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Storia del Lazio

    Uno sguardo al passato

    La preistoria

    L’uomo è antichissimo abitatore del Lazio. Quando, nel periodo che i geologi chiamano siciliano, anteriore alla glaciazione rissiana, il livello del mare era una cinquantina di metri più alto dell’attuale, e i vulcani erano in piena attività, sul suolo del Lazio continuamente perturbato l’uomo non era ancora comparso; e finché durò intensa l’attività vulcanica, l’abitabilità dovette essere, se non del tutto preclusa, probabilmente limitata a periodi di quiete o di stasi di quella attività. I più antichi giacimenti finora conosciuti — a testimonianza della presenza dell’uomo — sono quelli di Torre in Pietra alle porte di Roma, consistenti in asce di pietra a forma di mandorla (amigdale), raschiatoi, schegge, resti di ossa della selvaggina uccisa e mangiata, tra cui grandi mammiferi estinti, come il rinoceronte di Merck, l’elephas anti-quus, il bos primigenius, Vhippopotamus maior, ecc. Questo livello culturale si attribuisce al Paleolitico inferiore, e si ritiene contemporaneo della prima fase della glaciazione rissiana, circa 200.000 anni fa. Un po’ più tardo è un analogo giacimento trovato nella Valle del Liri a Pignataro Interamna. Questi uomini del Paleolitico inferiore erano cacciatori, scesi forse dalle montagne dell’interno e viventi all’aperto, forse nomadi o seminomadi. Al Paleolitico medio si ascrivono resti sporadici, ma abbastanza frequenti, sulle alte terrazze alla destra del Tevere, al Monte delle Gioie, alla Sedia del Diavolo, nella parte più recente del giacimento di Torre in Pietra. Fino ad oggi nessuna traccia di resti ossei umani si è riscontrata in questi giacimenti.

    Principali stazioni preistoriche.

    1, Torre in Pietra; 2, Saccopastore; 3, Monte Circeo; 4, Corchiano; 5, Grotta Polesini; 6, Amalo dei Hufali; 7, Sasso di Furbara; 8, Cantalupo-Mandela ; 9, Allumiere e Tolfa; 10, Colli Laziali.

    I più antichi tra essi sono due crani umani di tipo neanderthaliano trovati (1929 e 1935) — insieme con raschiatoi, punte, dischi ed altri oggetti dell’industria musteriana e associati ad una fauna di tipo caldo — a Saccopastore sull’Aniene, proprio alle porte di Roma: essi vengono ascritti ad un momento avanzato dell’interglaciale Riss-Wurm cioè ad una antichità databile 120-130.000 anni fa. Gli uomini di Neanderthal si dovettero trattenere a lungo nelle pianure intorno a Roma, nelle parti emerse dell’Agro Pontino e sulla costa adiacente, vivendo in nuclei all’aperto, sulle basse terrazze prossime al mare ovvero in grotte costiere: cacciatori, avevano per strumenti valve di conchiglie, ciottoli silicei facili a esser rotti in schegge, ecc.

    In una delle grotte del Monte Circeo, che servirono di rifugio a queste genti, la grotta Guattari, fu trovato (1939) un altro cranio di neanderthaliano, alquanto più evoluto, ma mutilato e disposto entro un circolo di pietre nel centro di una cameretta, insieme con una grande quantità di ossa d’animali e di reperti dell’industria musteriana : esso viene attribuito al periodo della regressione massima del Wurmiano più antico, circa 60-70.000 anni fa.

    Se i Neanderthaliani di Saccopastore e del Circeo debbono considerarsi come legati da un qualche vincolo di continuità, si giungerebbe alla conclusione che almeno tremila generazioni di questa antichissima stirpe umana, oggi ritenuta estinta, si sono succedute sul suolo del Lazio.

    La cultura della grotta Guattari e di altre del Circeo è attribuita al Paleolitico medio ; il Paleolitico superiore è rappresentato finora dai giacimenti di un’altra grotta del Circeo — quella del Fossellone — con industrie dette dell’Aurignaziano medio, attribuite all’ultima fase del Wurmiano, circa 20-25.000 anni fa; si suppone che si trattasse di modesti gruppi arrivati dalla Liguria, lungo la costa toscana ed il litorale tirrenico fino al Circeo.

    Era allora già da tempo comparso in Italia l’Homo sapiens che presentava un maggiore sviluppo somatico, culturale e psichico; esso era già certamente presente nel Lazio durante il Paleolitico superiore (18-20.000 anni fa). Queste genti preferivano, anche a causa del clima, l’abitazione in grotte o in ripari sotto roccia; abbondanti residui hanno dato una grotta presso Sezze Romano, piccole grotte presso Cisterna, i ripari sotto la roccia di Palidoro, le diverse cavernette di Corchiano, una grotta a Poggio Moiano, e poi ancora alcune grotte nelle immediate vicinanze di Roma, al Monte delle Gioie, alle Tre Fontane ed ai Prati Fiscali. Nell’Agro Tiburtino, presso Ponte Lucano, la grotta Polesini ha dato anche incisioni rupestri su lastre e ciottoli calcarei con figure di animali colpiti o uccisi.

    Queste genti del Paleolitico superiore, anch’esse viventi di caccia e nomadi o seminomadi erano ormai dunque distribuite sia pure in piccoli nuclei in una gran parte del Lazio. Fino a quando esse vissero sul nostro suolo ? Non siamo fino ad oggi in grado di dirlo.

    La cultura mesolitica è finora scarsamente rappresentata in Italia: le si ascrive una singolare figurazione di uomo, dipinta in rosso, trovata su una parete rocciosa dello « Amalo dei Bufali » presso Sezze; figure umane e di animali sono dipinte in un riparo anch’esso non lontano da Sezze.

    Cranio fossile di Homo neanderthalensis, rinvenuto nella grotta Guattari di Monte Circeo (Istituto Italiano di Paleontologia Umana).

    Nel Neolitico l’attività vulcanica laziale — anche quella dell’apparato più recente — si era ormai estinta; la popolazione del Lazio si fa più numerosa e sedentaria, ma i reperti finora accertati non sono molto frequenti. Forse le stazioni più vicine al mare furono devastate dall’azione erosiva di questo; ma la grotta del Sasso di Furbara, un po’ lontana dalla costa e in posizione elevata, ci ha dato molte belle ceramiche, olle, tazze, bicchieri con figure geometriche dipinte in rosso, arredi vari lavorati finemente da ossa di animali e da pietre. In una delle sepolture del Sasso fu rinvenuto un ricco corredo funebre che attesta un accurato culto dei morti. Gli abitanti erano certamente ormai sedentari, anche se non si siano trovate ancora tracce dei villaggi da loro abitati. Si ritiene da alcuni che questa cultura, che si ascrive al Mesolitico medio, sia stata portata da genti provenienti dall’Emilia e dalla Toscana.

    Anche per il Neolitico superiore i reperti finora mancano o scarseggiano, mentre all’inizio dell’Eneolitico nella attuale Tuscia Romana e soprattutto nel bacino del fiume Fiora e nei dintorni del Lago di Bolsena, si sono rinvenute cospicue necropoli (Rinaldone, Ponte San Pietro, ecc.) con tombe a forno ove i morti erano inumati con un notevole corredo di armi e utensili. Altri numerosi ritrovamenti dell’Eneolitico sono sparsi in tutto il Lazio fino alla valle del Liri, a Casamari, a Sgurgola di Anagni, ed anche sul medio Tevere presso Mandela e a Castel Malnome presso Roma. In queste tombe si trovano ormai, dapprima rari, poi via via più frequenti, oggetti di rame, come asce, martelli forati, pugnali.

    La rocca e le mura d’Ardea.

    Le genti apportatrici di questa cultura si ritengono di provenienza anatolica; il loro corredo le rivela come nuclei guerrieri. Ma quanto rimasero nel Lazio e dove si dispersero i loro ultimi rappresentanti? E un’altra domanda alla quale oggi non si può rispondere con sicurezza.

    Comunque, già prima di quest’epoca il Lazio era stato frequentato e abitato da genti di provenienza diversa. Nell’età del bronzo la cultura è più elevata. La popolazione vive ormai, oltre che entro caverne o ripari, in stazioni o villaggi all’aperto. Alla caccia si associa la pastorizia ed anche un’economia agricola sempre più si sviluppa. Il culto dei morti si pratica con riti che in parte è possibile ricostruire.

    I resti più abbondanti di questa cultura, che taluni denominano appenninica, ci vengono dalla conca di Rieti, dall’Agro Romano, dalla valle del Fiora, da alcune località del litorale (Tolfa, Allumiere, Sasso di Furbara, ecc.), da Palombara Sabina e ancora dai Colli Laziali. Poi, intorno al iooo a. C. o poco dopo, si verifica lo straordinario sviluppo delle necropoli dei centri costieri o subcostieri a nord del Tevere, dove fiorirà in seguito la civiltà degli Etruschi con due fasi : l’incinerazione prima (è la cultura detta Villanoviana), poi l’inumazione che guadagna terreno sempre più. Ma lo stesso avviene nel territorio a sud del Tevere, cioè nel Lazio vero e proprio. Sui Colli Laziali (Grottaferrata, Marino, Castel Gandolfo) tra il X e la fine dell’VIII secolo prevalgono sepolcri a incinerazione entro doli, pozzetti e urne a capanna; poi succede un secondo periodo con tombe prevalentemente a inumazione come quelle del Foro Romano, « prima preziosa testimonianza della esistenza di villaggi e di necropoli in quello che sarà il centro della vita politica di Roma » (Maiuri).

    Dalla diffusione e dall’estensione delle necropoli — le tracce dei villaggi sono naturalmente molto più rare perchè le fragili capanne furono facile preda del fuoco, delle intemperie, ecc. — ritraiamo l’impressione che il territorio laziale fosse ormai assai fittamente abitato, pur in misura diversa nelle varie parti: tra le più abitate certamente quella dei Colli Laziali e adiacenze. Erano pastori e agricoltori disseminati in piccoli nuclei, appartenenti ad una stirpe di Italici discesi dalle montagne dell’interno, sedentari, ma ancora facili a spostarsi. Una qualsiasi valutazione demografica appare difficile per non dire arbitraria in mancanza di attendibili elementi di riferimento.

    La fondazione di Roma

    Siamo ormai entrati nell’età storica. Ma una storia del Lazio, inteso nei suoi attuali confini amministrativi, naturalmente non esiste prima che si verifichi l’unificazione sotto i segni di Roma. Come caratteristica di interesse geografico — comune del resto a molte altre parti della Penisola — possiamo segnalare la disseminazione in nuclei piccoli o piccolissimi, a vita cantonale, come dovette essere la stessa Roma, quando vennero ad abitare sulla riva sinistra del Tevere i primi pastori-agricoltori, discesivi dai Colli Laziali. Plinio (Nat. Hist., Ili, 69) ci dà una lista antichissima di trenta (anzi trentuno) comunità latine, delle quali circa una metà erano così piccole e scomparvero così presto che ci sono — fuor dei nomi — del tutto ignote.

    Segni. Le mura.

    Questi triginta populi — i Prisci Latini — erano uniti da un vincolo religioso consacrato dalla celebrazione delle Feriae Latinae, sul santuario di Monte Cavo; ne era a capo dapprima Alba Longa e la prima vittoria di Roma fu proprio quella di sostituirsi ad Alba nella presidenza della Lega.

    Altre piccole unità erano quelle dei Rùtuli con centro ad Ardea, dei Lauro-Lavi-niati con centro a Lamentimi. Più a sud erano gli Ausoni o Aurunci; tra Latini ed Ausoni si incunearono poi i Volsci venuti dalla montagna abruzzese a stanziarsi sui Lepini espandendosi fino a Velletri e fino al mare, ad Anxur (Terracina).

    Non dissimile sembra dovesse essere lo stato delle cose nel territorio dei Sabini e forse anche in quello degli Ernici.

    A nord del Tevere, in paese etrusco, queste unità erano alquanto più estese: si parla di dodici lucumonie, alcune delle quali stringevano talora, di fronte a un pericolo comune, patti di alleanza; spesso invece erano in lotta fra loro.

    A Roma si deve la formazione di una città-stato, poi di uno Stato sempre più vasto, in tappe successive, che portarono anzi assai presto il suo dominio molto al di là dei confini della regione della quale ci occupiamo.

    L’espansione dello Stato romano

    Gli inizi di questa espansione risalgono già all’età regia; le piccole località più vicine — Antemnae, Crustumerium, Ficulea, Ficana, Alba stessa — scomparvero prestissimo e per sempre: Roma faceva il vuoto intorno a sé. Coi Sabini — affini di stirpe e confinanti — pare si legasse presto in amicizia; nella metà del secolo VII si erano così già poste le basi dell’unificazione politica della regione intorno a Roma.

    Dopo un periodo di dominazione etrusca su Roma e sulla regione a sud del Tevere, che durò forse circa un secolo, l’espansione riprese non senza contrasti, configurandosi dapprima come una federazione di una dozzina di città, ciascuna delle quali manteneva peraltro una propria autonomia. Alla fine del IV secolo furono incorporati gli Ernici della valle del Sacco, poco più tardi i Volsci e gli Equi.

    Vedi Anche:  La valle dell'Aniene

    L’ascesa di Roma fu nuovamente interrotta dall’incursione dei Galli (380 a. C.), che arrivarono fino all’Urbe recando gravissime distruzioni; ma riprese la sua marcia progressiva diretta ormai anche a nord del Tevere: Veio, la città etrusca più vicina, era già stata conquistata e distrutta nel 396 a. C. ; in seguito la conquista progredì verso nord: nel 310 a. C. il console Quinto Fabio Rulliano traversava con un esercito l’impenetrabile Selva Ciminia, batteva gli Etruschi e li costringeva alla pace.

    Dopo le guerre sannitiche, durante le quali si verificò un ultimo tentativo delle città latine contro l’egemonia di Roma, l’unificazione del Lazio in una nazione latina sotto la guida dell’Urbe è ormai assicurata, per quanto non vi fosse per allora un governo uniforme: perdurarono infatti, anche dopo l’abolizione della Confederazione latina, trattati tra Roma e le singole città, e il Lazio si popolò di nuovi municipi e di colonie.

    Ma dopo la guerra sociale, e cioè certamente nell’età di Siila, l’amalgamazione dei vari territori può dirsi completa. A tale amalgamazione concorsero anche le grandi strade consolari irradiantisi da Roma, iniziate già con l’Appia fino a Capua (312 a. C. ; prolungamento fino a Benevento dopo il 268 a. C.) ; esse collegarono pure Roma con l’Etruria sia lungo o presso il litorale (Via Aurelia, 241 a. C.), sia nell’interno (Via Cassia per Sutri, Bolsena, Chiusi; e Via Clodia, che staccandosi dalla Cassia si congiungeva all’Aurelia presso Orbetello); la allacciarono ancora con l’Umbria (Via Flaminia, 220-219 a. C.), con la Sabina (Via Salaria, probabilmente la più antica di tutte), con l’Abruzzo (Via Claudia Valeria), con la Campania (Via Latina o Casilina) per la valle del Sacco. Le vie del sud erano le più frequentate soprattutto dopo che, nella divisione regionale augustea, al Lazio fu aggregata la Campania nella Regio I. Questa straordinaria irradiazione di strade da Roma (di cui si sono ora ricordate solo le maggiori, delineate secondo linee dettate dalla configurazione orografica ed idrografica della regione), raggiungeva le più remote province dell’Impero con uno sviluppo totale non inferiore di certo ai 140.000 chilometri.

    La rete stradale irradiantesi da Roma.

    Il periodo medioevale

    L’epoca delle cosiddette invasioni barbariche e specialmente le incursioni dei Goti e il flagello della guerra greco-gotica (535-553) portarono gravi colpi alla compagine del Lazio. Dopo la discesa dei Longobardi (568), Roma, capitale, almeno nominale,

    di un ducato bizantino dalla metà del secolo, vedeva di nuovo stringere intorno a sé il cerchio minaccioso dei barbari, dominanti da Spoleto le malsicure strade per le quali il lontano esarca bizantino di Ravenna manteneva le relazioni con l’Urbe. Questo fu veramente uno dei periodi più tristi per Roma ed il Lazio: nel 590, come strascico delle rovinose inondazioni del Tevere in gennaio, si hanno la peste, la carestia, la fame! Proprio in quell’anno saliva alla cattedra di San Pietro, Gregorio I e fu sua prima cura lenire questi flagelli. Poi, incalzando il pericolo dei Longobardi, non esitò a muovere contro Ariulfo ed ancora a trattare con lui; più tardi, si fece di persona incontro ad Agilulfo penetrato a Roma col suo esercito nel 593 e riuscì a trattare con lui e con altri potentati longobardi evitando alla città ed al Lazio maggiori sciagure. Così, mentre l’autorità imperiale si faceva sempre più incerta e labile, cresceva quella del Pontefice che, costretto ad occuparsi anche di cose temporali, diveniva nel Lazio (fino alla Piana di Fondi) e nella Tuscia Romana il centro naturale del potere. Solo a Gaeta (come a Venezia, a Napoli, ad Amalfi, ecc.) le forze locali si stringevano attorno alla carica, di origine bizantina, del duca o del console locali e davano vita ad un ducato, dipendente dall’Impero d’Oriente solo di nome e non di fatto fino alla metà del secolo IX.

    Terracina. Il tempio di Giove Anxur e il « Pisco Montano».

    Durante il periodo delle dominazioni barbariche, accanto alla grande figura del Pontefice Gregorio Magno si erge quella di Benedetto da Norcia, che fondò a Subiaco (nella valle dell’Aniene) — agli inizi del secolo VI — un monastero, culla di tutto il monacheSimo occidentale. Più tardi (529) San Benedetto eresse ancora il monastero di Montecassino, la cui importanza fu notevolissima nel corso dei secoli perchè dal Lazio s’irradiò in ogni angolo della Penisola ed anche fuori di essa il movimento dei Benedettini.

    Così, sotto la protezione dell’autorità religiosa (Papi, vescovi e poi abati) si raccolsero le genti disperse ed in particolare i monasteri (anche Farfa, Valvisciolo, Casamari) vennero a costituire i poli di vita intorno ai quali si riunì e si riorganizzò la vita sociale delle popolazioni della regione, immiserite e sconvolte dalle invasioni, dalle guerre e dalle conseguenti carestie. Si costituirono nel contempo grandi proprietà ecclesiastiche che favorirono la ripresa dell’agricoltura (anche con la bonifica di alcune zone paludose) e valido impulso diedero alla vita economica nei secoli seguenti. Basti solo pensare a questo proposito che l’Abbazia di Montecassino, nel corso dell’alto Medio Evo, disponeva di un ampio territorio incuneato tra il ducato di Gaeta, lo Stato della Chiesa, la Marca del Molise ed i principati di Benevento e Capua; aveva anche diretto accesso al Mar Tirreno tramite il fiume Garigliano, che presentava ampie zone paludose alla foce; e fu il faro della vita sociale, intellettuale ed artistica della Penisola italiana durante i tempi più oscuri.

    Meglio, pur attraverso periodi travagliati, si profilarono le condizioni del Lazio sotto gli ultimi re longobardi e sotto i Franchi. Il papa, che possedeva già nel Lazio alcuni « patrimoni » isolati e delle domus cultae (anche nel Lazio meridionale), otteneva nel 728 (durante la contesa iconoclastica) dal re Lìutprando il castello di Sutri, inizio ufficiale del potere detto appunto temporale, o, come allora si disse, di quella Sancta Respublica che re Pipino di Francia riconobbe definitivamente. Nella notte di Natale dell’800 Carlo Magno veniva solennemente incoronato a Roma, ma il Lazio era scompaginato e nuovamente frazionato, perchè, accanto a feudi monastici, sviluppati già nei secoli Vili e IX, vi erano feudatari laici, di solito famiglie nobili romane che signoreggiavano su vasti possessi; e vi era, per contro, anzi si veniva formando, un’aristocrazia locale di persone abbienti — i domini — quasi sempre in urto coi nobili, e appoggiati poi al Papa nella lotta per le investiture.

    Prima della metà del secolo IX cominciano le incursioni dei Saraceni, che nell’846 arrivarono a saccheggiare anche le basiliche di San Pietro e San Paolo. Queste incursioni non ebbero conseguenze dannose solo per Roma — rafforzata subito da una robusta cinta di mura sulla destra del Tevere per opera di Leone IV (848-52) — ma anche e più per varie parti del Lazio. Si verificò, pertanto, l’abbandono definitivo o temporaneo di centri costieri più direttamente esposti al pericolo ed anche di località mal difese in prossimità di strade percorse dalle orde devastatrici delle quali alcune si insinuarono ben addentro nella valle del Garigliano (l’Abbazia di Montecassino fu incendiata nell’883), un’altra, secondo una tradizione, fino al medio Aniene; ma, per contro, si ebbe anche la fondazione di altri centri in aree di rifugio, che lontane dalle vie, in zone elevate, si ritenevano al sicuro. Gruppi di Saraceni (anche dopo la sconfitta subita nella battaglia di Ostia dell’849) si vuole rimanessero più o meno a lungo sia in qualche punto della costa (Nettuno), sia nell’interno (Saracinesco; San Biagio Saracinisco), ma documenti certi mancano. L’unica sicura colonia saracena sulle coste del Lazio fu quella al Garigliano (dall’882 al 915). Dura e lunga fu la lotta condotta dai vari Pontefici per l’eliminazione di questo cuneo di pirati nel centro della Penisola, anche perchè i ducati di Gaeta e di Napoli si erano alleati con i Saraceni per contenere l’espansione dello Stato della Chiesa e del ducato di Benevento.

    La torre e il laghetto di Ninfa.

    Anche il secolo X rappresenta un periodo duro e torbido per Roma e per il Lazio e le cose peggiorarono in seguito come conseguenza diretta della lotta per le investiture. Ma non soltanto si ebbero contese fra papi e sovrani esterni, bensì anche, e forse con conseguenze non meno gravi nel campo demografico, sociale ed economico, aspre lotte di signori feudali tra di loro, di feudatari contro aristocrazie locali, e, quando alcune città si ordinarono a liberi comuni, di feudatari contro comuni. Occupati in queste lotte interminabili, i grandi signori, come i Conti di Tuscolo o i Prefetti di Vico, i Frangipane, i Savelli, gli Orsini, i Colonna, i Caetani mal riescono a curare i loro possessi il cui deperimento si manifesta in tutti i campi. Nel 1084 i Normanni di Roberto il Guiscardo passano come turbine sul Lazio meridionale e saccheggiano, devastandoli, anche i più esposti quartieri meridionali di Roma.

    A partire dalla fine del secolo XI e per tutto il XII i Papi più energici si adoprano a riorganizzare il dominio, alleandosi talvolta ai comuni della regione tal altra ricorrendo a forze straniere. Località rimaste in balìa di se stesse dopo l’incursione di Roberto il Guiscardo vengono a poco a poco riconquistate. Onorio II recupera Segni, Maenza, Trevi (1125-26); Eugenio III (1145-53) restituisce al suo dominio Sezze,

    Carta feudale del Lazio meridionale, tra la fine del secolo XIII ed il principio del XIV (composta e delineata dal prof. Giuseppe Marchetti-Longhi).

    Terracina, Norma, Fumone e altre terre del sud. Alessandro III (1159-81), ricorrendo anche a forze straniere, ristabilisce la sua autorità su quasi tutto il Lazio e sottomette la Sabina.

    Ma anche Roma si era data ordinamenti comunali e il comune romano — specie il Senato — fu spesso in fiero dissidio col Papa. Si verificarono non di rado episodi di guerra aperta con distruzioni di città come Albano e Tuscolo, devastate dalle milizie comunali e le condizioni economiche e demografiche del Lazio ne ebbero a soffrire gravemente.

    La seconda metà del secolo XII rappresenta ancora forse uno dei periodi peggiori, ma negli ultimi anni di quel secolo Clemente III (1187-91) arriva ad un accordo col comune di Roma, che gli assicurava la fedeltà del Senato e la disponibilità delle milizie cittadine; il grande Innocenzo III (1198-1216) si impone ancor più al Senato, afferma la sua piena autorità sulla Campagna e Marittima e sulla Tuscia, ottiene il vassallaggio da Viterbo, costituisce al confine della Sabina una signoria nelle mani del fratello Riccardo. Allo stesso Innocenzo si deve l’ordinamento della Tuscia Romana sotto il governo di un Rettore con larghissimi poteri. Un altro periodo torbido fu per il Lazio quello del conflitto fra il Pontefice e Federico II, l’uno e l’altro sorretti dalle fazioni di Guelfi e Ghibellini, capeggiate da gruppi di potenti famiglie avide di dominio.

    Luca, capostipite dei Savelli (dal castello detto Savello, sui Colli Laziali), nipote di Papa Onorio III e senatore romano tentò, appoggiandosi ai Ghibellini, di sollevare contro Gregorio IX (1227-41) la Campagna e la Tuscia, ma il tentativo fu stroncato (1234). Alcuni anni dopo però (1243) gli imperiali invadevano di nuovo il Patrimonio, scorrevano la Campagna, distruggevano perfino Albano. Furono i nobili delle province e alcune potenti famiglie romane (i Colonna, gli Orsini, gli Annibaldi, i Capocci, ecc.) che allora vennero in aiuto del Pontefice.

    E dopo la battaglia di Tagliacozzo il potere papale si consolida. Gregorio X (1271-1276) riordinò lo Stato ponendo ogni provincia sotto l’autorità di un Rettore, che aveva poteri quasi sovrani e non di rado li esercitava fino a diventare un vero padrone. Al suo successore, Nicolò III, Rodolfo d’Absburgo riconosceva effettivamente potestà di sovrano, e con tale autorità il Pontefice si faceva intermediario per la pace tra Rodolfo stesso e Carlo d’Angiò (1280). In verità il Papa è adesso un monarca e ciò si vide ben presto sotto Bonifacio Vili (1294-1303) della potente famiglia Caetani, secolare rivale dei Colonna: egli fu il vero instauratore (anche se qualche esempio non mancò tra i Papi precedenti) di quella politica nepotistica che mirava al consolidamento del potere, affidando domini vastissimi e poteri assoluti a parenti o ad amici fidatissimi.

    Vedi Anche:  Il nome e l'estensione del Lazio attraverso i secoli

    Quali fossero l’estensione e l’aspetto del Lazio meridionale intorno al 1300, quando Bonifacio indiceva il primo grande giubileo, si può dedurre dalla carta a pag. 30; quanti abitanti avesse non possiamo con esattezza indicare. Roma ne aveva, come vedremo a suo tempo, forse 40.000; per l’intero Lazio si può calcolare una cifra non lontana dai 200.000.

    Non è qui il luogo di riassumere, neppure rapidamente, gli avvenimenti, del resto notissimi, che determinarono un fatto gravido di conseguenze per tutto il dominio pontificio, ma in prima linea per Roma e per il Lazio: il trasferimento della sede papale ad Avignone, attuato da Clemente V nel 1305. Il periodo della « servitù avigno-nese » fu fatale per Roma, che, come vedremo, ridusse il caseggiato continuo ad un’area ristretta e i fori e le altre grandi piazze ridotti a mercati di bestiame e merci varie; vide la popolazione ridursi forse a meno di 20.000 ab., dominati dalle famiglie più potenti, in lotta fra loro — Orsini, Colonna, Savelli – ciascuna fortemente annidata in un settore della impoverita città. A Roma rimase per qualche tempo un Senato impotente, soppresso poi da Clemente VI. Una crisi economica incombeva su tutto il Lazio vessato da Rettori guasconi e francesi che badavano solo ad impinguarsi.

    Il Lazio settentrionale nel Medioevo.

    L’episodio di Cola di Rienzo, quali che ne siano stati il carattere e le finalità, non apportò conseguenze di rilievo alle condizioni del Lazio. Queste erano veramente disastrose allorché Innocenzo VI (1352-62) incaricò il cardinale Egidio Albornoz, come legato pontificio, di riorganizzare lo Stato. L’Albornoz, che già nel 1357 aveva pubblicato il famoso Liber constitutionum Sanctae Matris Ecclesiae, nelle sue due lunghe missioni in Italia, preparò il ritorno del Papa a Roma. Finalmente Gregorio XI ritornò nell’antica sede (1377) e l’avvenimento fu accolto con sollievo in tutta Italia. Nè dagli anni turbinosi dello scisma d’Occidente (1378), l’autorità del Pontefice uscì gravemente scossa. Il suo potere si consolida non solo in Roma, ma anche altrove nel dominio e nel Lazio in specie : è sotto il potere del Pontefice il potente Conte di Fondi (Onorato Caetani), signore di tutta la Campagna e Marittima, nel 1399; anche Giovanni di Vico depone poi le armi; si sottomettono i Savelli e i Colonna, cedono i Viterbesi, sono favorevoli infine gli Orsini e i Caetani. È ormai dunque da tutti riconosciuta l’autorità di colui che non è più solo il capo religioso della Cristianità, ma si configura sempre più come un sovrano, onde Roma assume ormai il carattere di una vera capitale politica e poi anche di centro culturale ed artistico di prim’ordine. Il secolo XV è quello delle milizie di ventura: ad esse è ormai demandato il compito di domare gli eventuali sporadici ribelli, che scontano le loro secessioni armate con la morte, come l’ultimo dei Vico (1435) o con la confisca dei beni, come i Colonna della Campagna (metà del secolo XV). Con le ultime vittorie di Paolo II (1464-71) sugli Anguillara la Chiesa divenne la signora di tutto il Patrimonio.

    Ingresso agli scavi di Ostia antica dal lato della Porta Laurentina. Vi mette capo un’ampia strada, il Cardine Massimo, che proviene dal Foro e traversa con andamento obliquo la parte meridionale della città.

    Il Rinascimento

    Il periodo dei grandi Papi — Niccolò V, Pio II, Giulio II, Leone X — ha, come vedremo poi, i suoi riflessi nell’edilizia e nella sistemazione urbana di Roma — la Roma del Rinascimento — ma esercita la sua influenza anche in altri centri del Lazio : tutto il territorio si ripopola, si rianimano le strade, si riprendono a coltivare aree abbandonate. Leone X progetta la bonifica delle Paludi Pontine e affida a Leonardo da Vinci lo studio del grave problema.

    Ma ecco sopravvenire un nuovo catastrofico avvenimento: il sacco di Roma del 1527. Esso ebbe forse conseguenze indirette più gravi di quelle dirette, e non solo per la città di Roma, ma per i paesi tutti che si trovarono sulle strade dei saccheggiatori. Le conseguenze di ordine demografico sono quelle più spesso messe in vista: la popolazione di Roma è ridotta, per massacri e fughe, a 32.000 ab. secondo un computo da accogliersi tuttavia con cautela. Quasi impossibile il calcolo per l’intero Lazio.

    Da ora in poi la storia del Lazio [all’infuori della regione meridionale, a sud di Ter-racina e di Sora(i), legata alle vicende del Regno di Napoli] si accomuna sempre più da un lato con la storia di Roma dall’altro con quella dell’intero Stato Pontificio. Ma delle vicende di Roma ci occuperemo in un capitolo a sé per quello che interessa. Tra i papi del Cinquecento emergono Paolo III (1534-49), Gregorio XIII (1572-85) e il suo successore Sisto V (i585-90). A quest’ultimo si deve una vasta opera urbanistica, le cui linee direttive rimangono ancor oggi nel centro di Roma; egli aprì poi le porte al barocco che trionferà nel secolo seguente col Bernini, col Borromini, con Pietro da Cortona. Ma qui si vuol segnalare che la « Roma barocca », la Roma di Paolo V, di Urbano Vili, di Innocenzo X, non è contrassegnata solo dal nuovo stile di chiese e palazzi, ma introduce anche altri due elementi : le ville in città o alla periferia, le bellissime, vivaci fontane in numerose piazze. Ora non bisogna dimenticare che di tutto ciò vi sono grandiosi esempi anche nel resto del territorio romano : esiste un « Lazio barocco » che ha espressioni edilizie cospicue anche se meno conosciute in molte località, dove tuttora il visitatore trova inaspettatamente palazzi, ville e parchi ad attestare — anche se oggi più o meno conservati — un’epoca e una vita da tempo sorpassate. Nel Viterbese, sui Cimini, sui Sabatini, sui Colli Laziali, sulle colline della Ciociaria sorgono chiese monumentali, palazzi di nobile architettura, ville sontuose, fontane spesso di insigne valore artistico. Artisti di alto valore vengono chiamati a costruire e a decorare questi monumenti. Si accentua in tal modo un contrasto anche paesistico-geografico fra un Lazio cittadino — e da questo punto di vista monumentale sono città non solo Viterbo, Toscanella, Anagni o Ceccano, ma anche molti centri minori, da Caprarola a Bracciano, a Frascati, a Velletri, ecc. — e un Lazio rurale rimasto molto addietro, cosparso di umili villaggi e di vasti spazi presso che deserti, dominati da casali, vigilati da alte torri di difesa. Non pochi piccoli centri furono abbandonati specialmente fra il secolo XIV e il XVII, o perchè situati in località del tutto appartate, o perchè distrutti da incendi, vicende belliche, ecc.

    Strade e porti dello Stato Pontifìcio

    Le strade percorrenti il Lazio erano pur sempre le vecchie vie consolari, che molti Pontefici cercarono di riattivare e migliorare; ma non di rado esse erano infestate da briganti a breve distanza da Roma (perfino nel percorso dell’Appia sui Colli Laziali), o, con maggiore frequenza, nel sud; e la repressione del brigantaggio fu anch’essa tra le cure dei Pontefici o dei loro collaboratori.

    Ma più gravi problemi attrassero le cure di molti Papi, riguardanti direttamente o indirettamente l’intero Lazio. Primo fra tutti fu quello di dare, o restituire, a Roma ed alla sua regione un porto sul Tirreno.

    Al ripristino del porto alle foci del Tevere non si pensò che occasionalmente, soprattutto nel secolo XVI; se ne occuparono Pirro Ligorio, Egnazio Danti e altri sotto Urbano Vili e Sisto V, ma la difficoltà di vincere le condizioni naturali, che già avevano determinato l’occlusione dei porti di Claudio e di Traiano, fu presto riconosciuta, e di opere concrete non se ne fecero all’infuori di quelle molto modeste destinate a preservare e consolidare la foce navigabile del Tevere a Fiumicino.

    Di Civitavecchia, situata tra i porti toscani e Gaeta (allora nel Napoletano), destinata a vigilare sul mare spesso insidiato da pirati, si occupò già Sisto IV alla fine del secolo XV, poi Sisto V, Paolo V, e soprattutto Urbano Vili. Alla fine del secolo XVII, Innocenzo XII rivolse pure la sua attenzione ai porti della spiaggia tirrenica: nel 1696 fu a Civitavecchia, nel 1697 a Nettuno, mentre concedeva al primo di questi porti nuove franchigie di dogana.

    L’ultimo periodo dello Stato Pontificio

    La grave situazione economica dello scorcio del secolo e degli albori del seguente si traduceva così in provvidenze di carattere straordinario, in privilegi per l’impianto di questa o quella fabbrica nel Patrimonio o nella Comarca, in frequenti oscillazioni fra regime strettamente vincolistico e parziali liberalizzazioni in agricoltura: e l’esito non poteva essere che negativo, anche per il sovrapporsi, alla complessiva congiuntura sfavorevole nello Stato e in Europa, dei tentativi militari di Clemente XI, delle scorrerie di eserciti stranieri, degli scandalosi sperperi degli anni di Benedetto XIII (1724-30) e del cardinale Coscia.

    Intorno al 1730 si inizia per i domini ecclesiastici un’età un po’ meno oscura sotto gli aspetti economico, culturale e civile, della quale partecipa anche il Lazio. Motivo centrale durante tutto il secolo resta quello dell’agricoltura, dove si lamenta però una restrizione dei terreni coltivati e un rialzo dei costi che va a vantaggio della pastorizia. Il ceto dei « mercanti di campagna », grossi fittavoli e in pari tempo commercianti di generi agricoli, aumenta la propria potenza attraverso la manovra delle colture e dei prezzi sui latifondi dell’Agro. La città di Roma, che cresce con rapido ritmo, rappresenta un mercato inesauribile per questi generi: in molte annate la produzione del Lazio resta però di gran lunga inferiore al bisogno, e si hanno così grandi carestie nel 1716-17, nel 1763-64, nel 1766, nel 1783.

    Da questo disagio derivano lunghe polemiche fra liberisti e difensori del regime delle « tratte », fra sostenitori di energici interventi per la bonifica, per l’obbligo di messa a coltura, per la disciplina annonaria, e i loro avversari. Una prima innovazione si ebbe con l’editto per il libero transito dei grani nello Stato, promulgato da Benedetto XIV nel 1748, ma quella decisiva si avrà solo per contraccolpo degli avvenimenti provocati dalla rivoluzione francese: nel 1801 una «Costituzione» di Pio VII toglie definitivamente i vincoli al commercio granario anche all’estero e abolisce il sistema delle « tratte ». Le lunghe polemiche iniziate negli ultimi decenni del Settecento, nelle quali sono impiegati esperti del nome di un Campilli, di un Cacherano, di un Nicolai, daranno anche luogo ad una serie di provvedimenti relativi alla semina minima obbligatoria, alle piantagioni arboree, alla costruzione di case coloniche e strade. Non per questo il volto della Campagna Romana e del Patrimonio, tuttavia, cambia molto, sia perchè gran parte della nuova legislazione cade nel vuoto, sia perchè la logica di un’agricoltura che si va legando di più a un’economia di mercato permette, in un territorio come questo, notevoli arricchimenti e la creazione di grandi fortune — prima, e notissima, quella dei Torlonia — ma scoraggia quei miglioramenti fondiari che richiederebbero spese elevate.

    L’Abbazia di Montecassino.

    Il tentativo più importante in quest’epoca riguarda comunque la bonifica delle Paludi Pontine (della quale si riparlerà ampiamente in seguito), progettata da Pio VI a partire dal 1777. Centrata sopra l’escavazione di un grande canale di scolo lungo la Via Appia fino a Terracina, essa venne affidata alla direzione dell’ing. Gaetano Rap-pini che con ingenti spese riuscì a prosciugare effettivamente migliaia di ettari. Naturalmente l’esistenza di altre grandi distese di palude e di macchia, l’imperversare della malaria, l’abbandono creato dal succedersi delle guerre, limitarono le conseguenze pratiche dell’opera, sulla quale nell’Ottocento i Papi tornarono più che altro per cercare di stabilizzare i risultati idrologici già acquisiti.

    Vedi Anche:  L'economia industriale, il commercio, i traffici ed il turismo

    L’età di Pio VI e di Pio VII fu anche quella di grandi rivolgimenti politici, che per due volte tolsero addirittura al Pontefice la sua sovranità territoriale. Brevissima fu la prima Repubblica romana (1798-99), caduta per la momentanea sconfitta dei Francesi, ma il ritorno di questi e la crescente pressione di Napoleone per piegare Pio VII al suo volere culminarono con la pura e semplice annessione della provincia all’Impero col nome di «Prefettura del Tevere», che fa tornare alla mente il nome del prefetto F. M. De Tournon, uomo di grandi doti, che molte ed attese provvidenze moderne riuscì ad attuare malgrado i tempi difficili e instabili (1809-1814). Non poche fra le novità introdotte nel periodo francese finirono per restare in vita anche dopo la restaurazione del potere pontificio: soprattutto mostrò di sopravvivere ed anzi alimentarsi in misura crescente, durante l’ultima età pontificia, l’aspirazione a dare al paese un assetto moderno, un’amministrazione laica, una legislazione unificata e razionale, insomma di partecipare a quel movimento in senso liberale di cui dava prova l’Europa. Da questo stato d’animo doveva trovare più forza il ceto borghese, in verità qui dapprincipio nè particolarmente numeroso nè molto avanzato, a prospettare per la prima volta istanze patriottiche e a legarsi — attraverso la Carboneria, il mazzinianesimo, il liberalismo moderato, messi alla prova dalle lunghe attese e dalle grandi esplosioni del 1831 e del 1847-49 — col movimento risorgimentale di tutta la Penisola.

    Subiaco e il convento di S. Scolastica.

    Portale dell’Abbazia di Farfa (Rieti).

    Mentre così si evolveva la politica, poco mutava il volto del Lazio: latifondistico, spopolato, in buona parte paludoso e malarico. Fra Pio VII e Pio IX non mancarono comunque provvedimenti di carattere amministrativo. Dapprima fu precisata la ripartizione del territorio nelle « delegazioni » di Frosinone, Viterbo, Rieti, Civitavecchia, e Velletri (poi diventata «legazione»), quindi un editto (5 luglio 1831) confermò un regime speciale per la città di Roma, sotto l’autorità di un governatore, e dette vita definitivamente ad una «provincia romana», comprendente la Comarca con 16 «governi » e 7 « città », affidata a un monsignore Presidente coadiuvato da un Consiglio amministrativo.

    Le riforme politico-amministrative di Papa Mastai-Ferretti e della Repubblica romana del 1849 furono molte, ma troppo rapide per avere durature conseguenze. Lasciarono traccia invece alcune altre di portata economico-sociale, come quelle che prevedevano l’abolizione degli usi civici, legalizzando la pratica ormai usuale di negare i diritti delle popolazioni rurali su una parte cospicua, forse pari alla metà del territorio laziale. Nello stesso tempo altri fatti influivano a modificare in qualche modo il paesaggio: l’introduzione delle prime ferrovie, l’inaugurazione di opere come l’acquedotto Pio (acqua « Marcia »), il crescente diboscamento. Vi era poi il fenomeno di crescita sempre più rapida della città di Roma: 150.000 ab. nel 1833, 172.000 nel 1853, 205.000 nel primo censimento dopo l’annessione (1871). Esso si ripercuoteva sia nel generare nuovi stanziamenti e costruzioni negli immediati dintorni, sia nel fare sempre più della « Dominante » un grande mercato per i prodotti dell’Agro e dei territori viciniori. Ma l’espansione urbana venne anche a mostrare i suoi lati negativi e l’incongruenza del suo sviluppo, allorché nel 1860 le regioni centrali e settentrionali dell’antico Stato della Chiesa furono annesse all’Italia. Dello Stato Pontificio non restava più che un estremo lembo, e per giunta il più povero, cioè il Lazio; al centro di esso giaceva una città troppo grande e troppo poco funzionale per avere, in quell’assetto geopolitico, un qualsiasi avvenire positivo.

    Bracciano.

    Dall’annessione del Lazio all’Italia ai giorni nostri

    L’annessione del Lazio all’Italia, nel 1870, chiuse un periodo plurisecolare per aprire quello di Roma capitale di uno Stato moderno, liberale, unito dalle Alpi alla Sicilia. Si vide allora che i problemi tradizionali relativi all’assetto della regione — entrata a far parte del regno col nome di « Provincia romana » — tornavano in primo piano nei dibattiti e nelle aspettazioni. Tali erano, fra i primi, la bonifica dei territori paludosi, la regolazione del Tevere, la trasformazione agraria del Lazio. Innumerevoli progetti furono avanzati nel giro di pochi anni in proposito, tra cui sono famosi quelli sostenuti da Garibaldi nel 1873 e negli anni successivi per ottenere insieme la rettifica del Tevere, l’irrigazione dell’Agro Romano, la costruzione di un porto presso Ostia. Ma nè i disegni di Garibaldi nè quelli di tecnici, di politici, di imprese italiane e straniere, riuscirono per allora a tradursi in atto.

    Gli elementi che concorsero, invece, a modificare il paesaggio agrario del Lazio, dopo il 1870, furono piuttosto di natura spontanea, e sempre si concretarono in modo faticoso e graduale. Nella zona malarica ebbero qualche successo insediamenti come quelli dei Trappisti alle Tre Fontane, dei cooperatori romagnoli presso Ostia, di stazioni sperimentali in vari altri luoghi. NeH’immediata periferia di Roma lo sviluppo urbano, se portava alla scomparsa di vigne e di ville tradizionali, allargava comunque il raggio delle reti stradale e ferroviaria e di altri servizi, culminando agli inizi del nuovo secolo nelle ferrovie vicinali per Fiuggi, per i Castelli Romani, per il mare, senza contare le linee di grande comunicazione che attraversavano ormai tutto il Lazio. Un paziente lavoro di miglioria aumentava frattanto nelle zone collinari l’intensità delle colture, spesso dedicate all’olivo, alla frutta, alla vite, e accompagnate dall’in-troduzione di strumenti di lavoro più moderni e di maggiori quote di bestiame, mentre qualche proprietario più intraprendente tentava, specialmente nell’alto Lazio, investimenti fondiari e forme elementari di colonizzazione del latifondo.

    Gravi continuavano ad essere d’altro canto gli squilibri e le sofferenze sociali in una regione che così stentatamente cercava di superare la sua arretratezza. Talora si esprimevano in sussulti violenti, come quelli generati dalle contestazioni sugli usi civici e poi anche dalle rivendicazioni di braccianti e dal sorgere di organizzazioni sia contadine e sindacali che politiche, con colorazione non di rado anarchica. Altre volte, ancora, il dramma dei contadini seminomadi e dei villaggi di baracche non dava luogo ad esplosioni, ma richiamava l’intervento di circoli umanitari come quelli che si dedicarono, intorno al 19io, alle « scuole popolari dell’Agro » e alla campagna antimalarica, con una denuncia e una concreta azione che ebbero risonanze nazionali.

    Castello di Lunghezza (Roma).

    Isola Farnese (Roma). Il Castello.

    La via del progresso si manifestava dunque ardua e lenta. Tuttavia qualche cosa, dopo mezzo secolo dall’unificazione italiana, poteva ben dirsi cambiato nel volto della regione. Se per un verso Roma era cresciuta fino al rango di metropoli, diventando sempre più l’elemento di attrazione civile, demografica, economica di tutta la regione, per altro verso si poteva anche avvertire una certa maggiore articolazione delle strutture del Lazio intero. Alcuni centri incominciavano a prendere rilievo sugli altri, cosicché dai circondari di Roma, Viterbo, Frosinone, Velletri, Civitavecchia (in cui era divisa la provincia di Roma, l’unica a costituire allora il Lazio) si profilava la sistemazione in autonome province, che dopo, nel 1927, troveranno sanzione. La vita associativa si faceva più intensa, sia a livello di casse rurali, cooperative, banche locali, circoli politici, sia nei modesti ma combattivi centri di cultura, di stampa, d’istruzione locale. Una regione dove la vita comunale dei secoli di mezzo era stata subito spenta, cominciava adesso, per altre vie, ad uscire da una vita puramente rurale e ad avvicinarsi direttamente ad un equilibrio moderno.

    Il processo così avviato non poteva mancare di subire via via contraccolpi e spinte, ritardi e accelerazioni. Più volte le vicende politiche comuni all’intero Paese resero anche qui incerto l’avvenire: così parve nelle difficili circostanze della prima guerra mondiale e nei mesi del dopoguerra, colorati di agitazioni massicce nelle campagne come nelle città e poi conclusi dall’avvento della dittatura fascista; così negli anni della seconda guerra mondiale (1940-45) attraverso i massicci bombardamenti aerei, che causarono ovunque dolorosi lutti e gravissimi danni con la perdita di monumenti artistici di notevole importanza (basti solo ricordare la distruzione dell’Abbazia di Montecassino) ; la dura occupazione tedesca e la venuta degli anglo-americani, fino alla pacifica ripresa in regime democratico. Non poche furono inoltre le conseguenze di tali avvenimenti sul volto fisico della regione. Così dopo il 1918 si ebbe un vero sommovimento dell’assetto delle campagne a causa di numerosi fondi occupati e gestiti da cooperative, di quelli ottenuti dall’Opera Nazionale Combattenti, di quelli trasformati da una quantità di piccoli proprietari oppure da enti e privati più intraprendenti. La « bonifica integrale » applicata alle Paludi Pontine allargò negli anni Trenta le trasformazioni fino al Lazio meridionale, tradizionalmente più abbandonato, che divenne zona agraria redditizia e fu eretto in provincia, avendo per capoluogo Littoria (poi Latina). L’imponente crescita della capitale, avviata al milione di abitanti e presto ai due milioni, cambiò una vasta fascia intorno a sé in territorio urbano o suburbano, in vari modi strettamente connesso alla vita della città, poiché là sorgevano aeroporti e campi sportivi, centri turistico-balneari e servizi di vario genere. Quegli elementi di industrializzazione, che le emergenze di guerra avevano fatto crescere — a Tivoli e a Colleferro, a Civitavecchia e al « villaggio Breda » — attraversarono fasi di crisi, ma in sostanza riuscirono a sopravvivere, ed altri notevoli ne sono succeduti nel corso degli ultimi 10-15 anni dando luogo — specialmente nelle province di Latina e di Frosinone e nei dintorni di Roma — ad importanti e progrediti nuclei di attività economica e ad una centrale nucleare (Latina), elementi fondamentali per il progresso della regione laziale.

    Rovine di Galeria.

    Frattanto il Lazio subiva alcuni importanti mutamenti nell’assetto amministrativo, come si è visto nel precedente capitolo. Dal 1923 ne veniva a far parte l’antico circondario di Rieti, mentre nel gennaio 1927 venivano costituite le province di Viterbo, Frosinone, Rieti e Roma (quest’ultima raggiungeva — superando gli antichi confini dello Stato Pontificio verso il sud, cioè Terracina — il corso del Garigliano, per la soppressione della provincia di Caserta). Altre rettifiche si ebbero pure, come quelle che includevano l’ex-circondario di Cittaducale nella provincia di Rieti, e l’ex-cir-condario di Sora ed altri comuni (dell’abolita provincia di Caserta) in quella di Frosinone. Un’ultima, notevole modifica amministrativa si ebbe con l’istituzione della provincia di Latina (18 dicembre 1934), composta — in gran parte — da un gruppo di comuni staccati dalla provincia di Roma, da altri di nuova creazione — nell’Agro Pontino appena bonificato — e dalle Isole Ponziane.

    Secondo la Costituzione Repubblicana (promulgata il 27 dicembre 1947) il Lazio si avvia ad avere una sua fisonomia come «ente regione» (art. 131), e già nuove forme d’integrazione si sono attuate in questi anni intorno al cosiddetto « piano intercomunale », ai nuovi « poli di sviluppo » industriale, all’attività di un Consorzio fra le cinque province, all’« Ente Maremma » per la riforma agraria ed agli altri Consorzi di bonifica. Se a ciò si aggiunge che, sanate le ferite dell’ultima guerra, anche alcune piaghe antichissime come la malaria e lo spopolamento della Maremma Laziale, dell’Agro Pontino e della Campagna Romana appartengono al passato, si può dire che il Lazio abbia percorso nel giro di un secolo una strada ben lunga. Una strada che lo ha portato da condizioni di storico ritardo ad entrare nel vivo di una gara di progresso economico-sociale con tutte le altre regioni d’Italia.