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Storia del Trentino

    Sguardo storico

    Il ricordo di Roma

    Non è facile ricostruire la parte più antica della storia trentina. Fino a tutto l’alto Medio Evo la frammentarietà e l’imprecisione della documentazione impediscono un’esposizione organica e sicura, per cui dati obbiettivi ed ipotesi prudenti e caute debbono spesso alternarsi o completarsi a vicenda, alla ricerca di conclusioni, che difficilmente possono conseguire risultati di sufficiente completezza. Ciò vale logicamente, e a maggior ragione, anche per la situazione trentina in epoca preromana, in epoca preistorica, quantunque i reperti archeologici aiutino a definire alcuni caratteri di un certo rilievo (di tali reperti vedasi Cap. Vili).

    I primi abitanti delle valli atesine appartenevano al tipo preindoeuropeo, come si dirà altrove. Movendo dalla pianura padana e seguendo le vie naturali, l’elemento protoitalico, ligure, o affine ai Liguri, si stanziò nel bacino del medio e dell’alto Adige. Si inserirono quindi invasioni di diverse popolazioni : a quella dei Veneto-Illiri seguirono quelle degli Etruschi e dei Galli Cenómani, i quali non riuscirono a insediarsi oltre Bolzano; probabilmente coesistevano nel periodo della romanizzazione.

    Della conquista romana del territorio trentino sappiamo ben poco. Tenendo conto che Tridentum fu elevato, probabilmente nel 49 a. C., a municipium, è legittimo supporre che la latinità fosse radicata abbastanza profondamente nella regione già durante l’ultimo secolo avanti Cristo, quando Tridentum rappresentava luogo di confine nelle Alpi. Ma, solamente dopo le conquiste effettuate da Tiberio e da Druso nel 15 a. C., veniva creata la provincia di Raetia et Vindelicia e veniva assicurata la continuità territoriale del dominio romano oltre le Alpi fino al Danubio.

    Tavola Clesiana (Trento, Museo Nazionale del Trentino, Castello del Buon Consiglio).

    Parallela alla conquista fu la colonizzazione romana, la quale, resa stabile e organica dalla salda organizzazione statale, diffuse nella regione la lingua e la cultura latina e diede un’unità effettiva a quei popoli di stirpe diversa. Rapidamente la latinità penetrò nelle valli del Noce e del basso Avisio, tanto che, fin dai primi anni dell’impero, Claudio conferiva la cittadinanza romana, con l’editto riportato dalla Tabula Clesiana, agli Anaunes, ai Tulliasses e ai Sinduni (abitanti del bacino del Noce).

    E la diffusione della lingua e della cultura latina fu poi completata dal cristianesimo, già praticato notevolmente nella regione nel secolo IV.

    L’alto Medioevo e la fondazione dei Principati vescovili

    Scarse e frammentarie notizie si posseggono anche sulle prime dominazioni barbariche nella regione trentina. E molto probabile che, dopo la caduta dell’impero romano d’occidente il territorio abbia seguito le vicende delle altre regioni italiche. Nel sistema difensivo verso il Nord, particolare importanza ebbe il «Dos Trento», l’antichissimo castello Veruca, considerato già da Teodorico una fortezza di grande valore, dove fu posto un forte presidio gotico, per bloccare eventuali invasioni e scorrerie.

    Uguale fu la posizione difensiva di Trento durante la dominazione longobarda. Nel nuovo ordinamento interno longobardo, anche Trento costituì un ducato ai margini settentrionali del regno: aveva lo scopo di frenare la pressione dei Franchi, contro cui combattè valorosamente il duca di Trento, Evin, e di respingere i tentativi d’espansione dei Bavari, i quali si erano stabiliti nella valle dell’Isarco e nella Pusteria, fino ai limiti del ducato, probabilmente poco prima della venuta dei Longobardi, ponendo così le basi della successiva germanizzazione del territorio.

    Con i Bavari i contrasti furono lunghi e di esito incerto, quantunque i Longobardi cercassero di impedirne la pressione al confine settentrionale, alternando momenti di fermezza con altri di moderazione e di compromesso. In questo clima si inseriscono le relazioni di parentela, che sembrano caratterizzare i rapporti fra le due corti soprattutto nell’ultimo ventennio del secolo VI: esempi significativi, ricordati da Paolo Diacono, il matrimonio del duca Evin con Eufrasia, figlia del duca Garibaldo e quello di re Autari con Teodolinda.

    Questa politica matrimoniale non riuscì però a spegnere definitivamente le lotte fra Longobardi e Bavari, soprattutto per il possesso della regione bolzanina. Qui i confini variarono a seconda della fortuna militare, mutando necessariamente l’estensione dello stesso ducato di Trento; a fasi di aspri contrasti seguirono fasi più o meno lunghe di tregua : nel 680, per esempio, Alachi, duca di Trento, riusciva a conquistare Bolzano, mentre nel 765 re Desiderio la cedeva nuovamente al duca di Baviera, Tassilone, legato a lui da stretta parentela.

    Il crollo della dinastia longobarda segnava anche il tramonto della potenza bavara nel territorio atesino. La sconfitta subita da Tassilone ad opera dei Franchi lo privava del territorio; di conseguenza Carlo Magno riusciva a riunire sotto il suo governo i due territori trentini sottoposti a un’amministrazione politica diversa, pur mantenendone le caratteristiche. Così fu mantenuto il ducato di Trento, elevato poi alla dignità di marca, con l’inclusione della contea di Bolzano.

    Nel nuovo ordinamento franco il territorio trentino gravitò, com’era del resto naturale, verso la pianura padana; ciò trova conferma anche nel capitolare di Lotario dell’829, con cui si stabiliva che i giovani di Trento, insieme con quelli di Mantova, dovessero recarsi a frequentare la scuola di Verona, per imparare le nozioni di lingua latina.

    L’importanza strategica delle valli dell’Adige e dell’Isarco, quale via di comunicazione fra la pianura padana e i territori d’oltralpe, aumentò con la fine dell’impero carolingio e con la conseguente formazione dei tre regni nazionali. E appunto per questo, Ottone I, venuto in Italia contro Berengario II, pur investendolo del regno d’Italia come suo vassallo, lo costringeva a rinunciare alla marca di Verona e Trento, che fu unita al ducato di Baviera e successivamente a quello di Carinzia. Era in tal modo aperta una porta verso l’Italia; giustamente fu detto che l’atto del 952 segna il trapasso politico del Trentino dall’Italia alla Germania.

    Gli imperatori tedeschi, preoccupati di conservare la comoda via dell’Isarco e dell’Adige, e per limitare le conseguenze dannose dell’anarchia feudale e rafforzare la loro autorità, pensarono di conferire formalmente ai vescovi il potere comitale anche nella regione trentina, seguendo la politica adottata in Germania. Si giunse così alla costituzione del Principato vescovile di Trento (31 maggio 1027), che includeva anche la vai Venosta, e del Principato vescovile di Bressanone (7 giugno 1027), secondo il programma di riordinamento statale di Corrado II il Salico, mirante a unificare le autorità locali, opponendosi al frazionamento della numerosa gerarchia del territorio e impedendo, d’altra parte, la formazione di grandi feudi secolari tendenti ad ereditarietà.

    Il potere ecclesiastico e quello civile erano così riuniti in una sola persona; i vescovi di Trento diventavano feudatari dell’Impero e il loro territorio veniva staccato definitivamente dal territorio veronese. Erano prìncipi fedeli all’Imperatore, sia perchè a quello erano debitori della loro dignità personale, sia perchè, fino al vescovado di Federico Vanga, agli inizi del secolo XIII, la maggior parte di loro fu di origine tedesca. Alcuni anzi, come Altemanno e il Vanga, appartenevano alla più alta nobiltà germanica. E gli imperatori poi, specialmente Enrico IV e Federico I, li tenevano in gran conto, favorendoli con donazioni e dimostrando loro una particolare fiducia. Nel 1091, per esempio, il territorio del vescovado di Bressanone, che, al di là dello spartiacque, comprendeva anche le due contee della valle superiore e media dell’Inn fino allo Zill, si estese, in seguito a una donazione di Enrico IV, sull’intera contea di Pusteria, fin quasi al passo di Dobbiaco, che rimase territorio d’immunità dei vescovi di Frisinga.

    Il principe-vescovo aveva il diritto di giurisdizione su tutto il suo territorio; l’esercitava per mezzo dell’allocato, il quale lo rappresentava nelle questioni temporali, difendeva il patrimonio e gli interessi della Chiesa : questi era dapprima vassallo del vescovo, poi, a poco a poco, riuscì a strappargli con l’inganno o con la violenza territori e diritti e a comportarsi da vero signore feudale nel principato. Il contrasto fra il principe-vescovo e la crescente potenza feudale dei conti si trascinò per lungo tempo nella regione trentina; la figura e la funzione dell’avocato rappresentano la base, da cui mossero le ambizioni e le rivendicazioni dei conti.

    La prima famiglia nobile, che esercitò quest’ufficio, mantenendosi nei limiti imposti dalla dipendenza feudale, fu quella dei conti di Flavón, infeudata di molti possessi nella valle di Non e nelle Giudicarle. A questa, nel diritto perpetuo di avvo-cazia, subentrò la famiglia dei conti di Tirolo, famiglia feudale originaria d’oltralpe, avente possessi intorno a Bregenz e nell’Engadina, la quale assorbì quasi tutti i territori di Bressanone e tentò di fare altrettanto con quelli di Trento. Altre importanti famiglie nobili furono quelle dei conti di Appiano, dei conti di Castelbarco nella valle Lagarina, dei conti di Arco e di Madruzzo nel bacino del Sarca, dei conti di Lodrón nella valle del Chiese, dei conti di Tarasp nell’alta Venosta.

    Veduta di Castel Tirolo presso Merano.

    Torre Vanga a Trento.

    Contro il diffondersi e l’affermarsi del feudalesimo sorsero libere comunità, che disponevano di estesi boschi e pascoli e di castelli del loro territorio, e che seppero difendere i loro diritti dalle intromissioni dei nobili e mantenere i loro fondi contro le famiglie più potenti, anche quando per opera di Federico I i castelli passarono in mano della nobiltà.

    I Principi-vescovi e i conti di Tirolo

    Un periodo di notevole splendore per la regione trentina è rappresentato dal vescovado di Federico Vanga (1207-1218), il quale, nominato dall’imperatore Federico II vicario di corte e legato di Lombardia e quindi legato e vicario della corte imperiale e di tutta l’Italia, seppe governare con fermezza, ristabilendo l’ordine interno con la sottomissione dei vassalli ribelli (in particolare dei signori di Beseno), curando una salda organizzazione del Principato. Il suo nome è legato specialmente alla sua opera diretta a impedire ulteriori controversie sui diritti della Chiesa tridentina, fissando l’estensione dei feudi e l’entità delle entrate del Principato. Tali limiti furono registrati nel Libro di San Vigilio, detto « Codice Vanghiano », importante raccolta di documenti trentini per la storia dei secoli XII e XIII.

    Il Vanga diede anche nuovo impulso alla vita tridentina, facendo cominciare la costruzione del duomo di Trento, fondando numerosi conventi e ospedali e facendo dissodare terreni incolti e selvaggi.

    Tutta l’opera di rinnovamento, iniziata dal Vanga, fu resa possibile da un notevole benessere materiale, derivato da un razionale sfruttamento delle miniere d’argento dell’altopiano del Calisio e della valle superiore del Férsina, grazie all’attività di minatori tedeschi chiamati dalla Franconia o dall’Harz e favoriti dal principe-vescovo con privilegi, esenzioni e con uno statuto minerario (1208), che è tra i più antichi d’Europa. Nè bisogna dimenticare il fatto che da questo rifiorire delle miniere trasse notevoli vantaggi la zecca di Trento, fondata verso la fine del secolo precedente, dopo il riconoscimento dato dall’imperatore Federico I ai vescovi di Trento del diritto di battere moneta (1182).

    La grande opera di risanamento, svolta dal vescovo Vanga in un decennio di febbrile attività, fu però interrotta alla sua morte dal nuovo divampare di lotte intestine, soprattutto dal contrasto fra i principi-vescovi e i conti di Tirolo, che provocò la completa decadenza e la prima secolarizzazione del Principato. Determinante per l’irreparabile rovina della regione trentina fu il contrasto, in mezzo alle risorte lotte fra ghibellini e guelfi, tra il guelfo Aldrighetto di Castel Campo, nominato vescovo di Trento nel 1232, e l’avvocato della Chiesa tridentina Alberto di Tirolo, caldo fautore della politica imperiale. Non fu difficile all’Imperatore ottenere il sopravvento: il 12 agosto 1236 egli emanava una solenne sentenza, con la quale proibiva al vescovo

    Vedi Anche:  Reticolo idrografico, bacini e fiumi

    Aldrighetto di infeudare, impegnare o alienare in qualunque modo e circostanza i beni del vescovado; successivamente Ezzelino da Romano, vicario di Federico II per l’Italia, occupava il Trentino (1239), facendolo governare da un suo podestà, il pugliese Sodegerio di Tito, e, raggiunto un accordo con Alberto di Tirolo, assicurò a quest’ultimo il predominio sul Principato, mentre il vescovo era impotente a reagire alla sopraffazione imperiale. Le turbolenze e le violenze non erano però ancora terminate. Avvocato del Principato era divenuto nel 1253, Per diritto di successione, Mainardo I di Gorizia, genero di Alberto di Tirolo. Di qui un lungo contrasto fra il vescovo Egnone (morto a Padova nel 1273) e Mainardo I, contrasto che assunse fasi drammatiche con Mainardo II, l’usurpatore che riuscì a spogliare di tutti i suoi diritti il vescovo tridentino, ma non ad annullare totalmente l’autorità del vescovo di Bressanone.

    L’invadenza e le sopraffazioni tirolesi non ebbero sosta per tutta la seconda metà del Duecento, estendendosi alla fine del secolo anche sul vescovado di Bressanone. Dell’assenza di una salda organizzazione statale approfittarono varie signorie italiane, le quali cercarono a più riprese di estendere i loro domini nel territorio trentino. Gravi ripercussioni esterne ebbero soprattutto i contrasti fra guelfi e ghibellini; quelli poi fra la casa Wittelsbach di Baviera e la casa Lussemburgo di Boemia favorirono dovunque le occupazioni di singoli territori da parte dei Carraresi, degli Scaligeri, dei Visconti, del vicario imperiale di Feltre e Belluno, aiutati dalla potente famiglia dei Caldonazzo.

    Nel 1363 però, estintasi la discendenza maschile dei Mainardo, Margherita Maultasch, contessa del Tirolo, cedeva i suoi diritti e i suoi territori al duca Rodolfo IV d’Asburgo: in tal modo il Tirolo, come tale, cessava di gravitare verso il Sud e veniva attratto nell’orbita del predominio tedesco. Nella nuova situazione politica, il valore territoriale del Tirolo derivava dalla sua posizione centrale rispetto ai possessi asburgici in Austria e in Svizzera e, come via di comunicazione, rispetto ai mercati dell’Europa centrale e all’emporio di Venezia. Esplicava perciò una doppia funzione: collegamento fra i possessi asburgici e controllo dei traffici internazionali. Di qui l’opportunità per gli Asburgo di allargare la loro influenza nel territorio di Trento e di Bolzano.

    Grosso problema, su cui le opinioni degli studiosi sono discordi, è quello della germanizzazione della regione alto-atesina (cfr. Cap. Vili).

    La resistenza opposta dai Longobardi non era valsa ad arrestare l’espansione degli Alemanni e dei Bavari nelle valli Venosta, Isarco e Pusteria. Ciò nonostante, fino all’istituzione dei principati vescovili di Trento e di Bressanone, la popolazione alto-atesina era riuscita a conservare, nella grande maggioranza, i caratteri originari latini, essendo stati germanizzati precedentemente soltanto alcuni territori con scarsa popolazione reto-romana nelle vicinanze di Merano, nella vai Passiria, in vai d’Ultimo nell’alto Isarco, nel basso Sarentino e nella conca di Brunico. Ma il processo di germanizzazione, ormai avviato, si era intensificato nei secoli successivi per opera della numerosa schiera di contadini e minatori, chiamati dalla Germania nella regione trentina a dissodare nuove terre e a sfruttare miniere, per incarico dei principi-vescovi e dei loro feudatari laici ed ecclesiastici. Il vescovo, che seguì un organico e sistematico programma in questo senso, fu, come s’è visto, Federico Vanga, il quale, oltre a chiamare minatori tedeschi per lo sfruttamento delle miniere sull’altopiano del Calisio e nella valle superiore del Férsina, attirò nel 1216 coloni tedeschi nel territorio di Costa Cartura col permesso di fondarvi « venti e più masi » e, accresciuta l’area con acquisti dai signori di Bosentino e Caldonazzo, la suddivise nello stesso anno tra altre sei famiglie di coloni avventizi. In questa sua opera il Vanga non fece che seguire il sistema del suo antecessore Adelpreto (1156-1177), il quale aveva già effettuato un parziale stanziamento d’una colonia tedesca sull’attiguo altopiano di Lavarone, stanziamento a sua volta di poco superiore a quello analogo effettuato da Varimberto e Penzo di Caldonazzo sull’altopiano di Folgaria nel 1150.

    Se anche questa fase dell’espansione tedesca interessò i territori fino all’orlo meridionale delle Alpi, la colonizzazione stabile ebbe luogo soltanto nell’alto bacino dell’Adige e in qualche località isolata del Trentino (vai Férsina, alta Novella e alta Pescara nel bacino del Noce) ; negli altri territori l’elemento immigrato fu invece assorbito dall’elemento originario locale. Mentre le valli trasversali opposero resistenza alla penetrazione tedesca, la vai d’Adige vide il rapido intedescamento, fin dal secolo XIII, del tratto tra Avisio e Salorno. Invece nell’alto Adige, inclusa Bolzano, la romanità ebbe la prevalenza fino al secolo XV, poiché l’elemento originario resistette nel tratto fra Merano e Salorno, e fu assimilato lentamente dall’elemento tedesco solamente nelle più elevate valli alto-atesine.

    Anche la città di Trento e il territorio tra Avisio, Adige e Brenta, fino ai limiti dell’altopiano, furono minacciati di intedescamento durante i secoli XIV e XV, a causa della pressione esercitata da capitali e da elementi tedeschi nello svolgimento delle maggiori attività economiche, nel commercio transalpino e nello sfruttamento del bacino minerario Calisio-Férsina. Il pericolo di intedescamento della città di Trento raggiunse la fase più critica verso gli inizi del secolo XV; ma fu poi superato. Più salda invece fu la germanizzazione del contado, che cominciò a declinare nel secolo XVI con la decadenza dell’industria mineraria e con la diminuita ingerenza tirolese nel principato vescovile di Trento.

    La crisi etnica della regione trentina era quindi virtualmente superata: della germanizzazione rimanevano eloquente testimonianza solo le cosiddette « oasi tedesche ».

    Ancora prima di pensare all’annessione del Tirolo, i duchi d’Austria avevano predisposto un piano per ottenere anche tutto il Principato di Trento. Fin dall’ottobre 1357 infatti, il duca Alberto aveva stipulato una convenzione col conte Alberto di Ortemburg, carinziano, in base alla quale questi, qualora fosse divenuto vescovo di Trento, si impegnava a mettersi a sua disposizione con tutte le fortezze e città del vescovado, promettendo di governare il Principato secondo la volontà del duca. E quando Alberto di Ortemburg divenne effettivamente vescovo (1363), la sorte del Principato era segnata. Il nuovo vescovo non seppe difendere l’indipendenza della sua Chiesa, come aveva tentato qualche anno prima l’energico Nicolò di Bruna; e, con gli accordi noti comunemente sotto il nome di compattate (18 settembre 1363), il potere temporale dei vescovi era praticamente annullato e il Principato cadeva nell’orbita del predominio tedesco.

    Il castello Fontana e dintorni di Merano.

    Le compattate del 1363 segnano veramente una data fondamentale nelle vicende del Principato: i conti di Tirolo, il cui titolo era ormai unito a quello dei duchi d’Austria, da vassalli del vescovo si trasformavano in padroni feudali, invertendo quindi le parti. E vani saranno i tentativi del successore dell’Ortemburg, Giorgio I di Lich-tenstein, e più tardi del vescovo Lodovico Madruzzo, per svincolarsi dalla stretta politica dei duchi d’Austria.

    Anzi, per rendere effettivo il predominio austriaco sul vescovado, il duca Rodolfo aveva proceduto immediatamente all’occupazione, sia pure temporanea, della città di Trento e di alcuni castelli. Da quel momento tutti i vescovi di Trento furono per più di un secolo tedeschi, favorendo la politica germanizzatrice dei conti tirolesi, viva soprattutto verso la metà del secolo XV; essi approfittarono delle lotte dei signori di Caldonazzo con i Carraresi per impadronirsi della bassa Valsugana, che rimase in loro stabile possesso dopo il 1412. La valle Lagarina, invece, nel 1411, in virtù dell’eredità lasciata dai Castelbarco, passava sotto il dominio veneto, poco dopo la sollevazione generale promossa da Rodolfo Belenzani (1407), il quale aveva tentato di assicurare alla repubblica veneta anche il possesso di Trento.

    Verso la fine del secolo XV, il duca Sigismondo d’Austria cercò di ricuperare la parte meridionale del Principato. La guerra, che seguì, iniziata nell’aprile del 1487 nella valle del Chiese e nella valle Lagarina, fu caratterizzata dall’occupazione di Rovereto e dalla sconfitta veneziana a Calliano (10 agosto). Ma una soluzione definitiva della contesa fu data solamente assai più tardi dalla pace del 1516, con la quale l’imperatore Massimiliano otteneva da Venezia i cosiddetti quattro vicariati (Ala, Avio, Mori, Brentónico), oltre a Rovereto e Ampezzo.

    In tal modo il Principato era stretto da territori austriaci, chiamati i « confini d’Italia ». Questa situazione, del resto, era già stata precedentemente fissata, fin dal 1511, dal libello del paese: allora i vescovi di Trento e di Bressanone avevano stipulato col conte di Tirolo una confederazione perpetua, impegnandosi a difendere in caso di necessità il territorio, fornendo un certo numero di soldati o una corrispondente somma di denaro.

    I vescovi di Trento dal secolo XVI all’inizio del secolo XVIII

    I segni di irrequietezza e di malcontento, che erano affiorati soprattutto fra i contadini delle valli di Non e di Sole nella seconda metà del secolo XV, a causa delle gravose imposte, dei privilegi dei nobili e del malcostume del clero, si erano trasformati in un vasto movimento sedizioso agli inizi del secolo successivo col diffondersi delle idee luterane. La rivolta dei contadini scoppiò aperta a Bressanone al principio di maggio del 1525 e si estese rapidamente, sotto la guida energica ed autorevole di Michele Gaismayr, a buona parte del Principato. Ma, dopo un tentativo di occupazione militare di Trento, i contadini furono sconfitti e i capi della rivolta, fatti prigionieri, furono giustiziati.

    In quel periodo drammatico per la storia del Principato, era vescovo di Trento Bernardo Cles (1514-1539), nato da una nobile famiglia della vai di Non. Di padre italiano e di madre tedesca, Dorotea Fuchs, egli interrompeva la lunga serie dei presuli tedeschi, che da un secolo e mezzo avevano dominato il principato vescovile, e inaugurava la serie dei vescovi indigeni.

    Fu uno degli uomini più influenti del suo tempo, godendo dell’amicizia e della protezione di Ferdinando I d’Austria, di cui fu oratore, cancelliere supremo e intimo consigliere. Fautore di un saldo governo, promulgò lo statuto trentino del 1527 e permutò definitivamente, nel 1531, la giurisdizione di Bolzano con quella di Per-gine. Riordinò l’archivio vescovile, provvedendo alla compilazione del codice desiano; fece costruire a Trento il « Magno Palazzo », eretto accanto al vecchio castello del Buon Consiglio, utilizzato come residenza vescovile dalla metà del XIII secolo, stabilendo quindi una nuova residenza, che rispondeva sia alle esigenze di sicurezza sia alle raffinate tendenze rinascimentali. Incoraggiò inoltre la costruzione di numerosi edifici sacri e profani in tutta la regione trentina. Nominato cardinale nel 1530, divenne pure amministratore apostolico del vescovado di Bressanone nel 1539, dopo esser stato appoggiato da Ferdinando in occasione del conclave del 1534. Il suo nome è legato al periodo aureo del principato vescovile. La sua attività, esplicata in molteplici campi, letterario, artistico, politico, religioso, fu continuata dal successore, Cristoforo Madruzzo, trentino lui pure, nato a Castel Nanno nel 1512 da Giovanni Gaudenzio e da Eufemia di Sporenberg.

    Se il Cles era stato l’uomo che aveva seguito una brillante carriera in virtù delle proprie doti, il Madruzzo doveva invece la sua facile e rapida ascesa all’influenza e all’aiuto di suo padre, presidente del Consiglio vescovile e maestro di casa dei figli di Ferdinando I. Salito a soli 26 anni, nel 1539, alla sedia vescovile di Trento, fu creato in seguito, nel 1542, anche cardinale e, nello stesso anno, vescovo di Bressanone. Fervevano ancora in quegli anni i contrasti con i protestanti e si discuteva l’opportunità di convocare un concilio, che potesse comporre il grave dissidio religioso e restaurare l’unità cristiana. Sede del concilio fu scelta alla fine la città di Trento, dove furono fìssati, nei tre periodi fra il 1545 e il 1563, i dogmi fondamentali della Religione cattolica, l’autorità del Pontefice quale capo supremo della Chiesa, la riforma del clero.

    Vedi Anche:  Il clima, la flora e la fauna

    Bernardo Cles. Particolare del Palazzo Tabarelli a Trento.

    Il Trentino fu in quell’occasione mèta di poeti, letterati, umanisti, i quali favorirono lo sviluppo della cultura e gli scambi con le altre città italiane, sia nel campo intellettuale, sia in quello economico. Figura di rilievo durante le sessioni del concilio fu certamente il Madruzzo, il quale volle sostenere con grande liberalità le spese di rappresentanza, superando anche i limiti imposti dalle entrate dei vescovadi di Trento e Bressanone. Amico e mecenate di letterati, pensò perfino alla fondazione di una università a Trento. Ma alla molteplicità dei suoi interessi non si associava una vera cultura, una direttiva veramente ampia e precisa. Ambiziosissimo, cercava di seguire il proprio impulso, ma non aveva però le doti dell’uomo politico. Tuttavia riuscì a ricoprire vari incarichi di un certo rilievo: fedele a Casa d’Austria, si recò nel 1540 inviato da Carlo V nel Belgio; nel 1541 per incarico di Ferdinando I, re dei Romani, a Venezia; intervenne alla dieta di Augusta; poi fu nominato, nel 1556, da Filippo II luogotenente e governatore di Milano. Fu anche nominato da Pio IV legato nelle Marche; ma egli non riuscì mai ad avere un serio influsso sulla politica pontifìcia, e non potè, malgrado le sue mire ambiziose, svolgere mai la funzione di mediatore politico-ecclesiastico.

    Veduta di Castel Cles.

    Trento. Castello del Buon Consiglio. Disegno del 1794.

    Durante l’ultimo periodo del concilio, il Madruzzo aveva ceduto le funzioni di rappresentanza a Trento al nipote Ludovico, il quale il 26 febbraio 1561 era stato pure nominato cardinale da papa Pio IV. E nel 1567 Cristoforo Madruzzo rinunciava definitivamente al vescovado in favore di Ludovico, morendo poi a Tivoli nel 1578.

    Ludovico Madruzzo, nel momento in cui otteneva la sedia vescovile, era giovane, essendo nato a Trento nel 1532 da Nicolò, fratello di Cristoforo. Restio a riconoscere l’ingerenza del conte del Tirolo nel principato vescovile, ne provocò l’occupazione militare, suscitando la mediazione del Pontefice, dell’Imperatore e l’interessamento del cardinale Borromeo. L’accordo di Spira del 1571 risolveva temporaneamente la crisi, e il Madruzzo era costretto a confermare le compattate del 1454, 1460 e 1468, che però non vennero riconosciute da tutti i sudditi del vescovo, i quali si rifiutarono di prestare il giuramento richiesto, temendo di vedere menomati i loro diritti.

    Trento. Il castello del Buonconsiglio, lo splendido monumento desiano.

    Ne derivò la cosiddetta guerra delle noci (1579-1580), scoppiata nelle Giudicane e conclusa con la completa sottomissione dei ribelli. Uomo politico notevole, partecipò a diverse legazioni in Germania; ma visse a lungo a Roma, pur non trascurando la sua diocesi, che fu oggetto di varie visite. E a Roma egli morì nel 1600, lasciando il vescovado al nipote Carlo Gaudenzio, già consacrato nel 1595 vescovo titolare di Smirne, e nominato pure in seguito, nel 1604, cardinale, e distintosi anche come fine diplomatico in varie missioni a Ratisbona e a Roma.

    La famiglia Madruzzo, affermatasi col cardinale Cristoforo, resse per oltre un secolo (1539-1658) le sorti del vescovado e finì con Carlo Emanuele, già coadiutore dello zio Carlo Gaudenzio e successogli nel 1629. Il suo governo è macchiato dai lunghi e vani tentativi per ottenere dalla curia romana la dispensa dai vincoli ecclesiastici, per poter legalizzare i suoi amori con Claudia Particella. E intorno alla sua figura si diffusero bizzarre leggende. Il governo della famiglia Madruzzo è caratterizzato da uno sfarzo esagerato, che condusse alla rovina il Principato vescovile. Le rendite del Principato divennero insufficienti ; il lusso e le spese gravose ne causarono la rovina economica; le monete perdettero il loro valore; il commercio fu paralizzato; la plebe diseredata era oppressa dagli arbitri e dalle angherie dei nobili. Pur nella decadenza generale, soprattutto economica, qualche nome merita di essere ricordato: dallo scultore trentino Alessandro Vittoria all’incisore Aliprando Caprioli, al poeta Cristoforo Busetti, che testimoniano una sia pur debole fioritura degli studi e delle arti, manifestatasi particolarmente sotto il governo del cardinale Carlo Gaudenzio Madruzzo. Ma nel complesso, tutta la prima metà del Seicento trentino è ricca d’ombre e povera di luci. E, anche dopo la morte di Carlo Emanuele Madruzzo, l’amministrazione del Principato trentino si mantenne assai precaria, rimanendo oppressa dai debiti, mali ormai cronici delle troppo esigue finanze vescovili.

    Pianta di Trento del 1809.

    Sopravvenne il disordine amministrativo: il Papa non volle confermare la designazione a principe-vescovo di Trento dell’arciduca Sigismondo Francesco, fratello del reggente del Tirolo; si complicarono le controversie tra il principe-vescovo, il Capitolo e il comune di Trento; il 30 dicembre 1662 moriva il reggente del Tirolo e gli succedeva lo stesso Sigismondo Francesco, il quale non poteva accentrare in sè poteri così discordanti e alla fine, il 28 maggio 1665, rinunciava al Principato vescovile.

    Anche sotto il nuovo principe-vescovo Ernesto Alberto Harrach l’amministrazione trentina non si riassestò. E solamente con l’assunzione al principato di un vescovo abile ed energico, Sigismondo Alfonso di Thunn, nel 1668, l’opera di risanamento della disastrosa situazione finanziaria potè essere iniziata, come il riassetto della trascurata amministrazione del Principato di Trento, che continuò fino alla fine del secolo. Anzi, nel 1682, veniva raggiunto il pareggio fra entrate e uscite del bilancio finanziario. Per qualche anno il Principato vescovile di Trento potè godere le favorevoli conseguenze del rinnovamento amministrativo; ma, qualche anno dopo, ebbe inizio l’involuzione economico-finanziaria, dovuta a molteplici cause, non esclusa forse la progressiva invadenza austriaca nel regime doganale trentino, fino a che la regione tridentina ricadeva, all’inizio del secolo XVIII, durante la guerra di successione spagnola, in uno stato di grave disordine finanziario e amministrativo.

    Celebre rimase, in quelle circostanze, la discesa di Eugenio di Savoia da Rovereto attraverso la Vallarsa e Terragnolo nella pianura padana per colpire alle spalle le truppe del generale francese Catinat (maggio-giugno 1701). Due anni più tardi il Trentino fu nuovamente teatro di operazioni militari, in seguito al progetto del maresciallo Vendòme di unirsi ai Bavaresi. Il Trentino occidentale fu allora invaso, ma, per la resistenza di Trento, il Vendòme fu costretto a rinunciare all’impresa. E da allora, per quasi un secolo, le valli alpine non furono toccate più dalle tristi e amare esperienze belliche.

    Il Settecento e il periodo napoleonico

    Il fervore del movimento riformistico settecentesco ebbe benefici effetti anche nella regione trentina. A poco a poco furono applicate le riforme ordinate dal governo assoluto illuminato di Maria Teresa e di Giuseppe II. E fu un risveglio generale, che toccò ogni aspetto della vita quotidiana. Fu regolato il sistema tributario su basi più eque eli quelle precedenti, furono aperte nuove strade, fu incoraggiato il commercio, fu inaugurata una saggia politica scolastica, che toccò il suo punto più elevato con la pubblicazione di un regolamento, che imponeva la scuola obbligatoria, gratuita per i contadini, semigratuita per gli abitanti delle città. L’opera riformatrice dei principi illuminati incontrò il favore dei vescovi di Trento e di Bressanone, solleciti a seguire le direttive imperiali, e la collaborazione di numerosi forti ingegni trentini. Nel risveglio intellettuale settecentesco, alcuni nomi sono particolarmente degni di ricordo: Carlo Antonio Pilati, insigne giurisperito e spirito aperto ai principi rinnovatori dello Stato; Carlo Firmian, protettore dei letterati e governatore di Lombardia; Carlo Antonio Martini, insigne giurista; dementino Vannetti, spirito eclettico e vivace e letterato non mediocre; Girolamo Tartarotti, critico acuto e spregiudicato; Felice e Gregorio Fontana, scienziati illustri, usciti dalla eletta schiera degli ingegni di Rovereto, sede dell’Accademia degli Agiati (riconosciuta da Maria Teresa nel 1753); e ancora Francesco Vigilio Barbacovi, autore di un solido codice giudiziario, e Benedetto Bonelli, storiografo e appassionato raccoglitore di memorie trentine.

    Cortile del palazzo vescovile di Bressanone.

    Accanto ai vecchi problemi furono affrontati problemi nuovi o posti con nuova ispirazione: dal problema ecclesiastico, affrontato soprattutto da Giuseppe II con l’obbiettivo di far coincidere i confini politici con quelli della diocesi e con il conseguente nuovo ambito territoriale della Chiesa trentina (1785), al problema linguistico, che suscitò un’aspra polemica fra le due correnti, italiana e tedesca, ed ebbe il momento più acuto alla dieta di Innsbruck nel 1790. E ancora il problema sociale, sotto l’influenza delle idee provenienti d’oltralpe, vagheggiato dai giacobini, i quali s’illudevano che la soluzione del problema nazionale potesse esser offerta dal compimento del ciclo rivoluzionario. Espressione significativa di queste aspirazioni, aderenti allo spirito nuovo dei tempi, fu il club giacobino, fondato da studenti trentini a Innsbruck nel 1793.

    La valle del Noce. Dalla grande carta di P. Anich, 1774.

    Gli ultimi anni del secolo XVIII segnano l’agonia del Principato vescovile di Trento. Il potere del vescovo era ormai ridotto a una semplice formalità, soprattutto dopo il trattato del 24 luglio 1777, col quale Pietro Vigilio Thunn, cedendo al Tirolo la terra di Termeno e sottomettendosi in tutte le questioni riguardanti la coscrizione militare, le imposte, i dazi, il commercio, segnava la capitolazione del principe-vescovo al Tirolo, malgrado le proteste del Capitolo di Trento.

    La bassa Valsugana, la valle del Vanoi e del Cismon. Dalle Tirolische Landtafeln di M. Burg Klehner, 1611.

    Durante lo svolgimento della prima campagna in Italia del Bonaparte, le truppe francesi occuparono Ala, Rovereto, Trento e fu istituito il Consiglio di Trento, a cui furono affidate le funzioni civili, giuridiche e politiche del territorio.

    Dopo una rioccupazione della regione trentina da parte dell’Austria e il ripristino dell’imperial-regio Consiglio amministrativo, la campagna dei Grigioni, diretta dal generale Macdonald, portò nuovamente l’esercito francese attraverso la vai di Non e le Giudicane alla conquista di Trento (gennaio 1801), dove venne istituito un Consiglio superiore del Tirolo meridionale, sotto la presidenza di Carlo Antonio Pilati, con il compito di affrontare e risolvere i problemi politici, e venne nominata una Deputazione centrale con l’incarico di procedere alle requisizioni militari. Fu un’occupazione breve, poiché l’Austria, indennizzata delle sue perdite territoriali con i principati di Trento e di Bressanone, ne prendeva formale possesso nel novembre 1802 e li dichiarava uniti col resto del Tirolo col decreto del 4 febbraio 1803.

    L’atto, che segnava la definitiva secolarizzazione dei principati vescovili di Trento e di Bressanone, non faceva che sancire una situazione di fatto, che si trascinava ormai da un ventennio e più, dalla rinuncia cioè del vescovo Pietro Vigilio di fronte alla politica accentratrice dell’Austria. E cominciava per la regione trentina una nuova fase di riorganizzazione interna.

    Il lento e difficile assestamento della nuova provincia austriaca fu ben presto interrotto dalle vicende della terza coalizione. In seguito alla pace di Presburgo (dicembre 1805), l’Austria era infatti costretta a cedere alla Baviera i territori del Tirolo e Vorarlberg e i principati vescovili secolarizzati di Trento e Bressanone. Furono introdotte dal governo bavarese utili riforme, come l’abolizione delle servitù feudali e la riorganizzazione delle scuole. Inoltre il territorio atesino fu diviso in due circoli: il circolo dell’Adige con capoluogo Trento e il circolo dell’Eisack (Isarco) con capoluogo Bressanone. Tutto ciò non valse però a eliminare i motivi di malcontento di buona parte della popolazione, gravata da imposte, irritata e scossa dalla durezza della politica ecclesiastica adottata dal governo. Mancava la scintilla per provocare l’insurrezione. E quella fu offerta dalla pubblicazione della legge sulla coscrizione obbligatoria (3 marzo 1809), proprio alla vigilia della nuova guerra contro Napoleone. Sotto lo stimolo e gli incoraggiamenti del governo austriaco, gli insorti delle vallate altoatesine, della Venosta, della Passiria, della Pusteria, ostacolarono la ritirata dei Bavaresi. Andrea Hofer fu la guida spirituale e il capo riconosciuto del movimento sedizioso, che si estese rapidamente alle valli di Sole e di Non, fino alle località più remote. Il Trentino fu così per alcuni mesi teatro di una lotta accanita, conclusasi alla fine dell’anno con la resa degli insorti.

    Vedi Anche:  L'agricoltura e l'allevamento

    . Circoscrizioni napoleoniche nella Venezia Tridentina.

    In seguito alla pace di Schònbrunn (14 ottobre 1809), il Trentino, fino alla chiusa di Bressanone, veniva unito al Regno d’Italia, come dipartimento dell’Alto Adige; mentre Ampezzo, Livinallongo, Primiero e il comune di Dobbiaco erano aggregati al dipartimento della Piave. Le alte valli atesine rimanevano invece sotto il dominio bavarese.

    Il Trentino tornava cosi a gravitare verso l’Italia; ed è significativo il fatto che, in occasione dell’assunzione dei poteri da parte del prefetto del nuovo dipartimento, Alessandro Agucchi, fossero pubblicati gli scritti di Francesco Vigilio Barbacovi (Considerazioni sulla futura prosperità dei popoli del Trentino ora riuniti al Regno d’Italia) e di Benedetto Giovanelli (Trento città d’Italia per origine, per lingua e per costumi).

    Il dipartimento fu diviso in cinque distretti: di Trento, Rovereto, Riva, Cles e Bolzano. A Trento ebbe sede una corte di giustizia dipendente dalla corte d’appello di Brescia. I comuni furono riorganizzati sotto rispettivi sindaci e obbligati a provvedere all’istruzione elementare. Fu introdotto il codice napoleonico e, con esso, il matrimonio civile; e furono anche introdotte le leggi napoleoniche sulla coscrizione militare, sui conventi e sulle confraternite, sulle privative per la vendita del sale e tabacco. Disposizioni furono date per il controllo della pubblica igiene e per la custodia e l’amministrazione dei boschi. Malgrado questa lodevole riorganizzazione amministrativa della regione, diversi elementi contribuivano a creare un senso di disagio e di malumore nella popolazione. Soprattutto gravoso era il sistema tributario, rigido e opprimente, che colpiva in modo particolare le proprietà fondiarie. Ciò nonostante, la regione trentina potè godere di un periodo di pace e di ordine, in virtù dell’opera di tre delegati politici, che avevano sede a Trento, a Rovereto e a Bolzano. Ma, dopo la battaglia di Lipsia, il territorio trentino veniva rioccupato dalle truppe austriache al tramonto del 1813 e veniva ugualmente considerato ancora per diversi mesi parte del regno italico e amministrato da una commissione, a capo della quale era Antonio Roschmann. E finalmente, nell’aprile 1815, il dipartimento dell’Alto Adige veniva aggregato nuovamente al Tirolo. Poco dopo erano istituiti i tre capitanati circolari di Bolzano, Rovereto e Trento, ove era posto un commissariato superiore di polizia.

    Il periodo napoleonico si chiudeva dunque per la regione trentina con un atto, che sanciva la sua dipendenza dall’Austria. E l’atto posteriore del 6 aprile 1818, con cui il Trentino era aggregato alla Confederazione germanica, ne completava la nuova fisionomia politico-amministrativa.

    La dominazione austriaca e il Risorgimento

    Anche il Trentino non fu immune dai fremiti rivoluzionari, che affiorarono un po’ ovunque durante il periodo della Restaurazione. Quantunque buona parte della popolazione, stanca delle amare esperienze belliche e desiderosa di pace, si fosse rassegnata ad accettare il nuovo governo, tuttavia le idee di libertà, diffuse alla fine del secolo XVIII e al principio del secolo successivo, non erano state spente e si confondevano con un sentimento nazionale, ravvivato dall’attività segreta dei Carbonari. Soprattutto Gioacchino Prati, il quale aveva addirittura ideato per il 1821 un’insurrezione nella Venosta, rimasta però allo stato di progetto, rappresentava questa tendenza rivoluzionaria.

    Ma fu specialmente l’attività fervida e assidua della «Giovane Italia» che svolse una vivace propaganda unitaria. Continuando una vecchia tradizione, non mancarono fautori del confine del futuro Stato unitario al Brénnero: fra gli altri, Giovanni Frap-porti con la sua esposizione Della storia e della condizione del Trentino nell’antico e nel medioevo (1840) e Agostino Perini col suo Almanacco trentino (1843). E soprattutto Giovanni Prati contribuì con i suoi scritti ad alimentare i sentimenti nazionali e, insieme con Tommaso Gar, ad agitare il problema per la separazione del Trentino dal Tirolo.

    E attraverso le congiure e le attività segrete fu preparata la sollevazione di Trento del 19 marzo 1848, estesa rapidamente ai centri minori e quindi duramente repressa, malgrado la vivace attività militare dei corpi franchi, diretta a ottenere l’unione del territorio all’Italia. Accanto all’attività dei corpi franchi la lotta per la separazione del Trentino dal Tirolo e per la sua autonomia. I Trentini l’avevano reclamata fin dal marzo 1848, all’indomani della sollevazione, ma avevano dovuto cozzare contro l’avversione dell’Impero austriaco e della Confederazione germanica e contro l’ostilità ancora più violenta della Dieta tirolese. Il contrasto aveva avuto una fase critica con la nomina dei deputati trentini all’assemblea costituente della Confederazione germanica a Francoforte, che rivelò l’uomo che per lunghi anni fu il più tenace fautore dell’autonomia del Trentino, l’abate Giovanni Battista a Prato. Egli cercò inutilmente di replicare alle argomentazioni dei rappresentanti tirolesi, basando la sua dissertazione sul principio di nazionalità e chiedendo che il Trentino non fosse considerato parte integrante della confederazione, ma fosse annesso al Lombardo-Veneto. La dichiarazione dell’assemblea di Francoforte del 12 agosto 1848 troncava ogni speranza dei deputati trentini: la separazione dei territori di Trento e Rovereto dalla Confederazione germanica era giudicata inammissibile, anche se veniva riconosciuta l’opportunità di una certa libertà amministrativa del Trentino nell’ambito dell’Impero austriaco. La lotta per la separazione e l’autonomia del Trentino dal Tirolo fu continuata anche in seguito, soprattutto per opera dei Comitati patrii e, dopo il loro scioglimento dovuto agli intrighi tirolesi (25 gennaio 1849), dalla Società patriottica. Ogni sforzo fu vano allora. Ma rimase nella coscienza popolare il desiderio di una libertà e di un’autonomia almeno amministrativa. E quindi si approfondì gradualmente la frattura fra Tirolesi e Trentini.

    L’infelice esito della campagna del 1849 non aveva avuto dannose conseguenze sulla popolazione trentina. Era continuata l’attività cospirativa; la preparazione del nuovo periodo di lotta era curata in modo particolare da Antonio Gazzoletti di Nago, il quale, riparato in Piemonte, cercava di guadagnare l’opinione pubblica alla causa trentina, e da Bartolomeo Malfatti; mentre nel Trentino non mancavano rappresentanti della Società Nazionale, come Vittore Ricci e Girolamo Pietrapiana, con l’incarico di favorire l’emigrazione e l’arruolamento di volontari nella guerra del 1859. La propaganda della lotta per l’unità nazionale aveva ormai toccato ogni ceto sociale; ma amare delusioni dovevano ancora troncare ogni proposito unitario : fallì infatti la tentata spedizione di Sàrnico (1862), come fallì la cospirazione mazziniana del 1863-64, che avrebbe dovuto sfociare in un’insurrezione con l’obbiettivo di liberare il territorio trentino. Unico spiraglio di speranza per gli ideali di separazione e di autonomia trentina fu la concessione, da parte del governo austriaco, di una sezione di luogotenenza a Trento (19 aprile 1864), che però non cominciò subito la sua attività.

    Cesare Battisti. Dal monumento in Trento.

    Sembrò che la guerra del 1866 potesse liberare il Trentino, soprattutto con la vittoria di Garibaldi a Bezzecca e con l’avanzata del generale Giacomo Medici per la Valsugana, che parevano il preludio dell’occupazione di Trento. Ma la fine della guerra e la pace di Vienna del 3 agosto lasciavano insoluto il problema trentino, anche se il territorio era finalmente sciolto dal vincolo che lo univa alla Confederazione germanica.

    Dopo il 1866 furono anni di pace e di lavoro, e anni di preparazione fervida e costante per l’unione della regione all’Italia. Malgrado l’amarezza per l’esito sfavorevole della campagna del 1866 e la mancata inclusione del Trentino nei territori ceduti al Regno d’Italia, continuò la lotta per ottenere almeno l’autonomia del Trentino, soprattutto da parte dell’instancabile Giovanni Battista a Prato; lotta che si affievolì a poco a poco e che, col passar degli anni, si rivelò inutile di fronte all’accanita opposizione tirolese.

    Parallelamente, e nello stesso periodo, fu intensificata dall’Austria l’opera di germanizzazione del territorio atesino, in virtù del lavoro concorde del governo imperiale di Vienna, del governo provinciale di Innsbruck e delle associazioni pangermanistiche, sorte e rafforzate soprattutto dopo il decisivo affermarsi della potenza tedesca. Contro questi tentativi, che facevano parte di un preciso programma di invadenza anti-italiana nella regione trentina, sorse nel 1886 la «Società Pro Patria», osteggiata dal governo, perseguitata dai tirolesi, sciolta, dopo alcuni processi politici, nel 1890, e risorta col nome di « Lega Nazionale ».

    Sia la « Società Pro Patria » come la « Lega Nazionale » dedicarono la loro attività alla difesa del patrimonio linguistico: furono inaugurate scuole italiane private nei paesi dove l’insegnamento dell’italiano era stato soppresso, furono istituiti asili, furono curate biblioteche circolanti. E, a simbolo di questa attività, fu inaugurato a Trento nel 1896 il monumento a Dante. Ma poi la lotta sostenuta dalla «Lega Nazionale» divenne ancora più dura e difficile, soprattutto dopo la fondazione della Lega popolare tirolese nel 1905, che, sorretta da solide basi finanziarie, aveva il compito di accelerare la germanizzazione di tutto il territorio trentino. E la condizione degli Italiani dell’Alto Adige divenne sempre più difficile, privi, com’erano ormai, di una solida tutela civile, confortati spiritualmente solo dopo il 1906 dalla fondazione della rivista Archivio per l’Alto Adige, dove vennero raccolte le ricerche e gli studi sulla regione in relazione col resto della penisola.

    La Meridiana del Castello del Buon-consiglio con indicata l’ora dell’entrata delle nostre truppe in Trento.

    Ma in quegli anni, accanto a queste lotte e a queste polemiche non sempre serene, che si intrecciavano continuamente nella regione trentina, altre lotte di diversa natura stavano maturando sull’orizzonte politico italiano ed europeo. Venne la prima guerra mondiale; e il Trentino fu teatro di durissimi combattimenti, ai quali parteciparono valorosamente anche volontari trentini nelle file dell’esercito italiano. E il sublime olocausto di Cesare Battisti, Damiano Chiesa e Fabio Filzi è la testimonianza più limpida e pura della dedizione dei Trentini alla causa nazionale.

    Con la fine della guerra, il Trentino e l’Alto Adige furono ricongiunti all’Italia, e la Venezia Tridentina costituì la provincia di Trento. Solamente dal 1927 la Venezia Tridentina fu divisa nelle due province di Trento e Bolzano: quest’ultima formata dai circondari di Bolzano, Merano e Bressanone.

    E dell’ultimo decennio del XIX secolo il fiorire di Trento, città di cultura affiancata dalle nobili tradizioni di Rovereto. L’attività particolare nel campo di studi geografici regionali, che dettero vita al periodico Tridentum, è intimamente legata ai nomi di Cesare Battisti e di G. B. Trener, ed altri. Ne fa fede, tra l’altro, la pubblicazione di una delle più complete monografie regionali, Il Trentino di C. Battisti, che resta, ancor oggi, esempio e modello di una trattazione geografica regionale.

    Trento: la fossa dei martiri.