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Agricoltura, pesca, allevamento e vita economica

    L’agricoltura, la pesca e i loro aspetti geografici

    Vita economica

    Più della metà della popolazione pugliese è addetta all’agricoltura, secondo quanto è risultato dal censimento del 1951, mentre alle industrie manifatturiere ed estrattive è addetta circa la sesta parte della popolazione attiva. Queste risultanze sono sufficientemente indicative per riconoscere che la vita economica della Puglia è basata essenzialmente sull’agricoltura. Molteplici prodotti apprezzati e ricercati per qualità, sono la ricchezza e la povertà di questa regione, ove, nonostante i variati e sensibili progressi tecnici, ogni risultato di tante fatiche è sempre condizionato dalla buona e cattiva « stagione ».

    Questa dell’agricoltura, che tende con ogni sforzo a svincolarsi sin dove è possibile dall’alea delle avversità climatiche, unita con l’allevamento del bestiame, è l’attività storicamente più documentata dalla tradizione archeologica e letteraria. La numismatica pugliese di influenza ellenica adotta simboli ricavati dalla vita agricola, con prevalenza della spiga di grano. Quel grano che è stato un po’ in tutti i secoli la ricchezza dell’economia pugliese, e del quale il re — normanno, svevo, angioino o aragonese — era il più grande produttore, tramite i magistri messariarum. Nello stesso tempo ne era il maggior commerciante, e ne esportava a Venezia e nel Levante, ove il grano pugliese era molto apprezzato.

    Ad eccezione del Gargano boscoso, del Tavoliere cerealicolo e pastorale, della Murgia Alta anch’essa pastorale, il paesaggio agrario del resto della Puglia era prevalentemente caratterizzato dall’oliveto e dal mandorleto. La preponderenza assunta, anche in limitate aree, da altri prodotti, risale come impostazione al secolo scorso. Infatti dopo i governi politicamente effimeri scaturiti nel periodo napoleonico, non si potè rinunciare a quei migliori principi che nel campo dell’economia in generale erano stati non solo formulati ma anche posti in pratica. Tra le numerose iniziative ricorderemo che il Consiglio provinciale di Bari, nel 1836, promosse un’intensa azione di propaganda per la diffusione in Puglia della coltivazione del gelso e per l’allevamento del baco da seta.

    Nel 1838 si cercò di incrementare la coltura del cotone, e qualche risultato concreto si ebbe nel Tavoliere. Nel Salento la coltura del cotone interessava 74.000 moggia (quasi 25.000 ha.), di cui 12.794 a secco e 61.251 con irrigazione. Il prodotto annuo raggiungeva le 9000 cantala, cioè circa q. 8000.

    In provincia di Bari il cotone era coltivato nell’area comunale per 18.800 moggia (circa 6000 ha.), a Bitonto (1800 moggia), a Triggiano (3120), a Sannicandro (4500).

    Aspetti del paesaggio agrario.

    Ma la produzione era molto saltuaria, e fu abbandonata. In provincia di Lecce e di Foggia la coltivazione è ancora documentata sino alla fine del secolo scorso, ma fu successivamente abbandonata.

    Intanto si miglioravano i manufatti. Si può ricordare ad es. che un Provenzale, Pietro Ravanas, si stabilì in Puglia nel 1828 per motivi di commercio. Egli costruì a Bitonto un oleificio che trasferì, ingrandito e perfezionato a Modugno nel 1860. La sua attività fu di esempio e di insegnamento non solo per tutto il processo di lavorazione dalla pianta al prodotto industriale finito, ma anche per la formula commerciale che impose sui mercati esteri l’olio di Bitonto e di Bari con valutazione superiore a quello di tutta la concorrenza italiana ed estera. Gli stessi francesi sono stati i maggiori clienti di olio pugliese, perchè da essi ritenuto molto adatto per la preparazione di sardine in scatola.

    Dopo l’unità d’Italia, le Murge furono praticamente conquistate al vigneto, che dal 1860 in poi ebbe in tutta la Puglia, compreso lo stesso Gargano (vigneti della valle di Carbonara), un incremento molto intenso. La causa è da ricercarsi nella richiesta di vino da parte della Francia, che lamentava una produzione sempre più scarsa determinata dalla fillossera dilagante in quel paese.

    La grande ed improvvisa diffusione del vigneto fu garantita dal trattato con la Francia del 17 gennaio 1863, che aprì alla nostra esportazione agricola un mercato di notevolissima capacità di acquisto. L’agricoltura meridionale trasse da questi accordi il maggiore vantaggio. Ma la politica economica francese, facendo prevalere tendenze protezionistiche indusse al trattato del 3 novembre 1881, che stabiliva condizioni che già limitavano le nostre esportazioni.

    La gravissima congiuntura politica del 1888, con la chiusura improvvisa di questo sbocco ormai tradizionale, causò danni ingenti. La crisi di sovraproduzione si abbattè sulla Puglia con la violenza tipica degli imprevisti crolli finanziari, mettendo a dura prova la struttura economica pugliese, che ricavava dal vigneto il maggiore profitto.

    Non sono affatto retoriche le considerazioni del conte Giusso, quando scriveva che la Puglia « cadde dalla più grande ricchezza nel più profondo baratro della povertà. Le più grandi fortune vacillarono e moltissime furono le vittime di quell’immenso disastro. Molti proprietari vi perdettero l’intera fortuna e scomparvero e i contadini che non avevano potuto in pochi anni crearsi un sufficiente peculio vi rimisero tutto il frutto dei loro sudori ed abbandonarono le vigne ».

    L’emigrazione riflette questa particolare situazione di disagio, aumentando immediatamente del 61% nel 1888 rispetto al 1887, del 66% e del 67% nei due anni successivi. Nel 1891 per un evidente inizio di stabilizzazione, l’emigrazione è superiore del 59% sempre rispetto al 1887 e continua così, in relazione, molto probabilmente, ai nuovi sbocchi commerciali trovati dal vino pugliese nell’Europa centrale.

    Poi è la tragedia, che- ha un nome di infausto ricordo : fillossera. La fillossera ha colpito il vigneto pugliese proprio quando, ad opera di consorzi e di cantine sperimentali, l’industria enologica si affinava nel metodo della produzione industriale di vini di lusso, come l’aleatico e il moscato di Trani, e di vini liquorosi come il marsala e il vermouth del quale si faceva già una discreta esportazione dalla provincia di Bari. La fillossera cominciò a delinearsi in forma molto grave nel 1899, nei comuni delle Murge di Santèramo e di Cassano. Tutto fu tentato per arrestare il flagello dilagante, dai contadini, dai tecnici e dal governo. L’unica soluzione è stata quella di distruggere il vigneto fillosserato e impiantarlo su ceppo americano; ricominciare da capo, con enormi sacrifici per il reperimento dei capitali necessari, che si poterono fortunatamente realizzare con le rimesse dall’estero dei nostri emigrati.

    Insieme con il vigneto si sviluppò l’oliveto, il mandorleto e il frutteto in genere (fichi), sì che, ad es., nel 1913 la Puglia destinava a colture legnose specializzate il 20,6% del suo territorio, mentre la corrispondente percentuale riferita a tutto il Regno era del 4,9%.

    Pure a questi anni risale la diffusione degli agrumi in Puglia. Dobbiamo però ricordare che la razionale coltivazione degli agrumi a Rodi Gargànico ha avuto inizio verso il 1753, quando sarebbe stata ivi introdotta e diffusa la pratica dell’innesto per ottenere arance dolci.

    Secondo un’indagine svolta dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria pubblicata nel 1947, la proprietà fondiaria appartiene per quasi il 92% della superficie a privati; la quota restante è degli Enti, tra i quali non figurano i beni fondiari di proprietà collettiva.

    La provincia in cui la proprietà degli Enti è maggiore, è quella di Foggia (106.719 ettari); il 43% dei fondi appartiene ai comuni, che, specie nel Gargano, hanno estese proprietà silvo-pastorali. Si distinguono nell’ordine, i comuni di Monte Sant’Angelo, San Giovanni Rotondo, Vieste, Sannicandro Gargànico, San Marco in Lamis, Cagnano Varano. Nella pianura sono invece gli Enti di bonifica che figurano tra i maggiori proprietari.

    Nelle altre province la proprietà degli Enti è di gran lunga inferiore poiché in complesso è di ha. 55.382. Anche nella provincia di Bari (Bari 21.369; Brindisi 7263; Lecce 13.071; Taranto 13.679), sono i comuni a possedere la maggior parte della superficie; le Società commerciali prevalgono nella provincia di Brindisi e di Lecce (tabacco); il demanio dello Stato, soprattutto per motivi militari, nella provincia di Taranto.

    Gli Enti ecclesiastici, meno che nella provincia di Lecce, figurano con aliquote del tutto trascurabili.

    La proprietà privata latifondistica si riscontra nel Tavoliere, nelle Alte Murge e nella Fossa premurgiana. Prevale in forma notevole, per superficie occupata, la media e la grande proprietà, mentre quella agricola è del tutto esigua. Il latifondo si nota più esteso in provincia di Foggia, mentre nella provincia di Lecce le piccole proprietà risultano abbastanza diffuse.

    L’inchiesta riconosce che « nel Gargano settentrionale, dove prevalgono i terreni buoni, sono più frequenti le proprietà inferiori ai 10 ha., nell’Alto Gargano, dove i terreni sono coltivati estensivamente, sono più rappresentate le medie e le grandi proprietà private. Infine nel Gargano meridionale, dove prevalgono boschi e pascoli dominano estese proprietà che appartengono per lo più ad Enti ». L’Appennino di Capitanata ha un intenso frazionamento, e metà della superficie produttiva è occupata da proprietà inferiore a io ha. Nel Tavoliere e nel Tarantino occidentale prevale la piccola proprietà immediatamente intorno ai centri abitati, e per il resto domina il latifondo. La media e piccola proprietà si diffonde nelle più basse zone collinari delle Murge, lungo il litorale dall’Òfanto a Monopoli, a Brindisi. A sud di Brindisi e oltre Otranto, la proprietà è media e grande.

    E possibile conoscere almeno in linea approssimata, il valore della produzione agricola lorda vendibile della Puglia, che nel 1957 ammontò a 246.494 milioni di lire. Questa somma costituisce l’8% dell’intero valore nazionale, ed è superata nell’ordine soltanto dall’Emilia-Romagna, Lombardia, Sicilia, Veneto, Piemonte. La Puglia supera la Campania e, di ben un terzo, la Toscana.

    I valori che conferiscono alla Puglia un posto così eminente in sede di graduatoria nazionale sono determinati dall’alto livello quantitativo e qualitativo di tutte le coltivazioni. In particolare vanno segnalati gli ortaggi, il tabacco, i prodotti vitivinicoli e della cerealicoltura. Tra i fruttiferi, a circa 12 miliardi di lire ammonta la produzione lorda vendibile delle mandorle.

    Le variazioni che si riscontrano di anno in anno, non alterano sensibilmente il significato del quadro dei valori preso in esame: esso conferma la grande importanza che ha la Puglia nel settore agricolo dell’economia nazionale. Purtroppo la permanente crisi di mercato non soddisfa adeguatamente la somma di lavoro e di sacrificio per giungere a tali risultati, ed il tenore di vita di gran parte della popolazione rurale — come è stato detto — è purtroppo tipico delle aree depresse. La questione sociale è sempre presente sulla soglia di ogni problema economico meridionale, e specialmente pugliese.

    Tra i molti mali lamentati, diretti o indiretti, effettivi o ipotizzati, la letteratura romanzata ha esasperato le più diverse situazioni d’ambiente. E noto che vivono dell’agricoltura varie categorie di persone, che sono state oggetto, da diversi punti di vista, di una letteratura non sempre di occasione e di lieve scherzo, come talvolta potrebbe ingenuamente apparire.

    La prevalenza dell’amministrazione indiretta e dell’affitto rende comodo ad una categoria di proprietari, e naturalmente ai più grossi, di abbandonare le terre di origine e di trasferirsi in grandi città. Alle Signore ed ai Signori di Puglia in Roma, indirizzò il « prologo di una conferenza non fatta » Antonio lo Re in quegli anni che furono di aspra lotta, per salvare l’agricoltura meridionale e frenare l’emorragia dell’emigrazione.

    Lo sviluppo industriale pugliese iniziò coi primi anni di questo secolo incentrandosi principalmente a Bari ed estendendosi lungo la costa sino a Barletta e a Cerignola. Si tratta di imprese settentrionali ed estere che diedero il primo impulso, con esigua partecipazione del capitale pugliese.

    I principali prodotti agricoli

    L’agricoltura pugliese è basata sulla cerealicoltura estensiva, sulle coltivazioni orti ve e su quelle legnose agrarie. Mentre la cerealicoltura estensiva denunzia ancora una situazione di fatto che non si può considerare aggiornata, le coltivazioni ortive e quelle legnose agrarie esprimono un’organizzazione di lavoro assolutamente attuale in tutti i suoi elementi, dalla produzione al mercato di consumo nazionale e internazionale.

    Secondo i dati più recenti e di affidamento (30 giugno 1957), l’utilizzazione agraria del suolo pugliese risulta come segue : Coltivazioni erbacee avvicendate, 837.713 ha.; coltivazioni legnose, 692.065; coltivazioni foraggere permanenti, 228.141; boschi, 68.649; incolti produttivi 16.997; a^re utilizzazioni 73.125. La superficie agraria è di 1.757.919 ha.; la superficie agraria e forestale è di 1.861.565; la superficie territoriale è di 1.934.690, come è stato detto.

    Questo quadro statistico offre un primo orientamento, perchè da esso può rilevarsi che l’economia agraria pugliese è impiantata soprattutto sulle coltivazioni erbacee e legnose che da sole interessano il 79,0% della superficie totale. Esigua è la superficie boscata, inferiore a quella di tutte le regioni italiane ad eccezione della Valle d’Aosta, la quale però ha una superficie territoriale pari a circa un quinto di quella pugliese.

    La maggiore superficie dedicata alle coltivazioni erbacee avvicendate si riscontra nella provincia di Foggia, che presenta il 51,4% dell’areale pugliese.

    Naturalmente di gran lunga inferiori sono le superfici dedicate alla stessa coltura nelle altre province, tra le quali però si distingue quella di Bari, con il 20% rispetto all’area totale.

    Il grano pugliese ha fama sin dall’antichità classica, e Tito Livio ricorda che gli eserciti romani ne furono spesso approvvigionati. Il principale motivo che induceva Annibale a soggiornare a lungo in Puglia, è da ricercarsi nella necessità di provvedersi dei grani del Tavoliere. Varrone ricorda l’alto pregio del grano apulo: triticum apulum, mentre Orazio, che lamenta la scarsezza e la cattiva qualità dell’acqua, esalta la bontà del pane pugliese. Anche nei secoli successivi la Puglia, oltre che ottima produttrice di grano, è stata mercato di rifornimento di altre regioni italiane, e Siponto prima e Manfredonia dopo hanno avuto notevole importanza come porto del grano. Ricordiamo un solo esempio: «Nel dicembre dell’anno 1226 venne bandito da Rialto l’ordine del Doge e del suo consiglio che tutti i Veneziani, sotto pena della confisca delle navi e del carico, portassero a Venezia, e soltanto a Venezia, tutto il grano che caricavano in Puglia; e già da qualche tempo era d’uso pagare un premio d’importazione di 12 denari veneziani per ogni staio. Il 3 marzo dell’anno seguente, Venezia concluse un contratto con un certo imprenditore Giovanni Staniaro, a senso del quale costui si impegnava a comprare nel mese di maggio a Siponto ed in altre località della Puglia 2000 moggia di grano per conto della città ».

    Attraverso i secoli la superfìcie a grano è andata ampliandosi, ed ha mantenuto le sue posizioni nello stesso Tavoliere pur destinato a pascolo con le masserie da campo. Nel 1958 l’area a frumento raggiungeva i 381.378 ha., di cui quasi il 58% nella sola provincia di Foggia. Tale superficie è inferiore a quella utilizzata per il frumento circa un secolo prima, per la progressiva riduzione della coltura verificatasi dopo la seconda guerra mondiale. V’è però da osservare che la superficie si è ampliata in questi ultimi anni. Via la maggiore superficie a grano dall’unità d’Italia in poi, si è avuta dal 1936 al 1939 — quasi 450.000 ha. — e cioè durante gli anni della cosiddetta « battaglia del grano ».

    La cerealicoltura in Puglia interessa principalmente il Tavoliere e la Fossa Bra-danica, che, per tal riguardo, presentano evidenti aspetti di monocoltura. Nelle altre zone costituisce una coltura integrativa in funzione del fabbisogno immediato. Le qualità più impiegate sono le Bianchette 15 e 83, che sono grani teneri già usati da secoli nel Tavoliere, ma ibridati e migliorati dalla Stazione Fitotecnica di Foggia dell’Istituto Nazionale di Genetica per la Cerealicoltura; nella provincia eli Bari prevalgono le qualità Maioliche 47 e 68. Il tipo di grano duro più eliffuso era il Saragolia, oggi sostituito dal Grifone e dal Cappelli, brillante creazione del prof. Strampelli : il grano Cappelli per la sua grande resistenza ed il suo rendimento fu denominato « il grano della vittoria ».

    Campi di grano del Tavoliere.

    A questo tipo di grano, frutto dell’opera assidua di Nazareno Strampelli, si deve il maggior rendimento dell’agricoltura meridionale, che ha veduto diminuire enormemente l’alea delle carestie e dei disastri economici. Le produzioni fortemente oscillatorie di anno in anno, dovute ai quantitativi minimi causati dalle stagioni cattive, con l’adozione del Dauno si sono ridotte in ampiezza, imprimendo al fenomeno una minore disarmonia nella serie delle produzioni annuali e dando al contadino il conforto di un’attesa serena.

    Nel 1957 la provincia di Foggia ha prodotto 3.401.500 q. di grano — più di ogni altra provincia d’Italia — dei quali il 51,3% di grano duro. Anche tale quantità rappresenta un primato nazionale; ma purtroppo è ancora esiguo il rendimento unitario (q. 13,7 nel 1957) che è al di sotto del valore medio nazionale, pari per lo stesso anno a q. 17,3. E noto però che per una maggior aderenza della notizia statistica alla realtà, il rendimento di un solo anno è del tutto insufficiente; tuttavia la media del quadriennio ^S0^ conferma questi valori: 13 q. ad ha. per la Puglia e 17 q. ad ha. per l’Italia. Ferdinando Milone osserva, discorrendo della cerealicoltura nel Tavoliere, che la media di molti anni risulta da medie tra loro notevolmente diverse. «Nell’anno 1948, se ne fecero 12,5, ma nell’anno successivo 6,5 soltanto, per risalire a oltre 18, quasi il triplo nel 1950; nel 1951 e nel 1952 si discese a 14 e a 12 q. per ha., ma nel 1953 si è risaliti ai 18 q. ». Vìa v’è da notare che l’aritmia della produzione unitaria annua sarebbe stata maggiore senza le sementi selezionate, le razionali concimazioni e l’aratura profonda effettuate con i mezzi meccanici.

    Pannocchie di granoturco al sole.

    L’osservazione riconduce alle grandi difficoltà che la cerealicoltura deve anche oggi superare, nonostante il suo modernizzato tecnicismo teorico e pratico, nelle stesse terre più idonee di tutta la Puglia, e spiega la conseguente logicità della soluzione economica, divisata in altri tempi per il Tavoliere, con l’assegnazione d’obbligo della maggior parte delle sue terre alla pastorizia.

    Un’altra vasta area pugliese a grano è formata dalla Murgia Alta, quella che, per opportuna ma non del tutto convenzionale delimitazione, abbiamo detto essere compresa dalla isoipsa di 400 m. sino agli spalti che precipitano imponenti nella Fossa Bradanica. In queste aree, ancora in gran parte in dominio del pascolo, il frumento costituisce il prodotto di maggior reddito.

    La superficie a frumento della Puglia è stata ampliata in questi ultimi anni: nel 1956 essa era di 375.000 ha.; nel 1957 passava a 377.000 e nel 1958 a ha. 381.378. Tale incremento devesi soprattutto all’importanza che va assumendo l’opera di colonizzazione effettuata dall’Ente Riforma e nasconde il decremento che si verifica nelle province di Taranto e di Lecce.

    Nella prima la superficie investita a frumento diminuì nel 1957 del 4,48% rispetto a quella del 1956; nella seconda diminuì all’incirca con valori analoghi, ma con regresso più persistente.

    Le cause sono da ricercarsi nella lenta trasformazione che va subendo l’indirizzo colturale in relazione alle richieste di mercato e alla migliore utilizzazione dei suoli. Si osserva infatti che, mentre le coltivazioni cerealicole regrediscono, si estendono al loro posto le coltivazioni ortofrutticole o legnose specializzate, che nel Leccese sono ancora quelle tradizionali, ma nel Tarantino, specialmente nel settore occidentale, consistono in aranci e mandarini, dei quali si comincia ad avere una buona produzione quantitativa e qualitativa.

    La provincia di Foggia è al primo posto in Italia anche per la superficie utilizzata per le coltivazioni dell’orzo e dell’avena. Questa è prodotta in misura media di circa un milione di quintali l’anno, mentre la provincia di Roma che è al secondo posto supera di poco, in media, i q. 500.000. Per questi stessi cereali si distingue anche la provincia di Bari per superficie messa a coltura e per quantità di prodotto. Ricordiamo che l’orzo è diffuso su 94,57 kmq. — superficie di poco inferiore a quella segnalata per Catania (97,20) e per Enna (96,35) — e che la produzione annua è pari a circa 120.000 q., superata soltanto dalle province di Foggia e di Enna, mentre quella di Bologna ha valori medi all’incirca identici. La provincia di Bari segue immediatamente quella di Foggia per superficie ad avena; la produzione, pur superando tutte le altre province d’Italia, è però di molto inferiore a quella ricavata nel Foggiano a motivo del rendimento unitario quasi dimezzato. Scarsa la produzione di granoturco (229.400 q.), alla quale si destina una superficie di 22.329 ha., dei quali poco più di 20.000 nella sola provincia di Foggia. Rispetto al prodotto nazionale la Puglia incide con circa l’i%.

    I legumi in Puglia sono un prodotto molto coltivato e consumato, e per il quale la regione si distingue notevolmente. La provincia di Bari è al primo posto in Italia per la produzione delle fave.

    Orti pugliesi di insalata « cappuccina ».

    I piselli, per la produzione di granella, conferiscono un primato nazionale alla provincia di Cagliari (circa 31.000 q.); ma al secondo posto è quella di Lecce (circa 24.000 q.), e al terzo quella di Foggia (circa 20.000 q.). Come produzioni di legume fresco, dopo Agrigento, Napoli e Caltanissetta, nelle statistiche figurano Foggia o Bari. La produzione di lenticchia costituisce un primato nazionale barese (44.730 q. nel 1957). In Puglia sono ecologicamente molto favorite le coltivazioni orticole per il grande consumo locale, dato che gli erbaggi rientrano in gran parte nelle consuetudini alimentari, e perchè sono oggetto di esportazione all’estero in quanto prodotti primaticci. Cospicua la produzione di cipolle, in cui però un netto primato spetta all’Italia settentrionale, specialmente, in ordine di importanza, a Parma, Alessandria, Ferrara e Bologna. La provincia di Bari con un prodotto di circa 80.000 q., è superata nell’Italia meridionale solamente dalle province di Salerno e Catanzaro.

    L’agricoltura pugliese si distingue anche per produzione di carciofi, cardi, finocchi, sedani, carote, cavoli, cavolfiori, pomodori, poponi e cocomeri. La coltivazione del finocchio interessa tutte le province, ma soprattutto in quella di Bari essa è sviluppata intensamente, e classifica la detta provincia al settimo posto in Italia dopo Siracusa, Salerno, Roma, Ascoli Piceno e Viterbo. Al secondo posto è invece per la produzione dei cavoli, essendo superata soltanto da Roma.

    La Puglia non dedica vaste superiici alla coltura delle patate: sul totale della nazione (386.251 ha.) la Puglia figura con il 2,2% (8507 ha.), con produzioni unitarie (65,6 q. per ha.) molto inferiori alla media (81,7 q. per ha.). La patata primaticcia è coltivata tradizionalmente nelle sciale tra Manfredonia e Margherita di Savoia; nel Salento ha assunto una certa importanza ove si dispone di suoli sciolti e profondi come a Tricase.

    Abbondante il pomodoro ma non tale da poter competere con le enormi produzioni specializzate dei territori di Salerno, di Piacenza e di Ragusa, che costituiscono tre basi fondamentali della nostra industria conserviera. L’area a pomodoro è stata raddoppiata dagli anni posteriori alla prima guerra mondiale ad oggi (circa 14.000 ha.), in relazione ai maggiori consumi dell’industria conserviera (qualità San Marzano). Il pomodoro richiede abbondante irrigazione; non dobbiamo però dimenticare la coltivazione di qualità seccagne, che dànno prodotto localmente molto ricercato. Anche il pomodoro a grappoli, che si può conservare appeso durante l’inverno, è seccagno.

    Carciofeti presso Monopoli.

    Ferrara ha il primato nazionale della produzione dei cocomeri, e Latina figura nelle statistiche al secondo posto, con un recente e progressivo incremento dovuto agli stessi coloni ferraresi ivi trapiantati e al consumo del mercato estivo romano. Pescara, Campobasso, Foggia, Brindisi e Agrigento si allineano con la produzione che supera la media dei 100.000 q. all’anno. Un netto primato spetta però alla Puglia per la produzione dei poponi: Brindisi è in testa con circa 170.000 q. e Foggia è immediatamente dopo nella classifica con un quantitativo inferiore da 10.000 a 20.000 q. secondo le annate. Il popone brindisino è molto richiesto in Italia e all’estero perchè può conservarsi durante tutta la stagione invernale.

    In questi ultimi anni è andata diffondendosi in Puglia la barbabietola da zucchero: produzione stimolata dalla necessità di riutilizzare i suoli già destinati ai seminativi nudi, di orientarsi su colture industriali, di chiudere localmente la catena industriale basata sull’efficienza di nuovi zuccherifici (Policoro). La superficie destinata a tale coltura è stata rapidamente incrementata: nel 1954 era di soli 360 ha.; nel 1957 era già di 2059 ha., ed oggi tende a raggiungere i 5000 ettari. La produzione del 1957 è stata di 265.900 q. : quantità ancora esigua, ma già fortemente significativa della duttilità dell’agricoltura pugliese alla ricerca di nuovi indirizzi colturali per taluni suoi territori. Come superficie è Taranto la provincia della barbabietola; ma come produzione unitaria è Foggia in testa con 210 q. per ettaro.

    L’area del tabacco è diffusa soprattutto nel Salento, ove però da alcuni anni va restringendosi. Di conseguenza la produzione ancora abbastanza sostenuta, che nel biennio 1956-57 è stata in media di 86.227 q. risulta inferiore alla media del quadriennio 1952-55 del 16,9%. Le varietà coltivate sono il Xanti Jakà, Erzegovina, Peru-stitza. Il ciclo produttivo assorbe in media 9 milioni di giornate lavorative.

    La prima lavorazione del tabacco levantino avviene in quasi 400 magazzini, che dànno lavoro a circa 50.000 operaie tabacchine. La produzione media annua dell’industria manifatturiera del tabacco in provincia di Lecce (media 1952-57) è di kg. 1.350.152 di sigarette.

    Vedi Anche:  Distribuzione popolazione

    Senza troppe speranze la coltura del tabacco fu incrementata nel Salento per sostituire al vigneto fillosserato e all’oliveto non redditizio una coltivazione di sicuro smercio, anche se di limitato guadagno. Nell’Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia, si accenna a « veri apostoli della coltivazione del tabacco, i quali però si illudono sull’avvenire che questa coltivazione può avere nella provincia ».

    Il tabacco veniva coltivato nella zona orientale dell’ex circondario di Lecce e di Gallipoli, e il governo si sforzava di contenerlo entro detti limiti, perchè la produzione unitaria di tabacco americano, che aveva bisogno di irrigazione, era molto scarsa.

    Nuove coltivazioni di tabacco ad occidente di Taranto.

    I tabacchi orientali non hanno bisogno di irrigazione e danno maggiori produzioni unitarie. In tal senso si è orientata la tabacchicoltura salentina, che dall’immediato dopoguerra (anno 1919), ha aumentato la superficie a coltura infittendosi lungo la zona assiale mediana del Salento sino alla costa da Santa Cesàrea a Gagliano. Da circa un decennio l’area subisce però un processo di involuzione, a causa di un’ingiusta ripartizione di oneri e di guadagni. Infatti il gran numero di addetti a tale coltura — circa 50.000 persone dal concessionario, al subconcessionario, al contadino conduttore diretto, all’affittuario, al bracciante, alle tabacchine — forma una catena di compartecipazione non adeguatamente remunerata in proporzione al lavoro. E un grave problema economico-sociale, che induce molti contadini ad abbandonare il Salento per il Tarantino occidentale ed il Metapontino, ove la coltura del tabacco va oggi assumendo notevole importanza. Ma Lecce rimane sempre la provincia del tabacco.

    E noto che le aree del cotone italiano (anno 1957) sono diffuse essenzialmente sotto forma di coltivazione asciutta in Sicilia, ove i soli territori di Agrigento, Calta-nissetta, e Trapani costituiscono il 76% dell’area dedicata a tale coltura in Italia che è di ha. 40.170. La produzione siciliana di fibra è pari all’84% del prodotto nazionale; la Puglia, che dedica a tale coltura 3626 ha. — dei quali 3380 nella sola provincia di Foggia — produce 12.460 q. di fibra, cioè il 14% del totale nazionale. Il seme prodotto nello stesso anno è stato pari a q. 19.815.

    Questi risultati derivano dal fatto che la coltivazione asciutta di cotone nel Foggiano ha la più alta resa unitaria ottenuta in Italia per fibra e per seme. Ad Apricena per iniziativa della Società per azioni S. I. C. N. D. è sorto dal 1956 un impianto industriale per la lavorazione dei cotoni grezzi e dei semi di cotone per uso semina.

    La coltura del cotone in Puglia risale al Medio Evo ed è stata poi sempre in vigore. Finita la guerra di secessione americana essa si è molto ridotta a causa della concorrenza. « Lecce e Bari che nel 1846 ne tenevano coltivati ha. 28.353 con una produzione di q. 214.525, discesero nel 1873 a q. 47.436 sopra un’estensione di ha. 17.741, e questa è presso a poco quella che ora si coltiva in questa provincia e forse anche meno ». Così fotografava la situazione l’inchiesta agraria Jacini, nel momento in cui tale coltivazione segnava un irreparabile declino. La coltura veniva ripresa in periodo di autarchia economica, dal 1930 in poi, nelle zone settentrionali del Tavoliere, ad Apricena, che è diventato il maggiore centro pugliese per la produzione del cotone.

    Le coltivazioni erbacee al solo scopo della produzione del seme, costituiscono una caratteristica della produzione pugliese. La provincia di Bari è al primo posto per la produzione di seme di lino (circa 30.000 q.) che raggiunge quasi il 50% di quella italiana. Se la provincia di Foggia è la provincia del grano, dobbiamo pur dire che, in sede regionale, essa è pure la provincia del cotone e del lino.

    La produzione di foraggio va aumentando con l’irrigazione: attualmente si superano nel complesso i 10 milioni di q., i quali, peraltro, non rappresentano che poco più del 3% della produzione nazionale. V’è da notare che circa la metà è di produzione accessoria, che in Puglia è costituita da pascolo di terreni a riposo, da tare produttive, da incolti, ecc. I prati e i prati-pascoli permanenti sono quasi ignorati, nonostante lo stimolo esercitato dal reperimento delle acque profonde, e dalla presenza di redditizie piante foraggere, che, come l’erba medica, hanno dimostrato buona adattabilità. Ma il problema è a circolo chiuso, perchè non solo si deve produrre, ma si deve pure consumare, e si ricade per tale motivo in altri settori di attività, che, come la zootecnia, hanno i loro problemi e vivono la loro crisi più o meno cronica.

    Le classiche coltivazioni legnose agrarie della vite e dell’olivo, affermano la regione pugliese come la più produttiva in Italia e come la rifornitrice maggiore di vino e di olio.

    La superficie pugliese a coltura esclusiva (anno 1958, 268.001 ha.) supera quella di tutte le regioni d’Italia; mentre l’area interessata dalla coltura promiscua è esigua e risulta di gran lunga inferiore rispetto all’Emilia-Romagna, al Veneto, alla Toscana e alle Marche. Questo elemento qualifica meglio la specializzazione colturale pugliese e ne esalta l’importanza, che è in continuo incremento. Infatti, nonostante la pericolosità economica della monocultura, vanno estendendosi rapidamente in tutta la regione pugliese sistemi di viticoltura che escludono quella saggia combinazione di vite ed olivo la quale è stata la base della previdenza tradizionale del contadino mediterraneo.

    Gioia e dolore è la storia recente del vigneto pugliese, che da coltura volta a soddisfare le esigenze del mercato locale, divenne dal 1878 in poi area di produzione inserita nel mercato di consumo della Francia. La crisi granaria aveva sconvolto l’economia contadina pugliese mentre la fillossera aveva distrutto i vigneti francesi: due cause che indussero la Puglia ad estendere in pochi anni i suoi vigneti, sottraendo suolo ai seminativi. La fortissima richiesta e gli alti prezzi, erano un incentivo più che sufficiente per cambiare indirizzo colturale, per puntare sul vigneto — come in un gioco d’azzardo — il capitale e il lavoro pugliese. Il credito favorì questa trasformazione colturale : sorsero banche che concedevano prestiti con facilità e con ragionevole interesse. Giustino Fortunato definì questo nuovo stato di cose « la gazzarra del credito », che favorì le banche maggiori specialmente il Banco di Napoli e la Banca Nazionale per la collocazione del proprio numerario divenuto eccessivo.

    Vigneto pugliese.

    La crisi fu politica, finanziaria e fu di imprevidenza: si denunziò nel 1886 il trattato commerciale con la Francia, crollarono le banche minori, e nelle maggiori avvennero destituzioni e sostituzioni; il vino pugliese, tutto da taglio, non trovò sbocchi immediati nel piccolo consumo. Tempi neri, di sconforto e di emigrazione, come è stato detto; nella provincia di Bari avvennero in breve giro di mesi 505 fallimenti, per un totale di circa 30 milioni di lire italiane d’allora. Le vigne superstiti furono attaccate dalla fillossera a cominciare dal 1899 (Santèramo in Colle). E fu un altro disastro, al quale però la tenacia pugliese seppe far fronte con i ceppi americani, non ripetendo il vecchio errore di imperniare la produzione su una sola qualità di vino, bensì su diverse da taglio e da pasto, cadendo poi, col tempo, nell’errore opposto, al quale oggi si cerca di porre rimedio con i vini tipici delle Cantine Sociali.

    Un nuovo orientamento è attualmente in atto: produzione dell’uva da tavola mediante il sistema del « tendone », una specie di pergolato, che consente produzioni triplicate e quadruplicate rispetto all’uva da vino. La provincia di Bari, ha iniziato a coltivare a tendone forse dal 1922 nell’agro di Noicàttaro. Ma è dopo la guerra che il tendone si è esteso, febbrilmente, segnando un altro periodo della storia del vigneto pugliese. La mennavacca (poppe di vacca) o Regina di Puglia è la qualità da tavola che si è imposta su tutti i mercati. La Baresana, ancora richiesta e apprezzata, non è stata però spodestata e regge bene il mercato, come pure la qualità Italia, gustosa ed esportata all’estero.

    La superficie totale (anno 1958) a vigneto è di ha. 310.225. Come superficie specializzata la Puglia è al primo posto tra le regioni d’Italia, mentre — come è stato detto — per superficie complessiva è al quinto posto. La produzione di uva (circa 17 milioni di q.) supera quella delle altre regioni, ed è in testa sia per l’uva da tavola (quasi 4 milioni) che per l’uva da vino (oltre 13 milioni). Nel 1958 sono stati prodotti un po’ meno di 10 milioni di ettolitri di vino.

    La Murgia Costiera e Bassa, il Salento, il Tavoliere settentrionale (San Severo) e il Tavoliere meridionale (Cerignola), sono le aree dove il vigneto ha carattere industriale. Esso poi è ovunque diffuso, persino nel cuore del Tavoliere cerealicolo, come coltura ad integrazione aziendale, o a forma esclusivamente domestica (Gargano; Appennino di Capitanata).

    La Puglia è al primo posto anche per la superficie (322.549 ha.) destinata alla coltivazione specializzata dell’olivo. Ulteriore qualificazione, questa, dell’importanza che le grandi colture legnose mediterranee hanno in Puglia ormai per vetusta tradizione di secoli. La provincia di Bari con 115.360 ha. a coltura specializzata nel 1957, supera ogni altra d’Italia, e le supera pure tutte come area destinata alla coltivazione promiscua (123.448 ha.).

    La produzione pugliese di olive è pari al 41% della media nazionale dell’ultimo quinquennio, e di poco superiore è quella dell’olio. Questi riferimenti statistici relativi ad un solo anno erano molto aleatori per gli scarti di rendimento che la produzione di olive presentava da un anno all’altro. Oggi che la coltura stessa è tecnicamente progredita mediante opportune concimazioni e più razionali sistemi di potatura, non si lamentano rese tanto diverse e crisi tanto frequenti.

    Oliveto nelle Murge.

    L’olivo è la pianta a lungo ciclo vitale e la storia della coltura non è improntata a quelle vivaci e repentine variazioni segnalate per il vigneto. Dal secolo XVIII si assiste ad un lento ma progressivo aumento di superfìcie, ed all’affermazione commerciale del prodotto. La crisi dell’olivo ha interessato il Salento dopo l’unità d’Italia, quando si sono estinte le correnti di esportazione internazionale, si sono cominciati a diffondere olii di semi, e quando l’olio lampante salentino non ha trovato più le applicazioni industriali di una volta. La coltura del tabacco fu favorita da questa crisi, e ne alleviò le tristi conseguenze. La Cellina di Nardo e l’Oliarola Salentina costituiscono però ancora l’emblema della economia tradizionale del Salento. In terra di Bari la Cima di Bitonto e la Cima di Mola dànno olii squisiti, giustamente noti; la « Coratina » è pure molto pregevole; la Provenzale, la Marinese e l’Oliarola sono qualità da olio diffuse in provincia di Foggia.

    Mele cotogne prodotte nell’Appennino di Capitanata. (Deliceto).

    Olive da tavola sono fornite dall’Oliva di Cerignola, e dalla Sant’Agostino (provincia di Bari) dai gustosi frutti sodi e di media grandezza.

    Tra le frutta un altro primato pugliese è costituito dal cotogno, che è qui prodotto in misura del 70% rispetto al quantitativo nazionale (183.600 q.). E soprattutto il Brindisino che concorre ad affermare tale primato (77.100 q.).

    La produzione del melograno pone la Puglia alla testa delle altre regioni, per il contributo di circa il 50% (30.550 q.) da essa apportato alla produzione nazionale (63.100 q.).

    Nel campo dei fruttiferi mancano ulteriori primati; però già questi sono sufficienti per dimostrare la feracità della regione pugliese e il suo contributo massiccio dato all’agricoltura nazionale.

    Accenniamo ad affermazioni di minore entità, ma ancora spiccatamente indicative della pluralità di indirizzi colturali che sono perseguiti dal contadino pugliese, con opera alacre ed intelligente. Si tratta di prodotti e di produzioni che hanno incidenza forte sulla bilancia economica dello Stato, anche perchè alimentano correnti di traffico interno ed estero di importante volume.

    La coltivazione degli agrumi in Puglia non interessa vaste zone, ma non è neppure trascurabile, tenuto conto che la regione è al sesto posto (905 ha.) per la superficie a coltura specializzata di aranci (Sicilia, Calabria, Lazio, Campania, Sardegna) e al quarto posto (199 ha.) per quella dei limoni (Sicilia, Campania, Calabria). Notevole è pure la superficie a coltura promiscua, ma ogni eventuale riferimento alla medesima è viziato dal fatto che l’area è « ripetuta » e che può considerare zone in cui gli agrumi costituiscono una rarità, per cui il riferimento stesso non sarebbe indicativo. Per la coltura specializzata degli aranci (481 ha.) e dei limoni (160 ha.) si distingue la provincia di Foggia, mentre la provincia di Lecce è prima per la coltura promiscua, non solo come superficie ma anche come quantità, che è la maggiore tra le province pugliesi.

    Agrumeti a Rodi difesi dal vento.

    La Puglia è la regione d’Italia che destina la maggior superficie alla coltivazione specializzata del fico (17.245 ha.) essenzialmente nelle province di Brindisi e Lecce. In coltivazione promiscua il fico occupa un’estensione di gran lunga maggiore (80.682 ha.), superata però nell’ordine dalla Toscana, Marche, Campania, Lazio, Sicilia, Abruzzi e Molise, Calabria. Per quanto si riferisce alla produzione, la Puglia (circa 600.000 q.) è superata soltanto dalla Calabria (circa 850.000 q.). V’è inoltre da tener presente che la provincia di Brindisi supera tutte le altre d’Italia per il quantitativo di fichi secchi immessi in commercio.

    La Puglia figura come produttrice di carrubo (32.300 q.) al secondo posto in Italia, superata dalla Sicilia, che ha però una produzione undici volte maggiore. La pianta, dal bel portamento e dalle foglie carnose e di un verde intenso, è diffusa principalmente nel Brindisino. In provincia di Bari ove si osservano esemplari magnifici, questa pianta è sempre più ostacolata, dato che il frutto è sempre meno richiesto per l’alimentazione equina, ove è soprattutto impiegato.

    Tra le frutta con guscio la Puglia vanta una cospicua produzione di mandorle (circa 880.000 q.) inferiore soltanto a quella della Sicilia (circa 1.500.000 q.), ove è prevalente la superficie a coltivazione specializzata. La superficie a coltura promiscua è invece superiore in Puglia (circa 204.753 ha.). Comunque v’è da notare che la provincia di Bari è la prima d’Italia per area a coltura specializzata (52.971 ha.), a coltura promiscua (166.381 ha.) e per la produzione (553.000 q. nel 1958).

    Il mandorlo è la pianta che insieme con l’olivo e la vite, è a fondamento dell’economia pugliese relativa al settore delle colture legnose. Alla sua presenza e alla sua diffusione si accenna sin dall’antichità, e poi in tutti i secoli successivi. Ma la grande diffusione del mandorlo e la sua incidenza economica, sono fenomeni in atto da circa mezzo secolo, da quando la contrazione del vigneto ha richiesto la sostituzione con una pianta di pronta realizzazione. Il mandorlo aveva tutti i requisiti richiesti — è pianta di bonifica — perchè fruttifica in breve periodo di anni e dà abbondante legna da ardere. L’affermazione del prodotto sui mercati di consumo ha incoraggiato la coltura specializzata.

    Il mandorlo è pianta delicata, che supera raramente l’isoipsa di m. 450 s. m. e teme la nebbia. La sua distribuzione nelle Murge può essere considerata tipica per la delimitazione della Murgia Bassa. Le qualità pugliesi, tra le quali primeggia la Rachele, sono commercialmente bene affermate.

    L’utilizzazione agricola del suolo pugliese presenta vaste aree di caratterizzazione specifica, in relazione innanzi tutto alle condizioni fisiche d’ambiente, dal clima alla natura dei suoli, e, soltanto in parte, in dipendenza di indirizzi colturali dettati dalla tradizione.

    E possibile sulla base delle colture prevalenti, parlare di un paesaggio agrario cerealicolo per il Tavoliere di Puglia, di un paesaggio a colture legnose promiscue per le Murge Bassa e Costiera, di un paesaggio a vigneto specializzato per le plaghe istmiche del Salento, di un paesaggio a pascolo ed incolto produttivo per le Murge Alte… Ovviamente a questi tipi di ricoprimento vegetale del suolo corrisponde un insediamento adeguato in tutta la sua strutturazione e un frazionamento della proprietà, la quale risulta differenziata da zona a zona. L’aspetto esteriore di immediata individuazione, è poi accompagnato da fenomeni di non facile evidenza d’ordine sociale, i quali si sviluppano dai sistemi di base dell’organizzazione generale del lavoro sino all’avvicendamento della mano d’opera ed all’impiego del capitale. Un formicolio di opere e di fatti più o meno evidenti, vanno poi assommandosi e sintetizzandosi nella vita dei grandi centri rurali della Puglia centrale e di quelli numerosi, ma piccoli, della Puglia meridionale.

    Fioritura di mandorli nel Salento.

    La localizzazione delle più caratteristiche ed abbondanti produzioni pugliesi, ha enucleato dalla vasta regione quelle zone che si distinguono per determinate coltivazioni. In realtà le notizie sinora redatte hanno avuto più importanza economica che geografica, orientandoci sulle varietà e la consistenza dei prodotti dell’agricoltura. Richiamiamo invece l’attenzione sulle zone di produzione, che, nell’areale pugliese si presentano discretamente differenziate e talvolta persino nettamente coagulate. Si tratta di paesaggi agrari, nei quali le forze componenti convergono per costituire fenomeni di tipizzazione esclusiva.

    Il Tavoliere di Puglia non ha riscontro nell’ambito dei nostri confini nazionali, e solo nelle piane magiare del Danubio e del Tibisco lo si rivede con i suoi estremi meteorologici, e con le sue messi bionde percorse dal brivido molle di grandi ondate sino all’estremo limite dell’orizzonte. Coltura estensiva ed estremamente aleatoria questa del grano, trova il suo maggiore rendimento quando l’annata esalta il suo clima di steppa.

    Paesaggio rurale garganico.

    La monocoltura del Tavoliere individua un paesaggio dotato di forte monotonia e di grande unità di stile. E l’area in cui sino a pochi anni or sono, insieme con il seminativo nudo ed asciutto hanno dominato il latifondo e la masseria, ed in cui l’allevamento ovino ha trovato negli ampi territori avvicendati a riposo, la possibilità della coesistenza con una transumanza limitata ma ancora vivace. La colonizzazione organizzata tende a sbloccare una situazione di immobilismo dovuta più alla natura che agli uomini. Infatti, fino a che la cerealicoltura costituirà la base dell’utilizzazione del suolo del Tavoliere, l’appoderamento e la casa sparsa rimarranno come emblemi storici di una grande audacia dall’alto significato sociale. E noto che i cereali richiedono una saltuaria presenza del colono e non lo costringono ad una permanenza continua sul fondo; finché l’odierno indirizzo colturale del Tavoliere non sarà accompagnato o variato da specie vegetali, che invece richiedano maggiori cure e possano dare un reddito più cospicuo e più sicuro, non vi sarà trasformazione radicale di paesaggio agrario. Non si ripeterà cioè quella trasformazione netta e recisa che si manifestò quando all’economia dell’allevamento ovino si sostituì nel Tavoliere l’economia cerealicola.

    L’albero e il vigneto vanno assumendo in questo paesaggio un’importanza sempre maggiore: è questa una constatazione che scaturisce dal contrasto di un’esperienza personale diluita nel tempo, ma che in pratica si rivela di scarsa entità. Comunque durante la seconda metà del secolo scorso le aree perimetrali più elevate intorno al Tavoliere furono rivestite di vigneti, ove in forma compatta e specializzata come a San Severo e Cerignola, ove in forma promiscua come nell’Appennino di Capitanata. L’olivo si accompagnò spesso alla vite nell’agro di Cerignola, ma lo troviamo con caratteri di coltura quasi esclusiva lungo le pendici del Gargano, ridossato presso i gradini dei suoi terrazzi come avviene nei comuni di Rignano Garganico, di San Marco in Lamis, e di San Giovanni Rotondo.

    Queste aree perimetrali esprimono con un nuovo paesaggio l’estinzione di quello del Tavoliere e la sua transizione verso aspetti radicalmente differenziati.

    La fascia costiera del Tavoliere, lambita dalle acque del Golfo di Manfredonia, forma un paesaggio agrario veramente caratteristico, impostato essenzialmente su produzioni orticole alimentate da falde freatiche di scarsa profondità o addirittura affioranti (sciale). Il terreno molto sciolto, in prevalenza sabbioso, consente tra le molteplici colture quella delle carote e delle patate primaticce, che sono tutte esportate all’estero. I piccoli appezzamenti del settore meridionale, coltivati palmo a palmo, ospitano anche modeste capanne di strame e cannucce, utilizzate come ripostiglio dagli ortolani che abitano in paese. Nel settore settentrionale le costruzioni sono in muratura e taluna di esse è abitata in permanenza.

    Il paesaggio agrario delle Murge all’incirca dall’isoipsa di 400 m. sino al mare è caratterizzato da oli veti, mandorleti e vigneti in coltura specializzata e promiscua. L’oliveto occupa in prevalenza una larga fascia costiera che si estende senza soluzione da Barletta a Monopoli, e nell’interno da Andria a Castellana Grotte: una compatta superficie di circa 100.000 ha., che ha il suo centro nel Bitontino. Il vigneto assume una più intensa distribuzione specializzata nei settori perimetrali di quest’area, sviluppandosi a preferenza nelle zone più elevate ed esposte. L’area a vigneto va estendendosi nelle zone di recente appoderamento, perchè si può già ottenere una certa quantità di prodotto a tre anni dall’impianto. L’olivo è climaticamente più esigente e richiede un più lungo ammortizzamento di capitale insieme con una maggiore attesa.

    Le cure che il Pugliese dedica al vigneto sono degne di grande ammirazione; ma soprattutto stupisce il notevole impegno che egli pone nel migliorare le sue produzioni, senza lesinare lavoro e capitale. L’incentivo di un maggiore immediato guadagno è la molla chè spinge il proprietario pugliese a siffatti sacrifici, ma non si può nascondere che egli ponga alla base della sua iniziativa una questione di prestigio personale, dimostrando un’encomiabile sensibilità. Il mandorleto è sempre presente in questa zona; talvolta è consociato all’olivo, e, nelle Murge meridionali al fico.

    L’oliveto costituisce ancora la nota dominante nell’area di pianura interposta tra il gradino delle Murge e il mare in territorio di Fasano e di Ostuni ; ma più a sud il vigneto specializzato si impone con frequenza prevalente, caratterizzando un paesaggio agrario privo di alberi, verdeggiante durante la canicola estiva, e in pieno contrasto con l’oliveto rigoglioso e fruttifero durante la stagione invernale. I vigneti dell’area istmica Taranto-Brindisi sono a ceppo, a corta potatura. Cospicuo è il rendimento in uva da vino, bianca e nera, specialmente nelle aree estreme, orientale e occidentale, cioè del Brindisino e del Tarantino. Presso Brindisi l’istituzione della cantina sociale di Tuturano documenta l’enorme produttività vinicola della zona in questione, mentre presso Taranto, centri come Sava e Carosino dànno il proprio nome a qualità molto ricercate.

    Nell’interno, a Sàlice Salentino, una forte industria privata ha lanciato nei mercati di consumo nazionali ed internazionali un vino in bottiglia di buon pregio (Five Roses). E da questa zona che provengono i vini impiegati nell’Italia settentrionale per la preparazione del vermuth.

    Nel resto del Salento, evitando ogni questione di minuto dettaglio, si nota una zona a seminativi orientata in senso nordovest-sudest, secondo l’asse della penisola. Si tratta in complesso di una concavità molto allungata in relazione ad un asse mediano che congiunge Copertino, Soleto, Maglie e Poggiardo, e che dall’una parte e dall’altra giunge sino al mare.

    I modesti rilievi che fiancheggiano tale area sono generalmente ricoperti da folti oliveti, che definiscono ancor meglio il contrasto esistente con l’aperta e più bassa campagna interposta. Qui il tabacco si estende in appezzamenti notevoli, mentre le aree destinate alla sua coltura vanno frammentandosi e polverizzandosi nel Leccese: coltura di problemi sociali, più che industriali, rappresenta in questa penisola una grande incognita economica.

    Esistono nel Salento aree minori e discontinue accomunate da identiche caratteristiche, come avviene — ad esempio — intorno a Lecce, ma la loro esigua estensione non può essere considerata in uno studio di sintesi e di panorama come è appunto il presente. Le Murge Salentine costituiscono il rilievo assiale e mediano dell’area a vite ed olivo del Salento meridionale da Nardo a Marina di Leuca. Qui le colture legnose, si alternano e si fondono, determinando la fisionomia unica di un paesaggio in cui il seminativo forma una eccezione ed è soprattutto destinato a tabacco.

    Paesaggio rurale otrantino.

    Il paesaggio agrario manifesta una sovrapposizione, o meglio un rivestimento vegetale di quello che fu il paesaggio spontaneo, sostituito da un intervento determinante dell’uomo. Esistono di conseguenza aree in cui tale intervento è stato di minore entità per un complesso di cause, ed in cui pertanto la ruralizzazione del paesaggio presenta aspetti molto superficiali. Tale è la Murgia Alta, ove le colture cedono ancora grande spazio al pascolo spontaneo ed al ceduo. Non si insisterà mai sufficientemente su questo duplice e contrastante aspetto delle Murge Alta e Bassa, nel quale convergono noti fattori naturali e storici.

    Il paesaggio agrario della Murgia Alta s’imposta sul pascolo, adatto per gli ovini e i caprini e sul seminativo nudo ed asciutto di scarso rendimento. Paesaggio squallido, interrotto da stentate colture che si costipano in un canalone, ove un’esile cotica di terriccio rossastro consente una rudimentale utilizzazione.

    Molte plaghe dell’area cacuminale garganica somigliano a queste dell’Alta Murgia; ma nel Promontorio la presenza del bosco di alto fusto conferisce tonalità diverse di economia e caratterizza un paesaggio agrario composito, meno monotono e meno uniforme, ma non meno ostile alla quotidiana e secolare fatica delle generazioni che si avvicendano.

    L’allevamento

    Soprattutto i nostri ricordi storici inducono a ripensare alla Puglia come ad una terra ricca di greggi ovine svernanti, dopo aver percorso i lunghi tratturi che qui giungono dalle montagne abruzzesi. Quel flusso si è di molto ridotto, e limitata ormai è l’importanza economica che ne derivava. La trasformazione agraria in atto nel Tavoliere da più decenni è causa dell’incremento dell’allevamento stanziale, mentre le migliorate qualità dei pascoli, la maggiore produzione unitaria di determinati foraggi, ecc. inducono a preferire in tutta la Puglia la stabulazione del bestiame, con particolare cura per quello bovino.

    Vedi Anche:  Murgia e trulli

    La Puglia è oggi (anno 1958) al sedicesimo posto per numero di bovini; essa precede soltanto la piccola Valle d’Aosta, l’impervia Liguria e l’arida Basilicata!

    La Basilicata ha invece il doppio dei suini della Puglia. La nostra regione è anche in questo caso al sedicesimo posto precedendo soltanto la Valle d’Aosta, la Liguria e il Trentino-Alto Adige.

    Con gli ovini si riprende quota, perchè la Puglia è soltanto al quarto posto dopo la Sardegna, il Lazio e gli Abruzzi e Molise. Per i caprini si scende al sesto posto dopo la Sardegna, la Sicilia, la Calabria, il Veneto e la Campania. La scarsa consistenza di animali domestici tipicamente adatti all’ambiente meridionale, denota che in Puglia l’allevamento non ha la maggiore incidenza economica.

    Il numero degli equini classifica la Puglia al secondo posto dopo la Sicilia. In particolare per i cavalli si è al secondo posto dopo la Lombardia; per i muli al secondo dopo la Sicilia, e per gli asini al nono dopo la Sicilia, la Campania, la Calabria, il Lazio, Abruzzi e Molise, la Sardegna, la Basilicata, la Lombardia.

    Il patrimonio zootecnico pugliese, seguendo alcune tappe statistiche riferite nella Tabella X, mostra una riduzione numerica regolare e costante dei capi ovini, che all’inizio del secolo superavano il milione e che oggi, per la graduale eliminazione della transumanza, sono ridotti a circa due terzi.

    Del 40% si è ridotto il numero dei caprini; non è molto quando si pensa al rigore delle leggi che hanno voluto limitarlo. La capra resiste ad ogni forma di limitazione perchè nell’economia rurale rientra provvidenzialmente, poco chiedendo e molto dando. Essa sola, con scarse esigenze, consente un allevamento di un certo reddito: un piccolo gregge di quindici capre può già sopperire al bilancio di una famiglia. E ancora molto diffusa in Puglia la vendita serótina del latte di capra: il pastore rientrando dalla campagna, disimpegna la sua clientela mungendo il latte presso le case. E una piccola industria tradizionale che i servizi igienici municipalizzati vanno continuamente adattando più che contraendo.

    La più forte riduzione, che si può valutare intorno al 50%, riguarda i cavalli. E un fenomeno generale a tutta l’Italia e che coincide con l’aumento della motorizzazione stradale e della meccanizzazione agricola. Non dobbiamo però dimenticare che il cavallo è molto ricercato per l’alimentazione specialmente a sud di Bari; nel Salente non si mangia cavallo solo per il minore prezzo, ma per gustare quel tipo di carne. Per tale scopo il cavallo si importa pure dall’estero.

    Gregge di capre nere presso Vico.

    Asini e muli vanno pure riducendosi di numero, ma con una proporzione di gran lunga minore rispetto a quella dei cavalli.

    Soltanto il numero dei capi bovini e suini presenta variazioni positive e negative. Dal 1908 al 1958 il numero dei bovini è diminuito di circa 5000 unità; ma dal 1930 ad oggi esso è aumentato di circa il 50%. La ripresa è vigorosa ed i prezzi di mercato del latte e della carne tendono a favorirla.

    Dal 1908 al 1958 risulta invece aumentato il numero dei suini; però, se consideriamo l’entità dei medesimi al 1942, notiamo che i capi si sono ridotti di circa 7000.

    Ma lo sforzo di ricostruire il patrimonio zootecnico è in gran parte abortito, perchè ai disastri della guerra, si aggiunsero nel 1943 l’afta nei bovini, la rogna negli ovini, la peste e il mal rossino nei suini. A queste epidemie soprattutto si deve il calo numerico dei capi, che si nota, ad esempio, nei suini dal 1942 al 1958, o il rallentato ritmo di incremento che si nota per i bovini e gli ovini.

    Premesso questo orientamento statistico che ha il significato di un inventario e che consente di valutare progressi e regressi, possiamo comprendere taluni dei più urgenti problemi della zootecnia pugliese. Il primo riguarda l’animale più pregiato: il bovino, così scarso in Puglia, considerato per giunta in rapporto col numero degli abitanti e con l’estensione della regione.

    La convenienza di intensificare l’allevamento bovino è una convinzione acquisita; ma in tale settore non è prevedibile una immediata ripresa, sebbene non manchino la buona volontà locale, la collaborazione fattiva degli organi centrali e periferici, ed infine un programma di incremento e di miglioramento sostanzialmente così perfezionato che non rimane che auspicarne una pronta realizzazione.

    Le cause di questa situazione sono da ricercarsi principalmente nel fatto che l’allevamento bovino costituisce presso l’azienda agricola un’attività complementare, e il più delle volte semplicemente accessoria. Lo indica con chiarezza il sistema di alimentazione basato principalmente sul pascolo spontaneo e la valutazione che l’agricoltore fa della convenienza di possedere il giogo in relazione al lavoro dei campi, compresa la concimazione naturale, ancora molto importante come integratrice di quella chimica. L’azienda zootecnica esclusiva, costituisce una innovazione che trova ostacoli gravissimi nella natura e negli uomini, impegnando per giunta grossi capitali che l’agricoltore privato pugliese non ha più a disposizione, da quando lo « scorporo » ha colpito la grande masseria.

    Greggi al pascolo nel Salento.

    Infatti l’incremento non può essere basato sul numero ma innanzi tutto sulla qualità, in relazione alla richiesta di mercato che diventa sempre più esigente. Per soddisfare tale esigenza bisogna prima avere l’acqua, poi introdurre la coltivazione intensiva di foraggere, edificare silos, costruire stalle igienicamente attrezzate, preparare un personale che sappia assolvere le sue mansioni con adeguata capacità… È una riforma di struttura questa, che ha per base il bovino da reddito; l’iniziativa privata pugliese la effettua eroicamente, in piccola scala, con un bilancio di entrata e di uscita che rasenta il pareggio solo per l’apporto lavorativo non conteggiato del proprietario e dei suoi numerosi famigliari.

    Le importazioni del bestiame bovino da reddito vanno lentamente ma gradatamente aumentando, ed il miglioramento delle razze tende ormai a generalizzarsi con l’introduzione della bruno-alpina e dell’olandese. L’aumento del consumo del latte ha favorito questa immigrazione, localizzandola essenzialmente entro aloni che circondano le maggiori città.

    Ma secondo alcuni studiosi il problema dei bovini può risolversi rivalorizzando la razza locale podolica-pugliese ed affrontando il problema foraggero che è alla base di ogni miglioramento zootecnico. La razza pugliese ha equilibrate attitudini alla carne, al latte e al lavoro, ciascuna delle quali può essere utilmente esaltata con adeguati accorgimenti.

    Nel Tavoliere vivono ancora circa 2000 bufali; il latte è utilizzato per la produzione delle ottime scamorze e mozzarelle locali.

    Il problema dell’incremento ovino non è meno complesso di quello bovino, perchè si tratta di trasformare in gran parte un indirizzo zootecnico che vige da secoli. L’ovino transumante ha sue particolari esigenze e non può essere trasformato in ovino stanziale, senza una adeguata preparazione dell’ambiente o senza avere eccitato nel soggetto nuove attitudini.

    Il problema non presenta gravi difficoltà nel Salento e nelle Murge Alte, ma risulta abbastanza spinoso nel Tavoliere. La razza ovina qui prevalente è la gentile di Puglia ottenuta a suo tempo con incroci di merinos spagnoli, che trascorre i mesi estivi nei pascoli di media e alta montagna, come la Maiella e il Gran Sasso. Costringere questa razza alla canicola del Tavoliere vuol dire aumentare il coefficiente di mortalità, o, il meno che possa capitare, deteriorare le qualità e le quantità di produzione di lana, di latte e di carne.

    Pure in questo caso si impone la diffusione delle foraggere, il reperimento dell’acqua, la creazione di zone d’ombra molto ventilate, un nuovo sistema di pascolo estivo.

    Vantaggiosi risultati sono stati ottenuti nell’allevamento stanziale di razze ovine altamurane e leccesi, più adatte della pecora gentile a superare il periodo caldo del Tavoliere. La pecora altamurana ha però scarsa attitudine al latte, e l’incrocio effettuato con l’ariete leccese ha dato risultati migliori, ma non lusinghieri. L’introduzione dell’ariete sardo ha portato a risultati soddisfacenti, ma per ora non è stata possibile una generalizzazione in tal senso.

    Non sembra destinato a diffondersi il tentativo fatto nel Tavoliere di allevare la pecora caracul, per mancata convenienza economica.

    Il Gargano ha una qualità locale caprina molto apprezzata, resistente alle malattie, caratterizzata dal vello nero lucido. L’incrocio con il becco maltese contribuisce a darle una maggiore attitudine lattifera, mentre essa è adatta per carne, della quale si fa notevole uso.

    L’allevamento dei suini è ancora brado nel Gargano, nell’Appennino di Capitanata e nelle Murge Alte, mentre nelle altre zone è semistallino e stallino. Dal Gargano i suini sono condotti « in Puglia », cioè nel Tavoliere, il mese di giugno per mangiare la spiga e sono ricondotti in montagna nel mese di settembre. Come si nota è una transumanza inversa.

    Nell’Appennino di Capitanata la razza suina è la casertana, rustica e robusta, mentre nel resto della Puglia va diffondendosi un meticciato York-romagnolo-peru-gino di pregi economici molto notevoli.

    Il cavallo è stato particolarmente curato in Puglia e Foggia, divenuta sede dal 1928 di un deposito stalloni, che ha giurisdizione nelle province degli Abruzzi e Molise e della Puglia. Il cavallo murgese, risultato dalle cure che ad esso posero i conti di Conversano, è il migliore della Puglia per la sua forza e per la grande resistenza alla fatica durante i periodi caldi. Esso è adatto principalmente al tiro e alla sella, e, anche se non elegante come un puro-sangue, rende servizi di gran lunga migliori per le esigenze agricole.

    Sono pure diffusi cavalli di razza salernitana e maremmana, qui introdotti dopo l’unità d’Italia.

    Tra gli asini ha fama quello di Martina Franca, richiesto in molti paesi europei, africani ed americani. Esso ha attitudini, come l’asino ragusano — che sarebbe una sua derivazione — alla produzione di muli di taglia grossa. Per tale scopo ha notevole importanza la fattrice delle Murge, che completa il quadro zootecnico pugliese, particolarmente vantaggioso nel settore equino.

    Le principali produzioni zootecniche pugliesi consistono in carne da macello. Ho già notato l’uso di carne equina da parte della popolazione pugliese, che macella annualmente un numero di equini (42.500 nel 1957) superiore a quello di ogni altra regione, persino dell’Emilia-Romagna, ove nello stesso anno sono stati macellati 35.900 equini. Il quantitativo pugliese è pari al 20% di quello nazionale.

    Pure cospicuo è il numero di ovini e caprini macellati (600.700), inferiore soltanto a quello della Sardegna (752.800), che è però forte esportatrice. La Puglia macella il 13% del patrimonio ovino e caprino nazionale.

    Le cose cambiano con i bovini, macellati in numero relativamente esiguo (66.600) per cui la Puglia è al tredicesimo posto nella graduatoria regionale preceduta nell’ordine dalla Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto, Toscana, Campania, Lazio, Sicilia, Liguria, Marche, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige. Il risultato pratico dell’accennato ricordo statistico è che il pugliese consuma circa 3 kg. di carne bovina, mentre la media nazionale è di quasi 9 chilogrammi.

    Per il consumo dei suini la Puglia è al quindicesimo posto: nel 1957 sono stati macellati 79.400 capi. Il consumo pugliese supera come valore assoluto quello della Basilicata, del Trentino-Alto Adige, della Liguria e della Valle d’Aosta. In Puglia si consumano kg. 1,3 di suino a testa in un anno, mentre la media nazionale corrispondente è di circa 7 chilogrammi.

    Allevamento e acqua.

    Il latte bovino prodotto in un anno è valutato a 647.800 hi.: quantitativo che classifica la Puglia al tredicesimo posto e che precisa un consumo medio di circa 15 litri, di fronte ad una media nazionale di 131. Per il latte ovino-caprino la Puglia è invece al quarto posto con 363.000 hi., preceduta dalla Sardegna, Sicilia, Calabria.

    La produzione lorda vendibile di formaggio è di 58.000 q. (anno 1957) in assoluta prevalenza di formaggio pecorino canestrate.

    Un altro prodotto importante dell’allevamento è la lana, che classifica la Puglia (14.537 q. di lana sucida nel 1957) al terzo posto dopo il Lazio e la Sardegna. L’ariete gentile di Puglia transumante produce la più bella lana bianca d’Italia, di eccezionali qualità; invece la stessa razza stabulata in Puglia ha prodotto lana di pregio inferiore. La pecora pugliese ha un ambito primato per la produzione della lana: un solo capo ne ha dato quasi sette chili (lana sucida). Si tratta di rese eccezionali, ma evidentemente anche di traguardi che si possono razionalmente raggiungere.

    Il problema di base della bonifica pugliese è quello della sistemazione idraulica durante l’inverno…

    …e dell’irrigazione durante l’estate, Ecco una galleria di deviazione delle acque del Fortore.

    Le bonifiche

    La lotta dell’uomo per la redenzione del suolo in funzione della vita, ha in tutta l’Italia realizzazioni poderose e magnifiche. La Puglia non è da meno delle regioni consorelle, dando anch’essa il suo contributo a quell’indice di civiltà, che è appunto espresso dal risanamento della terra affinchè l’uomo possa trascorrervi una esperienza di vita che valga la pena di essere vissuta.

    La bonifica sotto forma di miglioramento fondiario sfugge all’indagine storica per mancanza di adeguata documentazione. Non risultano opere di bonifica svolte in età classica, nè è da supporre che ne esistesse il bisogno, perchè la bonifica si effettua quando necessitano le terre o quando si devono risanare in funzione di una pubblica utilità igienica od economica. Inoltre, più che impegnarsi in un’opera di bonifica, si preferiva trasferire gli abitanti in località più salubre. Quanto avvenne sulla costa del Tavoliere del Golfo di Manfredonia nel secolo XIII con il trasferimento di Manfredonia, era già avvenuto circa tredici secoli prima, quando la Salapia greca, tra Zapponeta e Torre Pietre dovette essere abbandonata forse per gli impaludamenti provocati dal torrente Carapelle. La Salapia romana — com’è noto — sorse il 29 a. C. presso il lato nord-occidentale del Lago Salpi. Anche qui le condizioni igieniche del tutto avverse costrinsero nel secolo IX all’abbandono dell’abitato, ed i superstiti si dispersero nei centri e nelle campagne più salubri.

    Questo arretramento dell’uomo innanzi alle condizioni repulsive della natura, documenta una situazione che in talune parti della Puglia andava generalizzandosi nelle zone costiere, specialmente del Leccese e nel settore sud-occidentale del Capo.

    L’alto Medio Evo con gli ordini religiosi espleta un’opera di limitato risanamento, com’è avvenuto nell’area pedegarganica ad opera dell’Abbazia di San Leonardo. In una zona più meridionale del Tavoliere, a partire dal secolo XVII svolsero opera di bonifica i Gesuiti, ai quali si deve la fondazione di Orta Nova. In seguito alla soppressione dell’ordine nel 1773, i beni furono incamerati dallo Stato e si procedette — come è stato già detto — alla fondazione di Ordona, distrutta da Ferdinando I di Aragona nel 1489, con 93 famiglie; di Stornara, con 83 famiglie; di Stornarella, con 73 famiglie; di Carapelle con 56 famiglie. Orta Nova fu accresciuta con 125 famiglie. Questi centri formarono i « cinque reali siti ». Ricorderemo inoltre che a Ferdinando II di Borbone si deve la fondazione, nel 1847, di San Ferdinando di Puglia con 209 famiglie.

    La bonifica si impone come problema di stato a cominciare dal secolo XIX, cioè da quando si risentono gli effetti del notevole incremento di popolazione che si è verificato nel secolo precedente.

    In Puglia l’attenzione è rivolta ai ristagni costieri, sempre più malefici e repulsivi. Il primo tentativo di bonifica è stato realizzato per il Lago Salpi nel 1811 e fu sospeso nel 1813. Nell’anno successivo il lago veniva acquistato dal governo e ad esso rivolse i suoi progetti di bonifica C. Afan de Rivera.

    Tentativi generosi di bonifica non mancarono certamente prima dell’unità d’Italia; ma furono molto limitati e rimasero allo stato di teorica preoccupazione da parte dei governi del tempo. Il problema peraltro andava aggravandosi non solo come disordine di acque e perdita irreparabile di suolo, ma come causa di aumento della mortalità per malaria.

    Il 3 dicembre 1878 fu presentato al Parlamento un progetto di legge sulle bonifiche delle paludi e dei terreni paludosi, che prospettava l’urgenza dei lavori per le seguenti località : Gronde del Lago Salso – del Lago di Lésina – del Lago di Varano -Lagrimaro – Stagno Sant’Egidio – Passo di Orta e Palata – Fontine o stagni del bosco

    Maresca – Zone lungo il torrente Cervaro (provincia di Foggia); Padule di Masia -d’Isabella – di San Francesco all’Arena – di Fesca – paduli lungo la destra dell’Ofanto -di Bitonto (provincia di Bari); laguna e palude fiume Grande – Valle Ponte Grande -laghi Alimini e Fontanelle – paludi Sansi e Pozzelle – paludi in Val d’Idro e Bianca (provincia di Lecce). Nel complesso l’area da bonificare era di 3519 ha., di cui 2529 in provincia di Foggia, 643 in provincia di Bari e 347 in provincia di Lecce, che allora comprendeva anche le attuali province di Brindisi e di Taranto.

    Bonifica nel Tavoliere presso le ripide pendici garganiche.

    Tutti i progetti di bonifica non prevedono la colonizzazione, ecc., ma soltanto il riordinamento idraulico delle zone anzidette. Tanto per la cronaca, ricorderemo che il progetto fu ripresentato al Parlamento nel maggio 1882, e che la legge relativa ha la data del 22 giugno 1882.

    Da allora fu iniziato il lungo cammino del quale si vedono già i progressi, i vantaggiosi risultati e taluni traguardi fondamentali non molto lontani.

    Delle principali opere di bonifica anteriori alla legge Serpieri sulla bonifica integrale (anno 1929), ricordiamo quella del lago di Lésina, condotta con tentativi non sempre felici a cominciare dal 1873. Dal 1892 al 1897 l’abitato di Lésina fu difeso dalle inondazioni mediante dighe e colmate artificiali. Nel 1900-03 fu aperto un canale attraverso il cordone litoraneo per consentire lo scambio e lo sfocio delle acque ; sino alla prima guerra mondiale si provvide a sistemare le gronde paludose presso l’abitato per una superficie di circa trentanove ettari.

    Nel lago di Varano la bonifica si incentrò durante la prima guerra mondiale nella zona di San Nicola-Capoiale, utile ai fini strategici. La costruzione della foce di Capoiale e la manutenzione delle opere realizzate hanno richiesto un lavoro continuo e permanente anche dopo la guerra.

    Le paludi Sipontine, che avevano una estensione di 360 ha., furono in parte prosciugate mediante idrovore. La zona del lago Salso, pure mediante idrovore e vasche di colmata, è stata in gran parte ridotta, essendo scomparsi il lago della Contessa, ove immetteva la Marana di Foggia, il lago Verzentino e le gronde più interne del lago Salso, ospitante le acque del Candelaro e del Cervaro.

    Più a sud il lago Salpi alla data della legge Serpieri, risultava già colmato nel settore settentrionale a ridosso di Zapponeta, mediante le torbide del Carapellotto mentre a sud era colmata tutta l’area a ridosso di Margherita di Savoia mediante il Canale Ofantino. La bonifica consentiva in tal modo l’ampliamento delle saline, con costruzione di nuove vasche salifere a diversa altezza. Il lago, già di 3500 ha., era ridotto a circa 1600 ha. con profondità di circa novanta centimetri.

    Lavori con risultati concreti erano stati pure condotti a termine con la bonifica di San Cataldo, nella costa del Leccese, mediante sollevamento e canalizzazione delle acque. Di particolare interesse risultava l’inizio della costruzione di Borgo Piave, ormai affermato centro rurale con 207 abitanti. Più a sud, anche l’area dei laghi Lìmini o Alìmini era già in parte bonificata con l’estinzione delle aree acquitrinose di palude Zuddea e di palude Malaperza.

    La costituzione dei Consorzi di bonifica si ebbe nel 1927 per l’Arneo, dal 1927 al 1933 per il Tavoliere, nel 1934 per La Stornara. L’Opera Nazionale Combattenti espletò le sue opere di bonifica nel Tavoliere di Puglia (comune di Foggia e altri), negli arenili di Barletta, nel vallone della Sicilia (comune di Santeramo in Colle e altri), nella Stornara (comune di Ginosa e altri), a Pantano e Cagiuni (comune di Taranto e altri), nella salina San Giorgio (comune di Taranto ed altri), a Porto Cesàreo (comune di Nardo), a San Cataldo (comune di Lecce ed altri). La superficie attribuita all’Opera era di circa 30.000 ettari.

    Nonostante tale attività, la seconda guerra mondiale segnò un rallentamento generale nel ritmo della redenzione della terra.

    Allo stato dei fatti, nel 1942 sul totale dell’area pugliese da bonificare, il 60% era in corso di bonifica, il 34% presentava ultimate solo le opere pubbliche, nel 5,43% non erano ancora iniziati i lavori di opere pubbliche. In realtà solo il 5,57% del complesso programma di bonifica era stato condotto interamente a termine.

    Il dopoguerra maturò nuovi programmi ed ulteriori prospettive di rinascita entro il piano della ricostruzione. I Consorzi di bonifica pugliesi, immediatamente dopo la guerra erano: Consorzio Generale della Capitanata, con 452.459 ha.; Fossa Pre-murgiana 131.950 ha.; Stornara, con 17.800 ha.; dal 1947 iniziarono la loro vita l’Ente irrigazione di Puglia e Lucania, il Consorzio di bonifica Li Foggi, con 6.635 ha., tra il Consorzio di bonifica Arneo a nord e il Consorzio di bonifica Ugento a sud.

    Nel 1947 si procedette alla istituzione dell’Ente per lo sviluppo della irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania, che nella preoccupazione di rifornire razionalmente di acqua le campagne meridionali vedeva lo strumento indispensabile della riuscita di ogni locale iniziativa di riforma fondiaria. L’Ente articola e sviluppa le sue iniziative raggruppandole in tre « attività » : attività di propulsione e di studio, attività di coordinamento, attività operativa. Queste attribuzioni sostengono le numerose competenze e finalità dell’Ente, e affidano al medesimo la possibilità di agire in più settori, simultaneamente e globalmente, realizzando una compiuta opera di riforma agricola. L’attività dell’Ente dal 1950 è stata potenziata dalla Sezione Speciale per la Riforma Fondiaria, che — per quanto si riferisce alla Puglia — espleta la propria attività in quasi tutto il Tavoliere includendovi parte dell’Appennino di Capitanata e del Gargano settentrionale (sino al lago di Varano), la media valle dell’Ofanto, tutta la Murgia Alta, sino ai confini amministrativi della provincia di Bari, tutta l’area sudoccidentale delle Murge e del Metapontino pugliese includendo le sorgenti del Tara; rientrano infine nel comprensorio due settori costieri salentini: quello sullo Ionio, nel quale ricadono le superfici comunali di Nardo e di Avetrana (Arneo) e quello sull’Adriatico che da Torre Santa Sabina giunge, senza soluzioni di continuità, a Santa Cesarea Terme. Maggiori precisazioni si rilevano dalla consultazione della carta relativa ai Consorzi e Comprensori di bonifica pubblicata dall’Ente.

    Vomeri d’acciaio redimono la terra

    Il programma delle opere approvate dalla Cassa per il Mezzogiorno nei comprensori di bonifica, prevede perla Puglia un totale di spese di quasi 25 miliardi tra studi e ricerche, sistemazioni montane, opere idrauliche, opere irrigue, opere stradali e civili.

    L’opera di bonifica espletata sinora nel lago di Lésina, condotta con particolari avvertenze per salvaguardare l’economia locale, è stata iniziata con l’apertura di due foci lungo il cordone litoraneo, una ad Acquarotta e l’altra allo Schiapparo. In seguito all’immissione di acqua marina, la salinità media del lago è salita al 22°/oo. Per eliminare le lame sottili lungo il perimetro e per contenere le acque di piena, si arginarono e banchinarono sino al 1955, 25 km. di sponde, dalla foce di Acquarotta al fiume Lungo. Altre opere hanno di gran lunga migliorato la situazione igienica del centro di Lésina, mentre nel settore orientale del lago sorgono case e coltivi, che trasformano la inutile e anzi dannosa steppa precedente in campagne fiorenti.

    Anche la salsedine del lago di Varano, con la continua attivazione delle foci di Varano e Capoiale, si aggira sul 22°/oo. Le circostanti aree paludose, opportunamente isolate con argini, vengono prosciugate o mediante l’espulsione delle acque con impianti idrovori, o mediante colmamento. La colmata è effettuata con dragaggio del fondo del lago, ed accumulo del materiale ottenuto nell’area da bonificare.

    Il lago Salso è quasi scomparso e le carte più recenti della zona lo omettono indicando semplicemente : Vasche di Colmata. E inoltre scomparso il lago di Salpi, graficamente indicato nelle carte con i simboli propri delle saline e con la scritta generica di Saline.

    Radicali trasformazioni sono avvenute nella Puglia ionica ad ovest di Taranto, dove il pantano della Stornara, gli impaludamenti le Massaggiole, le saline tra il mare e la Gravina di Laterza, le paludi del Patemisco e le paludi del Tara sono soltanto un triste ricordo di un recente passato. Dove era solitaria la stazione di Ginosa, oggi si sviluppa un centro nuovo fervido di vita tra campi irrigui, ove tabacco e grano, olivi e agrumi trovano un ambiente agrario idoneo al massimo rendimento.

    Come in tutte le regioni subtropicali con elevato indice di aridità, la soluzione del problema dell’acqua è a fondamento dell’economia agraria della Puglia. Il reperimento, la conservazione, la distribuzione delle acque per l’agricoltura, hanno costituito assilli di non minore momento di quelli che, giustamente in primo luogo, sono stati eccitati dalla indispensabile necessità di approvvigionare le popolazioni di acqua potabile.

    Vedi Anche:  Popolamento ed emigrazione

    Non si conosce con esattezza l’estensione dell’area irrigata in Puglia. Secondo il Di Lonardo essa era di circa 7000 ha. nel 1945: valore del tutto irrisorio, perchè costituisce il 0,3% della superficie territoriale pugliese. V’è però da notare che in questo quindicennio v’è stato un notevole incremento ad opera di Enti di bonifica e di riforma, e che pertanto si ha motivo di ritenere che l’area irrigata possa valutarsi intorno a 25.000 ha. circa. Di questo incremento parleremo a proposito della cosiddetta grande irrigazione, ma sia detto fin d’ora che è ben poca cosa, essendo valutata la superficie irrigabile pari a 146.360 ettari.

    La piccola irrigazione non è molto diffusa in Puglia per la quasi totale mancanza di sorgenti e di terreni con falde freatiche poco profonde. Le aree della piccola irrigazione si diffondono lungo le coste. Ne beneficano a settentrione gli agrumeti di Rodi Gargànico, talune aree presso Pèschici e presso Vieste. A sud di Manfredonia è a coltura irrigua la zona delle « sciale », e accompagnata da orto irriguo si defila la costa sabbiosa da Zapponeta all’Ofanto e a Barletta. Tutta la Murgia Costiera, tranne poche soluzioni di continuità è irrigua, ed insieme con gli orti per l’approvvigionamento dei mercati locali, si sviluppano colture industriali da esportazione (soprattutto carciofi). Grosse norie in legno raccolgono l’acqua preziosa in capaci bacini di distribuzione.

    Una « borgata » sorta in icona di bonifica (Ginosa Marina).

    Nel Salento sono più diffuse circoscritte aree interne, adibite ad orto irriguo. Identico fenomeno avviene nelle Murge ad Altamura, ad Acquaviva delle Fonti e a Corato.

    La grande irrigazione è allo stadio iniziale. Nel Tavoliere potranno beneficiare di irrigazione altri 67.000 ha. di terreno, quando sarà ultimata la diga in corso di costruzione sul Fortore, in località Occhito, in provincia di Foggia. La diga, in terra, ha un’altezza massima di 60 m., con larghezza di base di 360 m. e in sommità di 11 m. La lunghezza è di m. 450. La massima altezza di ritenuta del bacino di invaso è di 53 m. e la capacità totale è valutata a 333 milioni di me. mentre quella utile si aggira sui 250 milioni di metri cubi. Si formerà in tal modo un bel lago vallivo, sviluppato soprattutto in senso nordsud, lungo circa 10 km. e largo in media 1 km., che avrà una superfìcie di circa 10 chilometri quadrati.

    Tipo prevalente di casa colonica nelle aree di bonifica pugliese.

    Pure sul Fortore è in costruzione la traversa di Santa Maria, che determinerà un invaso d’acqua di circa 49 milioni di metri cubi. La utilizzazione irrigua delle acque del Fortore, con opportuna canalizzazione, arrecherà notevoli vantaggi alle campagne del basso Fortore, interessando soprattutto i comuni di Serracapriola e di Chièuti. Mediante una condotta forzata in galleria, lunga circa 7 km., le acque potranno essere convogliate verso Apricena — ove sono ampie superfìci a cotone — e verso sud, sino a Foggia.

    Abbiamo accennato a questo progetto perchè le opere sono in corso di realizzazione e costituiranno una componente formidabile per la trasformazione del Tavoliere. Un’altra opera in corso entro i confini della provincia di Foggia è la diga di sbarramento della Marana Capacciotti, della capacità utile di 39 milioni di metri cubi. Le acque saranno in gran parte convogliate nei territori ad occidente dell’abitato di Ce-rignola, e porteranno sino all’arido agro di Stornarella il sollievo di un’opera di alta civiltà.

    Intanto le contrade pugliesi beneficiano di acque trattenute in bacini artificiali costruiti sull’Òfanto, oltre i limiti amministrativi regionali. Una è la traversa di derivazione a Ponte Santa Venere, e l’altra è la diga di invaso sul Rèndina in località Abate Aionia.

    Le acque dell’Òfanto consentiranno di irrigare effettivamente e razionalmente circa 18.000 ettari. In parte, sulla destra dell’Òfanto, l’irrigazione è già in atto, e risponde in pieno alle previsioni, che avevano supposto miglioramenti economici persino nella misura del 300%, e per l’aumento del carico di bestiame persino del 460%.

    Le acque raccolte nel bacino formatosi in seguito allo sbarramento del Bràdano a San Giuliano, consentono la irrigazione dell’area compresa tra il Torrente Galeso e il Bràdano.

    Ad oriente del Galeso si estende un altro comprensorio, ampio circa 7000 ha., dei quali si possono irrigare 5600 ha. con le acque del Tara, il breve fiume il quale ha una portata costante di 4000 l./sec. Due impianti di sollevamento provvedono alla distribuzione delle acque, che hanno consentito un rifiorimento di questa plaga, ormai verdeggiante e produttiva anche durante la riarsa canicola estiva. Il popolamento con oltre 200 nuove famiglie contadine ha coronato il successo dell’opera.

    A nordovest di Brindisi, nell’area dello stesso comune, affiorano le sorgenti Là-pani o ‘Apani, con una portata di circa 200 l./sec. La captazione e la canalizzazione hanno reso possibile la irrigazione effettiva di 300 ettari.

    Il lago Fontanelle è alimentato da affioramenti della falda carsica profonda, la quale è sufficiente per irrigare effettivamente 500 ha. di terreno, formato per quasi metà dalle gronde del lago, e per il resto da un’area più elevata verso l’Adriatico.

    Altra area irrigata è in comune di Manduria, e si connette col flusso di ben 2700 l./sec., della sorgente Chidro. L’ampiezza del territorio che beneficia della irrigazione è di circa 3000 ha., distribuiti lungo una fascia costiera che si prolunga nello Ionio fra Torre Columena e Maruggio, e ricade per il 70% circa nel comprensorio di bonifica dell’Arneo.

    Un gruppo aziendale nelle Murge (Gurio Lamanna).

    L’irrigazione mediante acque sotterranee profonde va sempre più estendendosi; sino a tutto il 1955 erano utilizzati 8500 l./sec. su un’area di 17.500 ha. Di questi, 10.000 erano di iniziativa ed uso privato, ed il resto di iniziativa dell’Ente irrigazione e della sezione riforma fondiaria, e di uso collettivo. Sino ad oggi tutti i quantitativi sono andati aumentando, e si prosegue verso una più intensiva utilizzazione di queste acque, le quali eliminano in gran parte l’alea dell’agricoltura pugliese.

    L’irrigazione oasistica con acque sotterranee interessa il Tavoliere in corrispondenza dell’area del medio e basso Carapelle, tutta la fascia costiera delle Murge, che prosegue nel Salento all’incirca fino a Capo d’Otranto ed infine tutta la fascia costiera del Golfo di Taranto. I due opposti versanti del Salento sembrano inoltre collegati da un ampio bacino naturale emuntore sotterraneo, che si estende in corrispondenza della strozzatura della penisola, che ha come asse la congiungente Porto Cesàreo-Lecce-San Cataldo.

    Questo immenso patrimonio di acque sotterranee non è ancora utilizzato interamente, ma ci si avvia con la necessaria cautela che eviti ogni possibilità di depauperamento delle falde. Peraltro, i problemi connessi sono molteplici e vanno dal più

    utile impiego delle acque come sistema di irrigazione alla determinazione di più appropriati ordinamenti produttivi, in rapporto a questa benefica rivoluzione economica, che riguarda non soltanto la terra, ma lo stesso umile contadino e l’intera collettività rurale pugliese.

    L’utilizzazione del bosco

    La limitata estensione del bosco non qualifica la nostra regione fra quelle che si segnalano per notevoli quantitativi di prodotti forestali. Come produzione totale di legname da lavoro la Puglia sarebbe all’ultimo posto, se un tenue scarto non le facesse superare le Marche. Ma la Puglia ha due province che non producono affatto legname da lavoro: Brindisi e Lecce; soltanto la Sicilia presenta province con questo inglorioso primato: Agrigento, Caltanissetta e Siracusa.

    La produzione pugliese riguarda principalmente tondame da sega, che proviene soprattutto dalle foreste garganiche in misura di circa 6000 me. all’anno. Si tratta essenzialmente di faggio e di pochi quantitativi di acero e di rovere, acquistato dalle industrie di mobili della Brianza, presso la segheria del Mandrione, ubicata lungo la strada nazionale tra Pèschici e Vieste. E prodotto pure un piccolo quantitativo di legname per traverse, proveniente dai Monti della Daunia.

    Un « centro di servizio » nel Tarantino (Conca d’oro).

    Anche la provincia di Taranto dà il suo contributo in tondame da sega, che supera di poco i iooo me. e che riguarda essenzialmente resinose di alto fusto.

    Tutte le province pugliesi producono legname da ardere e fasciname, sebbene in misura limitata; lo stesso dicasi per il carbone e la carbonella. Questa attività va rapidamente contraendosi per la diffusione del gas in bombole. Anche il mestiere di carbonaio comincia ad essere abbandonato dagli stessi Montanari (gli abitanti di Monte Sant’Angelo), che hanno una particolare competenza di mestiere. Esiste infatti la carbonaia garganica, grandiosa e tale da poter produrre da duecento a cinquecento quintali di carbone in una sola volta. Essa però è molto pericolosa, perchè durante i primi giorni di combustione l’operaio addetto deve entrare carponi dalla por-tella al centro della carbonaia per controllare se il fuoco è acceso.

    La necessità di questo controllo ha causato la morte a più di un operaio, per cui il sistema della carbonaia garganica è stato abbandonato e sostituito con la carbonaia perugina. Questa rende di meno, ma evita la morte per asfissia. I Montanari hanno appreso il nuovo sistema quando, ingaggiati dalle Ferrovie dello Stato dal 1917 al 1924, hanno lavorato nella foresta Umbra carbonai provenienti dal Perugino.

    Altri prodotti non sono da citarsi che per pro-memoria, come le castagne, in misura di circa 5000 q., le ghiande (in provincia di Foggia, 7000 q.), e i funghi. Una certa importanza ha la produzione della resina per colofonia e pece greca nelle due province di Foggia e di Taranto.

    Nei secoli XVIII-XIX si produceva la manna nei boschi del Gargano ricchi di orni. La Difesa Vota, in territorio di Monte Sant’Angelo, era la più produttiva; ma soprattutto la distruzione degli orni, fece sì che, dopo l’unità d’Italia, anche questa forma di sfruttamento decadesse irreparabilmente.

    Nonostante l’esigua superficie del bosco, esso giova agli abitanti per gli usi civici concessi, soprattutto per pascolo suino e provvista di rami secchi. Ma questo vantaggio si riversa su una scarsa quantità di popolazione dei comuni del Gargano e dei Monti della Daunia.

    La pesca

    Quale parte abbia la pesca nella tradizione economica del popolo pugliese, può essere ricavato senza sospetto dal Tableau topographique et historique des isles d’Ischia, de Ponza, de Vandotena, de Procida et de Nisida ; du Cap de Miserie et du Mont Pau-silipe, redatto da un anonimo Ultramontain, e pubblicato dal Porcelli, a Napoli, nel 1822. L’autore che scrive in corrente francese, dice: «In autunno i pescatori della provincia di Bari lasciano in gran numero i loro focolari per correre i mari su una specie di piccoli natanti scoperti, detti Paranzelle, dalla parola Paro, perchè queste barche devono sempre andare a due a due per avere la possibilità di tirare le loro grosse reti. Da Bari e da Trani queste barche si dirigono dapprima verso sud, e fanno successivamente il giro di tutte le coste del regno di Napoli, fermandosi ovunque per pescare quando il tempo le favorisce. A metà inverno si vedono ordinatamente comparire nel Golfo di Gaeta, e dopo aver esercitato la propria attività per circa due mesi, queste paranzelle riprendono la loro rotta verso il nord, fino all’estremità della spiaggia romana. E là che esse virano di bordo, per ritornare sempre pescando nei luoghi donde son partite, e cioè in Puglia.

    Monopoli. Antichi bastioni e vecchio porticciolo.

    « Nel Golfo di Gaeta i Baresi non hanno bisogno di scendere a terra per vendere il pesce: gli incettatori di Napoli vengono ad acquistarlo ogni giorno in pieno mare. Inoltre questi Baresi, sapendo ch’essi sono ritenuti come una sorte di ospiti non graditi, non si avvicinano a riva senza necessità. Nella notte, quando il tempo è troppo cattivo, essi si ritirano in qualche ansa nascosta e solitaria, per riprendere subito il largo appena è possibile. Essi sono ritenuti fra i più arditi ed intrepidi marinai, e si allontanano dalla costa molto più di tutti gli altri pescatori. Noi li abbiamo spesso veduti tenere il mare e affrontare con le loro paranzelle scoperte, il furore dei marosi e dei venti, quando gli isolani del Golfo di Napoli e gli stessi Torresi si affrettavano a tirare a secco le barche. In una parola i Baresi sono i nomadi di questi mari ».

    E da cogliersi come una documentata testimonianza questa frase di nomadi del mare, attribuita ai pescatori pugliesi, soprattutto valida ai giorni nostri, in cui grosse difficoltà d’ordine internazionale allontanano i pescatori dai più noti pescosi paraggi dell’Adriatico, inducendoli alla non sempre fortunata ricerca di nuovi banchi di sfruttamento.

    Tutti i centri costieri pugliesi, anche i minori, sono in varia misura attrezzati per la pesca, che è pure caratterizzata da impianti fissi e da villaggi pescherecci. Bari, Brindisi e Taranto sono sedi delle Capitanerie di Porto. Dalla capitaneria di Bari dipendono l’ufficio circondariale marittimo di Molfetta, di Barletta, di Manfredonia ; dalla capitaneria di Brindisi quello di Gallipoli. Trani è sede di ufficio marittimo locale dipendente da Bari. Sono infine sede di Delegazione di spiaggia Trèmiti, Lésina, Rodi Garganico, San Menaio, Pèschici, Vieste, Margherita di Savoia, Bisceglie, Gio-vinazzo, Santo Spirito, Torre a Mare, Mola di Bari, Polignano a Mare, Monopoli nell’area giurisdizionale di Bari; Torre Cesàrea, Villanova, San Cataldo, Sant’Andrea, Otranto, Castro, Tricase, Leuca, Nardo nell’area giurisdizionale di Brindisi.

    Nelle circoscrizioni marittime minori risultano fusi centri di una certa rilevanza in cui si esercita attivamente la pesca, come Cagnano Varano, o piccolissimi centri, non meno attivi e non meno caratteristici, come Savelletri nel litorale adriatico.

    Tutti questi grandi e piccoli propulsori economici, che estendono la loro attività sugli specchi d’acqua antistanti, hanno dato nel 1958 una produzione ittica annua complessiva di 294.062 q., preceduta soltanto da quella siciliana, e pari al 15% della produzione nazionale.

    Pesca.

    Nel totale regionale, il pesce azzurro (alici, sarde e sgombri) rientra col 24%, mentre le altre qualità figurano per il 32%. Esigua, ma presente, la produzione di tonnara, che raggiunge i 400 quintali.

    Per i molluschi: seppie, polpi e calamari, la Puglia ha un primato nazionale, al quale dànno il maggiore contributo i litorali delle province di Bari e di Foggia. Altro primato riguarda i molluschi lamellibranchi, con un contributo determinante dato da Taranto. La produzione pugliese in questo specifico settore è del 38% di quella nazionale. Per i crostacei invece la Puglia è preceduta dalle Marche, Sicilia, Veneto, Lazio ed Emilia-Romagna.

    La valutazione dell’apporto economico pugliese in questo settore, può essere meglio compresa attraverso le vendite effettuate nei suoi mercati all’ingrosso, ove si contratta per circa due miliardi e mezzo di lire all’anno, pari al 15% del totale nazionale. Questo valore riguarda soltanto il pesce; per i molluschi la Puglia dà un contributo di oltre un miliardo di lire, pari al 30% del totale nazionale; di gran lunga minore è la contrattazione dei crostacei, che supera di poco i centocinquanta milioni di lire, pari a quasi il 9% dell’ammontare nazionale.

    Scorcio panoramico e porto di Molfetta.

    Pronti per salpare.

    I mercati all’ingrosso sono Lésina, Manfredonia, Margherita di Savoia, in provincia di Foggia; Barletta, Molfetta, Bari, Mola di Bari, Monopoli, in provincia di Bari; Taranto, Gallipoli in provincia di Lecce.

    E nei mercati della provincia di Bari che si svolge il massimo di contrattazioni e dove affluiscono non solo la maggiore quantità, ma anche la maggiore varietà di specie ittiche. Questi mercati si distinguono in campo nazionale principalmente per i quantitativi di pesce pregiato come menole, merluzzi, sgombri, razze, suri, triglie. Rilevanti pure gli afflussi di bobe, pagelli, potassoli, alici, sarde. Importanti in iscala nazionale sono i contingenti astati di seppie e di polpi; cospicui pure quelli di todari, di pannocchie e di scampi.

    II principale mercato di anguille è Lésina, in provincia di Foggia; esso è superato soltanto dai ben noti mercati di Comacchio e di Mèsola. Questa provincia si segnala pure per il commercio di muggine (Vieste), latterini (Manfredonia), triglie (Manfredonia e Margherita di Savoia). Discrete le produzioni di menole, merluzzi, potassoli, seppie, polpi e pannocchie.

    Un primato regionale tarantino è costituito dai quantitativi di sogliole, ghiozzi, aguglie, bisi, calamari e gamberi rossi. Discreti i quantitativi di alici, sarde, sgombri, bobe, latterini, suri e di aragoste. Accenneremo in seguito al forte commercio di mitili.

    Il mercato gallipolino ha, ovviamente, molta affinità per specie trattate, con quello tarantino. Si distingue tuttavia per i buoni quantitativi di crostacei, soprattutto aragoste e gamberi bianchi per ciascuno dei quali ha un primato regionale. Discrete le produzioni di aguglie, bisi e todari, più rilevanti quelle di pagelli, razze e sogliole. In complesso esiste tra i diversi mercati una differenziazione abbastanza accentuata, che richiama sui medesimi l’interesse di ogni categoria di consumatori, e che, nel complesso, rende attivo il commercio generale in tutti i mesi dell’anno.

    Alle specie ittiche anzidette bisogna aggiungere i tonni, che non figurano tra i prodotti commerciali nei mercati all’ingrosso perchè sono venduti direttamente a consumatori locali, e, in maggiori partite, sono già destinati all’industria. La produzione è di circa 400 q. (1,3% della produzione nazionale) e riguarda soprattutto le tonnare di Gallipoli.

    Un primato pugliese è costituito dalla mitilicoltura sviluppata nel Mar Piccolo. La quantità di prodotto, di circa quattro milioni e mezzo di chilogrammi all’anno (nel 1958, kg. 4.349.141), dà luogo ad una circolazione commerciale di mezzo miliardo di lire. Insieme con le coltivazioni di mitili (Mytilus galloprovincialis) e di mitilo peloso (Mediola Barbata), sono discrete coltivazioni di ostriche (Ostrea edulis).

    Le condizioni ambientali favorevoli a tali coltivazioni sono da ricercarsi nella temperatura sufficientemente elevata dello specchio d’acqua, nella ossigenazione delle sue acque dovuta a correnti marine, nella scarsa salinità per notevoli tributi d’acqua dolce determinati da apporti fluviali e da sorgenti sottomarine: i citri, ai quali si è fatto cenno a proposito della idrografia.

    Sciaie o quadri sono dette le aree di coltivazione e il relativo sistema che vi si impianta. In file parallele, lunghe da 50 a 100 m., con adeguata distanza si conficcano dei pali, collegati fra loro mediante funi. A queste vengono appesi i libani, o corde vegetali, sulle quali si sono fissate le larve dei mitili. Il tempo necessario per il compimento del ciclo produttivo si aggira sui dieci mesi.

    Le ostriche richiedono cure maggiori e più lunghe — circa due anni — delle cozze. Il procedimento di lavoro consiste nel sommergere durante la stagione calda, nei fondi scogliosi del Mar Grande, a circa 25-35 m– di profondità, fascine di lentischio opportunamente preparate. Le larve dell’ostrica si fissano sulle fascine, che vengono ritirate dopo circa due mesi di immersione. I ramoscelli del lentischio con i propri ospiti sono poi immersi nel Mar Piccolo, attaccati ai libani disposti verticalmente. Si è prima avuto cura di tagliare i rami di lentischio in pezzi (zèppare); un libano con le zeppare disposte una di seguito all’altro forma un pergolaro di ostriche.

    Ostriche e cozze sono molto esportate e l’area di influenza commerciale tarantina si estende al nord sino a Roma e ad Ancona.

    Miticoltura nel Mar Piccolo (Taranto)

    Il pescato pugliese ha un raggio commerciale cospicuo perchè fra i maggiori mercati di consumo figurano Roma, Napoli, Milano e Torino. Bari è la provincia pugliese che dà il maggiore contributo regionale (43%) a questo flusso commerciale, con un contingente che è di poco inferiore al massimo italiano rappresentato da Venezia. Per avere un’idea dell’entità del prodotto messo in circolazione, basti dire che tutta la produzione dei porti abruzzesi non raggiunge quella della sola provincia di Bari! Taranto (26%), Foggia (14%), Brindisi (9%), Lecce (8%), figurano con aliquote che gli esperti giudicano ancora di gran lunga al di sotto delle possibilità locali. La provincia di Bari ha pure il primato del tonnellaggio di naviglio a motore pugliese: esso è formato da 221 motopescherecci e da 219 motobarche, con un totale di 6722 tonn. di stazza lorda pari al 66% di tutto il tonnellaggio pugliese. Gli uomini di equipaggio sono 2493, pari al 61% del corrispondente totale pugliese, che è di 4088 addetti (al solo naviglio a motore).

    La Puglia possiede complessivamente 308 motopescherecci (sul totale nazionale di 3079), con una stazza lorda di 7992 tonn., e 475 motobarche (sul totale nazionale di 8795) con una stazza lorda di 2150 tonnellate. Mancano in Puglia motopescherecci con potenza nominale del motore di oltre 250 HP/asse, mentre i più numerosi sono quelli di bassa (non minima) potenza da 26 a 69 HP/asse. Il tonnellaggio maggiore però è costituito dai motopescherecci di media potenza, compresi tra no e 149 HP/asse.

    Ostriche, delizia tarantina.

    Pesca « grossa « di subacquei nelle Trèmiti.

    La maggior parte — circa i nove decimi — dei motopescherecci è attrezzata con reti a strascico; uno solo lavora con palangresi e pochi altri con fonti luminose. Un solo motopeschereccio è fornito di frigorifero, ghiacciaia, scandaglio e radiotelefono; in maggior parte gli altri hanno la sola ghiacciaia.

    Lo stato di conservazione del naviglio è ancora abbastanza buono, sebbene si abbia necessità di migliorare e completare l’attrezzatura, in relazione soprattutto alla particolare nuova situazione della pesca nell’Adriatico. La maggior parte dei motopescherecci ha un’età di impiego oscillante dai dieci ai venti anni, ma pure numerosi sono quelli che hanno superato i venti anni.

    Nel settore delle motobarche, meno impegnativo per l’organizzazione a terra, per l’anticipazione di capitale e per il peso finanziario dell’equipaggio, l’età di impiego per la maggior parte è sui cinque anni. Si tratta quindi di naviglio in ottime condizioni, verso il quale si indirizza la preferenza degli armatori, e che è spesso di proprietà diretta di uno o pochi pescatori-conduttori. La potenza più diffusa è quella massima consentita dalla convenienza economica di questo tipo di natante, e va da 16 HP/asse a valori di poco più elevati.

    L’attrezzatura prevalente è determinata dalle reti a strascico e dalle fonti luminose (lampare). Superiore è il numero di motobarche dotate di palangresi rispetto a quello che è fornito di reti da posta.

    Le barche da pesca, a remi e vela e soltanto a remi, sono 5299, il 16% del contingente nazionale. Il loro numero si risolve in un buon tonnellaggio di stazza lorda, quasi pari a quello dei motopescherecci. Nelle darsene e negli alaggi dei porti minori pugliesi, le barche da pesca si affollano fittissime, esprimendo l’importanza intramontata nell’economia locale della pesca a piccolo raggio, ancora sufficientemente produttiva in relazione alle sobrie esigenze della famiglia pugliese.

    Tra le pesche speciali possiamo ricordare quella delle seppie da marzo a giugno, effettuata entro una fascia da 300 a 400 metri parallela alla costa. Essa viene effettuata con apposite reti a tramaglio. Il numero dei concorrenti è tale da Manfredonia a Monopoli, che per evitare gravi conseguenze d’ordine pubblico, si è dovuta redigere una severa regolamentazione, che stabilisce un permesso preventivo per questo tipo di pesca.

    I sistemi di pesca più diffusi sono effettuati con reti a strascico, grandi e piccole, come ragni e ragistine.

    A seconda del tipo di pesca si usano pure le reti a strascico da terra, come sciabiche e sciabichelli. Quando si pesca con le lampare si utilizzano le reti da circuizione. Il pescatore pugliese usa con pari abilità e successo, a seconda dei casi la me-naide, i palangresi, i conzi, le nasse. A Taranto si osservano le nasse di maggiori dimensioni, molto usate anche perchè il fondale della zona orientale del golfo è così accidentato che non si presta alla pesca a strascico.

    La pesca con la lampara.

    Gli impianti fissi per la pesca, consistono nei cosiddetti trabucchi, formati da una piattaforma lignea di circa 20 mq. elevata dal suolo circa 3 metri. Nella piattaforma sono collocati una baracchetta per il pescatore e l’argano per azionare un’asta prolungabile sino a 10-15 m-> al termine della quale pende una rete quadrata. I trabucchi sono diffusi essenzialmente lungo la costa garganica, ma non mancano lungo quella delle Murge.

    I pescatori sono organizzati in cooperative, che hanno finalità mutualistiche ed assistenziali. Il credito è in genere svolto dal Banco di Napoli, mentre la F.A.R.P. provvede ad eventuali anticipazioni per l’acquisto di reti da pesca.

    Nonostante numerose provvidenze, le spese sempre più gravi riducono i margini di guadagno e pongono questa importante attività economica in uno stato di continuo disagio. La perdita dell’isola di Pelagosa ha ridotto di oltre il 50% le possibilità di lavoro, dando luogo ad una più forte disoccupazione periodica. I natanti di Bari e provincia hanno tentato di ripiegare nelle acque di Lampedusa, con esito che è stato definito disastroso, per la grande distanza, la esigua quantità e la scadente qualità del pescato.

    Un « trabucco » a Barletta

    Una « nassa » tarantina.

    A terra, nelle ore di sosta, si riammagliano le reti.