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Montagne e pianure del Lazio

    Montagne e pianure del Lazio

    Come si è già accennato, nel Lazio l’opera della natura e quella dell’uomo, presente fino dal Paleolitico inferiore, attivo da età antichissime, si sono associate a determinare quella vastità di aspetti e di paesaggi che attira così profondamente la nostra attenzione: ma prima dell’uomo la natura, attraverso una serie quanto mai complessa di avvenimenti geologici.

    Principali vicende geologiche

    In un’opera come questa non occorre tuttavia risalire a periodi geologici molto lontani, anteriori all’era terziaria. Di fatto prima del Terziario, il mare copriva ancora la più gran parte del territorio dell’attuale Lazio. A nord emergevano piccole isole, per lo più allungate, sommità affioranti delle dorsali (« rughe » del corrugamento tettonico) che si venivano manifestando ed accentuando fin dal Paleogene ed ancor più nel Neogene. Tali il Soratte, costituito da calcari liassici e retici, e il gruppo dei Cornicolani, rappresentanti l’uno e gli altri le estreme propaggini occidentali delle montagne mesozoiche della Sabina (Cosce, Pizzuto, ecc.); più a sud rientra ormai nell’area del Lazio attuale la grande isola del Gennaro-Pellecchia, anch’essa di calcari giuresi, poi la più estesa dorsale dei Monti Simbruini, Cantari ed Ernici costituiti da pile potenti di calcari prevalentemente cretacei, nella parte media e superiore, giuresi e talora (Monti Érnici) neotriassici alla base. Oltre la profonda fossa nella quale ora scorre il Sacco, i Lepini con gli Ausoni e gli Aurunci, mostrano la stessa struttura.

    Le pendici dei Monti Aurunci verso Marànola valle di impostazione tettonica neogenica.

    In queste montagne, che costituiscono quello che può dirsi il « Lazio calcareo », e delle quali parleremo estesamente più avanti in questo medesimo capitolo, la direzione degli assi del rilievo è prevalentemente disposta da nordovest a sudest, cioè, quella prevalente di tutti i massicci dell’Appennino Centrale. Di un’altra serie di rilievi più occidentali non restano che due isolette, ai due estremi del Lazio, il Monte di Canino a nord, e il Circeo a sud; ad essi si può aggiungere il Soratte ed il gruppo dei Monti Cornicolani, sommità isolatamente emergenti dalla coltre clastica plioqua-ternaria a causa di spinte orogeniche locali più accentuate lungo gli assi delle strutture sepolte.

    Le isole di calcare preterziario, residui, come s’è visto, di antichi corrugamenti, furono collegate fra loro durante il neogene da fasce di terreni miocenici: marne e calcari marnosi, calcari biancastri compatti, ovvero arenarie grige e giallastre, argille ecc., depositi abbandonati da bracci marini o salmastri, protesi entro le depressioni interstrut-turali. Tali quelli che formano in parte i Monti Prenestini e i rilievi tra il medio

    Aniene e il medio Salto; così anche fasce di terreni pliocenici — argille, sabbie o conglomerati — che, come più ampiamente è chiarito in seguito, si trovano ad esempio quasi ovunque alla base dei Monti Sabini e si estendono fino al solco ove ora scorre il Tevere.

    Ancora nel Pliocene la fisonomia di quello che poi sarà il Lazio non era definita neppure nei suoi lineamenti principali, come appare dalla cartina a pag. 67. Non esisteva neppure il Tevere: si presume che un corso d’acqua allora sboccasse nel Tirreno pliocenico all’incirca dirimpetto all’isola del Monte di Cetona. Nera, Velino, Salto, Turano, Aniene erano fiumi indipendenti sfocianti direttamente molto più a sud in quel mare; e tracce presunte dell’antico delta dell’Aniene si riscontrano alle falde dei rilievi di Tivoli.

    I lineamenti del Lazio odierno sono dovuti perciò a fatti geologicamente recentissimi. Un sollevamento di ineguale entità ha portato i depositi del Pliocene marino fino a 500-700 m. di altezza (per es. presso Rocca Sinibalda in Sabina). Grandi bacini lacustri si sono formati nelle sinclinali fra le diverse catene appenniniche; i residui più notevoli nel territorio laziale odierno sono le conche di Rieti e di Leonessa, colmate oggi in gran parte da sedimenti lacustri con banchi di lignite o fluvio-lacu-stri e da travertini.

    Ma il fenomeno più importante è dato da poderose manifestazioni del vulcanismo. Preceduto da eruzioni risalenti ancora al Miocene e al Pliocene, che hanno dato origine ai gruppi dei Ceriti e dei Monti della Tolfa (vulcani trachitici, che appaiono come isole nella carta a pag. 67 e che sono oggi profondamente smantellati), il vulcanismo quaternario ha prodotto nel territorio laziale, al margine del Tirreno, ben quattro sistemi eruttivi: il Vulcano Vulsinio — al cui centro è oggi il Lago di Bolsena — il Vulcano Cimino o di Vico, il Vulcano Sabatino o di Bracciano, tutti sulla destra del Tevere; ed il Vulcano Laziale sulla sinistra. Altri centri di manifestazioni effusive si ebbero ancora nella regione Ernica e nelle Isole Ponziane.

    I prodotti di alcuni di questi vulcani raggiunsero il mare, ma per lo più invasero bacini salmastri e palustri ; l’attività perdurò fino a tempi relativamente recenti (fine del pleistocene) mentre si formavano nuove spiagge; depositi limnici e salmastri si trovano in più luoghi sotto le coltri piroclastiche e gli espandimenti lavici, ovvero anche alternati ad essi.

    Sbarrato dai materiali piroclastici eruttati ed espansi per ampio raggio intorno a questi rilievi vulcanici, il Tevere non potè più sfociare direttamente in mare e si aprì la via in un solco fra le alture mio-plioceniche della Sabina e i vulcani: in questo solco si unì ad esso il Nera col Velino. Il fiume trovò foce in un golfo ancora persistente tra il Vulcano Sabatino e quello Laziale; in questo golfo immetteva anche, nei Quaternario medio, con foce indipendente l’Aniene. Le acque scendenti dai versanti occidentali dei rilievi vulcanici vennero a sboccare anch’esse con fiumi indipendenti di breve corso, nel Tirreno.

    Gli apparati vulcanici a nord sono estinti da tempo, quelli a sud del Tevere sono estinti da non lontane età preistoriche; da attribuirsi in parte a modestissimi residui dell’attività endogena sono ancora, come accenneremo più avanti, alcune manifestazioni idrotermali. Delle eruzioni del Vulcano Laziale fu testimone anche l’uomo, ma non certo in tempi storici, come è stato talvolta asserito, bensì nel Paleolitico superiore (Aurignaciano), ossia fra i 29.000 ed i 25.000 anni fa (secondo recenti datazioni assolute col C 14).

    Un lieve rialzo tra i Prenestini, calcarei, e il Vulcano Laziale restò come soglia divisoria fra il bacino del Tevere e quello del Sacco-Liri. Si delineò pertanto uno dei tratti più salienti e caratteristici del Lazio, quale risulta anche dal semplice esame di una carta: la presenza cioè di un solco diretto all’incirca da nordovest a sudest, segnato dal Tevere da Orte fino alle porte di Roma e dal Sacco-Liri.

    Anche la storia del Quaternario recente è molto complicata: ne fanno fede i depositi di spiaggia, che mostrano le tracce evidenti di spostamenti in vario senso e di varia entità dovuti al fenomeno dell’eustatismo ed i terrazzi lungo la valle del Tevere; anzi lo studio del Quaternario laziale rivela vicende molto complesse ancora in tempi nei quali l’uomo già popolava i margini delle pianure e le pendici dei monti, ed in quelli successivi ancora relativamente vicini all’età protostorica. Un grande golfo esistente a sud del Vulcano Laziale, alla base dei Lepini, fu trasformato in laguna da cordoni litoranei, successivamente da depositi eolici (dune) e lentamente, imperfettamente colmato: è la zona delle Paludi Pontine ora bonificata, della quale numerose trivellazioni nonché i tagli per l’escavazione dei canali di bonifica in più parti eseguitivi rivelano la storia. Anche altri bacini lacustri furono a poco a poco colmati. Nell’area dove ancora nel Quaternario medio sboccava in mare il Tevere, rimase pure a lungo una depressione colmata poi da vasti depositi travertinosi : l’Aniene divenne allora anch’esso un tributario del Tevere. Il delta di questo fiume, sempre più proteso in mare, subì, anche in tempi molto recenti, notevoli trasformazioni, cui contribuì da ultimo anche l’opera dell’uomo a seguito dell’intenso diboscamento, operato su tutto il bacino.

    Il glacialismo quaternario ha lasciato scarsissime tracce nelle montagne del Lazio. Nel modellamento ha avuto importanza maggiore il carsismo, come è facile constatare mercè la visione di fenomeni, talora anche grandiosi, dei quali si farà parola più avanti.

    I terreni più antichi del Lazio

    La formazione geologica più antica è rappresentata nel Lazio da calcari grigiastri dolomitici del Norico e del Retico (Trias superiore), che affiorano sulle pendici meridionali e sudoccidentali dei Monti Cotento e Viglio, e più largamente da calcari con intercalazioni di scisti nella regione di Antrodoco, alla base e sui fianchi del Monte Giano e del Monte Calvo presso lo spartiacque tra Velino e Aterno. Ad essi succedono calcari del Lias, talora grigi, massicci, caratterizzati dalla presenza di lenti o noduli di selce, altrove bianchi, semicristallini o anche marnosi nel massiccio del Terminillo, in Sabina nel Monte San Pancrazio e in una fascia allungata da nord a sud tra il Velino e il Farfa (Monti Macchia di Mezzo, Pizzuto, ecc.); inoltre in tutto il grande gruppo del Gennaro-Pellecchia e nei vicini; più a sud nel Circeo e nei rilievi presso Gaeta. In Sabina tali calcari talora fanno passaggio al Giurese: questo è rappresentato da scisti policromi in straterelli e banchi.

    Più diffusi sono i calcari del Cretaceo, che si sovrappongono a quelli del Lias nel Terminillo: costituiscono poi da soli i massicci del Nùria e del Monte tra le Serre continuandosi fuori del Lazio, nel Monte Velino; più a sud costituiscono l’elemento essenziale dei Simbruini, degli Ernici, dei Lepini, degli Ausoni, degli Aurunci, dei rilievi della regione di Cassino.

    Tutto questo è il Lazio calcareo antico, quello che, come si è già detto, costituiva la parte emersa della nostra regione prima del Terziario.

    Oggi i rilievi sono in parte erosi e consunti, ma tuttavia costituiscono la montagna laziale vera e propria: montagna brulla, inospitale, deserta, sforacchiata da cavità carsiche di ogni tipo, scarsissima di acqua in superficie, ma con estesa, profonda e ricca circolazione sotterranea. E questo il Lazio pastorale, con agricoltura limitata ai fondi delle grandi cavità carsiche, ovvero ai pendii faticosamente terrazzati, o lungo gli allineamenti di sorgenti, spesso copiosissime, in basso, nelle zone di contatto fra i calcari e le rocce impermeabili del Terziario.

    Il Monte Costasole (gruppo dei Ruffi): morfologie cupolari di rilievi calcarei.

    Questo Lazio geologicamente antico si segnala al visitatore, anche se non sia geologo, col suo aspetto di nudità selvaggia ed ostile.

    Ma vi è anche un Lazio terziario prevalentemente calcareo marnoso ed arenaceo. Nel Reatino affiora la formazione detta della «Scaglia rosata e cinerea» ascritta al Paleogene, costituita da scisti calcareo-marnosi policromi, alternati con strati di calcari : su di essi si adagiano in concordanza lembi di marne, arenarie e calcari non dissimili litologicamente costituenti la «formazione marnoso-arenacea», miocenica. Maggior varietà si riscontra nei Monti Sabini meridionali : a calcari di color rosso-mattone e banchi di « scaglia » grigio-verdastra paleogenici fanno seguito calcari marnosi deirOligocene e su questi poggiano altri calcari compatti o marnosi, o addirittura marne arenacee del Miocene inferiore. Questi ultimi localmente fanno trapasso ad arenarie in banchi più o meno potenti, alternati con argillo-scisti del Miocene medio e superiore.

    Sezioni geologiche attraverso il Lazio.

    CARTA SCHEMATICA GEOLOGICA DEL LAZIO:

    I) Rapporti stratigrafiei tra formazioni vulcaniche e sedimenti quaternari (molto semplificato).

    II) Successione stratigrafica delle formazioni prequaternarie.

    Ili) Limiti d’estensione delle facies regionali : E Etrusco-Ligure; UM Umbro-Marchigiana; A    Abruzzese o dell Appennino    meridionale.

    IV) Descrizione delle formazioni:

    Olocene: <i. Litorale (spiagge e dune attuali), a, Alluvionale (argille, limi, ghiaiette).

    Pleistocene superiore: q, Eolico (sabbie della «duna antica»), aq. Facies alluvionali continentali antiche, qm, Depositi marini litoranei.

    Pleistocene medio: fi. Depositi fluvio-lacustri antichi, tr. Travertino siciliano. [ì, Vulcaniti (lave leucititiche, tefriti, ecc.). tv, Formazioni piroclastiche (tuli litoidi, pomicei, granulari, scorie, pozzolane, peperini. qt. Limi palustri con flora    e    fauna di clima freddo; depositi    lagunari

    con    molluschi di ambiente salmastro (Cardium); marne, sabbie e ghiaie con mammiferi; sabbie eoliche.

    Pleistocene inferiore: Villafranchiano = Qc, Ghiaie fluviali; ligniti. Calabriano = Qm, Sabbie    e    argille lagunari e marine.

    Pliocene: Vulcanico    –    Lipariti, trachiti. ossidiana, formazioni igninibritiche. PI. Facies Astiarla (sabbie e    arenarie gialle); calcari    organogeni con molluschi, briozoi    (    « Macco •). Facies Piacenziana (argille grigio-turchine marine,    con molluschi,    echinodermi, ecc.).

    Miocene superiore:    Me,    puddinghe, arenarie e marne («Molasse»). Medio: calcari arenacei,    calcari algali (a    Litotamni), calcari organogeni

    marini, con molluschi ed    echinidi: facies A. Medio e Inferiore: calcari marnosi: facies UM.

    Paleogene: Pg, Oligocene Lito facies di Flysch (argilloscisti e calcari marnosi «Alberesi*. Facies E, Scisti marnosi (facies UM). Eocene: calcari nummulitici: facies A. Calcari marnosi scistosi (= «Scaglia cinerea»): facies UM. Lito facies di Flysch (argilloscisti): facies E.

    Cretaceo: CY, Calcari marnosi («Calcare rosato*), argilloscisti («Scaglia rossa»): facies E ed UM. Calcari selciferi («Maiolica»), scisti marnosi («Scisti a fucoidi •) : facies UM. Cra, Calcari chiari, di scogliera, a rudiste e gasteropodi: facies A.

    Giura-lias: Gl, Calcari selciferi, diaspri: facies E ed UM, Scisti ad Aptici, marne e calcari ad Ammoniti («rosso ammonitico *) : facies UM, Calcari in banchi, calcari grigi a crinoidi, calcari selciferi, pisolitici, a brachiopodi, ecc.: facies A ed UM.

    Trias: T, Calcari scuri (« portoro »), calcari grigi, calcari marnosi: facies E. Calcari magnesiaci ad alghe e dolomie: facies A ed UM.

    Permico: (in parte) Pm, filladi sericitiche («scisti lucenti»), arenarie, anageniti (conglomerato quarzoso) (    •    Verrucano    »).

    Il gruppo del Semprevisa visto dal Monte Lupone (Lepini). Superficie sommitale di zolla calcarea delimitata da faglie, modellata da più cicli d’erosione.

    Nell’alta valle dell’Aniene e nei Monti Carseolani, il Miocene si addossa diretta-mente ai calcari mesozoici, con aspetto assai vario: arenarie, argille, marne, strati di calcari organogeni. Anche nel Frusinate spesso ai calcari del Cretaceo succede il Miocene medio con strati di calcari compatti, o marnosi, con arenarie e scisti marnosi. Segue, senza sostanziali variazioni, il Miocene medio-superiore anch’esso a facies mar-noso-arenacea, che si continua anche nel Miocene superiore; nella valle del Liri a sud di Sora si incontra una serie presso a poco analoga.

    Questo « Lazio marnoso-calcareo » più giovane, è dunque anche più variato litologicamente: gli agenti atmosferici hanno agito differentemente su rocce di diversa struttura e resistenza; in generale il paesaggio è meno aspro; i frequenti e complicati contatti fra rocce permeabili e rocce semipermeabili o impermeabili danno luogo a diversi tipi di sorgenti, localizzate in pochi punti e copiose: ovvero sono più distribuite o addirittura disperse e spesso di portata modesta. Il bosco in passato, oggi le colture, trovano ambiente più adatto che nelle alte montagne preterziarie; più intensamente si esercita l’opera dell’uomo, che ha trovato, anche per le altezze più modeste dei rilievi, ambienti più adatti: frequenti sono, in talune aree i villaggi a breve distanza gli uni dagli altri e che fanno contrasto ad aree semivuote.

    Diverso è l’aspetto di quello che può definirsi il Lazio pliocenico. Il Pliocene è caratterizzato da due formazioni notissime : le argille turchine o cineree, ricche di fossili marini (dette di facies piacenziana) e, sopra, le sabbie gialle talora frammiste ad argille ne rappresentano la facies detta astiana, più litoranea, in contrapposto alla precedente, di mare più profondo. Esso affiora nel Lazio settentrionale tra la Fiora e il Mignone e nel fondo di molti torrenti della Tuscia Romana, poi lungo tutto il tronco laziale della valle del Tevere, con maggiore estensione sulla sinistra dove la formazione sabbiosa dell’Astiano è ancora largamente conservata ; e si addentra neirinterno nella valle del Farfa ed in quelle del Salto e del Turano fino al piede dei grandi massicci calcarei.

    Il Pliocene costituisce per lo più un paesaggio di morbide colline, poco elevate, a pendii dolci, salvo là dove i fianchi dei rilievi sono lacerati da calanchi, come avviene in più punti nella Tuscia Romana; in questi casi le colture sono rese difficili o richiedono il paziente intervento dell’uomo; ma altrove il paesaggio coltivato è largamente diffuso, abbastanza variato e la campagna è spesso discretamente popolata o si va popolando.

    Sui colli di Tarquinia e nei dintorni di Palo e di Anzio-Nettuno le sabbie gialle sono sostituite da un calcare organogeno somigliante un poco alla panchina e detto localmente macco, composto da un impasto di briozoi, frammenti di conchiglie marine e di echinodermi. Nella conca Reatina sedimenti, simili litologicamente a quelli del Pliocene, sono peraltro di origine non marina, ma fluvio-lacustre e passano poi a banchi di ghiaie cementate (puddinghe) con resti di mammiferi (Elephas meridionalis), riferiti al Villafranchiano.

    Il paesaggio vulcanico laziale

    In tutta la sezione laziale dell’Antiappennino Centro-meridionale la caratteristica principale è data dalla presenza di diversi apparati vulcanici estinti, già ricordati e dei quali in seguito riparleremo per quanto riguarda la genesi, l’età e la costituzione geolitologica. Ad essi si accompagnano aspetti del paesaggio vulcanico che altrove in Italia sono sviluppati in modo limitato o diverso.

    Nel complesso gli apparati ci appaiono oggi, in parte anche per la demolizione già operata dagli agenti atmosferici, come sistemi piuttosto appiattiti: i materiali piroclastici hanno costituito dei ripiani declinanti dai centri eruttivi verso la periferia; a seconda che i tufi sono litoidi o incoerenti, gli agenti meteorici vi hanno agito in modo più o meno intenso: ai tufi sono poi sovrapposte (o anche talora interposte) colate di dura lava leucititica.

    Questi ripiani sono tutto intorno solcati da valli radiali diffluenti verso il Tirreno, verso la Paglia o direttamente verso il Tevere: in queste valli, percorse da torrenti (o fossi secondo la denominazione locale più in uso) in genere assai modesti, salta agli occhi il contrasto fra le pareti laterali ripide o talora a picco, che sono indizio di giovanilità, ed il fondo ampio e piatto, molto più largo di quello che ci si aspetterebbe in torrenti così modesti; il che sarebbe invece indizio di senilità. Questo contrasto viene spiegato (Trevisan) mettendolo in relazione con fenomeni di eustatismo: ad una fase iniziale di rapida erosione sarebbe subentrata, per un innalzamento del livello marino, una fase di deiezione, o forse anche vi sarebbe stata alternanza di più fasi opposte.

    Tutta la regione corrispondente agli apparati Vulsinio, Cimino, Sabatino e Laziale era in origine coperta in alto da fitti boschi di faggi e querce, in basso da macchie molto intricate. Gli uni e le altre sono stati in gran parte estirpati, ma, lembi superstiti bastano a darci un’idea di quello che doveva essere l’aspetto primitivo. Nelle aree boscate l’uomo ha sostituito spesso il castagno o il nocciolo al faggio; la macchia ha ceduto il posto ai pascoli o alle colture, ma nelle ripide pendici o in qualche cocuzzolo ne restano residui così fitti da ostacolare il passaggio.

    Alla macchia l’uomo ha pure sostituito i cereali (grano) nelle plaghe meno fertili, il frutteto, l’oliveto, il vigneto nelle più fertili e qui talora la densità della popolazione è alta. I centri abitati sono spesso costruiti su platee alla confluenza di due fossi incassati, così da essere accessibili solo da un lato: questa situazione, tipica di molte vecchie città etnische — come Veio — fu detta posizione etnisca, ma si ritrova in centri di origine medioevale e anche nel Lazio antico a sud del Tevere che non fu mai, se non per breve tempo, dominio etrusco. La più alta densità di popolazione si ha nel Vulcano Laziale. Per contro alcune aree coperte da lave o da tufi litoidi sono ancora dominio del pascolo e quasi disabitate: l’intervento dell’uomo incontra difficoltà di vario genere.

    Il Monte Canino (Vulsini) visto da occidente.

    Trachiti domiformi dei Monti Ceriti visti da Cervéteri

    Del paesaggio vulcanico laziale, ora descritto, si hanno ancora altri aspetti legati alle caratteristiche geolitologiche. E diciamo aspetti, perchè i materiali che costituiscono gli apparati vulcanici già menzionati — trachiti, lave leucititiche, tufi, ecc. — sono diversi per composizione ed offrono diversa resistenza agli agenti atmosferici demolitori. Nel più antico fra questi sistemi vulcanici, quello dei Monti della Tolfa, le emersioni domiformi di lave trachitiche ricche di silice, fortemente attaccate dall’erosione subaerea, sono ridotte a spettacolari rupi, ripide o a picco come fantastici castelli. Negli edilìzi vulcanici più recenti, lave leucititiche otefriti leucitiche formano lunghe colate, come quelle che fuoriescono nei Vulsini, nei Cimini, nei Sabatini, nei Colli Laziali, negli Ernici. Queste colate prevalentemente ricche di leucite dal centro vulcanico Laziale s’irradiano nella Campagna Romana, intercalate o accompagnate da materiali di lancio (pozzolane) e tufi più o meno litoidi, arrivano fino a Capo di Bove, alle Capannelle, a Vallerano, ecc. Le lave in nuclei o ammassi più ristretti emergono talora bruscamente dal mantello dei tufi intorno ai recinti craterici centrali o periferici e formano caratteristiche cornici o bizzarri dirupi, o altrove piatti tavolati con orli ripidi. Anche i tufi sono di composizione molto diversa: tufi granulari incoerenti o poco compatti nei pianori declinanti dagli apparati Sabatino e Cimino al Tevere, dove offrono facile presa agli agenti atmosferici; tufi dell’apparato laziale più resistenti, talora litoidi come i caratteristici peperini (= brecce d’esplosione), il Lapis Albanus dei Romani, o come il classico « tufo da costruzione » o « litoide » (lionato dei vecchi autori) chiamato Saxum quadratimi dai Romani (Vitruvio), il « giallo a pomici nere », ecc. a nordovest di Roma, noto anche col nome di «nenfro» o «necrolite» per le necropoli etnische ivi scavate.

    Nelle formazioni vulcaniche le sorgenti in genere non abbondano ; si localizzano di solito al contatto con formazioni sottostanti impermeabili (argille plioceniche), sono spesso mineralizzate, più raramente termali (Viterbo). Il reticolo idrografico è in genere fitto e corsi d’acqua anche modesti hanno esercitato una intensa azione erosiva. La composizione chimica dei terreni vulcanici li rende adatti a svariate colture, segnalate per naturale fertilità; ma non mancano specialmente nella Tuscia Romana, ma anche nella Campagna, platee coperte di una dura crosta (cappellaccio) arida, con macchia magra o pascoli che l’uomo redime faticosamente.

    Questo Lazio vulcanico presenta spesso aspetti di giovanilità, anche se gli agenti demolitori hanno già lavorato intensamente ad abbassare i rilievi senza peraltro alterarne, di solito, le tipiche, ben riconoscibili forme. Ma aspetti ancor più giovanili, e ancora una volta del tutto diversi, presenta il Lazio che può quasi dirsi contemporaneo, il Lazio alluvionale del quale possiamo in più casi seguire i mutamenti anche attraverso ai tempi storici.

    Le lave trachitiche della cupola di Tolfa (da vecchia fotografia).

    Il Terminillo: stazione superiore della funivia (m. 1853), il rifugio (m. 2105) e la vetta (m. 2216).

    I terreni più recenti

    Sulle coste o, comunque in vicinanza del mare, sono ghiaie e sabbie con frequentissimi minerali vulcanici ; resti di antiche spiagge fossili : lembi di panchina tirreniana; sono sabbie del Tevere, sono cordoni di dune antiche (pleistoceniche) considerevolmente estese nel Lazio meridionale: in esse si formano delle concrezioni o croste ferrifere dette Alios o Ortstein ; e dune costiere con sabbie fluviali e di spiaggia del Quaternario più recente. Nella regione interna sono alluvioni quaternarie terrazzate ai due lati della valle del Tevere ed anche in quella del Sacco; sono in aree depresse, depositi lacustri: diatomeiferi e torbosi, come si incontrano particolarmente nella Pianura Pontina, nel delta tiberino, nell’area romana; sono depositi travertinosi come quelli in Agro Tibur-tino, e a Fiano; sono talora materiali tufacei trasformati in paleosuoli tra Colonna e Valmontone. Le vaste piane costiere Pontina e di Fondi hanno conservato l’ambiente palustre fino a tempi recenti, ultimo episodio della loro complessa e giovane storia geologica. Bonificate, presentano ancora delle lagune (Caprolace, Paola, Fondi, ecc.) riserva di pesca. Nelle aree montane si notano sovente detriti di falda, che vediamo formarsi o accrescersi anche di recente; tali sono depositi di frane delle quali ricordiamo quelle della zona orientale del Vulsinio (tufi su argille: Bagnorea), di Trevi-gnano (Sabatino) del 1962, di Artena per suberosione dei calcari nel 1850 e quelle minori nell’area occupata dalle argille e sabbie plioceniche. Rari sono i veri residui morenici, in ogni caso molto circoscritti e poco appariscenti (valle Meta al Terminillo; Monte Viglio nei Cantari).

    Il Lazio alluvionale è però anche quello nel quale l’uomo ha esercitato più a fondo l’opera trasformatrice alterandone largamente le stesse caratteristiche fisiche, come avremo occasione di esporre diffusamente in altre parti di quest’opera.

    La tettonica

    La tettonica delle più elevate catene appenniniche si è rivelata più complessa nel dettaglio, pur rimanendo sostanzialmente la struttura di esse composta da sollevamenti anticlinalici generalmente ridotti a monoclinali per fratture assiali, e da fosse limitate da serie di faglie (struttura a fosse e massicci o a mosaico di fratture). Questo per il Lazio « calcareo » o più propriamente (secondo gli autori) di facies « abruzzese », mentre in quello nordoccidentale (Sabina, Viterbese), dove alle formazioni calcaree si intercalano quelle scistoso-marnose (facies «umbro-marchigiana»), predomina lo stile del corrugamento a pieghe accompagnato da fratture che sezionano longitudinalmente e trasversalmente le strutture originariamente a rughe ellissoidiche.

    I Monti della Laga

    Una parte a sé, sia dal punto di vista tettonico che da quello geolitologico ha, all’estremo nordorientale del Lazio amministrativo, la catena cui si dà il nome di Monti della Laga (1). E una delle più imponenti dell’Appennino, perchè la cresta corre per una dozzina di chilometri sopra i 2000 m. e le cime più eccelse culminanti, il Pizzo di Sevo (2419 m.) e il Monte Gorzano (2458 m.), si annoverano fra le massime di tutto il sistema montuoso appenninico ; su di esse corre il confine amministrativo con l’Abruzzo teramano al quale appartiene una catena più orientale meno elevata: poco a nord del Pizzo di Sevo è un punto triconfinale Lazio-Marche-Abruzzo. Ma la catena si differenzia dalle altre deirAppennino Centrale perchè le formazioni calcaree di base sono rimaste nascoste, ricoperte da una potente coltre di marne (scaglia paleogenica) e arenarie mioceniche per oltre 1000 m. di spessore. Pertanto il paesaggio dell’alta montagna, quale dovrebbe corrispondere all’altitudine, si presenta con forme raddolcite e piuttosto morbide ; i fianchi rivolti ad ovest hanno pendenze uniformi e sono incise da valloni conformati talora a doccia ; tracce glaciali sono appena identificabili, data la natura arenacea, su aree molto limitate : è forse un lago di circo il Lago Nero a 1505 metri. Non si può peraltro parlare di montagna media, perchè le parti più alte, nude o coperte di magri pascoli, hanno pur un aspetto desolato e al disopra di 1300 m. circa sono prive di aree coltivate e di abitazioni permanenti e non hanno che stazzi frequentati nei mesi estivi dai pastori. Il mantello boscoso è ridotto a modeste aree, non oltre i 1700-1800 m. (faggi). La popolazione si raccoglie nell’ampia e movimentata conca di Amatrice, ed è distribuita in piccoli nuclei o villag-getti, piuttosto che nel fondo, sui margini ad altezze fra 900 e 1100 metri. La conca è drenata dal Tronto e da minori torrenti che gli affluiscono; il fiume è oggi sbarrato in modo da formare il pittoresco Lago dello Scandarello. Lo spartiacque col Velino è al passo detto di Torrita o dello Scandarello (1008 m.). Questo territorio che potrebbe denominarsi oggi « Lazio adriatico » non abbraccia un’area superiore a 260 kmq.

    Il fiume Velino che ha qui la sua origine, dopo pochi chilometri di corso, intacca, in una serie di profonde anguste, selvagge gole epigeniche, una catena, ormai ad ossatura calcarea, che a sinistra culmina nei Monti Gabbia (1497 m.) e Giano (1820 m.) e altri minori separati l’uno dall’altro anch’essi da vallecole profondamente incise. E qui è da rilevare un’altra irregolarità del confine, in quanto le testate di questi torrentelli (il maggiore è il Ratto), pure assai prossimi, sono in territorio amministrativamente abruzzese: la linea di confine non ha seguito qui lo spartiacque, ma si è modellata su antichi limiti comunali.

    Il Terminillo e i Monti della Duchessa

    A destra piomba sulla valle del Velino il Monte Boràgine (1829 m.), propaggine settentrionale, alquanto isolata del massiccio del Terminillo. E questo uno dei più imponenti gruppi calcarei dell’Appennino Centrale, culminante con la vetta più elevata a 2216 m. e con altre quattro o cinque vette sopra i 2000 m. (Terminilletto 2105 m. ; Sassatelli 2079 m.). Fu definito un ellissoide fratturato, costituito da calcari secondari di vari orizzonti dal Retico al Cretaceo: calcari dolomitici del Retico in affioramenti limitati, calcari del Lias superiore e medio, e soprattutto calcari bianchi granulari o ceroidi a crinoidi del Giura medio e superiore, passanti a calcari cristallini bianco-giallastri del Cretaceo inferiore. Soltanto sotto i iooo m. compaiono sul lato orientale terreni terziari in trasgressione sui secondari. La tettonica è molto complicata: grandi faglie dirette e inverse, trasversali al massiccio, tagliano l’intero gruppo, onde gli strati più antichi (Lias) si trovano spesso accavallati sui più recenti (Giura e Creta). La struttura geotettonica determina il carattere morfologico del gruppo: ad esempio la profonda orrida gola percorsa dal Velino, lunga più di 15 km., sulla quale la montagna strabiomba ad oriente corrisponde ad un sistema di faglie. Ma caratteristiche salienti sono anche i valloni profondamente incisi per epigenismo come enormi cicatrici: ad esempio il vallone di Lisciano, il vallone Ravara, la forra di Cupa Scura, ecc. e sui fianchi nudi o alle testate dei valloni detriti caotici, come quelli che fasciano le ripide pareti dei Sassatelli, quelli che scendono dal monte detto appunto il Brecciaro. Il glacialismo ha avuto uno sviluppo modesto: si considera come un circo glaciale l’arco tra il Monte Valloni e il Brecciaro, e sono di modellamento glaciale alcuni dossi montonati sotto le pendici dei Sassatelli; in valle Meta, ai circhi di testata (versante nordest dei Sassatelli) corrispondono depositi morenici a m. 1200 circa nel bosco di Vallonina, indizio della presenza di un ghiacciaio sviluppato per circa 4 chilometri. Altre tracce (circhi e morene) sono conservate a Prato Comune e Valle Scura. Si è dedotto che il limite delle nevi potesse trovarsi nel Wiir-miano intorno a 1700 metri. Anche il carsismo di superfìcie è poco sviluppato: solo nelle regioni a morbide ondulazioni di Campoforogna e Pian dei Valli si riscontrano doline di varie dimensioni, di solito a piatto o a ciotola; mancano imbuti, caverne, ecc. La rete delle acque circolanti sotterraneamente è probabilmente vasta e profonda: rare le sorgenti nel seno della montagna; copiose come avviene di solito nei grandi massicci calcarei, quelle alla base, tra le quali le sorgenti del Padule che forniscono acqua a Rieti.

    Vedi Anche:  I Castelli Romani

    Nel gruppo del Terminillo: la Sella di Leonessa (m. 1910). A destra la cresta dei Sassatelli: metà del versante è occupata da falde detritiche appoggiate a dossi calcarei di modellamento glaciale.

    Veduta dalla cima del Terminillo.

    I Monti della Duchessa (Monte Muro Lungo m. 2187). In primo piano modellamento glaciale dell’alta valle del Cieco con faggeta

    Le pendici del Terminillo, il Tetricus Mons dell’antichità classica, erano un tempo ricoperte da boschi soprattutto di faggi con qualche raro tasso (Taxus baccata), relitto dell’antica foresta di conifere; il faggio arriva fino a 1700 m. e del suo antico rigoglio rimane la estesa e folta faggeta di Vallonina a nord. A sud e a sudest predomina invece il castagno, sostituito al faggio. Le aree culminali sono occupate da pascoli o anche, spesso, desolatamente nude: a nord e ad est prevalgono vette e creste ripide e dirupate, a sud e ad ovest dossi cupoleggianti a dolce declivio: le une e gli altri rotti da incisioni e plasmate talora bizzarramente dall’erosione delle acque correnti e delle nevi in fusione sui calcari. Ristrette aree coltivate arrivano fin verso i 1000 m. sul versante sud.

    Il Terminillo, distante da Roma poco più di 70 km., è divenuto una palestra per gli sport invernali : una strada automobilistica sale da Rieti a Campoforogna (1675 m.); una funivia, costruita nel 1935, raggiunge la cima del Terminilluccio (1853 m.); seggiovie e funivie irraggiano verso i molteplici campi di sci sui morbidi pendìi a sud e ad ovest. Numerosi sono anche gli alberghi, i rifugi e le ville, onde la regione si presta ormai anche a soggiorni estivi. L’intero massiccio è oggi attraversato dalla strada che collega Campoforogna a Leonessa.

    Si può considerare fisi ogr amicamente come un prolungamento del gruppo del Terminillo, al di là della gola di Antrodoco, il massiccio cui può darsi il nome del Nüria (1888 m.), di soli quattro metri più alto del gemello Nurietta. Diversa però ne è la costituzione geologica, appartenendo il Nuria alla facies abruzzese (intera serie Giura-Cretaceo composta di calcari massicci), mentre nel Terminillo questa è rappresentata da scisti a fucoidi, scaglia, e calcari marnosi (majolica). E dunque tutto un blocco di calcari, nel quale i fenomeni carsici di vario tipo raggiungono uno sviluppo veramente eccezionale. Quattro grandi conche contigue si aprono fra 1100 e 1300 metri. La più elevata, il Piano di Cornino (1280 m.) è crivellato da doline ad imbuto di piccole dimensioni e ospita un lago temporaneo ; il prossimo Piano di Rascino alberga invece il lago permanente omonimo (a 1142 m. sul mare), ma di area variabile e di forma bizzarra, con emissario sotterraneo; il Piano dell’Aquilente (1170 m.) che ha pure, nella parte più depressa, un minuscolo laghetto permanente e alcune pozze temporanee, e infine il Campo Lasca, il più piccolo, a 1110 metri. Campi solcati, aree tormentate e rocce cariate, piccole voragini sono frequenti dappertutto. Sulla roccia erosa dalle acque meteoriche e dalle nevi, i superstiti lembi boscati sono molto ridotti; il rimboschimento è impresa ardua.

    Del più vasto sistema del Monte Velino che fa seguito a sudest appartengono al Lazio, non la più alta vetta, il Velino, in senso stretto (2487 m.), ma i Monti della Duchessa (localmente noti col solo nome di Monte Morrone, 2141 m.). Anche qui si ha a che fare con un potente blocco di calcari cretacei, messi allo scoperto per la quasi totale scomparsa dei depositi terziari (elveziani) di copertura. In rapporto alla maggiore altezza sono qui più manifesti i caratteri di rudezza e asperità dell’alta montagna: frequenti i circhi uno dei quali assai ampio, ospita nel fondo il piccolo Lago della Duchessa (1788 m.); abbastanza ben conservati alcuni lembi morenici, dossi montonati ed anche, eccezionali per l’Appennino, alcuni massi erratici e valli ad U (Val di Teve). Il limite delle nevi permanenti era nel Würm, sul versante meridionale, intorno a 1800-1900 metri. Dal Piano della Duchessa una lingua ghiacciata scendeva fin verso i 1550 m., un’altra in Valle Amara fino a 1450. Grandi conoidi di deiezione rivestono i calcari alla base, specie ad ovest e sudovest dove si aprono due conche riempite di materiali alluvionali, il Piano del Corvaro o Camarone e il Piano Pizzodente. Il fenomeno carsico si presenta con morfologie relitte da cicli d’erosione preglaciali, e con forme più giovani sovrimposte a quelle glaciali (circhi trasformati in doline, inghiottitoi nel morenico calcareo). Nelle zone cacuminali oltre i 2000 m. sono presenti suoli da ni-vazione (a zolle, a ghirlande). Ginepri, ed inferiormente faggete, coronano i più alti greppi, con piante secolari ; ma il diboscamento irrazionale avanza spietato : ed anche qui relitti di antiche selve di conifere rimangono alcuni solitari alberi di tasso.

    La valle del fiume Licenza e il Monte Pellecchia (Monti Sabini), visti da Castel Madama. In primo piano tufi vulcanici; nel mezzo dossi collinosi dei calcari marnosi miocenici.

    Il Cicolano

    Al piede dei massicci Nuria-Duchessa, si stende la regione detta Cicolano, dal nome degli antichi abitatori Equicoli, percorsa dal Salto affluente del Velino; singolare regione fino a pochi decenni fa molto appartata che ha perciò conservato tipi di popolamento (numerosi piccoli centri e nuclei di modesta entità demografica), nonché forme di economia agricola e pastorale risalenti almeno alla antichità classica, e conservatesi attraverso il Medio Evo e l’età moderna nonostante le vicende storiche non di rado assai tormentate, come è attestato anche dai numerosi centri scomparsi o in rovina che costituiscono ivi pure un elemento caratteristico del paesaggio. Al Cicolano si suole ascrivere anche la Val di Varri, esempio tra i più cospicui d’Italia di una valle chiusa di impostazione tettonica, modellata dall’epigenismo che ha prodotto l’autosotterramento delle acque, in un inghiottitoio entro i calcari cretacei.

    I Monti Sabini, Prenestini, Simbruini ed Érnici.

    Più ad ovest, nelle valli del Turano e del Licenza, il paesaggio cambia di aspetto raddolcendosi per la comparsa di marne e calcari marnosi del Miocene, modellati in rilievi di modesta altezza. Ma ancor più ad ovest il paesaggio calcareo ricompare nei massicci mesozoici dei Monti Sabini, che formano tre serie separate da fasce di terreni giovani: a nord quella del Monte Cosce (1114 m.), al centro, fra le valli dell’Aia e del Farfa, quella dei Monti Macchia di Mezzo (1213 m.) e Pizzuto (1287 m.), a sud quella dei Monti Pendente (n 19 m.), Pellecchia (1368 m.) e Gennaro (1271), che scendono con sproni ripidi sulla pianura romana dalla quale riemergono ancora con i caratteristici rilievi isolati di Montecelio e Sant’Angelo. Nonostante la minore altezza, queste montagne calcaree sabine ormai quasi interamente denudate, costituiscono un paesaggio aspro, modellato in aspetti complessi dall’erosione normale e carsica con doline (localmente trosce), campi solcati, grotte.

    Il Monte Pellecchia visto dal Monte Gennaro.

    Nel gruppo del Gennaro: il Monte Morra con morfologia arrotondata dei calcari antichi (Giuralias).

    Il Gennaro, l’antico Lucretile di Orazio, appare imponente all’orizzonte di Roma e la cornice di Tivoli marca il brusco passaggio dalla montagna alla pianura romana senza l’interposizione di una fascia di colline che altrove è invece caratteristica della Sabina.

    Nei Monti Prenestini, che la valle, piuttosto incassata, dell’Aniene separa dal gruppo Gennaro-Pellecchia, i calcari cretacei sono mascherati da una coltre di marne e calcari miocenici: il paesaggio non muta molto di aspetto, se non in quanto anche le vette più alte superano di poco i iooo m.; la più elevata, il Guadagnolo (1218 m.), è caratteristica per la sommità tabulare, sormontata da una grande statua del Redentore.

    Ma il tipico calcare cretaceo con ippuriti, ecc., ricompare nel grande sistema dei Simbruini (Monte Autore 1853 m., Monte Tarino 1959 m.), come pure nel gruppo piuttosto isolato, e più elevato dei Cantari (Monte Viglio 2156 m., Monte Cotento 2014 m.) e negli Ernici che fanno seguito a sudest [La Monna 1951 m., Pizzo Deta 2041 m. (1), Pedicino 1734 ni.]. Nel Viglio affiora un nucleo a carattere tettonico estrusivo di calcari magnesiaci e dolomie del Trias e del Lias. Sulle creste più elevate dei Simbruini e degli Ernici corre, come si è già visto, il confine amministrativo, di modo che solo il versante sudovest spetta al Lazio. La montagna ha forme più molli, con cime cupoleggianti o vaste spianate, modellate dal carsismo. È questo infatti, tra i rilievi del Lazio, quello che offre maggior varietà di fenomeni carsici: grandi cavità chiuse, simili per alcuni aspetti ai polje balcanici, come Campovano, Campocatino, Camposecco, e il Piano di Arcinazzo, con cavità assorbenti nel fondo; inghiottitoi, doline vere e proprie; corsi d’acqua che si perdono in pozzi o caverne per risorgere più in basso ; e anche forme minute, come nicchie di erosione e campi solcati : se ne vedono esempi tipici ai lati della strada che sale da Subiaco al Piano di Arcinazzo associati con piccole doline irregolari a fondo erboso (buche). La circolazione sotterranea delle acque è molto ricca: numerose le grotte anche assai lunghe, copiose le sorgenti alla base delle potenti pile di strati calcarei, dalle quali traggono alimento l’Aniene e i suoi più alti affluenti al pari del Liri.

    Lineamenti del Lazio pliocenico: sono indicati per riferimento la costa e il Tevere attuali.

    Il Monte La Monna negli Ernici.

    Il bosco è preservato in placche isolate, spesso intorno a conventi, come al Serrone e a Trisulti; le colture anche qui raramente si spingono sopra i iooo m., come presso Filettino, che è il paese abitato in permanenza più alto di questa parte della regione laziale.

    La Meta e le Mainarde

    Ad est i Simbruini e gli Ernici scendono con precipiti balze sulla Val Roveto, percorsa dall’alto Liri, angusta e incassata, che è in territorio abruzzese; ma dove questa si apre nella Val Sorana, il confine la taglia tra Balsorano e Sora per trasportarsi, come già si è visto, sul massiccio della Meta e raggiungerne il culmine al Monte Petroso (2247 m.); il versante meridionale di questo appartiene perciò ancora al Lazio, delineando un arco intorno alla Val di Cornino, solcata dal Melfa.

    I calcari del Giura, che formano il blocco principale del massiccio (1) danno un paesaggio assai aspro: in una regione molto piovosa le forme attuali sono state profondamente plasmate dall’azione delle acque correnti, che hanno creato valloni incassati irradianti in ogni direzione: tali il vallone del Melfa e quello del Mollarino (Val Canneto) tra i quali si aderge il contrafforte delle Mainarde (2070 m.). Il carsismo ha avuto minore sviluppo: il glacialismo ha lasciato le sue tracce — circhi, laghi glaciali, piccoli archi morenici — soprattutto sui versanti esposti a nord; un ghiacciaio nel Wurmiano occupava la Val Canneto, ed altri si estendevano per brevi tratti nelle valli del versante nordest verso Barrea ed Alfedena (Abruzzo). Quello di Val Canneto ha lasciato un ben riconoscibile lembo di morena al suo termine.

    Si raccordano alle Mainarde, oltre la Val Canneto, i rilievi che circondano il bacino del Rapido, il Monte Monna di Casale (1395 m.), il Monte Bianco (1168 m.) a nordovest

     

    Il Monte Lupone nei Lepini.

    e a sudovest, l’erto contrafforte di Monte Cairo (1669 m.), che scende con balze rocciose sul Liri: su una di queste balze, a 516 m., sorge la celebre Abbazia di Monte-cassino, ricostruita dopo l’immane distruzione nell’ultima fase della seconda guerra mondiale.

    I Lepini, gli Ausoni e gli Aurunci.

    La serie più occidentale, più vicina al Tirreno, dei rilievi del Lazio calcareo, è quella rappresentata dai Lepini e dalla loro prosecuzione meridionale, cui si dà il nome di Monti Ausoni e Monti Aurunci. Si tratta di rilievi che i geografi ascrivono di solito al Subappennino, non all’Appennino vero e proprio, come invece sono per formazione geologica, perchè da questo appaiono nettamente separati per l’ampio solco della Valle Latina percorsa dal Sacco.

    I Lepini (dal latino lapis, pietra) veri e propri sono ben delimitati anche a nordovest da un’area depressa che nel punto più alto (Soglia di Lariano) non supera i m. 306; ed a sudest dalla valle dell’Amaseno, che allargata in un’ampia conca anticamente forse colmata da un lago, incide profondamente la montagna e per mezzo del passo di Castro dei Volsci (155 m.) li separa dalla valle del Sacco. A sudovest, verso la Pianura Pontina scendono con una serie di balze e di gradini, l’ultimo dei quali ha l’aspetto di una imponente balconata limitata da rupi a picco, come quelle sotto il paese di Norma. Analoghe serie di balze a piani si riscontrano sul versante del Sacco specie sopra Morolo.

    Veduta della cima del Monte Gemma (Lepini).

    I Monti Ausoni visti da Terracina: strati di calcari infracretacei.

    Anche i Lepini constano di pile potenti (oltre iooo m.) di calcari che dal Giurese superiore vanno a comprendere l’intero Cretaceo. Essi peraltro sono tutt’intorno ricoperti in basso da tufi provenienti dal vicino Vulcano Laziale e verso la valle del Sacco anche da lembi di depositi terziari attribuiti al Miocene; la tipica morfologia calcarea appare nelle aree elevate e in tutta la regione interna. Qui si hanno due allineamenti di rilievi entrambi con direzione nordovest-sudest: ad occidente quello che culmina nei Monti Lupone (1378 m.), Capreo (1470 m.), Semprevisa, il più alto di tutti i Lepini (1536 m.), Erdigheta (1330 m.); ad oriente quello, assai meno continuo e compatto, ma notevole per l’uniforme altitudine delle vette, che contiene il Favitozzo (1283 m.), il Monte Alto di Morolo (1416 m.), il Malaina (1480 m.), il Gemma (1460 m.), il Salerio (1439 m.), poi una serie di cime isolate tra le quali famosa la piramide del Cacume (1095 m.) che chiude l’orizzonte di Pàtrica. Una serie di valli o bacini chiusi separa i due allineamenti.

    Veduta degli Aurunci dalla vetta del Redentore.

    Il modellamento carsico è stato anche qui molto intenso. Si tratta di ampi bacini, o di valli chiuse per lo più allungate pure da nordovest a sudest e di « campi » talora entro questi stessi bacini, forniti di inghiottitoi o laghetti (volubri); di doline di varie dimensioni (òvizzi, obaci), di pozzi, di ampie aree ad erosione minuta con solchi, nicchie bizzarre forme di roccia cariata. Come in tutte le regioni carsiche le acque piovane vengono assorbite dalle fessure del calcare e circolano sotterraneamente. Le parti più elevate sono perciò come al solito nude o coperte di magri pascoli, ma nelle pendici più riparate, o entro le maggiori cavità, si conservano ancora aree boscate (si calcolano al 27% dell’area totale), con prevalenza di faggi o di castagni; vaste distese continue e compatte sono rare, ma i lembi residui mostrano per la loro situazione e distribuzione, di essere i superstiti di un mantello un tempo assai più esteso. Le sorgenti in seno al massiccio non sono frequenti nè copiose, copiosissime invece quelle allineate lungo il piede sudoccidentale da Ninfa a Terracina, sbocco di una vasta e profonda rete idrografica sotterranea.

    Alla montagna lepina — il Lepinus Mons degli antichi — fa seguito oltre la valle dell’Amaseno il gruppo cui i geografi hanno dato il nome di Ausoni, assai meno elevati (Monte delle Fate, 1090 m.), ma costituiti anch’essi da un blocco calcareo, privo anzi della copertura di materiali vulcanici. Il gruppo è nettamente diviso in due sezioni dalla tortuosa valle dell’Amaseno, che ha catturato un torrente originariamente affluente del Sacco; il gomito di cattura si trova a sud di Castro dei Volsci. La sezione meridionale forma dei contrafforti che delimitano a nord e nordovest la piana di Fondi e si avvicinano al mare quasi a strapiombo con lo sprone calcareo di Terracina. Una notevole balconata delimitata da rocce a picco precipita verso la Pianura Pontina con il Monte Leano (676 m.), poco dopo lo sbocco su di essa dell’Amaseno. La sezione nord degrada con margine a gradinate talora aspre e ripide, incise da vallecole incassate, verso la valle del Liri (Monte Calvilli, n 16 m.). Questo versante settentrionale è noto per l’imponenza dei fenomeni carsici, specialmente sistemi di grotte come quella, una volta molto pittoresca, oggi manomessa, di Pastena. Ma doline, imbuti, bacini chiusi si trovano ovunque.

    Oltre l’insellatura per la quale passa la strada da Itri alla valle del Liri, che sale sino a 620 m. alla Sella di San Nicola, si aderge il plesso montuoso designato col nome di Aurunci, culminante a 1533 m., altezza quasi identica a quella del confratello lepino, la Semprevisa. La struttura degli Aurunei è peraltro più complicata e non rari sono i fenomeni carsici. L’area culminale, che comprende il Petrella, si presenta come un’aspra e seghettata catena foggiata a semicerchio. Ad essa si collegano altri rilievi, sia sul versante marittimo, sia su quello del Liri. Dalla profonda depressione di Itri (segnata dai fossi Pontone e Sant’Andrea e dalla Via Appia) ne sono separati i rilievi calcarei giu-resi componenti i Colli Cecubi dei Romani, famosi per il vino (Monte Cefalo, 543 m. ; Monte Moneta, 358 m., ecc.), compresi fra Sperlonga, Itri, Gaeta ed il versante orientale della piana di Fondi (Monte Lauzo, 424 m.). Gli Aurunei giungono così al mare affacciandovisi con ripidi sproni sulla pittoresca e variata costa tra Sperlonga e Gaeta; la penisoletta di Gaeta ne rappresenta anzi l’estrema propaggine. Vista dal mare, l’aspetto della catena aurunca, con i contrafforti del Ruazzo (1314 m.), del Sant’Angelo (1402 m.) e della Punta del Redentore (1252 m.) protesi con dirupi grandiosi e con lo sfondo del Petrella, è veramente impressionante, anche per la nuda desolazione delle pendici e dei ciglioni a picco. Verso l’interno i pendìi sono più dolci e rivestiti da rari lembi di bosco. Oltre il solco percorso dall’Ausente, impostato su di una fossa tettonica, il paesaggio si raddolcisce nel gruppo del Monte Maio (940 m.).

    Le cime del Redentore negli Aurunci.

    Il Santuario di S. Michele sotto la precipite parete del Redentore (Au ru nei).

    Come al solito l’interno della montagna è povero di acque sorgive: le acque circolano sotterraneamente per sgorgare alla base specialmente a sud (Formia) e ad est, verso il Garigliano, in sorgenti non di rado mineralizzate, come quelle di Suio.

    Il Monte Circeo

    Al rilievo lepino è stato da alcuni geologi ricollegato il Circeo, nome dato sino dall’antichità (Circeius Mons o Mons Circellorum; in italiano anche Circello) al promontorio alto 541 m. che chiude ad ovest il Golfo di Gaeta. Rappresenta probabilmente il residuo affiorante di una struttura anticlinale sepolta, tettonicamente indipendente dai Lepini, quale superstite membro di una piega montuosa più occidentale (un altro superstite sarebbe, nel Lazio settentrionale, il Monte di Canino) ; del resto dai Lepini si differenzia alquanto anche dal punto di vista litologico perchè costituito da una massa di dolomie e di calcari bianchi cristallini o ceroidi, che albergano giacimenti di calcite spatica (alabastri), già sfruttati nell’antichità. Di questi ad esempio ne fu ornata la Sagrestia Vaticana: le cave sul versante marino sono oggi abbandonate, mentre un’altra non lungi dal paese di San Felice è stata di recente messa in opera. Ma l’aspetto caratteristico del Circeo deriva dal fatto che esso precipita con balze e ciglioni ripidi sia verso il mare, dove talune pareti sono addirittura a picco, sia verso la Piana Pontina. Ai naviganti appariva (e appare tuttora) come un’isola onde vi si potè localizzare il mito di Circe. Ed in effetti ancora nell’ultimo interglaciale fu isola, saldata poi alla terraferma dalle alluvioni e dune che colmarono il golfo pontino; quindi la sua natura insulare era già perduta in età protostorica. Altra caratteristica ben nota del Circeo sono le numerose grotte di erosione marina, notevoli anche perchè sulle pareti interne di alcune di esse — come la grotta cui fu dato il nome della maga Circe — ed in quella celebre delle « Capre », si riscontrano fori di litodomi, testimoni dell’innalzamento eustatico del livello marino durante l’ultimo interglaciale Riss-Wiirm. Un’altra grotta (grotta Guattari) è celebre, come si è già detto, per il rinvenimento di un cranio di uomo neanderthaliano e di ossami della fauna contemporanea (rinoceronte, ippopotamo, iena, cervidi) risalenti a circa 70.000 anni fa, sovrapposti alla spiaggia fossile tirreniana.

    Il Monte Circeo visto dalla Pianura Pontina.

    Il Monte delle Grotte sulla Via Flaminia, ultima espansione verso Roma del Vulcano Sabatino (tufo a pomici nere)

    Il Lazio collinoso

    Nella nostra descrizione del rilievo del Lazio abbiamo finora proceduto, in linea di massima, da est ad ovest, dall’interno verso le regioni prossime al mare, e l’esposizione ci ha consentito di descrivere gli aspetti di quello che abbiamo designato come il « Lazio calcareo». E si è veduto come non di rado la montagna calcarea si protenda verso ovest fino a scendere bruscamente sulla pianura, senza interposizione di una fascia di colline, così come avviene per le ripidi cornici dei rilievi tiburtini e prene-stini, per i Lepini occidentali, per le balze degli Ausoni e degli Aurunci.

    Ma in altre parti del Lazio il paesaggio collinare si sviluppa largamente e con aspetti del tutto diversi, passando gradualmente nella pianura o in ampi solchi vallivi. Così nella Sabina occidentale e nella regione che sotto Palestrina fiancheggia la valle del Sacco, fra i rilievi calcarei degli Ernici a sinistra, dei Lepini a destra.

    Nella Sabina i banchi di sabbie, di conglomerati, di marne e di argille di vari orizzonti dal Pliocene al Quaternario antico (altri orizzonti del Terziario superiore, sono scarsamente rappresentati), danno un paesaggio di colline arrotondate a pendici morbide separate da valli a versanti dolci e a fondo piuttosto ampio, come quelle dell’Aia, del Farfa, del fosso di Corese e dei loro affluenti; valli il cui fondo appare anzi spesso più ampio di quello che ci si aspetterebbe dall’importanza attuale del corso d’acqua che le percorre. E un paesaggio ben noto nell’Italia Centrale e che si incontra, come vedremo, anche sulla destra del Tevere, là dove i depositi pliocenici affiorano sotto la coltre di materiali vulcanici; ma mentre qui sono frequenti i calanchi e forme affini, in Sabina esse si incontrano molto raramente e allo stadio iniziale. Questa fascia di colline plioceniche raggiunge la massima estensione, come si è già accennato, nel bacino del Farfa che occupa per intero fin quasi alla regione sorgentifera; anzi varca lo spartiacque per affacciarsi alla valle del Turano. E qui che il Pliocene raggiunge anche le massime altezze (650 m. a Rocca Sinibalda). Una nota più marcata del paesaggio si ha là dove emergono spuntoni di rocce calcaree preterziarie, cui corrispondono forre o sezioni di valli incassate. Estirpata da tempo quasi interamente la macchia, uliveti e vigneti, alternati con campi di grano, costituiscono la nota dominante del paesaggio vegetale; carattere anche questo comune alle colline di simile costituzione e di analogo tipo morfologico della vicina Umbria, della Toscana, ecc.

    Il Colle di San Martino (m. 1040), formato da marne mioceniche; in fondo la piana del Cavaliere, in territorio abruzzese.

    Il Monte Aguzzo (m. 1067) presso Vallinfreda, al confine con l’Abruzzo.

    Le colline che fiancheggiano la valle del Sacco o Valle Latina si designano talora col nome di Ciociaria sul quale — poiché non è affatto un nome che si applichi ad una regione fisica — torneremo più avanti.

    La valle del Sacco, che si sviluppa da nordovest a sudest fino alla confluenza col Liri, alterna sezioni più larghe con sezioni anguste, secondo che gli sproni delle montagne che l’accompagnano si fanno più o meno vicini all’impluvio. Nelle aree più piatte formava anzi nel Medio Evo una sorta di palude, della quale fu, come diremo più tardi, avviata la bonifica dopo il 1720. Essa è incisa in terreni terziari sovrapposti anche qui all’imbasamento di calcari cretacei; ma il Terziario è spesso sormontato a sua volta da depositi piroclastici provenienti dal Vulcano Laziale, ovvero dal più antico e più vicino sistema ernico ora smantellato. Questa eterogeneità litologica conferisce al paesaggio collinare un aspetto più vario di quello Sabino.

    Il panorama di questo paesaggio — nelle sue successive sezioni — può contemplarsi da numerosi punti di ampia visuale : la terrazza superiore di Palestrina o la sovrastante altura di Castel San Pietro; dalla piazza maggiore di Anagni, dalla piazza Vittorio Veneto di Frosinone, dal castello di Ceccano e da altri punti eminenti. Anche qui successioni di colline morbide, separate da valli a fondo piuttosto ampio (la più importante è quella del Cosa), rivestite di colture cerealicole o di vigneti e uliveti, variate da frequenti filari di alberi lungo i fossi e punteggiate da masserie e case rurali isolate. La fascia collinare è molto più ampia sulla sinistra che sulla destra: le colture sono presso che continue fino a 650-750 m. ; più in alto comincia il castagneto (Fiuggi) che preannunzia il trapasso alla montagna. Oltre la confluenza del Sacco nel Li ri, dopo il valico guardato da Ceprano, le colline si deprimono e sfumano nella pianura, sempre magnificamente coltivata, in mezzo alla quale scorre il Liri.

    Il Lazio vulcanico

    Ad occidente del solco percorso dal Tevere da Orte fin quasi alle porte di Roma, che già al principio di questo capitolo abbiamo segnalato come uno dei tratti più salienti della configurazione della regione laziale, si entra in quello che può chiamarsi il Lazio vulcanico. A nord del Tevere si succedono da nord a sud tre apparati vulcanici recenti, quello Vulsinio, quello Cimino e quello Sabatino, oltre ai più antichi dei Monti della Tolfa e Ceriti.

    L’apparato vulcanico Vulsinio, il più grande, deve la sua origine a molteplici periodi di attività, con fasi sia eruttive, sia esplosive iniziatesi nel Pleistocene su una regione appena emersa e costituita da marne del Pliocene già notevolmente incise dall’erosione. L’attività continuò per tutto il Quaternario antico (Siciliano) ; i materiali vulcanici ricoprirono spesso le argille di facies piacenziana del Pliocene inferiore. Nel Pleistocene medio l’edifizio vulcanico fu smantellato al punto che riesce difficile ricostituirne il complesso originario. Esso consta in massima parte di lave leucititiche, di tefriti, leucititi e soprattutto di tufi di varia consistenza diffusi su una vasta area. Non mancano peraltro vere e proprie colate di lava irradianti tutto intorno all’apparato principale, ma specialmente ad ovest dove si dilatano affiorando in estese placche; esse mostrano spesso una struttura compatta, prismatica o sferoidale, talora invece una struttura bollosa, con aspetto scoriaceo. Sono stati distinti quattro edifizi principali, con numerosi coni avventizi e crateri secondari. L’apparato centrale è rappresentato da un gruppo di ampi recinti craterici allargati da esplosioni e fusi insieme per la demolizione di pareti divisorie in modo da formare una cavità di circa 20 km. di diametro, (caldera) che alberga ora il Lago di Bolsena; ma la batimetría del lago non sembra confermare, come altrove vedremo, questa origine del bacino lacustre. L’orlo che lo recinge è spesso assai ripido nell’interno : esso raggiunge la quota di 702 m. a nord nel Poggio del Torrone, che perciò sovrasta di circa 400 m. il pelo delle acque del lago per quanto non ne disti, in linea d’aria, più di 4 chilometri. Ad est il Monte Rado è alto 625 m. e poco più la Montagna (639 m.) ad ovest. Un cratere secondario sotto Montefiascone è stato colmato da alluvioni. Più ad ovest l’orlo craterico è slabbrato e ivi fuoriesce l’emissario del lago, il fiume Marta. Le pendenze esterne sono in genere dolci, anzi la piatta intumescenza dell’apparato sfuma ad est, verso il Tevere, in un piano inclinato.

    Vedi Anche:  I Comuni del Lazio

    Ad ovest si affianca un altro edifizio vulcanico minore, ma meglio conservato, quello di Làtera che continuò ad eruttare più a lungo come è attestato dal migliore stato di conservazione delle lave. Esso presenta ancora parecchi crateri ben riconoscibili, con quattro cinte concentriche attestanti quattro diverse fasi eruttive; la cinta esterna culmina a nord nel Poggio Evangelista (650 m.) ; un vasto atrio interno a questo, un tempo acquitrinoso, è oggi scolato dall’Olpeta; un piccolo cratere molto ben conservato, alberga il Lago di Mezzano.

    L’attività vulcanica continuò mentre, ritirandosi il mare, rimanevano, soprattutto ad est, acquitrini e lagune sulle quali si riversavano ceneri, pomici, ecc. Non può precisarsi esattamente quando essa siasi estinta, certo in età preistorica (Paleolitico). Ne sono manifestazioni residuali le sorgenti termali, tra le quali celebre il Bulicame presso Viterbo, menzionato in un noto verso di Dante. Frequenti sono anche le putizze e i depositi di zolfo, come quelli del vulcano di Làtera.

    Il paesaggio presenta aspetti assai vari: i tufi e le ceneri formano una copertura in genere poco resistente, nella quale i torrenti che vanno sia al Tirreno, per mezzo del Marta e di minori corsi d’acqua, sia al Tevere, hanno scavato incisioni profonde disseccando la platea vulcanica. L’erosione (avviata dalle ripetute regressioni marine durante il Quaternario, che si tradussero in un abbassamento del livello di base) ha sovente messo a nudo, specie ad est, le argille plioceniche sottostanti e queste sono state bizzarramente modellate da calanchi — localmente detti cavoni — come nella regione di Bagnoregio; il progresso dei processi erosivi riduce continuamente le platee tufacee, smussate ai margini, onde esse sopravvivono soltanto in piccole placche (Civita di Bagnoregio) o in piramidi aguzze o in « testimoni » isolati. Le coltivazioni e la viabilità ne sono manifestamente influenzate. Altrove invece la coltre tufacea costituisce un terreno fertile: prevale il vigneto, ma non mancano frutteti, campi di grano, ecc.

    Sul lato occidentale dell’apparato vulcanico le croste di dura lava formano non di rado tavolati a debole inclinazione, coperti da bosco o da macchia (Selva del La-mone), ora molto ridotti, ovvero occupati da magri pascoli: un paesaggio del tutto diverso, e tale diversità si rispecchia anche nel popolamento, come si dirà altrove.

    Vulcano Vulsinio: colata di basalto a prismi, che riempie un’antica valle.

    Sistemi eruttivi Tolfa-Ceriti-Sabatini.

    1, Terreni sedimentari paleo-neogenici di base; 2, sistema di estrusioni domiformi: lave trachitiche (Pliocene medio); 3, formazioni del tufo giallo e pomici nere; 4, lapilli, tuli pomicei semicoerenti e scorie (Pleistocene); 5, recinti craterici principali, residui di caldere; 6, principali coni di scorie; 7, colate di lave compatte o scoriacee (tefriti leuci-tiche); 8, depositi alluvionali e travertini; 9, sorgenti idrominerali e manifestazioni termali; 10, emissioni carbo-solfì-driche, solferate.

    apparato eruttivo, oggi intensamente demolito talché non vi si possono riconoscere con sicurezza cinte crateriche. Su di esso si sarebbe sovrapposto, in parte, il più recente vulcano di Vico, la cui cinta craterica è invece perfettamente conservata, ancorché abbassata dai processi demolitori, nell’anello sopra menzionato. All’interno di questi si trova un cono ancor più recente, il Monte Vènere, a tre cime (838 m.). Le lave hanno avuto modesto sviluppo nel sistema di Vico : tuttavia la dorsale Monte Fogliano-Poggio Nibbio rappresenta una effusione lavica e di lava è costituita la cima stessa di Monte Vènere; altre brevi colate irradiano sui fianchi occidentali. Il fianco interno della cinta è molto ripido: la vetta di Monte Fogliano sovrasta di circa 456 m. lo specchio del lago dal quale dista poco più di un chilometro. 11 lago riempiva fino ad epoca recente tutto il cratere del vulcano di Vico, girando attorno al Monte Venere che emergeva come un’isola; quando venne aperto l’emissario artificiale, il livello delle acque si abbassò e la sezione settentrionale rimase quasi tutta all’asciutto.

    I materiali tufacei emessi dall’apparato, tra i quali è caratteristico un tufo granulare a grana fine impropriamente denominato peperino, si sono estesi su un’area vastissima, arrivando ad est fino al solco del Tevere, ad ovest fino a breve distanza dal mare. La platea formata da questo mantello piroclastico può apparire, se vista da qualche altura eminente, come il Cimino o il Monte Fogliano, un piano inclinato abbastanza uniforme; in realtà esso è profondamente inciso da torrenti specie ad ovest e a sud: ad ovest specialmente, l’attività erosiva è stata intensa, sì da isolare dorsali allungate tra due vallecole contigue o confluenti, che restano celate a chi guardi dall’alto, ma che in realtà determinano una morfologia molto complessa cui deve adattarsi anche la viabilità. I Cimini erano un tempo coperti da boschi folti, la Silva Ci-minia degli antichi, descritta talora con espressioni paurose: ne restano bei lembi sul Cimino e rilievi vicini, sul Poggio Nibbio, sul Monte Fogliano; vi prevalgono i castagneti. In basso sono aree ben coltivate a vigneti, uliveti, frutteti, campi di cereali.

    L’attività vulcanica ebbe numerose fasi alternando periodi eruttivi dell’uno o dell’altro dei due apparati principali; in un parossismo che può dirsi finale, furono attivi tanto il vulcano di Vico che il Cimino; poi l’attività si estinse a poco a poco. Restano numerose sorgenti termominerali (Caprànica, Ronciglione, Nepi, Bagnaccio di Viterbo). Avanzi di una quarantina di terme d’età imperiale romana furono trovate nell’area tra il Cimino e il Vulsinio ma la più parte spetta forse a quest’ultimo.

    Il fondo del cratere di Làtera nei Vulsini.

    L’apparato vulcanico Sabatino o di Bracciano è costituito anch’esso prevalentemente da tufi vari, pur non mancandovi le colate di lava. Anche in esso l’opera demolitrice degli agenti atmosferici ha operato così profondamente che riesce molto difficile la ricostruzione delle forme originarie. Il Lago di Bracciano si ritiene costituito, come quello di Bolsena, da un gruppo di recinti craterici contigui, fusi insieme per distruzione dei setti divisori e tale origine è in qualche modo avvalorata dalla persistenza, a nord, della cinta ben conservata di un cratere secondario, quello di Trevignano, e da un altro ad est riempito da alluvioni, ma anch’esso tipico. Altre cinte crateriche minori ad est sono pure ben riconoscibili: quella integralmente conservata di Marti-gnano, entro la quale è un piccolo lago, quelle di Baccano e Stracciacappe che albergavano stagni e paludi, prosciugati di recente per opera dell’uomo. A nordest un cratere avventizio alberga il laghetto di Monterosi.

    A nord del Lago di Bracciano un lungo cornicione di dura lava allinea le maggiori altezze: la Rocca Romana (602 m.) visibile da lontano e riconoscibile per la sua forma aguzza, il Monte Termini (590 m.), il Monte Calvi (585 m.). Anche a sud compare una costola di lava il cui fianco interno scende a forte pendenza sul lago: su di essa sono Bracciano e su uno sprone residuo, Anguillara. Tra le varietà di lava vi è una trachite di color biancastro, cavata a Monte Virginio, detta a Roma pietra di Manziana, dalla località di provenienza. Il Monte Razzano (433 m.) appartiene alla cinta craterica di Baccano.

    I materiali piroclastici irradiano tutto intorno su un’area vastissima: a sudovest tra i fossi Vaccina ed Arrone arrivano fino a 5-6 km. dal mare; ad est arrivano fino al Tevere anzi si trovano anche sulla sinistra del fiume nei pressi di Fara Sabina, a sud giungono fino alle porte di Roma (tufi gialli a pomici nere al Sepolcro dei Nasoni presso Grottarossa sulla Via Flaminia), sulle colline del Gianicolo, di Monteverde (tufi e lapilli grigi), ecc. A sud del Lago di Bracciano colate di lava si spingono nel bacino dell’Arrone.

    Caratteristica del tavolato tufaceo, qui, più ancora che negli apparati Cimino e Vulsinio, è la profonda incisione da parte dei fossi maggiori e minori, che spesso hanno circoscritto penisole o alture isolate tabulari, mettendo allo scoperto i sottostanti terreni pliocenici. Sulle ripide pareti tufacee che accompagnano le valli e le vallecole sono state scavate in passato necropoli e più tardi anche dimore trogloditiche in numero tale da costituire veramente una caratteristica del paesaggio della Tuscia Romana: per tale motivo questa roccia ebbe il nome di necrolite. La macchia riveste alcuni rilievi in qualche caso ancor oggi foltissima e intricata, come sulle pendici della Rocca Romana; essa risale anche i versanti ripidi delle valli minori; altrove è stata estirpata e la distruzione procede tuttora. Non mancano anche i boschi (Bosco di Manziana). Le aree corrispondenti a colate di lava sono invece spesso coperte solo da magri pascoli e questo domina anche là dove il tufo affiora dal sottilissimo mantello di suolo vegetale. Ma in genere sui tufi si hanno buone aree coltivate, con prevalenza del grano e della vite.

    Le manifestazioni attuali di una residua attività endogena sono rare: qualche sorgente termale, come i Bagni di Vicarello presso il Lago di Bracciano, già note agli antichi (Aquae Apollinares), alcune sorgenti solfidriche (45 °) e depositi di zolfo (Canale) presso Manziana, ecc.

    Un apparato vulcanico più antico di quelli ora descritti si interpone tra il Lago di Bracciano e il mare: sono i gruppi dei Monti Ceriti e della Tolfa circondati a nord e ad est dalla valle del Mignone. Si considerano come il prodotto della più antica manifestazione dell’attività vulcanica nel Lazio, escluse le isole ; constano essenzialmente di trachiti, ma sono talmente smantellati che le forme originarie non possono ricostituirsi con sicurezza. Lo smantellamento, oltre che determinare una demolizione e quindi una riduzione dell’altezza del sistema, lo ha smembrato: si possono distinguere infatti il gruppetto centrale del Monte delle Grazie (616 m.), i Sassicari a nord (526 m.), la Tolfaccia a sud (572 m.), ecc. Rupi trachitiche che hanno offerto maggior resistenza ai processi demolitori emergono con forme aspre e bizzarre, con pareti ripidissime dal morbido paesaggio circostante. Il grosso paese di Tolfa appare in maniera spettacolare, a chi lo veda da lontano, come arrampicato sull’alto di una rupe imponente, domiforme.

    Frequenti sono tuttora le sorgenti minerali (Stigliano, Civitavecchia) e il gruppo è ricco di caolino, minerali di ferro, rame, piombo e di allumite: questa è sfruttata dalla fine del secolo XVI; di altri minerali si è ripresa ora l’estrazione.

    Uno sprone dei Monti della Tolfa arriva fino al mare a Capo Linaro; altri spuntoni (dicchi) isolati emergono qua e là, come i Sassi, presso uno dei quali sorge l’antico casale denominato appunto il Sasso.

    Nella vasta area, coperta in assoluta prevalenza da materiali vulcanici, della Tuscia Romana, emergono alcuni membri visibilmente estranei. Tale è ad esempio, quasi all’estremo nord del Lazio, sulla destra del torrente Timone, l’isolato Monte di Canino (434 m.), che è veramente un gruppo di poggi costituiti, nell’ossatura fondamentale, da calcari e calcari magnesiaci del Mesozoico (dal Retico al Lias), fasciati a sudovest da rocce di vario tipo (arenarie, argille, scisti galestrini, ecc.) più recenti (Paleogene), e rivestiti ancora in gran parte da fitta macchia. Nei calcari si osservano modesti relitti di carsismo antico come il piccolo pozzo detto Cratero presso la cima. Per la struttura e la tettonica si ricollega ai rilievi della Toscana meridionale.

    Il Monte Soratte

    Ma fra questi membri estranei, soprattutto colpisce, anche perchè largamente visibile da lontano, il Soratte emergente bruscamente dal ripiano declinante dai Ci-mini verso il Tevere e dalle alture plioceniche. Il nome è già noto dall’età classica e il monte si vede bene anche da più punti di Roma con un’imponenza che l’isolamento rende più saliente. Tale lo vedeva Orazio insolitamente bianco di neve in un inverno rigidissimo: Vides ut alta stet nive candidum, Soracte. Effettivamente il So-

    ratte è una massa calcarea, prevalentemente liassica, che per costituzione, struttura ed aspetto si avvicina, in più modeste proporzioni, ai massicci calcarei dell’Appennino (Sabina). Il problema strutturale del monte è alquanto complesso. Rari i precisi riferimenti stratigrafici, difficile l’osservazione della giacitura per la presenza di fratture che solcano in ogni senso le formazioni. Strutturalmente è una piega-faglia molto inclinata, parzialmente occultata da sedimenti pliocenici e quaternari. Veduto da sud o da sudovest appare come una dorsale tricuspide, i fianchi scendono ripidi, incisi da alcuni valloni; la cima più alta, sulla quale è una chiesetta (San Silvestro), tocca i 691 m. (… t’elevi — Dal pian come percossa onda che prima d’infrangersi s’arriccia e sta sospesa — Per un batter di ciglio…; così Byron). L’originaria coperta di bosco e di macchia è ridotta a magri lembi presso il monastero di Santa Viaria; del resto le pendici sono nude o coperte di pascoli stentati. Questa nudità, connessa alla mancanza quasi assoluta di acque in superficie, è carattere comune con i massicci dell’Appennino del quale rappresenta l’affioramento di una estrema piega occidentale rimasta del tutto isolata in gran parte sepolta da terreni neogenici e della quale il solco del Tevere è conseguenza. Riavvicina il Soratte a quei massicci anche la presenza di fenomeni carsici : alcune grotte di modesta estensione poco sotto la cima ; e tre pozzi carsici detti localmente mèri, ricordati da Varrone, a sudest, inaccessibili, di notevole profondità (97 m. nel 2° mèro) e raccordati da gallerie e da una grotticella nel cui fondo fu rinvenuta un’anfora etrusca del VI secolo, collocata sotto uno stillicidio.

    II Monte Soratte visto dalle colline plioceniche.

    Il Vulcano Laziale

    A sud del Tevere si eleva il più meridionale e il meglio conservato degli apparati vulcanici del Lazio, il Vulcano Laziale o Colli Albani, complesso sistema vulcanico la cui cerchia craterica esterna, continua ad est e a sud e raggiunge gli 891 m. nel Maschio di Lariano e i 925 m. nel Monte Peschio (1), mentre l’orlo del recinto centrale supera di pochi metri quella quota (Cima delle Faete 956 m. ; Monte Cavo 948 m.). Questo cavo crateriforme centrale, di aspetto assai regolarmente circolare con diametro di circa 2 km. e mezzo, è riempito nel fondo — denominato Campi di Annibaie — da scorie e detriti provenienti dalle ripide pareti circostanti. L’apparato, per quanto l’attività sia cessata in tempi recenti (fine del Pleistocene: Paleolitico superiore), è stato di fatto già alquanto demolito. L’atrio interposto tra quella cintura e il cono centrale costituisce un’area pianeggiante, riempita anch’essa da materiali piroclastici (i Pratoni di Nemi, Prati del Vivaro), che declina da sudovest a nordest e da nordovest a sudest verso il punto più depresso (340 m.) occupato fino a pochi anni fa da un laghetto, il Lago della Doganella, ora prosciugato, cui corrispondono nel sottosuolo falde acquifere che alimentano l’acquedotto dei comuni del versante settentrionale. Nei pressi si trova la più importante fra le pochissime sorgenti esistenti in seno all’ «atrio», che è del resto piuttosto arido in superficie.

    La cintura esterna è sfiancata a sudovest dove si riscontrano numerosi crateri eccentrici : un duplice cratere che ospita il Lago di Albano ; un altro, pure duplice, nel quale si trovano il Lago di Nemi, la Valle di Ariccia, lago prosciugato in tempi recenti, il piccolo cratere composito di Pavona, e coni avventizi di scorie (Castel Savello, Col-legiove, il vulcano di Papa, Lanuvio). Coni avventizi periferici si trovano anche a nord dove sono alcuni crateri eccentrici come quello di Prata Porci e l’antico Lago Regillo. Da questo versante la cinta craterica esterna appare oggi slabbrata dove l’orlo del recinto centrale è in parte demolito. Anche da questa parte (nord) si trovano assai lontane dal centro eruttivo, ampie cavità di esplosione scavate nei peperini, come il Lago di Castiglione o Gabino, oggi prosciugato; altre, come il Pantano di Granaraccio, sono forse dovute piuttosto a fenomeni di suberosione nel substrato calcareo sottostante, a piccola profondità.

    Il vulcano o meglio il sistema vulcanico ha attraversato periodi di violente eruzioni con lancio di scorie espanse per ampio raggio intorno (pozzolane), di ceneri e lapilli successivamente consolidatisi in parte in tufi (tufi litoidi) e periodi caratterizzati da effusioni laviche disposte talora in ampie colate; alcune delle eruzioni debbono essere state imponenti; ne fu ancora spettatore l’uomo del Paleolitico superiore.

    Il Vulcano Laziale (secondo A. G. Segre).

    i, Alluvionale intercraterico e delle valli; sedimentario sottostante alle formazioni piroclastiche; 2, ultima fase eruttiva: prodotti di lancio («Peperino») di Albano, Ariccia, Nemi e crateri minori; 3, lapilli, scorie e saldarne lavico del sistema eruttivo centrale («Recinto morfologico interno» o «delle Faete – Monte Cavo» degli Aa.); 4, materiali piroclastici del sistema eruttivo esterno (« Recinto morfologico Artemisio-Tuscolano » degli Aa.); 5, pozzolane, tufi leucitici e tufi litoidi; tufi inferiori grigi, pisolitici; 6, lave leucititiche, affioranti; 7, lave sepolte; 8, crateri e recinti craterici d’esplosione dei peperini; 9, coni formati in prevalenza da scorie e lapilli; 10, coni e bocche eccentriche, esterne al recinto Artemisio-Tuscolano; 11, coni e crateri sepolti; 12, estrusioni e ammassi lavici; coni formati in prevalenza da lave e scorie saldate; 13, orli dei crateri dell’apparato centrale.

    Le lave, in massima parte leucititi, emergono come ammassi resistenti, quali quelli che oggi costituiscono le massime altezze della cinta craterica esterna e anche deirinterna: su ammassi lavici sorgono ad esempio i paesi di Nemi e Rocca di Papa. Ma correnti laviche si sono largamente espanse a nord e nordovest, formando, per inversione della morfologia, tavolati a margini ben netti, come quello — denominato appunto Tavolato — che fiancheggia per 7-8 km. la Via Appia Nuova, giungendo fino a 5-6 km. da Porta San Giovanni. Così anche le lave di Velletri e Campoleone, quelle più antiche di Valleranello, distanti circa 18 km. dalla zona di emissione, dove sono aperte vaste cave verso Tor de’ Cenci sulla Via Pontina, poco lungi da Roma-EUR, e dell’Osa sulla Via Prenestina, e di Lunghezza più a nord, lungo la ferrovia Roma-Tivoli, esposte per ben 12 km. dall’origine visibile (grandi cave per pietrisco).

    Lago d’Albano e Monte Cavo nel Vulcano Laziale A sinistra Rocca di Papa

    Formazioni calcaree liassiche sulla vetta del Monte Soratte.

    I tufi sono in parte litoidi, come il peperino di Marino, il Lapis Albanus degli antichi, in parte incoerenti (alternati con lapilli, straterelli di ceneri, ecc.). Essi sono arrivati a nordovest fino a Roma, dove sono tufacei quasi tutti i tradizionali Sette Colli, a nord e nordest fino all’Aniene e alla base dei Monti Prenestini, a sud fino al mare, ad Anzio e a Nettuno, a sudest fino ai Lepini dove, come si è già detto, placche tufacee ricoprono spesso i calcari.

    Tutto il nucleo centrale del vulcano era un tempo coperto di boschi e macchie: il faggio era largamente esteso, come fan fede i nomi (Cima delle Faete, macchia della Fajola), ma ora è ridotto a poche zone intorno al Monte Cavo e vasti tagli sono in corso; altrove fu sostituito dal castagneto. La macchia o scopeto sopravvive in più punti alquanto alterata, ma spesso fu distrutta per far carbone ovvero per far posto alle colture. Tra queste in prevalenza assoluta vigneto ed uliveto. Vaste aree periferiche, nelle quali la coltre superficiale dei tufi fu, per azione chimico-meteorica, consolidata in una crosta dura (cappellaccio), sono coperte di pascoli. Il prato prevaleva nell’atrio, ora a poco a poco guadagnato alle colture (ortaggi). Dell’attività vulcanica rimangono forse tracce di emissioni di acido solfidrico e anidride carbonica nelle cosiddette « zolferate », cioè aree deserte, decolorate ed argillifìcate dalla mofeta. Tali quella presso la Via Appia Antica alle Frattocchie, quella più vasta sulla Via Laurentina ed infine quelle più lontane di Ardea e di Tor Caldana (oggi Caldara), antiche Acque Borghesiane presso il mare a nordovest di Anzio e dalle quali in antico si estraeva lo zolfo. Al Vulcano Laziale sono ancora da attribuirsi varie sorgenti acidule carbo-natiche, come l’Acqua Acetosa (presso Ponte Milvio), l’Acqua Bullicante (sulla Via Prenestina), l’Acqua Acetosa delle Tre Fontane e le Acque Albule sulla Via Tibur-tina (solfuree e leggermente termali), ecc.

    Come vedremo, i Colli Laziali sono fin da età antica fittamente abitati (Tuscolo dal Paleolitico superiore), salvo là dove manca o scarseggia l’acqua in superficie, come avviene in seno all’atrio.

    Tra il Vulcano Laziale e quello di Roccamonfina — posto tra Volturno e Garigliano, ai confini tra la Campania e il Lazio — un altro sistema vulcanico esistette nella valle del Sacco, il già ricordato Vulcano Ernico, costituito essenzialmente da lave basiche. La disposizione dei residui rimasti non consente una esatta ricostruzione del-l’edifizio (o degli edifizi) e la localizzazione delle bocche eruttive.

    Gli agenti modellatori. L’erosione carsica.

    Anche dalla rapida corsa che abbiamo fatto attraverso il Lazio montano e collinare, risulta la grande diversità di forme e di aspetti che montagne e colline presentano al visitatore; varietà che veramente colpisce perchè permette di conoscere — e ammirare

    — paesaggi vari anche attraverso una gita di poche ore in automobile. Questa varietà dipende non solo dall’altezza dei rilievi e dalla diversa costituzione geolitologica — rocce calcaree e rocce argillose, materiali vulcanici e depositi alluvionali, ecc. — ma dipende anche dall’agente che ha plasmato e cesellato i rilievi. L’agente modellatore più attivo è naturalmente costituito dalle acque correnti — fiumi, torrenti o anche modesti fossi — che hanno esercitato un lavorìo di erosione, modellando Ìe forme in modo diverso a seconda della struttura, della giacitura delle rocce, ma soprattutto della loro resistenza al logorìo, ed anche dal tempo da cui dura questa azione erosiva e logorante, nonché dall’alternarsi delle vicende paleoclimatiche, che si misura a centinaia di migliaia di anni.

    L’azione degli antichi ghiacciai e il conseguente modellamento sono stati modesti e limitati : ne abbiamo già fatto parola nella descrizione dei più elevati massicci montuosi nei quali tracce glaciali sono state constatate.

    Ma vi è invece un’altra categoria di azioni erosive, sulla quale occorre soffermarci ancora perchè molto diffusa nei rilievi del Lazio in relazione all’estensione delle rocce calcaree; è l’erosione carsica che dà luogo a morfologie ed aspetti veramente singolari.

    Dorsale calcarea modellata a scudo di testuggine dal carsismo, delimitante il bacino del Campo di Segni.

    Alcune di queste forme sono visibili a chiunque percorra una delle parti della regione, perchè interessano direttamente la superficie del terreno: sono quelle che si designano come carso superficiale.

    Rientrano in questa categoria i campi solcati che si osservano, in stadio iniziale o poco appariscente di sviluppo al Piano di Arcinazzo, nell’interno dei Lepini (Monte-lanico), più sviluppati nei massicci del Nuria, del Gennaro, ecc.

    Assai diffuse sono le cavità — di forme e dimensioni diverse — che i geografi designano col nome scientifico di doline (dolina in slavo per «valle»), ma che nell’uso volgare hanno nel Lazio nomi diversi, già altrove indicati: drosce nei Monti Sabini, fosse nei Prenestini, obaci o ovizzi (anche òusi) nella regione lepina, mèri nel Soratte, ecc. Non rare sono le associazioni di numerose piccole doline che crivellano il suolo, come caratteristicamente si osserva nel Carso: ne abbiamo segnalate nel massiccio del Nuria, nei Piani d’Arcinazzo, nei Monti Ausoni. Più spesso si incontrano isolate o a piccoli gruppi irregolarmente disposti; alcune più spettacolari anche se non siano tra le più interessanti sono note da tempo remoto, come il Pozzo Santullo nei Monti Ernici, il Catino di Poggio Mirteto e quello di Mandela, il Revòtano di Roccantica, i già ricordati mèri ai piedi del Soratte (i), la voragine detta il Pèllaro presso Vallecorsa, il Catàuso presso Sonnino, ecc. ; con esse si connettono talora leggende e narrazioni favolose. Non è frequente il caso che il fondo di queste cavità alberghi dei piccoli laghi, come quello già menzionato di Rascino nel massiccio del Nuria, i laghetti di Percile e qualche altro che ricorderemo più avanti.

    La profondità delle doline è molto varia rispetto allo sviluppo orizzontale, cosicché la forma risulta a piatto (raramente), a scodella, a imbuto; talora le pareti sono addirittura verticali o subverticali ed allora il nome col quale sono più comunemente designate nel Lazio è quello di pozzi. Il famoso Pozzo Santullo a un chilometro da Collepardo al piede del Monte Monna, di forma assai regolarmente circolare col diametro di circa 150 m., è profondo 60 m. e si è formato per il crollo di una caverna scavata nei calcari del Cretaceo, della quale si veggono ancora, lungo le pareti, numerose stalattiti. Il Pozzo o Ovuso dell’Isola nei Monti Lepini è una vera e propria voragine profonda circa 75 m. con un’apertura strettissima a bottiglia, che si allarga al fondo in una specie di sala, dalla quale derivano vari cunicoli.

    Bacini carsici più ampi delle comuni doline non sono rari nel Lazio: abbiamo già accennato al Piano di Arcinazzo a 845 m. negli Ernici, bacino allungato a foggia di valle, lievemente depresso tra dossi calcarei alcuni dei quali emergono anche sul fondo; le sue acque sono smaltite da inghiottitoi detti localmente buche. Di minor dimensioni ma più accentuati sono i bacini dei Lepini le cui acque sono smaltite da inghiottitoi parzialmente riempiti, denominati in dialetto volubri. Si accosta a quei vasti bacini, che in Abruzzo si chiamano campi (polje nella Penisola Balcanica), la conca di Campodimele tra gli Ausoni e gli Aurunci, lunga circa 5 km., le cui acque si inabissano nella Chiavica, voragine profonda che si apre alla quota di 360 metri. E’ paragonabile ad un vero polje il bacino entro il quale si apre la grotta di Pàstena della quale parleremo in seguito. I bacini chiusi nella montagna (campi) fra il Salto e il Liri non appartengono amministrativamente al Lazio.

    Il « Ponte Sfondato » di conglomerati sul torrente Farfa, ora crollato.

    Superficie fortemente corrosa dei calcari mesozoici del Monte Gennaro.

    La Sabina ci offre anche un grandioso esempio di valle chiusa. La Val di Varri, che si apre nei Monti Carseolani, lunga ben 12 km. in direzione sudest-nordovest. Essa era effettivamente un tempo una valle normale, il cui impluvio terminale è ancora ben visibile in una soglia detta La Portella; ma il torrente che la percorreva è stato catturato per epigenismo sotterraneamente da fessure aperte nei calcari che sbarrano la valle; ora esse si perdono in una voragine che si allarga sotterra in due grotte, una superiore e un’altra inferiore; quella superiore fu abitata nella preistoria.

    Le caverne ad un unico ambiente aperto verso l’esterno sono ancora da annoverarsi fra i fenomeni che cadono immediatamente sotto l’occhio del visitatore di una regione carsica. Ne sono esempi notissimi il Catàuso di Artena che si apre alla quota di circa 700 m. e consta di un’unica cavità ben visibile anche da lontano; la ben più famosa grotta di Collepardo, che si apre a breve distanza dal paese omonimo nella parete a picco di una gola percorsa dal torrente Fiume (affluente del Cosa): una imponente volta dà accesso ad una sala profonda 25 m. che corrisponde forse allo sfocio di una sorgente sotterranea, ormai da tempo esaurita.

    Ma assai più spesso all’antro che si apre allo scoperto fanno seguito nell’interno ramificazioni, cunicoli, gallerie a più ripiani o livelli orizzontali o più sovente in discesa più o meno ripida, con cornici, ripiani, balze, dirupi, laghetti e corsi d’acqua sotterranei, con festoni di stalattiti e stalagmiti: è il vero mondo sotterraneo con i suoi misteriosi e spesso pericolosi aspetti. E non di rado le grotte di questo genere, anche se di grande sviluppo, hanno un’apertura esterna modestissima, talora appena riconoscibile tra gli anfratti della roccia e le scabrosità dei pendii, onde molte rimasero ignorate fino ad epoca recente, e sono ancora, per le difficoltà dell’accesso e della penetrazione, imperfettamente esplorate.

    La grotta dell’Infernillo, nell’alta valle dell’Aniene sotto Monte Porcaro, ha un ingresso largo ma basso, che dà accesso a gallerie in discesa intercalate da piccoli laghi e da vaschette; si sviluppa per circa 380 m. fino a raggiungere una profondità di ben 485 metri. La grotta dell’Arco presso Bellegra, una delle più importanti del Lazio, si sviluppa per circa 1100 m. quasi pianeggiante, perchè il dislivello fra i due estremi non supera i 23 m. ; la volta raggiunge i 35 ni. ed un piccolo ruscello la percorre per intero.

    Queste grotte hanno il loro massimo sviluppo orizzontalmente, alcune altre verticalmente. Altre grotte, ancora, hanno caratteristiche più complesse perchè sono costituite da più livelli e si sviluppano perciò sia orizzontalmente che in profondità. Tale la grotta di Pástena o di San Cataldo, la più nota del Lazio ed anche fra le più rinomate d’Italia, abbastanza visitata anche se non attrezzata turisticamente. Ne faremo una breve descrizione in altro capitolo.

    Una categoria a parte è costituita dalle grotte costiere che sono opera essenzialmente dell’abrasione marina su ripide coste calcaree, e presentano talora tracce delle antiche variazioni del livello marino. Nel Lazio esse sono frequenti fra Sperlonga e Gaeta

    — dove è la famosa grotta detta di Tiberio — e numerosissime, come già altrove si è accennato, nel Promontorio Circeo, di cui si riparlerà ancora nel capitolo descrittivo.

    Vedi Anche:  Storia del Lazio

    Il Pratone nel Monte Gennaro.

    Le regioni pianeggianti. La Maremma Laziale e la Campagna Romana.

    Secondo dati ufficiali, della superficie totale del Lazio, il 26% è classificato come montagna, il 54% come collina ed il 20% come pianura. Questa ripartizione può dar luogo a riserve dal punto di vista geografico, ma una discussione in proposito sarebbe fuori di posto in quest’opera. Se consideriamo come pianura tutte le aree poste al disotto di 300 m., risulta una superficie di 3433 kmq. (ben superiore a quella classificata come tale dal Catasto: 1923 kmq.). Essa può essere divisa in cinque parti: la Maremma Laziale (a nord del Tevere), il delta tiberino, la Campagna Romana vera e propria con l’appendice che si insinua all’interno lungo la valle del Tevere; la Pianura Pontina; la piana di Fondi.

    La Maremma Laziale è una pianura all’incirca triangolare con la base sul Tevere e il vertice poco a sud di Santa Marinella, limitata aH’interno dagli orli del tavolato tufaceo bene individuati da gradini e terrazzi; gli ultimi sproni di esso scendono al mare proprio dov’è il vecchio abitato di Santa Marinella. La piana è coperta in superficie da alluvioni deposte dal Tevere e da minori torrenti, come l’Arrone, emissario del Lago di Bracciano, durante le piene; ma non mancano placche di sabbie marine e, presso Palo, un calcare conchigliare, il già menzionato macco.

    In nessun punto l’altezza supera i 25 m. ; le dune attuali (tumoleti) formano cordoni che peraltro non raggiungono i 5 m. ; dietro di essi vi sono cordoni più antichi, anch’essi poco elevati: tra i cordoni, ed anche altrove, nelle aree più depresse appaiono di tanto in tanto acquitrini, stagni e pozzanghere di varia estensione secondo le stagioni, denominati piscine.

    I fiumicelli e i torrenti che scendono dal tavolato stentano ad aprirsi un passaggio fra i cordoni di dune; i materiali che essi portano al mare sono in gran parte dispersi da correnti litoranee, onde apparati deltizi anche piccoli mancano del tutto o quasi: la costa dalla foce del Tevere a Santa Marinella appare uniforme, debolmente arcuata. Alla sommersione eustatica dell’ultimo interglaciale (Tirreniano = depositi della panchina a Strombus) è succeduta una regressione nel Würm I, con avanzamento della linea di costa in corrispondenza delle isobate di 80-100 metri. Nella nuova pianura litoranea che in tal modo si è andata discoprendo, cacciava l’uomo di Neandertal le cui abbondanti tracce sono sparse (industria litica a tipologia musteriana) lungo molti tratti della fascia litoranea del Lazio. In quell’epoca, foreste con abeti si estesero dall’alto Appennino ad invadere la pianura fino alla costa; e con esse si accompagnò la fauna glaciale oggi estinta o relegata in regioni più elevate o settentrionali (orso speleo, stambecco, marmotta) i cui resti, associati con i manufatti litici ed i focolari dei cacciatori, sono stati rinvenuti fin sulle coste del Lazio meridionale. Successivamente, con il cambiamento delle condizioni climatiche e con il conseguente ritiro dei ghiacciai, si è prodotta, per aumento eustatico del livello marino, una trasgressione detta Fiandriana (e per le coste della Penisola « Versiliana », dalla zona particolarmente studiata sotto questo aspetto). Essa dura tuttora con ritmo d’innalzamento generale del livello marino di circa 1,5-2 mm. all’anno, secondo i calcoli più aggiornati.

    Del resto la fisonomia naturale di tutta la Maremma Laziale è stata ormai profondamente alterata dall’uomo in seguito alle vaste opere di bonifica e riforma fondiaria delle quali poi parleremo: colmata di aree depresse, prosciugamenti a mezzo di idrovore, scavo di canali, formazioni di poderi, ecc. La bonifica è ormai estesa a tutto il delta del Tevere, come si accennerà nel capitolo seguente.

    La Campagna Romana si prolunga su ambo i lati delle valli del Tevere e dell’Aniene con maggiore o minore ampiezza fino alle radici dei prossimi colli. Le alture sulle quali sorge Roma che pur non raggiungono i 200 m., avvicinandosi al fiume sia a destra (Monte Mario, Gianicolo), sia a sinistra (Paridi) ne restringono la valle, onde si può distinguere una Campagna inferiore, che si raccorda a nord con la Maremma Laziale, a sud con la Pianura Pontina, ed una Campagna superiore che lentamente si eleva verso il piede dei Monti Tiburtini e del Vulcano Laziale.

    Come si è già detto, la Campagna è costituita dai materiali prevalentemente tufacei dei vulcani Sabatino e Laziale; a destra del Tevere affiorano in basso largamente le sabbie del Pliocene superiore; quasi ovunque i materiali lavici o piroclastici ricoprono depositi alluvionali pliocenici e postpliocenici.

    La successione degli avvenimenti geologici dopo il Pliocene può riassumersi così :

    1) sollevamento epirogenico dei depositi pliocenici e postpliocenici più antichi in corrispondenza dei rilievi del corrugamento appenninico; abbassamento e, in linea di massima, sommersione degli stessi depositi in corrispondenza delle pianure marginali tra l’Appennino e la costa, con formazione di acquitrini e lagune nel Pleistocene medio;

    2) eruzione dei vulcani Sabatino e Laziale contemporaneamente e dopo, sopra le aree di maremme e lagune, e formazione dei due sistemi vulcanici; 3) Tevere ed Aniene si aprono il varco al mare secondo direttrici definite via via dall’interferenza dei lenti movimenti tettonici, dalle modificazioni d’origine endogena (zona di incontro degli accumuli piroclastici dei vulcani Sabatino e Albano), dalle oscillazioni eustatiche marine che concorsero a modificare il livello di base in tutta la zona bassa preappenninica, e dagli accumuli di sabbie eoliche che ne ostacolavano, deviandolo, lo sbocco in mare: i solchi vallivi sono in parte riempiti dai materiali vulcanici delle eruzioni del Quaternario medio.

    Nicchie e conche di erosione marina sul litorale presso Capo Linaro.

    Grotte presso Sperlonga.

    Ma la Campagna Romana non è affatto una piana uniforme, come potrebbe apparire a chi la contempli da qualche punto eminente, per esempio dal Belvedere presso Castel Gandolfo o dall’altura di Tuscolo, o anche dalla balconata della chiesa della Storta o dalla cupola di S. Pietro. Essa è percorsa da una complicata rete di fossi che vi hanno scavato solchi profondi, a pareti ripide e a fondo, spesso, come si è già osservato, assai più ampio di quanto non apparirebbe proporzionato al ruscello che oggi lo percorre. Questa rete di fossi è veramente una caratteristica saliente della Campagna, che influisce sulla viabilità e sulle comunicazioni in genere, determinando le direttrici della rete stradale. Le incisioni dividono il terreno in gran numero di contrafforti lunghi e stretti, a sommità spianata, simili tra loro, ma di diversa ampiezza. All’ap-profondirsi dei fossi contribuì probabilmente il sollevamento a cui sembra che la regione sia stata soggetta durante il periodo eruttivo.

    Rompono l’uniformità della Campagna anche i frequenti rilievi abbastanza isolati e ben perspicui, anche se di modesta altezza relativa; nella regione a sinistra del Tevere essi corrispondono spesso a spuntoni o costole di lava. Si estendevano fra questi anche aree depresse con stagni e acquitrini, ora per vero in massima parte prosciugati.

    L’aridità della Campagna Romana è stata talora esagerata: essa è dovuta alle condizioni climatiche locali e solo in parte (zone pedevulcaniche e pendici calcaree diboscate) alla natura geolitologica; la difficoltà della coltivazione dipende, come vedremo in seguito, da vari fattori, tra i quali la frequente presenza di una crosta superficiale di materiali di alterazione chimica, il cosiddetto cappellaccio, del quale si distinguono due aspetti: quello detto « duro » derivato e soprastante i tufi litoidi, mentre i « cappellacci teneri » derivano dai tufi granulari. I profondi impluvi dei fossi agiscono da linee di richiamo delle acque circolanti nel sottosuolo, onde l’acqua difetta negli strati superficiali. Con questo fatto è connessa un’altra caratteristica non visibile come elemento del paesaggio, ma molto importante: la estesa e complicata rete di cunicoli sotterranei esistenti sia a nord che a sud del Tevere, da Roma fino alle radici dei Colli Laziali e Sabatini. Larghi 1-2 m., talora sovrapposti in più serie, essi convergono a pozzi, ora in massima parte ostruiti o riempiti. Sia che servissero per il drenaggio di acque stagnanti in aree impermeabili ovvero, secondo una più probabile ipotesi, per convogliare le acque ai pozzi e conservarle onde abbeverare uomini e greggi durante le lunghe siccità estive, od anche per irrigare aree aride messe a coltura, tali cunicoli attestano l’intervento dell’uomo per ovviare a condizioni naturali sfavorevoli. Opere di questo genere furono eseguite dagli Etruschi e successivamente dai Romani. A questi ultimi infatti è dovuto un importante sistema di gallerie drenanti per prosciugare le conche dei terreni pozzolanici dell’Agro Veliterno a protezione della Via Appia; ed ancora i cunicoli nelle formazioni dunari antiche per cavare acqua dalle « piscine » (stagni interdunari) onde alimentare le zone prive di acque sorgive al margine dell’Agro Pontino.

    La grotta delle Capre presso San Felice Circeo.

    Aspetto della costa presso Anzio.

    La diffusione della steppa pascoliva e della gariga litoranea a rosmarino, derivante dalla estrema degradazione della macchia, che suscitavano così profonda impressione nei visitatori, non è stata sempre quale la si poteva vedere un secolo fa; estesa era in passato, come formazione naturale, anche la macchia, che ha sopravvissuto più a lungo e in parte sopravvive ancora, come « macchia alta » (lecceto, sughereto) o « macchia bassa » (ginepri, cisti), spesso folta e intricata, sui fianchi ripidi dei fossi, o in chiazze di modesta estensione intorno ad alture isolate.

    L’Agro Pontino

    A sudest la pianura della Campagna Romana si congiunge a quella Pontina, la quale ha tuttavia caratteristiche particolari che le derivano soprattutto dalle condizioni idrografiche. Sotto questo aspetto la Pianura Pontina o Agro Pontino (questo nome, in latino Ager pometinus, dalla città volsca di Suessa Pometia, di difficile localizzazione, ha ormai cancellato quello antico di Paludi Pontine, suscitatore di infauste immagini di insalubrità e di abbandono) costituisce una ben delimitata zona tra le radici dei Colli Laziali, il piede dei Lepini ed il Tirreno. La saldatura con la Campagna Romana può essere indicata dalla linea che corre per poco più di 16 km. da Fontana di Papa, sotto Genzano, al mare. Il territorio era, ancora alla fine del Terziario, un golfo marino poco profondo con anteposta l’isola calcarea del Circeo (sommersa durante il Pliocene fino ad un’altezza di circa no m. sul livello marino attuale), residuo, come si è già detto, di una serie di rilievi dei quali altri superstiti sono i già menzionati Monte di Canino e Soratte nel Lazio settentrionale.

    Dune (tumoleti) sulla costa pontina. All’orizzonte il Promontorio Circeo.

    Durante il Quaternario il golfo fu parzialmente colmato e trasformato in una o più lagune con profondità maggiori lungo la base dei Lepini : concorsero a questo processo i materiali provenienti dal Vulcano Laziale, che era in piena attività ancora nell’interglaciale Mindel-Riss; ancora le alluvioni fluviali e, in vicinanza del mare, processi di accumulazione eolica. Ma intervennero anche movimenti eustatici alternati negli opposti sensi soprattutto durante gli stadi glaciali e interglaciali (particolarmente Würm e Riss-Würm) come è attestato dalle testimonianze di antiche linee di riva e dai sedimenti marini e continentali delle numerose grotte del Circeo e della costa fra Sperlonga e Gaeta.

    Nel suo aspetto attuale la Pianura Pontina si può dividere in tre parti con caratteri morfologici ben distinti che l’opera di bonifica ha solo parzialmente alterati. Anzitutto la fascia litoranea da Torre Astura a Terracina, della quale si è già fatto cenno nel capitolo I. La caratterizzano i lunghi cordoni di dune recenti, alte talora fino a 20 m. e oltre, ora mobili, più spesso fissate dalla vegetazione ed in fase di erosione, alle spalle delle quali sono laghi allungati dalle forme bizzarramente frastagliate verso l’interno. Tali digitazioni, dette «bracci», particolarmente evidenti al Lago di Sabaudia (già di Paola), si ritiene che rappresentino i residui delle valli scavate nella vasta duna würmiana dall’erosione normale allorché il livello marino era, come s’è detto innanzi, alquanto più basso dell’attuale (regressione post-Tirreniana). E nell’interno succede una regione alquanto più elevata — da 20 a 40 m. circa — costituita da sabbie calcaree cementate, spesso di color rossastro, che si interpretano come residuo in fase di avanzato spianamento di vecchie dune (della seconda e terza fase wurmiana); cosparsa di bassure e depressioni e anche di minuscoli bacini interdunari dalle forme arrotondate (piscine) essa era prima della bonifica dominio incontrastato della tipica macchia mediterranea folta e intricantissima (con prugnoli e biancospino), e anche del bosco di alto fusto (con prevalenza di querce: farnie e lecci; pioppi, olmi, ontani), conservati ancora nella zona protetta del «Parco Nazionale del Circeo», con l’intercalazione di limitate radure (lestre).

    Formazioni eoliche e lagune dell’Agro Pontino (da Blanc, Segre, Tongiorgi).

    I bracci del Lago di Sabaudia e il Monte Circeo,

    Tra questa zona di dune pleistoceniche e il piede dei Lepini si stende la terza regione, quella che era la palude vera e propria, corrispondente all’incirca all’area nella quale l’antica laguna aveva la sua maggior profondità, estensione e persistenza. Questa regione aveva, prima della bonifica idraulica, una idrografia quanto mai singolare. Di fatto le copiose sorgenti carsiche alla base dei Lepini e degli Ausoni, delle quali si è già fatto cenno, alimentavano corsi d’acqua relativamente copiosi, il cui deflusso naturale, verso la costa dal Circeo a Terracina, era ostacolato sia dalla troppo lieve pendenza del suolo, sia dai cordoni di dune recenti e attuali paralleli alla costa, sia ancora dal rapido comporsi di feltri torbosi (detti «cuora») per l’accumulo della rigogliosa, intensissima vegetazione idrofila e palustre (carici, giunchi, ciperacee), per le incrostazioni calcarifere (« tartari »), depositate da quelle acque ricche di carbonato di calcio, ed infine per lo sbarramento delle sabbie pleistoceniche. Il costante e progressivo innalzamento del livello marino prodotto per eustatismo, peggiorava ancor più le condizioni: le aree paludose e gli acquitrini si espandevano all’epoca delle piogge. Uno spettacolo desolante si offriva a chi, dall’alto della balconata dei Lepini, volgeva attorno lo sguardo verso il mare, avendo sotto di sé la regione più depressa invasa dalle acque, più lontano la massa confusa della macchia e al fondo i sottili specchi dei laghi come lame lucenti sull’orlo del mare. Il paesaggio originario, quale chi scrive queste pagine vide ancora mezzo secolo fa, è oggi interamente trasformato per effetto della bonifica e non più riconoscibile. Si potrebbe credere di aver sotto gli occhi un altro mondo, se all’estremo orizzonte la sagoma immutata del Circeo non ci avvertisse che quella che contempliamo dalla balconata lepina è ancora la Pianura Pontina delle carte di qualche trentennio fa. Ma della bonifica diremo in altro capitolo e anche dei laghi faremo parola a suo luogo.

    La Piana di Fondi

    La piana di Fondi, compresa fra le calcaree pendici dei Monti Ausoni a nord e nordovest (Monte Giusto 676 m. ; Monte Santo Stefano 733 m. ; Monte Calvo 566 m. ; Monte Passignano 519 m. ; ecc.) e quelle degli Aurunci ad est e sudest (Monte Calvo 389 m. ; Monte Marano 517 m. ; Monte Lauzo 424 m.), è anch’essa un antico golfo marino, colmato dalle alluvioni dei torrenti che scendono da queste montagne: i fossi San Vito, che ha le sue origini dal versante sud del Monte delle Fate, San Magno, Acqua Chiara, Affitto, Vetere ed altri minori. Il processo di colmamento è recente, dato che il Lago di Fondi, che si considera un residuo del golfo, era probabilmente un po’ più esteso in età antica, come risulterebbe pure da un passo di Plinio che lo ricorda per le sue isole galleggianti. Anche dalle carte del secolo XVI sembra risultare una estensione maggiore. Tali variazioni di superficie dipendono dall’essere state o meno ostruite le comunicazioni col mare attraverso il cordone litoraneo di dune. Il lago, del quale parleremo in altro capitolo, è in comunicazione con il mare per mezzo di due lunghi e stretti canali emissari — il fiume Sant’Anastasia (lungo 2,8 km.) nella parte orientale, ed il fiume Canneto (lungo 2,4 km.) in quella occidentale — che si dipartono dalle parti meridionali estreme dello specchio d’acqua a forma di mezzaluna. Delimitata dal lago, dai due emissari e dal mare è una area, la cosiddetta isola del Salto di Fondi. La zona, formata da terreni del Quaternario medio (sabbie in superficie e torba in profondità), era un tempo, come dice il suo nome (Saltus = bosco), coperta dalla macchia mediterranea e ospitava fino a un decennio fa, nei pressi del mare, una palude.

    Le condizioni idrografiche erano complicate dal fatto che lungo tutta la costa esistevano più cordoni di dune e tra l’uno e l’altro di essi aree acquitrinose. Anche alle spalle del lago vi erano aree depresse con stagni e pantani ora bonificati.

    Nella parte sudest, del tutto piatta, vi sono altri due laghi minori, il Lago Lungo che deve la sua origine a sbarramento per opera di un cordone litoraneo, e il Lago di San Puoto, notevolmente profondo (32 m.), originato in parte da sbarramento della duna pleistocenica contro un gruppo di sorgenti carsiche al piede del calcareo gruppo di Monte Lauzo. Anche qui la macchia mediterranea ed il bosco di alto fusto (Selva Vetere) predominavano su ampi tratti.

    Ma la fisonomia della piana è andata sempre più mutando rapidamente in virtù delle opere di bonifica quasi completate. Nelle parti bonificate le colture arboree ed erbacee (agrumeti, ortaggi, ecc.) prosperano magnificamente, come può vedersi percorrendo la Via Appia, che si prolunga oggi, come neH’antichità, lungo il margine interno della piana, o la Via Fiacca, che da alcuni anni percorre la fascia costiera. Anche qui la bonifica è ormai ultimata; in qualche altra parte della piana si ha bisogno ancora di radicali interventi.

    La valle del Sacco-Liri

    L’unica sezione pianeggiante del Lazio interno è quella percorsa dal Sacco (Valle Latina), che si inizia alla Madonna del Piano sotto Morolo e si prolunga fino al confine con la Campania; in essa il Sacco riceve qualche importante affluente, come il Cosa, poi si unisce al Liri a valle di Ceprano. Ma essa è frequentemente interrotta da lievi intumescenze e su di essa vanno a morire propaggini delle montagne circostanti, sepolte dalle alluvioni e dai riempimenti lacustri villafranchiani. Una prima sezione assai piatta è limitata dalle alture di Frosinone (Selva dei Muli, 207 m.); un’altra sezione dopo la stretta di Ceccano si protende fino al Liri ; una terza, infine, più ampia si apre sulla sinistra del Liri a valle di Pontecorvo. Alcuni di questi tratti sono inondati dai fiumi in periodi di piena. Ma quasi ovunque la campagna, come già si è accennato, è ben coltivata con varietà di colture, pullula di case rurali e di piccoli nuclei ed è solcata da strade di grande comunicazione.

    La pianura a valle di Pontecorvo si trasformò durante il Quaternario in un lago perchè i materiali eruttati dal vulcano di Roccamonfina sbarrarono il corso del Liri.

    Il lago dovette certamente raggiungere dimensioni considerevoli, estendendosi fino a Cassino; le sue rive furono frequentate dall’uomo, da elefanti ed ippopotami di cui si sono rinvenuti avanzi fossili unitamente ad industria litica del Paleolitico inferiore. Il lago si svuotò quando il Liri riuscì ad aprirsi una via al mare attraverso il varco di Suio, ad ovest di Roccamonfina.

    Le Isole Ponziane

    Appartengono amministrativamente al Lazio le Isole Ponziane (questo appellativo deve essere sostituito a quello di Pontine, che può facilmente ingenerare equivoci), costituite dall’isola di Ponza (kmq. 7,4) cui fan corona Palmarola e Zannone, e dal gruppetto più meridionale di Ventotene (kmq. 1,2) con Santo Stefano; in tutto kmq. 11,4 (con alcuni scogli e isolotti minori).

    L’arcipelago è costituito quasi integralmente da rocce vulcaniche, con prevalenza di filoni di liparite e tufi liparitici a Ponza, ossidiane a Palmarola, di tufi litoidi e incoerenti con ceneri e lave basaltiche a Ventotene, lave andesitiche all’isolotto di Santo Stefano. La struttura di Zannone è più complicata perchè in essa appaiono, sotto una massiccia coltre di riolite, dolomie del Trias e strati di Jìysch paleogenico, e all’estremità meridionale (Punta del Lauro) anche scisti filladici e arenarie equivalenti al Verrucano di Toscana, attribuiti al Permotrias.

    Le Isole Ponziane sono per la massima parte — come si è detto — resti di edi-fizi vulcanici, che in parte si possono ricostruire conoscendo la batimetria del mare circostante.

    Le singole isole presentano aspetti molto diversi. Ponza è caratteristica per le sue coste frastagliate da piccole ma profonde insenature, che spesso si corrispondono sui due lati opposti, in modo che tra l’una e l’altra rimangono sottili istmi: quello tra la Cala l’Inferno e la Cala Cecata è largo appena 200 metri.

    Il rilievo è caratterizzato da una serie di dossi cupoleggianti come il Monte della Guardia, il più elevato (280 m.), con un cappello di lave trachitoidi, ovvero smussati in alto e separati da vallecole. Non di rado i fianchi scendono ripidi sul mare: le spiagge basse (plaie) sono rare. La macchia mediterranea doveva un tempo essere l’elemento dominante del paesaggio vegetale; ora è quasi scomparsa a vantaggio dei seminati.

    Palmarola è composta, nel senso della sua maggior lunghezza nord-sud, da una serie di rilievi, culminanti nel Monte Guarniere (249 m.); le coste dentellate sono accompagnate da scogli e faraglioni; singolare ad ovest la Punta di San Silverio, un faraglione collegato all’isola da un sottilissimo istmo.

    Zannone è un blocco (Monte Pellegrino 194 m.) che precipita con balze a picco sul mare (Capo Negro).

    Ventotene appare invece, vista da lontano, come un piano dolcemente inclinato, rotto tuttavia anch’esso tutto intorno, salvo in brevi tratti, da dirupi quasi verticali imminenti sul mare (Monte dell’Arco 139 m.). L’isolotto di Santo Stefano si erge come un robusto e brullo torrione cupoliforme ed ospitava fino al 1965 (a 73 m. sul mare) uno stabilimento penale di triste memoria. La macchia mediterranea è conservata a Ventotene in alcuni lembi; a Zannone si mantiene ancora più diffusa e non mancano aree boscate.

    Arco naturale a Ponza.

    Queste isole rappresentano i pochi ed estremi lembi emersi di una più vasta terra all’estremità del caratteristico protendimento della piattaforma continentale, che poco a sud di Ponza è bruscamente terminata dalla ripida scarpata continentale. Essa raggiunge i 2500 m. dell’area precontinentale, e poi più al largo profondità superiori ai 3000 m. della pianura abissale tirrenica.

    I terremoti

    Dalla succinta esposizione fatta nelle pagine precedenti, si può concludere che il Lazio è una regione di complessa costituzione, entro la quale coesistono parti di diversa origine e struttura tettonica, e di recente assestamento. Si mette in connessione con queste condizioni il fatto che il Lazio, pur senza doversi annoverare fra le aree sismicamente più pericolose d’Italia, è tuttavia frequentemente scosso da terremoti. Ma le notizie delle nostre fonti sono, per le epoche passate (fino al secolo XIX), da accogliersi con molta cautela soprattutto per la difficoltà di dedurre l’estensione dell’area colpita e l’entità dei danni. Si parla talora di terremoti che avrebbero interessato l’intero Lazio come quelli degli anni 1227, 1229, 1231, quello del 1350, quello del 1703, ecc.; ma per lo più le aree pleistosismiche, cioè di maggiore intensità, appaiono limitate. I sismologi parlano di terremoti corocentrici, quando il centro sismico è locale, di terremoti esocentrici, quando si tratta di ripercussioni anche violente, da aree epicentrali situate fuori della regione.

    L’isola di Ponza.

    Per Roma naturalmente le notizie storiche sono relativamente abbondanti e risalgono ad epoche remote. Una trentina di terremoti rovinosi o disastrosi o fortissimi ci vengono riferiti prima del Mille, a cominciare da quello del 461 a. C., del quale ci parla Livio, e si sa di alcuni casi nei quali il periodo sismico durò a lungo: 38 giorni in quello del 192 a. C., 40 in quello del 477 d. Cristo. Per le epoche successive si ha notizia di terremoti gravi nel 1229, nel 1425, nel 1812, ecc., ma sembra doversi ritenere che in progresso di tempo essi divenissero sempre più rari e del resto danni molto gravi non sembra si siano mai registrati, almeno nell’età moderna. L’esistenza di centri sismici modesti a Roma o nei dintorni immediati è stato d’altra parte di recente confermato.

    Ponza: in fondo le isole di Gavi e Zannone.

    Batimetria dell’isola di Ponza (secondo A. G. Segre).

    Centro sismico notevole furono e sono invece i Colli Laziali, i cui terremoti, circoscritti, ma talora violenti, si classificano in parte tra quelli di origine vulcanica. Ne abbiamo notizia sin da epoche antiche, anzi le prime notizie sono talora accompagnate dalla segnalazione di caduta di pietre, che da taluno fu interpretata come un accenno a fenomeni eruttivi; il che è certamente da escludere, perchè l’attività vulcanica laziale è estinta da tempi preistorici. Un lungo e diligente elenco si ha dal Galli (i) e qui non crediamo di ripeterlo o di riassumerlo. E opportuno invece rilevare che in molti casi terremoti avvertiti come disastrosi o fortissimi in una località, si sentirono molto più deboli in località anche vicinissime. Tra le località più battute Albano, Frascati, Monte Cavo, Ariccia, Velletri, Nemi: tra i terremoti recenti e più gravi quelli del 1772 (Monteporzio), del 1773 (Frascati), del 1781 (Ariccia), del 1784 (Ariccia), del 1829 (varie località), del 1855 (Frascati), del 1873 (varie località), del 1888 (Velletri), del 1897 (Colonna), ecc.

    Più lontano sono i centri sismici dei Monti Cimini e dei Sabatini, che vengono connessi anch’essi con i due apparati vulcanici. Senza menzionare anche in questo caso notizie antiche più o meno vaghe, basterà ricordare il periodo sismico del 1881-82 che interessò entrambi i centri e sul quale abbiamo notizie precise; parecchi terremoti colpirono in epoca recente la regione a nordovest del Lago di Bolsena (Làtera, San Lorenzo Nuovo), ma anche Viterbo, la cui storia è ben conosciuta, ricorda terremoti più o meno gravi quasi sin dal Medio Evo.

    Tra i centri minori prossimi a Roma si menzionano Tivoli e dintorni, e Palestrina; ma molto più notevole è il centro reatino, uno dei più importanti del Lazio. La storia di Rieti registra terremoti gravi nel 1298, nel 1703, nel 1776, nel 1821, nel 1885, e poi quello violentissimo del 1898 che interessò, come del resto altri precedenti, anche paesi vicini come Cittaducale.

    Ponza. Scogli

    Uno (o più centri) si possono segnalare nel paese ernico e nella Ciociaria con focolari ad Anagni (1256, 1765, 1877), a Fresinone e Ceccano (1160-61, 1850, 1877, ecc.) a Véroli (1654, 1777, 1877), a Sora ed Atina (1349, 1688, 1877, ecc.).

    Un centro a sé sembra doversi segnalare a Cassino e Montecassino : le cronache di quel celebre monastero registrano infatti numerosissime scosse a partire dal 1005 al 1891 (un terremoto violentissimo distrusse il 9 settembre 1349 l’Abbazia), delle quali circa 25 sono ritenute d’origine locale; mentre altre non poche rappresentano ripercussioni di terremoti abruzzesi o sannitici. Un centro sismico di limitata importanza è quello delle Isole Ponziane (Ponza, Ventotene).

    Una menzione a parte si deve fare del centro sismico di Amatrice e dintorni, noto per il terremoto del 1639, che distrusse gran parte della città, per quelli del 1672, del 1703, del 1859, oltre che per altri meno gravi. Molti di essi interessarono anche Accumoli, che era stata colpita notevolmente dal terremoto del 1627, e Montereale, altra località frequentemente funestata da movimenti sismici. Ma qui siamo già in sostanza nella grande zona sismica abruzzese, una delle più importanti della penisola, che ha il suo centro principale all’Aquila. La città fu in gran parte distrutta dalla catastrofe del 1703 il cui raggio fu amplissimo e interessò, con maggiore o minore intensità, anche molte parti del Lazio, e fu avvertito anche a Roma.

    Aree sismiche del Lazio.

    I terremoti della regione dell’alto Tronto, come quelli che più volte scossero Leonessa, debbono considerarsi — al pari dei terremoti aquilani — come esocentrici rispetto al Lazio vero e proprio, in quanto interessano un distretto montano che, come più volte si è notato, solo di recente è stato amministrativamente aggregato al Lazio, mentre anche per le sue condizioni di sismicità, come per altre caratteristiche, rientra nella regione abruzzese.

    Altri centri sismici, la cui attività ha avuto ed ha ripercussioni nel Lazio, sono anzitutto quello marsicano (Avezzano e località vicine), quello, molto notevole, di Spoleto-Norcia e quello del Napoletano (Capua, Nola). Il centro campano più vicino, quello di Roccamonfìna, di origine vulcanica, è noto per scosse talora disastrose, ma, analogamente a quanto si verifica per il centro laziale, a raggio limitato per cui raramente si ebbero effetti sensibili sui paesi limitrofi del Lazio.