principale del Vulcano Laziale, ma ha rilievo molto meno accentuato : il fondo piatto è oggi asciutto e tale era presumibilmente — tranne forse qualche area acquitrinosa — fin dall’antichità, perchè le fonti classiche non parlano mai di un terzo lago.

    Più lontana dall’apparato Laziale, è — a nord di esso — la depressione denominata ora valle di Castiglione, che fu certo un lago — il lacus Gabinus degli antichi, così detto dalla città di Gabii della quale restano tuttora rovine — e col nome di Lago di Burano è menzionato anche in documenti del Medio Evo e dell’età moderna; esso fu prosciugato per opera dei Borghese mediante un canale che si scarica nel fosso dell’Osa. Prosciugato e messo a coltura è oggi anche il vicino Pantano Borghese che si ritiene, ma senza sicuro fondamento, corrisponda al Lago Regillo degli antichi, da identificarsi invece, come si è detto, con l’attuale valle di Prata Porci. Ma per entrambe queste cavità l’origine da crateri di esplosione è tutt’altro che accertata.

    Laghi residui, carsici e glaciali

    Essendo aggregata al Lazio la provincia di Rieti, risultano compresi nella nostra regione alcuni dei cosiddetti « Laghi Velini », laghi residui del vasto bacino (o Lago Velino) che nel Quaternario occupava la Piana di Rieti. Sono il Lago di Cantalice o Lungo, che consta di tre lame lacustri strettamente connesse, con un’area complessiva di circa 78 ha. ed una profondità massima (nel Lago Lungo propriamente detto) di m. 7 ; il Lago di Ripa Sottile, a poco più di un chilometro di distanza dal precedente, di poco più di 1 kmq. di superficie, profondo circa m. 7,5, e il piccolo Laghetto di Ventina; tutti e tre appartengono al bacino del Velino. I due primi laghi sono pescosissimi.

    Non rientra nei confini del Lazio il Lago di Piediluco che, dopo il Trasimeno, è il più importante lago dell’Umbria.

    Tra le numerose conche carsiche dei monti laziali ve ne sono alcune il cui fondo è occupato interamente o parzialmente da laghi. Questo è il caso della conca di Rascino nel massiccio del Nuria, a 1142 m. di altitudine. Il bacino lacustre, a rive bizzarramente frastagliate, incerte perchè le acque sono soggette a notevoli oscillazioni di livello, ha un’area variabile tra 22 e 28 ha., secondo le stagioni ed una profondità massima di 4 metri. Non ha immissari nè emissari visibili, ma si ritiene riceva per via sotterranea le acque della vicina conca di Cornino, più elevata (1150 m.) e che del pari per via sotterranea smaltisca le acque per mezzo di una o più cavità assorbenti, situate presso l’orlo settentrionale, in corrispondenza del punto di massima profondità. Si afferma che in occasione del terremoto di Avezzano del 1915 il lago si svuotasse quasi interamente, forse per l’allargamento dell’emissario sublacustre; ma dopo pochi mesi esso aveva ripreso la sua fisonomía.

    Uno dei laghetti di Percile.

    Anche i due minuscoli laghetti di Percile in Val Licenza — il maggiore ha un’area di 9 kmq. e profondità di 16 m.; l’altro ha una superficie di 251 mq. ed è profondo 40 m. — occupano il fondo di doline, e altri piccoli laghetti di doline permanenti o temporanei potrebbero ancora essere menzionati. Nella Piana di San Vittorino, traversata dal Velino, si trovano cinque laghetti carsici, di cui il maggiore è quello di Paterno (lungo 200 m., largo 150 e profondo 45). Ma più meritevole di un cenno particolare è il Lago di Canterno, che occupa la parte più depressa di una conca carsica nel Subappennino ernico a sudest delle Fonti di Fiuggi: è il più grande lago carsico dell’Italia centrale ed è un lago periodico, perchè soggetto a temporanei svuotamenti (lungo 1,7 km., largo 700 m. e profondo fino a 12,6 m.).

    La conca si apre nei calcari (cretacei e miocenici) ricoperti da uno strato abbastanza spesso di tufi leucitici più o meno alterati e misti ad argille che qua e là impermeabilizzano il fondo dando luogo a stagni e pantani più o meno estesi. Ai primi del secolo XIX il Lago di Canterno non esisteva: al suo posto vi era una pianura coltivata, traversata da un fosso profondo, che terminava ad un inghiottitoio detto il Pertuso, a 548 m. sul mare. Più a nord, sotto il Monte Corniano, due fossi — Diluvio e Cese confluivano ad un altro inghiottitoio detto Bocca di Muro o Sgolfo. Questo peraltro cominciò intorno al 1821 ad essere ostruito dai materiali fluitati e qualche anno dopo divenne inattivo. Allora le acque dei fossi Diluvio e Cese furono incanalate nella fossa del Pertuso e questa cominciò a sua volta ad ostruirsi per il nuovo apporto di materiali fluitati. Ne derivò il ristagno delle acque e la progressiva formazione del lago, che, in epoche di massima estensione arrivò a coprire un’area di 80-95 ha. con un perimetro di oltre 6 chilometri. Se non che quando il lago raggiungeva un certo livello, la massa delle acque esercitava una pressione sufficiente a sfondare l’ostacolo e il lago si svuotava completamente, o più spesso, parzialmente. Notevole è che allorché le acque a poco a poco ricomparivano esse erano già ripopolate di pesci adulti: si suppone che in tempi di magra o di secca, essi potessero trovar rifugio in cavità sotterranee riempite di acqua, connesse con l’emissario. Dall’origine gli svuotamenti del lago avvennero una dozzina di volte a intervalli irregolari: si hanno più sicure notizie degli svuotamenti recenti del 1882, del 1894, del 1913, del 1918 e 1923. Il lago poteva restare a secco solo pochi giorni come nel 1882 e 1894 oppure per parecchi mesi come nel 1913-14. L’intervallo più lungo fra due svuotamenti fu di 19 anni (1894-1913). E da rilevare che, allorché l’inghiottitoio si liberava i pescatori si affrettavano a cercare di ostruirlo con fascine e rami per ricuperare il più presto possibile la loro fonte di guadagno.

    Lo svuotamento del 1913 mise completamente in luce l’inghiottitoio, a forma di imbuto, che dapprima a lieve pendìo, presto si trasformava in un solco profondo tra pareti di calcari: alla sua estremità occidentale si apriva il Pertuso, una porta alta 2,50 m., larga un metro e mezzo, che conduceva in un corridoio poco acclive sbucante a sua volta in una piccola grotta in parte interrata.

    Il Lago carsico di Canterno nel Subappennino laziale prima delle recenti opere di bonifica.

    Attualmente il lago è sistemato per azionare una centrale elettrica; durante i lavori il lago fu prosciugato e riapparve l’inghiottitoio largo un centinaio di metri. Il lago ha perduto la caratteristica più singolare, la periodicità, ed ha perso per conseguenza la notorietà che lo segnalava come fenomeno di particolare rarità.

    Non infrequenti sono qua e là nel Lazio piccoli laghi che si formano in seguito a sprofondamenti della coltre superficiale (di materiali alluvionali o vulcanici) per suberosione nei calcari sottostanti: i più noti sono quelli dei dintorni di Leprignano (oggi Capena), tutti a carattere temporaneo. Uno, il cosiddetto Lago-puzzo, si formò nell’ottobre 1856 (ma forse aveva avuto dei precursori), era colmato nel 1900, ma si riformò nel gennaio 1930 ed è tuttora visibile; un altro, il Lago Nuovo, si formò il 12 aprile 1895 ed assunse l’aspetto di un imbuto largo 260 m., profondo 19; ora an-ch’esso è colmato al pari del vicino Lago Sinibaldi prosciugato artificialmente intorno al 1850. Alcuni minuscoli bacini si incavano nella coltre tufacea presso Passerano, altri, denominati localmente sprofondi, nella coltre alluvionale alla base dei Lepini; sono dovuti effettivamente a sprofondamenti di quella coltre per crolli della volta di cavità sotterranee; di alcuni di tali crolli si ha notizia già da scrittori dell’età romana.

    Non bene identificato è un lago spesso menzionato dagli antichi : il Lago Vadimone, noto per la singolarità di isole galleggianti sulle sue acque, del quale Plinio il giovane dà una descrizione accurata in una sua lettera. Presso di esso il console Dolabella sconfisse i Galli nel 283 a. Cristo. Forse corrisponde al Laghetto — oggi poco più che stagno — di Bagnaccio, a 8 km. da Viterbo, che un tempo doveva essere assai più esteso.

    Di laghi glaciali solo uno ne esiste nel territorio del Lazio attuale ; è il Lago della Duchessa, in un lembo della montagna omonima, che, per la più volte segnalata irregolarità del confine, rientra nella provincia di Rieti.

    Il lago occupa il fondo di un circo glaciale a 1788 m. di altitudine sotto la costa del Monte Morrone, circondato da nude, ripide pareti calcaree; sotto al ciglio che rinserra il lago a valle, il pendìo scende dapprima ripido, poi si spiana in un’altra conca, forse residuo anch’essa di un circo aperto a valle; tutte le forme di questa parte alta della montagna conservano tracce, se pure in parte cancellate, di modellamento glaciale; lembi morenici sono riconoscibili ad ovest del lago.

    I laghi costieri

    Al fine di rendere completa la descrizione dei bacini lacustri nel Lazio, resta da dire qualche cosa dei laghi costieri, i quali rimangono oggi soltanto a sud del Tevere, nell’Agro Pontino e nella Piana di Fondi. Della pesca in questi laghi si parlerà nel capitolo decimo.

    Il Lago di Fogliano con un lavoriero per la pesca.

    I quattro laghi pontini, divisi da aree di colmamento recente ed acquitrinose prima delle ben note opere di bonifica, sono separati dal’ mare — come già altrove fu detto — da lunghi cordoni di dune e presentano — specialmente i due maggiori la riva occidentale, verso il mare, rettilinea, e quella orientale per contro frastagliata da insenature che penetrano entro terra con ramificazioni (bracci); i bracci sono poi continuati verso l’interno da piccole vallecole e un tempo da allineamenti di minuscoli laghetti (piscine), ora prosciugati.

    Questi specchi d’acqua erano inizialmente delle lagune che si trasformarono poi in raccolte d’acqua dolce e tali rimasero per lunghissimo tempo. Fin dal periodo romano furono eseguite delle opere volte a regolare le superfici lacustri che non mancavano di inondare le aree adiacenti; e queste opere furono proseguite o restaurate da alcuni pontefici, mentre in tempi a noi vicini intervennero i Caetani. Ma la definitiva sistemazione dei quattro laghi costieri fu attuata contemporaneamente alle opere di bonifica e trasformazione agraria delle Paludi Pontine, realizzate — come si dirà più diffusamente in seguito — tra il 1926 ed il 1935. Le più importanti opere eseguite consistettero nel rettificare la forma dei bacini, arginandola e stabilizzando la superficie. Nel contempo si provvide a rendere regolare in alcuni ed a migliorare in altri il ricambio dell’acqua marina, che portò da una facies in prevalenza dulci-cola ad una di tipo salmastra. Di altre opere realizzate per i laghi pontini si parlerà fra breve in occasione della loro descrizione particolare.

    Il più esteso è il più settentrionale, il Lago di Fogliano che prima della bonifica era soggetto ad oscillazioni di livello stagionali e pertanto le sue rive piatte erano facilmente inondabili; esso aveva un perimetro di circa 13 km., e un’area (media) di kmq. 4,97. Una carta di cinquant’anni fa mostrava un braccio di comunicazione col mare (la cosiddetta Foce Vecchia) sboccante presso la diruta torre di Fogliano; un altro braccio (Foce Nuova) fu scavato nel 1920 un chilometro e mezzo più a nord-ovest, onde poteva avvenire uno scambio di acqua tra il mare e il lago, le cui acque sono perciò un po’ salmastre (21‰).

    Il lago riceve parecchi piccoli immissari dei quali il più importante è il canale Cicerchia, che peraltro reca assai poca acqua; un altro immissario, il fosso di Mastro Pietro riceveva d’estate parte delle acque del fiume Astura, immesse mediante una chiusa posta su quest’ultimo. Se guardiamo carte più vecchie, per es. quella dell’Astolfi del 1777, troviamo rappresentati il bacino centrale — della Cicerchia — come un po’ più allungato entro terra, ed un altro frastagliato, il Bracciolo, ora interrato; in prossimità dell’estremità nordovest si aveva un piccolo bacino detto « il Laghetto ».

    In connessione con i recenti lavori di bonifica sono state rese stabili, mediante massicciate e argini, le rive interne ed è stata regolata la comunicazione col mare. L’area del lago è risultata un po’ ridotta a 4,12 kmq. La sua profondità non supera i 2 metri. Il lago è abbastanza ricco di pesce.

    Un breve canale metteva in comunicazione il Lago di Fogliano col vicino, minor Lago dei Monaci, nel quale arrivano oggi parte delle acque del rio Martino mediante un canale artificiale. Vecchi dati gli attribuivano un perimetro di km. 3,5 e un’area di 0,73 kmq. ; ora il bacino è del tutto sistemato artificialmente e copre una superficie di 0,95 kmq., mentre il perimetro è pari a km. 4,1.

    Anche il terzo lago, quello di Caprolace, comunicante prima della bonifica col Lago dei Monaci per mezzo di un vecchio canale, la fossa Papale, è stato regolato in occasione dei lavori di bonifica; l’area è di 2,28 kmq., il perimetro di km. 8,4 circa. Entrambi questi due piccoli laghi sono stati resi autonomi e messi in comunicazione diretta col mare: quello di Caprolace versa il soverchio delle acque in mare per mezzo della foce di San Nicolò e del canale della Lavorazione. Il Lago di Sabaudia, detto in passato Lago di Paola (o anche della Sorresca, dalla piccola chiesa di Santa Maria della Sorresca, tuttora esistente sulla riva meridionale del braccio dell’Annunziata), è il più caratteristico per il contrasto fra la rettilinea riva lunga ben 6,7 km. volta al mare, dal quale è separato da un bel cordone di dune recenti, alte 20-25 m., e la riva interna frastagliata da sei bracci di diversa forma e profondità: Annunziata (già ricordato), Caprara, Arciglioni o Arsioni, Carnarola, Molella e Bagnara (o Vigna). Nella già menzionata carta dell’Astolfi alcuni di questi bracci sono un po’ più addentrati e in prosecuzione di essi si notano, entro terra, delle piscine: la piscina della Smorzatura, in corrispondenza del braccio degli Arciglioni, la Veronica in corrispondenza della Carnarola, la Carafa e la Cupa in corrispondenza della Bagnara. Il lago non riceve che piccoli immissari ; col mare comunica per un emissario all’estremo sud, che è un antico canale romano, regolato, in relazione al livello del lago, da una saracinesca; all’estremità settentrionale fu aperto poi un’altro collegamento, utilizzando la vecchia fossa Augusta (che lo univa al Lago di Caprolace prima della bonifica), raccordato al mare con un canale, scavato in direzione trasversa alla duna litoranea. Il perimetro del lago è di circa 20 km., la lunghezza massima di circa 6,7 km., l’area di kmq. 3,80. Sulla profondità, per quale i dati erano in passato discordi, si ha ora una serie di misure recenti, dalle quali si rileva che le profondità massime (fino a m. 13) si trovano a breve distanza dal cordone litoraneo, all’incirca in corrispondenza dei diversi bracci. Ciò conferma che i bracci rappresentano estremità di vallecole subaeree di una precedente idrografia, più tardi sommerse e sbarrate verso il mare per la formazione del cordone litoraneo.

    Dopo la bonifica, sulle rive nordorientali del lago, che per l’innanzi erano rivestite da fitta macchia e del tutto prive di abitazioni, è sorta (negli anni 1933-34) cittadina di Sabaudia, con installazioni per sports nautici, ecc. ; sulle dune, percorse da una strada, si è sviluppata la Marina di Sabaudia: ne sono conseguite anche modificazioni di alcune sezioni delle rive, e sul cordone litoraneo demolizioni o spianamenti di dune, ecc.

    Vedi Anche:  Montagne e pianure del Lazio

    Più complesse sono le condizioni del Lago di Fondi — a forma di mezzaluna — che occupa, in parte, la sezione sudoccidentale della piana omonima, orlata anch’essa lungo il mare da un cordone litoraneo di dune. Ma il bacino lacustre è oggi — e già nell’antichità — lontano dal mare e anzi verso l’estremo sudovest si addossa al Monte Giusto. Le rive sono frastagliatissime sia nella parte interna, dove si addentra verso nord il lungo braccio della Portella, che si avvicina all’omonima località, sia anche sul lato rivolto al mare. Esso è alimentato da numerosi corsi d’acqua: ad ovest dal fosso Viola e dai fossi della sorgente Portella, ad est da una vera e propria rete di fossi in buona parte regolati e canalizzati in virtù della bonifica della parte orientale della piana principale, tra cui il rettilineo canale dell’Acqua Chiara mediante il quale la cittadina di Fondi comunica col lago; esso riceve a sua volta un ventaglio di canali minori, mentre altri sfociano direttamente nel lago. Questo ha due emissari: ad est il fiume Sant’Anastasia, a corso sinuoso, lungo 2,8 km. e sfociante presso la torre omonima; ad ovest il fiume Canneto, un po’ più breve (2,4 km.), rettilineo. Fra i due emissari, il lago ed il mare si stende il cosiddetto Salto di Fondi, già ricordato, un tempo occupato da fìtta macchia e da zone paludose, ora del tutto bonificato e ridotto a coltura; un centro residenziale è in via di formazione da qualche anno. Al lago si attribuisce un perimetro di km. 27,5 e un’area di 4,42 kmq. ; le rive sono ancora accompagnate specie ad ovest e ad est da aree soggette ad impaludamenti d’inverno. Una profondità di 18 m. sarebbe stata misurata ad ovest, quasi di fronte all’imbocco dell’emissario Canneto; ma si afferma che in questa sezione occidentale, più sotto la montagna, si raggiungerebbero maggiori profondità, fin verso 30 metri.

    Il Lago di Fondi, dominato dalla torre del Pesce.

    Il Lago di Fondi.

    Il lago ha acque leggermente salmastre ed ospita tanto pesci lagunari, come la spigola, il cefalo, l’anguilla, quanto pesci d’acqua dolce, come la carpa, la tinca, il luccio, raiosa, ecc.

    La Piana di Fondi nella sua sezione sudorientale, ospita altri due piccoli laghi: il Lago Lungo, che è un vero e proprio lago litoraneo allungato parallelamente alla costa, dalla quale è separato per un cordone di dune (area 0,5 kmq. ; profondità massima m. 6,50), e il Lago di San Puoto, di forma quasi trapezoidale, più nell’interno, meno esteso (0,35 kmq.), ma molto profondo (32 m. secondo recenti misure), che è in comunicazione dal 1920 con il primo per mezzo di un rettilineo emissario artificiale (lungo 600 m.). Le acque del Lago San Puoto sono dolci, mentre salmastre si presentano quelle del Lago Lungo, in collegamento col mare mediante un breve emissario artificiale. L’ittiofauna del primo è molto povera (si hanno tinche, scardole, anguille) ; invece quella del Lungo presenta saraghi, marmori, sogliole, cefali, ecc.

    Esistono ancora nel Lazio diversi laghi artificiali — specie nella regione montana — formati dall’uomo in epoca recente, ma di essi si parlerà nel capitolo dedicato all’industria idroelettrica.

    Sorgenti carsiche e vulcaniche

    A render complessa l’idrografia del Lazio contribuisce l’esistenza di numerosi bacini carsici nei quali le acque scompaiono, dando inizio al loro corso sotterraneo. Essi sono frequenti soprattutto nei calcari, ma si riscontrano pure nelle molasse. Le acque che penetrano in profondità impiegano molto tempo prima di tornare alla luce a causa delle variazioni di pendenza, delle soste in corrispondenza di laghi sotterranei e di ostacoli di vario genere.

    Le sorgenti si dispongono generalmente ai piedi delle superfici assorbenti più elevate, allineate lungo una fascia sorgentifera, oppure si dispongono parallele alle dislocazioni tettoniche a contatto di terreni diversi (per es. calcari e molasse).

    La falda da cui sgorgano s’innalza dal mare verso i rilievi interni e viene incisa dalle valli principali. Quivi le acque emergono con sorgenti, rese palesi dagli incrementi di portata lungo alcuni tronchi fluviali: così nell’alveo del Garigliano lungo la gola di Suio, nella parte media dell’Aniene, lungo l’Amaseno ed il Turano. Un vistoso esempio di emergenza del livello di base è rappresentato dall’ininterrotta collana sorgentifera alla base del versante sudovest del sistema Lepino-Ausonio-Aurunco, mentre nel tratto costiero compreso fra Sperlonga e Gaeta le sorgenti sgorgano lungo la battigia del mare ed alcune anche un poco al disotto perchè senza forza ascensionale (Segre). Quest’ultimo autore, al quale si deve un’opera ben documentata sui fenomeni carsici del Lazio, ha classificato le sorgenti dei calcari in diverse categorie e cioè: d’interstrato, se l’acqua segue un giunto tra rocce di permeabilità diversa come quelle degli Ernici e dei Simbruini ; diaclasiche se provengono da fessure, come quelle dell’Aniene presso Filettino; di risorgenza carsica, e poi ancora per filtramento, quando l’uscita è occultata da detriti; di sfioramento, che si manifestano dove terreni impermeabili si appoggiano ai calcari e varie altre.

    Carattere comune a tutte queste sorgenti carsiche è la loro notevole variazione di portata; fanno eccezione per il loro regime regolare quelle che costituiscono gli emissari sotterranei di alcuni bacini lacustri, come è il caso della sorgente di Tufano (Anagni), che viene in parte alimentata dall’inghiottitoio del Lago di Canterno.

    Le sorgenti Peschiera ed Acqua Marcia meritano un cenno a parte. La prima è nella Piana di San Vittorino, che quasi prolunga a sudest la conca Reatina ed è un antico fondo di lago riempito da un mantello di alluvioni sotto le quali si trovano i calcari dei massicci montuosi circostanti a versanti ripidi e scoscesi. Tra questi, il già ricordato massiccio del Nuria, che nella parte alta è tutto sforacchiato da cavità carsiche, è teatro di una intensa circolazione acquea; ai piedi della costa di Santo Erasmo (m. 410 sul mare) — ultima propaggine nordoccidentale del Nuria — sgorga la suddetta, copiosissima sorgente Peschiera, la cui alimentazione si pensa che venga data in buona parte dalle acque assorbite dai piani di Raschio e di Cornino, sten-dentisi alla base del Nuria, e da quelle assorbite dalle parti elevate dei bacini del Salto e del Turano; ma della circolazione sotterranea entro questi rilievi nulla di sicuro si conosce finora. La sorgente sgorga su un fronte di quasi un chilometro ed ha portate oscillanti fra i 16 ed i 18 mc./sec. e una temperatura costante di 10°,7. Le minime portate si verificano normalmente in dicembre o in gennaio, e le massime, in luglio o agosto: quindi con un ritardo di 7-8 mesi sui massimi di pioggia. Prima dei lavori eseguiti per la costruzione dell’acquedotto che ha — come si è detto — portato a Roma una parte delle acque della sorgente, queste scaturivano, senza ribollimenti, così copiosamente che, appena uscite, per la ripidezza del pendìo tra le polle ed il canale che le convogliava al Velino, e per la presenza di grossi ciottoli e massi rotolati giù dai monti, scorrevano vorticose e si frangevano fragorosamente. L’acqua di tutte le polle si raccoglieva, e in buona parte si raccoglie tuttora, in un canale collettore — per lungo tratto rettilineo — costruito nel 1839 che, come si è detto, è affluente del Velino presso il margine ovest della piana.

    Sul margine settentrionale della Piana di San Vittorino si trovano alcune doline ed altre minori sorgenti; una di esse è molto nota perchè nelle immediate vicinanze fu edificata, nel 1613, la chiesa di Santa Maria. Questa oggi si è abbassata di oltre 2 m., di modo che l’acqua della sorgente vi è penetrata dentro e la invade fino all’altezza della mensa dell’altare maggiore. Le cause del fenomeno, che certamente non si è verificato all’improvviso, ma gradualmente, non sono pienamente accertate: si ritiene che possa trattarsi di un progressivo cedimento determinato dalle acque delle sorgenti stesse, le quali, percolando in profondità, hanno asportato materiali del sottosuolo provocando un vuoto sotto la chiesa stessa.

    Nella valle dell’Aniene, sotto Àgosta, le arenarie impermeabili che per buon tratto, a partire da Subiaco, avevano accompagnato il letto del fiume, scompaiono e affiorano invece i calcari cretacei permeabili. Per questo fatto le acque sotterranee vengono alla luce per un tratto di 3-4 km. e danno origine a varie grosse sorgenti, che hanno una portata complessiva di circa 8 me./secondo. E poiché le variazioni di portata nel corso dell’anno sono molto limitate (con valori un po’ più bassi, di circa 7 mc./sec. nel febbraio), bisogna supporre che il bacino d’alimentazione sia molto più esteso di quello rappresentato dal solo Aniene, per cui non è improbabile che ad alimentare le sorgenti contribuiscano, per via sotterranea, anche le acque del bacino del Fioio, affluente del Turano, che scorre alquanto più elevato e partecipa per circa due terzi all’alimentazione delle sorgenti. Di queste le più note e copiose (sorgenti Serena e vicine) sono quelle condotte a Roma (Acqua Marcia).

    Carattere diverso dalle sorgenti che sgorgano dai rilievi calcarei hanno le sorgenti delle regioni vulcaniche, dato che in queste ultime i depositi permeabili s’alternano spesso a terreni poco permeabili. Ceneri, lapilli (specie se poco cementati), pozzolane appartengono alla prima categoria, tufi (specie quelli litoidi) e lave alla seconda. Ma poiché le lave spesso sono fessurate, e in corrispondenza di esse che sgorgano per lo più delle grosse sorgenti. Ben nota è soprattutto l’idrografia sotterranea dei Colli Albani, che presenta piccole sorgenti sulle falde esterne del cono e sorgenti di maggior portata nel cratere interno, specie a occidente, dove si hanno le maggiori slabbrature, rappresentate dalla valle di Grottaferrata e dai Laghi di Albano e di Nemi, dato che le acque piovane, infiltrandosi nelle falde, si rivolgono per via sotterranea verso i punti più bassi; sono esse che alimentano i suddetti laghi e il fosso di Squarciarelli (Acqua Mariana), come pure a oriente, dove esiste una slabbratura minore, il Laghetto della Doganella. In qualche caso le sorgenti sono utilizzate per gli acquedotti locali, mentre tra quelle che sgorgano presso le falde settentrionali, più basse della linea di base del cono, sono da ricordare le sorgenti dell’Acqua Felice e dell’Acqua Vergine, dirottate verso Roma.

    Delle acque sorgive dell’Agro Romano si conosce abbastanza bene la distribuzione, dato che ne aveva curato una descrizione sommaria fin dal 1874 ^ Canevari, mentre poi è stata disposta la redazione d’un catasto molto accurato (1930). Così il De Angelis d’Ossat ha descritto nella valle dell’Arrone, emissario naturale del Lago di Bracciano, su un territorio di 150 kmq., 114 sorgenti, tra cui alcune, come la sorgente detta Rosciola nella tenuta di Santa Maria di Galeria, di discreta portata (14 l./sec.); portata pressoché equivalente ha la vicina sorgente di Brandusa. Nel contiguo bacino del rio Galeria (169 kmq.), affluente di destra del Tevere, sono state rilevate 131 sorgenti, tra le quali emergono quelle che si trovano attorno al fontanile di Cacciarella (10 l./sec.).

    Per sistemare l’idrografìa del Lazio, soprattutto nell’Agro Romano, hanno cominciato ad operare già i Romani, fin dalle epoche più antiche, dato che ad essi premeva addivenire al risanamento idraulico per combattere la malaria e per migliorare le condizioni delle terre da mettere a coltura. Copiose sono perciò le tracce lasciate di lavori di drenaggio e di fognature. I numerosi e già ricordati cunicoli che crivellano, anche in più livelli, i ripiani laziali attestano la grandiosità dei lavori compiuti. I piani delle gallerie, opportunamente inclinati, conducevano l’acqua raccolta nella parte più bassa, dove poteva venire attinta per mezzo di pozzi.

    Un particolare interesse presenta la distribuzione delle sorgenti nell’Agro Pontino, che sono in tutto una novantina con portata superiore a 5 l./sec., la maggior parte delle quali sgorga al piede dei Lepini, là dove i massicci permeabili vengono a contatto con la pianura, per cui non mancano aspetti comuni all’idrografia carsica, come la loro intermittenza e l’intorbidamento dopo prolungati periodi piovosi. Spesso sorgenti con acque dolci e potabili coesistono con acque minerali e non mancano sorgenti sulfuree e ferruginose. Tra le sorgenti più importanti maggior portata hanno quelle di Ninfa (da 2520 a 3100 l./sec.), in grado perciò di essere sfruttate per l’approvvigionamento idrico di alcune città (Latina, ecc.), di Sardellane nel comune di Sezze (con portata oscillante tra 1400 e 1800 l./sec.), tributaria dell’Ufente, e quella di Feronia nel comune di Terracina, che alimenta il Pedicata che, sottopassata l’Appia, si immette nel canale navigabile di Terracina. D’un certo interesse è anche la risorgenza esistente in corrispondenza ai Laghetti del Vescovo, che per via sotterranea mandano le loro acque all’Ufente attraverso il fiumetto dell’Acqua Zolfa. Importanti sono pure le sorgenti che affiorano all’estremità meridionale degli Ausoni e degli Aurunci, utilizzate per l’irrigazione e per gli acquedotti dei vicini centri.

    Numerose perforazioni eseguite nella Pianura Pontina allo scopo di rinvenire acqua potabile hanno potuto accertare la presenza d’una falda con temperatura di poco superiore a 15° tra 25 e 55 m. di profondità.

    Acque minerali

    Nel Lazio le sorgenti di acque minerali sono abbastanza frequenti e distribuite in tutte le province; ciò è da’metter in rapporto coll’esistenza dei sistemi vulcanici che si interpongono tra le regioni calcaree e la fascia costiera alluvionale. La termalità delle acque è da attribuirsi a fenomeni secondari dell’attività vulcanica. Tale è per esempio il caso di alcune delle sorgenti più note, quelle delle Acque Albule, che devono certamente la loro termalità (sui 23°) e gran parte della loro mineralizzazione a gas caldi d’origine infratellurica. Lo stesso si può dire delle acque di Vicarello (o sorgenti Apol-linari) che presentano una termalità ancora maggiore (49°), le quali sgorgano in vicinanza di Bracciano, e rappresentano una manifestazione residua dell’attività vulcanica dell’apparato Sabatino. Proprio nell’abitato attuale di Roma si trova la sorgente dell’Acqua Acetosa, ricordata da Andrea Bacci fin dal 1561, e consigliata come rimedio tonico corroborante dello stomaco dai più famosi medici dei secoli passati. Essa sgorga presso le pendici delle collinette dette Monti Paridi, presso Villa Glori, e il rilievo è costituito alla base da sabbie argillose, in parte coperte da materiale tufaceo, con delle argille impermeabili che determinano l’esistenza d’una falda idrica; l’acqua ha una mineralizzazione molto considerevole ed appartiene alla categoria delle bicarbonato-alcaline. Buona rinomanza ha avuto in passato anche l’Acqua Santa, che sgorga alla periferia della città, sulla Via Appia Nuova. Connesse coll’attività postuma dei Cimini sono invece le acque minerali che sgorgano ad occidente di Viterbo, tra le quali è nota soprattutto quella del Bulicame. Meno chiara è invece l’origine delle acque di Fiuggi, classificate tra le oligo-minerali (con scarso residuo di sostanze disciolte in un litro). Secondo il Marotta esse, probabilmente, provengono da masse di calcari del Cretaceo che costituiscono l’ossatura geologica della conca di Fiuggi e che giacciono a contatto coi tufi leucitici incoerenti, che formano notevoli depositi di probabile origine eolica. Attraversando i tufi, l’acqua perde molta parte dei sali disciolti ed acquista dai tufi stessi il potere radioattivo. Lungo la linea di perimetro della sponda destra del Garigliano, quasi al livello del fiume e nel suo stesso letto, sgorgano le numerose e note sorgenti termali e minerali di Suio, la cui temperatura varia da 36° a 48°, e che, per la loro natura, si devono, certamente, collegare con il vulcanismo residuo di Roccamonfina. Infinito è dunque il numero delle sorgenti minerali, che si estendono per circa 4 km. lungo il corso del fiume, fra il fosso Salomone, dove iniziano, e le falde del monte su cui sta il paese di Suio. Anche sul lato sinistro del Garigliano si presentano numerose le sorgenti, ma sono a maggior distanza dal suo alveo e sgorgano a livelli superiori a quelle di destra; sono anche meno frequenti e danno una quantità di acqua relativamente minore. Le sorgenti della riva destra sono per lo più sulfuree, quelle della riva sinistra sulfuree, acidule, ecc. ; talune fredde, altre tiepide e termali. Una sola fra le acque termali è incrostante ed è quella dove sorgono le Terme Tudini, in località Sant’Egidio. Tutte le altre sono sedimentizie : depositano per lo più zolfo amorfo, ed una — quella detta di Catafri — deposita ossido e carbonato di ferro. Le acque minerali hanno poi nomi particolari indicanti luoghi o specialità loro proprie, come, ad esempio, l’acqua sotto Sant’Egidio, l’acqua dell’Inferno, l’acqua delle piaghe, degli occhi, dei dolori, ecc. Oltre poi alle sorgenti visibili, che da sole danno un notevole apporto d’acqua, molte altre affiorano — come si è accennato — al livello delle acque del Garigliano o nel suo letto e si manifestano mediante ribollimenti o bolle che appaiono alla superficie.

    Ma di acque minerali nella regione laziale se ne hanno poi molte altre, tanto che una pubblicazione recente, che con ogni probabilità è lontana dall’elencarle tutte, localizza 62 sorgenti e fornisce per le principali, che sono una trentina, i dati essenziali. Ma di esse soltanto una quindicina sono poi utilizzate a scopi curativi. Tra le sorgenti meglio conosciute predominano quelle medio-minerali, dotate d’un modesto residuo salino.

    Gli acquedotti

    Uno degli spettacoli che ha attratto ed attrae i visitatori della Campagna Romana è quello degli imponenti resti degli acquedotti che i Romani avevano costruito allo scopo di rifornire l’Urbe di acque abbondanti non solo potabili, ma anche per le fontane, per le terme e per altri usi. La rete di questi acquedotti, costruiti in varie epoche, era molto complessa e solo da pochi anni è stato possibile (soprattutto per opera d’un archeologo inglese, T. Ashby) ricostruire il tracciato di alcuni di essi, che era rimasto sconosciuto, tra le Capannelle e Gallicano. In altri casi l’identificazione dei tracciati e il loro andamento pianimetrico è stato reso possibile attraverso complesse misure di livellazione.

    I quattro acquedotti più importanti di Roma antica traevano le loro origini dalla valle dell’Aniene; due di essi (l’Aniene Vecchio e l’Aniene Nuovo) erano alimentati dalle acque stesse del fiume; gli altri due (Acqua Marcia e Claudia) nascevano dall’allacciamento di alcune sorgenti presso le pendici del gruppo del Monte Autore fra Arsoli ed Agosta, quelle stesse che oggi sono utilizzate dall’Acqua Pia-Marcia. Rimontando la linea di detti acquedotti a partire da Roma (Porta Maggiore) si trovano resti imponenti di essi fino alle Capannelle. A partire da questa località proseguono in galleria e la linea degli acquedotti, descrivendo un grande arco, taglia la Via Ana-gnina, la Tuscolana e la Casilina, tocca il casale della Pallavicina e passa a nord di Gallicano. La linea volge poi gradatamente a nord per raggiungere Tivoli, ma i ruderi assai notevoli conservati nei profondi valloni che qui intersecano il terreno (tra i quali s’impone per grandiosità il Ponte Lupo) non lasciano dubbio sul loro andamento a partire da Gallicano. La pendenza di questi acquedotti era molto variabile, ma oscillava intorno al 2 per mille. La loro portata era in media di 2100-2300 l./sec. per ciascuno. Ma oltre a questi quattro acquedotti principali ve ne erano poi sette di minori, per cui la portata complessiva ascendeva ad oltre 13.000 l./sec., quantità superiore a quella degli acquedotti attuali.

    Tra gli acquedotti moderni il principale è l’acquedotto Marcio, le cui sorgenti si trovano nella valle dell’Aniene presso Agosta. La portata delle sorgenti captate è di 3300 1./secondo. L’acqua Pia (antica Marcia) è stata ricondotta a Roma nel 1870 da una società privata. Le acque sono convogliate fino a Tivoli per mezzo di acquedotti in muratura, dove l’acqua scorre a pelo libero. Da Tivoli partono per Roma sei sifoni metallici (del diametro di 60-75 cm.), che ripartiscono l’acqua in tutti i quartieri della città e in parte al suburbio, nonché al Lido di Ostia ed a Fiumicino.

    Roma. Resti dell’acquedotto di Claudio.

    Gli altri acquedotti sono il Vergine, il Felice e il Paolo, i quali scorrono a pelo libero in canali in muratura fino a Roma, utilizzando in parte gli spechi degli antichi acquedotti romani. Le sorgenti dell’Acqua Vergine (odi Trevi) sono captate alla quota di soli 23-24 m. presso la stazione di Salone (sulla linea Roma-Tivoli) e il livello acquifero risulta in rapporto con le pozzolane rosse, che stanno sotto al conglomerato giallo e al tufo petroso. La portata è di circa 900 l./sec. e serve principalmente ad alimentare la fontana di Trevi. Il nome è da mettere in rapporto con la tradizione che una fanciulla (Virgo) ne avesse mostrato le sorgenti ad alcuni soldati al tempo di Agrippa. L’acquedotto Felice (fatto costruire da Sisto V) e l’acquedotto Paolo (che porta a Roma l’acqua del Lago di Bracciano e che risale al tempo di Paolo V) hanno anch’essi una funzione notevole per l’alimentazione idrica di Roma, disponendo il primo della portata di 250 ed il secondo di 6601./secondo. A questi acquedotti si è aggiunto in epoca recente (1949-57) quello già ricordato del Peschiera, alimentato dalle ricche sorgenti carsiche, sgorganti nel mezzo e ai margini della Piana di San Vittorino, che scola le acque verso il Velino, il quale l’attraversa nella parte mediana. Per la captazione delle acque per l’acquedotto furono eseguiti grandiosi lavori (iniziati nel 1937), di una imponenza veramente straordinaria. Furono scavati nel calcare vari cunicoli di accesso e di scarico, e molti cunicoli di captazione, che immettono le acque in un canale collettore, il quale poi, attraverso opere di regolazione e di misura delle portate, le riversa nel canale di derivazione a pelo libero, con sezione pressoché circolare. Il tronco superiore dell’acquedotto è lungo 26 km., tutti in galleria, e va fino a Salisano, superando per mezzo di ponti-canali i fiumi Salto e Turano e il fosso Tancia. A Salisano è stata costruita una grande centrale idroelettrica sotterranea che utilizza un salto di 250 m., e può produrre annualmente 75 milioni di kWh. Il tronco inferiore, da Salisano alla vasca di carico di Ottavia, presso Roma, è lungo 57 km., dei quali oltre 52 in galleria; esso attraversa il Tevere con un doppio ponte in tubazioni metalliche presso la stazione ferroviaria di Poggio Mirteto, correndo poi, sempre sulla destra del fiume. Infine, dalla vasca di carico di Ottavia ai centri idrici di « compenso » e di ripartizione della Madonna del Riposo e di Monte Mario sulle pendici dell’omonimo monte, l’acqua scorre, per oltre 2 km., rinserrata in tubazioni di acciaio e cemento armato.

    Non può tralasciarsi ora dal notare che tutta la Regione Laziale ha numerosi acquedotti — anche di notevole importanza — sia a servizio di un solo centro che di più centri. Il complesso degli acquedotti laziali presenta tuttavia alcuni scompensi perchè viene a mancare in diversi l’alimentazione durante il periodo estivo o è assolutamente insufficiente per i bisogni delle locali popolazioni. Nel corso dell’ultimo decennio le province di Frosinone e di Latina, e parti delle province di Roma (quella inclusa nel comprensorio della bonifica di Latina) e di Rieti (ex-circondario di Cittaducale) sono state interessate dall’intervento della Cassa per il Mezzogiorno, che ha provveduto a compiere studi preliminari sulle risorse idriche disponibili ed all’esecuzione di notevoli opere pubbliche con la costruzione di diversi acquedotti (Capofiume, Val San Pietro, Aurunci, ecc.), approvvigionando così più di una cinquantina di centri, alcuni dei quali prima non disponevano che di opere del tutto insufficienti. Nel contempo non sono mancati altri lavori tendenti al potenziamento della rete preesistente ed alla ricerca e captazione di nuove e più ricche falde idriche. D’altra parte lo sviluppo degli acquedotti è di fondamentale importanza per una regione come il Lazio, che incrementa giorno per giorno le sue strutture industriali, diffonde l’irrigazione nel campo delle colture ed i suoi centri turistici si moltiplicano con l’apertura di nuove strade.

    Acquedotto romano tra Tivoli e Gallicano.