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L’allevamento, il bosco e la pesca

    Le altre attività primarie: allevamento, bosco, pesca

    Di fronte alle produzioni della terra, e in ispecie di alcune particolari colture, fan certamente figura di settori meno vivaci, e più attardati anzi — per quanto volti almeno in parte verso la ricerca di più moderne strutture e di soluzioni economicamente più valide — le altre attività primarie: e precisamente le attività dell’allevamento, l’economia forestale e la pesca, che variamente interessano, in tutta l’isola o in aree ben circoscritte o anche soltanto in centri determinati, una percentuale non trascurabile della popolazione attiva siciliana.

    L’allevamento: crisi delle antiche strutture e ricerca di un nuovo equilibrio

    I forti riflessi delle pratiche pastorali sul folclore della Sicilia suggeriscono chiaramente l’idea dell’importanza rivestita in un passato non ancora lontano dalle attività dell’allevamento. In effetti, economia latifondistica ed economia pastorale hanno costituito a lungo, e fino a qualche decennio addietro, un binomio di particolare forza: l’abitudine a lasciare al pascolo un terzo del latifondo frumenticolo significava appunto incrementare le mandrie bovine ed ovine. Nel quadro agricolo dei secoli scorsi, ma anche fin entro la prima metà dell’Ottocento — quando le colture più ricche erano meno sviluppate — l’allevamento, nelle sue diverse specie e nella sua pur prevalente forma brada e transumante, a carattere essenzialmente estensivo, doveva rivestire un peso ragguardevole: peso che oggi ha perduto, poiché l’incidenza del bestiame e dei prodotti zootecnici sulla produzione vendibile dell’agricoltura siciliana è appena del 14-16%. La crisi dei vecchi ordinamenti pastorali ha raggiunto la sua punta massima nel secolo scorso: una prima seppur ridotta frantumazione del latifondo, e l’estendersi della cerealicoltura in quel che vien detto latifondo contadino, hanno portato ad una rapida diminuzione delle superfìci a pascolo naturale: che si ragguagliavano ancora intorno a 500.000 ettari nel 1861, ed eran già pari a 320.000 nel 1911 e a 246.000 nel 1961. E a questa contrazione delle aree pascolative, specie nelle regioni interne, si accompagnava un altro fenomeno negativo ai fini dell’allevamento transumante: la conquista agricola delle pianure, la formazione della piccola e media proprietà contadina e dal 1950 la riforma agraria — che ha agito nelle aree di maggior estensività dell’agricoltura siciliana — hanno tolto al tipico movimento pendolare della transumanza tradizionale anche il suo secondo polo d’appoggio: sia alla transumanza normale o estiva, che aveva per base le regioni collinari interne e che in estate seguiva le « trazzere » diretta al massiccio delle Madonie e verso i Nébrodi e i Peloritani; sia quella inversa, o invernale, formata dai montanari, che dalle regioni montuose — compresi l’Etna e gli Iblei — scendeva appunto in inverno nelle pianure di Catania e di Gela, e anche verso le più strette cimose litoranee, di Tèrmini Imerese sul Tirreno e dell’Agrigentino sul Mar d’Africa. Le tradizionali correnti pastorali sono dunque destinate ad avvizzire, a isterilirsi: l’allevamento estensivo transumante resiste ancora un poco soltanto negli alti Iblei, dove è stato in parte riorganizzato, in qualche settore dei Nébrodi — nel territorio di Mistretta e nella valle del Tusa, dove Castel di Lucio, a 776 m. di altitudine, è ancora un centro prevalentemente pastorale — e sulle Madonie, specie sul lato orientale, a Geraci Siculo (1077 m-) nell’alta valle del Pollina, e ancora sull’Etna, dove fu studiato una trentina di anni fa da G. Cumin, quando questa forma economica era molto più vivace di quanto non appaia ora.

    Pascolo su stoppie, in seminativi asciutti olivetati nei dintorni di Caltagirone (Catania).

    Pascolo intorno al villaggio di Sant’Elia (Palermo), addossato ai piedi della massa calcarea di M. Catalfano, in posizione rilevata sul golfo di Termini Imerese.

    Eppure, nonostante la contrazione delle aree pascolative e anche degli incolti produttivi (questi ultimi sono calati però di poco, da 80 a 70 mila ettari tra il 1861 e il 1961) e a dispetto della mancanza o assoluta deficienza di prati stabili (appena un 200 ettari nel Trapanese, alla foce del Bélice), par di capire che l’economia zootecnica dell’isola sia molto al di sotto delle sue possibilità. In effetti, si è ancora alla ricerca di una soluzione valida, che non potrà essere soddisfacente sino a quando altre arcaiche tradizioni agricole non saranno state spazzate via: i prati avvicendati — che coprono circa 180.000 ettari l’anno, per il 70% coperti dalla sulla e per il 30% naturali — e gli erbai annuali — che ne interessano circa 112.000 — danno una produzione di foraggio che si aggira per i primi tra i 5,2 e i 3,8 milioni di quintali, e per i secondi tra i 4,7 e i 3,6: con rese che variano da 20 a 28 e da 30 a 43 quintali per ettaro, rispettivamente. Le variazioni annue della produzione sono così forti, che le risorse locali di foraggio non riescono a formare una solida e sicura base per l’allevamento, soprattutto bovino; le estati eccessivamente calde, specie quando l’isola è colpita dai soffocanti venti dei quadranti meridionali, mettono in forse la produzione, e obbligano molti agricoltori a immettere sul mercato — che si fa pesante, con prezzi assai al di sotto della media, ma soprattutto al di sotto dei limiti economici dell’allevamento — un numero notevole di capi per la macellazione. La pratica dell’irrigazione dovrebbe dunque essere molto più intensificata, pur entro i limiti segnati dalle risorse idriche, tutt’altro che ricche ma non del tutto trascurabili; e la tecnica dell’immagazzinamento dei foraggi, mediante i silos, dovrebbe essere più largamente perseguita — anche se esistono già numerosi esempi di aziende-modello, da questo punto di vista, nelle aree litorali come nell’interno: le quali potrebbero servire da aziende-pilota —; ma soprattutto si dovrebbe pensare alla sostituzione della fava, che è la più diffusa nella rotazione delle colture cerealicole, con altre leguminose, più adatte all’alimentazione del bestiame e più resistenti alle forti temperature estive. Non fa dunque meraviglia se il patrimonio zootecnico siciliano è ancora poco consistente, e se i bovini costituiscono appena il 2,8% di quelli italiani, e i maiali 1*1,9%; e se invece gli ovini ne rappresentano l’8,3%, i caprini il 17%, i cavalli il 17,7%, gli asini il 12,6%, e i muli il 50,2%. Soltanto per i cavalli, gli asini e i muli l’apporto siciliano è cospicuo, ma appunto perciò sta ad indicare l’arcaicità delle strutture economiche isolane, cioè le sue ancor forti deficienze nel campo della meccanizzazione agricola e degli stessi trasporti nelle campagne: il cavallo e soprattutto l’asino e ancor più il mulo sono tuttora necessari ai contadini nei loro quotidiani spostamenti tra i villaggi e le borgate, e i campi. La trascurabile consistenza del patrimonio bovino, d’altra parte, si rileva ancora meglio se si considera il suo peso in rapporto alla superficie della regione, cioè se si vagliano le densità: le quali sono bassissime, con una media di appena 12,4 capi per kmq. : che si deprimono a Caltanissetta a 6,8 e a Trapani a 7,1 e solo in tre province superano la pur bassa media regionale: Palermo con 13, Ragusa con 20,7 e Messina con 23. Per un confronto, è forse utile ricordare che la media regionale è per la Lombardia di 72,8 capi per chilometro quadrato, per il Veneto di 62,4, per l’Emilia-Romagna di 57,8, per il Piemonte di 48,1 ; e che è ancora doppia di quella siciliana la densità media della Campania (24,9) e di due quinti più elevata quella della Toscana (20,6). E non migliori sono le densità dei suini (3,8 per kmq.), mentre più alte sono quelle degli ovini (24) e dei muli (5,6).

    Una magra agricoltura, un po’ di allevamento ovino e un po’ di pesca sono le basi della vita economica di alcune piccole isole siciliane, come quella di Ustica (Palermo), di cui si presenta qui un’immagine consueta.

    La tendenza ad una nuova strutturazione del patrimonio zootecnico si può scorgere tuttavia nel peso diverso che nell’allevamento vanno rivestendo le differenti specie animali. Nel corso di questo secolo sono stati proprio i bovini ad accusare un aumento apprezzabile: 198.000 nel 1908, ancora lo stesso numero trent’anni dopo, nel 1938, 241.000 nel 1957, 314.000 nel 1965. Gli incrementi si son dunque verificati specialmente nel secondo dopoguerra, specie negli ultimi dieci anni (+ 30,2%), e ancor più dell’incremento quantitativo è stato notevole il miglioramento sul piano della qualità. Sono state introdotte e diffuse razze pregiate — come la danese rossa, la pezzata nera, la frisona italiana e la bruno-alpina — e si è sensibilmente migliorata anche la razza modicana, particolarmente adatta alla secchezza dei mesi estivi, e quindi agli altipiani interni. E la diffusione della selezione, attraverso stazioni di monta pubblica e la fecondazione artificiale; un più organizzato controllo sanitario; il miglioramento e l’ammodernamento delle stalle; la qualificazione professionale degli addetti al governo degli animali; l’istituzione di aziende silvo-pastorali che fungono anche da aziende-pilota a titolo dimostrativo: sono tutte misure intese al potenziamento dell’allevamento bovino e anche ovino nell’isola. Se infatti in gran parte della Sicilia le condizioni in questo settore dell’economia lasciano ancora a desiderare, già si possono individuare aree in cui si è all’avanguardia: gli altipiani ragusani, ad esempio, che poggiano prevalentemente sull’allevamento bovino, e le zone agrumicole, dove si è formata una vera simbiosi tra la coltura degli agrumi e l’allevamento bovino: gli agrumeti vengono arricchiti con lo stallatico, mentre offrono abbondante erba per l’ingrasso dei bovini, che danno anche un ottimo latte, esitato facilmente sui mercati urbani vicini. Così numerosissime sono le lattifere nella Conca d’Oro — dove sono allevate prevalentemente da piccoli agricoltori, ma si contano stalle anche con 30-50 capi — nel Siracusano, nel Lentinese. E sono numerose anche in varie oasi sparse dell’interno, dove intelligenti agricoltori, ricchi di una preparazione tecnica elevata — sono per lo più agronomi — hanno dato origine ad aziende modello di agricoltura mista — con l’allevamento integrato alla cerealicoltura — che sembrano il punto d’arrivo di una moderna agricoltura al centro della Sicilia. Ciò nondimeno, nonostante questa spinta verso una razionalizzazione dell’allevamento bovino, sovente la mancanza d’acqua e di elettricità, specie nell’interno, e la non organizzata raccolta del latte anche in dipendenza delle deficienze viarie, comportano una utilizzazione ancora di tipo familiare del latte stesso: che dà l’ottima provola e il caciocavallo. La produzione di latte — i dati sono però molto incerti — si aggira intorno a 1,6-1,7 milioni di quintali, di cui circa una metà viene trasformata e l’altra metà venduta al consumo diretto. Le « centrali del latte », formate da allevatori uniti in cooperative e da enti pubblici locali, cominciano a moltiplicarsi garantendo la qualità e la sanità del prodotto (ne hanno lavorato 285.000 ettolitri nel 1962): ma non è ancora venuto meno l’uso tradizionale — ancor diffuso nella Conca d’Oro, a dispetto delle leggi — di mungere le vacche per le strade dei villaggi e in alcuni quartieri periferici della città (come si fa a Messina con le capre), alle porte delle case.

    Larghe aree pascolative intorno al grande Bosco della Rocca Busambra (1613 m.), nella Sicilia occidentale, offrono ottime possibilità all’allevamento bovino e ovino.

    Degli altri gruppi di animali, sono cresciuti un poco nel corso degli ultimi sessantanni soltanto i suini: 75.000 nel 1908 e ora 97.000. Ma si tratta di aumenti che non sono stati accompagnati, in complesso, da miglioramenti nelle pratiche d’allevamento. Generalmente, i suini sono ancora mantenuti allo stato brado, e la loro alimentazione — in prevalenza ghiande, fave e crusca — porta ad uno stato di permanente deficienza nella qualità delle carni e nello sviluppo del peso. Questo allevamento è in Sicilia ostacolato, fino ad oggi, da due ordini di fatti: dalla scarsità dei sottoprodotti delle industrie che trasformano i prodotti agricoli (caseifici, pastifici, conservifici) e dai prezzi troppo elevati dei mangimi bilanciati da una parte, e dall’altra dalla errata convinzione, molto radicata negli abitanti delle campagne, dell’eccessivo danno arrecato dai suini ai pascoli. Le poche cure date ai suini, e la mancanza o lo stato deplorevole dei ricoveri — povere baracche non aereate, antri, sottoscala, e altri simili — divulgano anche facilmente certi stati morbosi, di carattere epidemico, come il temibile mal rosso, che falcidiano gli animali.

    Tutti gli altri tipi di allevamento sono per contro in forte contrazione: gli equini — che erano 421.000 nel 1908 — si sono ridotti, dopo una lieve risalita nel 1930 (458.000) a 309.000 nel 1959, e a 232.000 nel 1965; i caprini — 311.000 nel 1908, risaliti nel 1938 a 338.000 — a 260.000 nel 1959 e a 207.000 nel 1965. Si tratta di allevamenti condotti su linee arcaiche, e quindi in grave crisi in rapporto alla ristrutturazione dei caratteri fondamentali dell’agricoltura siciliana. La diminuzione dei pascoli, legata ad una maggiore valorizzazione dei seminativi nell’interno dell’isola, e la trasformazione delle forme di utilizzazione del suolo nelle piane costiere — come ho già detto — hanno inferto un colpo gravissimo al numero degli ovini (passati da 958.900 nel 1908 a 619.000 nel i960: —35,4%) ai quali è stato precluso uno dei poli del loro tradizionale migrare, e uno altrettanto grave ai caprini (— 33,4%) che sono però ancora discretamente numerosi, data la loro maggiore resistenza alle difficoltà ambientali e alla povertà del foraggio naturale, nelle aree pascolative più brulle e meno atte a riconversioni agricole: come gli alti Peloritani, la parte cacuminale delle Madonie e i monti della Sicilia occidentale, e le aree di argille salate dell’interno: dove i terreni or cristallini or calcarei or argillosi offrono un pascolo così magro e scarso anche per le capre, che il loro stato tròfico lascia spesso a desiderare (e talora si può parlare di una loro vera e propria iponutrizione). Del resto, in complesso, i pascoli hanno produzioni trascurabili: tra i e 1,2 milioni di quintali di foraggio l’anno, con rese medie di 4-5 q. per ettaro: se gli ovini e i caprini fossero stati alimentati solo con questa produzione, nel 1961, avrebbero potuto disporre appena di poco più di un quintale di foraggio per capo. Ma nell’ovest dell’isola, l’allevamento ovino e caprino è frustrato anche dalla gran piaga dell’abigeato, che si mantiene in simbiosi con la mafia, anche se ora in decadenza nella sua veste agricola: la situazione è infatti molto migliorata rispetto al secolo scorso, quando la mafia poteva esercitare attraverso l’abigeato una fortissima azione di pressione, di carattere economico e anche politico; ma l’allevamento — compreso quello bovino — ne risente ancora oggi per le ripercussioni non del tutto venute meno sul piano psicologico. La produzione di latte ovino e caprino è ancora abbastanza forte, sommando in genere a 700-730.000 quintali l’anno, di cui da 450 a 500 trasformati in formaggi e prodotti caseari; ma la lana sùcida è diminuita molto di più — ora se ne produce tra 7600 e 8100 q. l’anno — in rapporto alla sua cattiva qualità e ai bassi prezzi che riesce a realizzare sul mercato: Agrigento, Palermo e Trapani vi concorrono più delle altre province, con circa 13soli 50 q. l’anno ciascuna.

    Nel territorio di Menfi (Agrigento) vengono variamente a contatto il vigneto specializzato, tipico della vicina provincia di Trapani, e i seminativi nudi o arborati (qui con olivi), propri del latifondo cerealicolo degli altipiani interni, come si può osservare da questa immagine.

    La diffusione dei mezzi meccanici, per i lavori agricoli come per i trasporti — anche se ancora nella fase iniziale — e il forte alleggerimento del peso demografico nelle regioni prevalentemente agricole a seguito delle forti correnti migratorie degli ultimi decenni, si sono riflessi in modo evidentissimo, d’altra parte, anche sul patrimonio equino. Ne hanno risentito soprattutto gli asini, passati da 189.000 nel 1908 a 52.000 nel 1965 (—72,5%), i cavalli, diminuiti da 78.000 a 35.000 negli stessi anni (— 55%), e in minor misura i muli: scesi da 154.000 a 145.000 (— 5,8%), i quali però avevano toccato le 202.000 unità nel 1930 e prima dell’ultima guerra erano ancora 195.000. I bellissimi allevamenti equini degli alti Iblei si sono pertanto largamente contratti, e gli asini e i muli si rarefanno dove la rete stradale diventa poco a poco più capillare — sostituiti dai ciclomotori e dalle motorette o dalle autovetture — e rimangono numerosi soltanto dove il processo di trasformazione dell’agricoltura in senso moderno non ha ancor preso l’avvio o la rottura con le strutture arcaiche del passato è appena da poco incominciata. Il contadino che cavalca il mulo o l’asino nel diuturno cammino tra il villaggio e la campagna è ancora oggi un elemento caratteristico dell’ambiente rurale — per quanto in calo — in gran parte delle regioni interne e anche su larghi tratti del litorale africano, oltre che, naturalmente, nei paesi che sorgono a grandi altitudini: nei Peloritani, nei Nébrodi, negli alti Iblei, dove la forte accidentalità del suolo li terrà ancora per molto tempo forse al riparo da più brusche e repentine contrazioni.

    Vedi Anche:  Tradizioni, usi, costumi ed analfabetismo

    Il manto forestale: verso un’intelligente e sana politica di rimboschimento

    Assai contrastanti sono i pareri circa l’originaria estensione della copertura forestale dell’isola; certa, per contro, è l’estrema esiguità del mantello boschivo attuale: appena 163.000 ettari, cioè il 6,4% della superficie territoriale. E ancor più esiguo il suo contributo alla formazione della produzione lorda vendibile dell’agricoltura: un modestissimo, insignificante 0,4%, in valore. Questa povertà di boschi, che fa apparire nude e calve le groppe dei monti siciliani, si oppone in modo deciso alla ricchezza del manto forestale della vicina Calabria, dove occupa il 26% del territorio.

    Pare indubbio tuttavia che le aree occupate dal bosco fossero in passato assai più estese — come per il periodo classico ritengono sia il Pace che il Beloch — a dispetto della notevole presenza di suoli argillosi e calcarei, poco adatti al mantello forestale e piuttosto inclini a una copertura di boscaglia rada, di macchia mediterranea, che il clima, caldo per gran parte dell’anno e piuttosto povero di precipitazioni per lunghe stagioni, doveva favorire. Ma larghi vuoti furono certamente causati dalla mano dell’uomo: il diboscamento fu favorito sia dalle necessità delle costruzioni navali, dal periodo greco in poi; sia dalla ricerca di nuove aree da coltivare a grano: ricerca perseguita già intensamente nel periodo romano, e ripresa con vigore durante il lungo periodo delle colonizzazioni interne, specialmente dal Quattrocento in poi, prevalentemente a scopo speculativo, e dal Settecento anche in rapporto al forte aumento demografico: in entrambi i casi, i dissodamenti comportarono previamente l’aggressione e la devastazione delle residue macchie boschive. Il limite al quale ancora oggi si spinge il frumento — 1200 m. — sta chiaramente ad indicare che tutta l’isola fu sottomessa nel corso dei secoli ad una continua, incessante opera di deforestazione.

    Aspetto di una pineta sulle pendici occidentali del Monte di Érice (Trapani): la disposizione della chioma degli alberi tradisce la prevalente direzione del vento.

    La piccola parte che resta al di sopra di tale isoipsa non si è d’altra parte del tutto salvata: il morso delle capre ha certamente compromesso la rinascita del bosco là dove inconsulti diboscamenti e dissodamenti temporanei avevano rotto l’equilibrio naturale stabilitosi tra vegetazione spontanea e suolo. Non fa dunque meraviglia che all’inizio dell’Ottocento, come osserva il Bianchini, la Sicilia fosse povera di foreste, le quali — pur nella loro già rimarchevole esiguità — furono ulteriormente danneggiate, e in modo grave, nel corso dello stesso secolo XIX: gli incendi provocati ad arte durante la lotta detta del banditismo (1862-65) dopo l’unificazione nazionale, la divisione dei beni demaniali ed ecclesiastici — finiti nelle mani dei borghesi, che ne vollero ritrarre subito un utile molto più elevato delle spese sostenute, abbattendo i boschi — la stessa politica dissennata dei comuni e dello stato — che ai residui di foresta hanno chiesto di sopportare persino le più sconsiderate spese di bilancio, anche col favore della legge protettiva del 1877 —: tutto ha contribuito ad una spogliazione del manto forestale, che ancor pari a 110.000 ettari nel 1861 si vedeva ridotto a 98.000 nel 1911: un calo di 12.000 ettari, moltissimi se comparati alla superficie boschiva complessiva (quasi l’n%). La produzione del bosco era d’altra parte particolarmente scadente: meno di 10.000 metri cubi di legname da opera e da costruzione; meno di 50.000 metri cubi di legna da ardere; appena 20.000 tonnellate di carbone vegetale, ben poco anche per l’economia d’inizio di secolo.

    Un aspetto delle pendici del M. Annunziata (1234 m.), a nord di Cerami (Enna), recentemente rimboschite a salvaguardia dall’erosione del suolo e a maggiore valorizzazione economica di un settore particolarmente povero dei Nébrodi occidentali.

    L’alta valle dell’Anapo presso Càssaro, negli Iblei siracusani: il corso d’acqua scorre qui ancora tranquillo, prima di affossarsi nella « cava » intagliata nei sottostanti tavolati calcarei.

    Negli anni della prima guerra mondiale le distruzioni continuarono, così che il catasto agrario del 1929 rilevava appena 87.000 ettari di bosco, cioè accusava un’ul-teriore diminuzione di ben 11.000 ettari, pari all’i 1,2%. Ma poi, soprattutto dal 1945 in qua, e in particolare dal 1950, per la necessità, sempre più urgente, di provvedere alla sistemazione idraulico-forestale dei bacini fluviali, specie nei settori più elevati — al fine di limitare i danni gravissimi del dilavamento fluviale, e quindi l’erosione e l’asportazione dei già magri suoli dell’interno, e di frenare o cominciare a frenare mediante la ricostruzione del bosco i processi di smottamento e di frana, che pesano come un incubo in quasi tutta l’isola, non risparmiando neppure i centri abitati — si è dato l’avvio ad un’opera di rimboschimento che si spera e ci si augura che possa continuare con maggiore intensità e zelo: con l’aiuto anche delle popolazioni, che dovrebbero risparmiare i nuovi impianti dai pascoli abusivi, sovente praticati nell’interno durante le estati più asciutte e povere di foraggi.

    Un aspetto suggestivo di un bosco di aghifoglie presso Portella Pertusa (Messina), nei Peloritani meridionali.

    La calcarea Rocca di Novara (metri 1340), che si innalza lungo la cerniera eli collegamento tra i Pe-loritani cristallini e i Nébrodi arenaceo-marnosi: qui una sua suggestiva veduta dal bosco di Portella Pertusa.

    La consistenza del bosco è così passata gradualmente da 88.600 ha. nel 1948 a 116.000 nel 1957, a 163.000 nel 1965: un buon risultato, che però non toglie ancora la Sicilia dai più bassi gradini nella graduatoria per regioni: il 6,4% di territorio boschivo di fronte ad una media nazionale di circa il 20%. Tra il 1948 e il 1963 la provincia di Messina ha visto aumentare le sue superfìci a bosco da 41.615 ettari a 59.629, Palermo da 27.079 a 34.677, Catania da 19.460 a 28.807; e notevoli sono stati i rimboschimenti anche ad Enna (da 2982 a 12.687), ad Agrigento (da appena 900 a 7473), a Caltanissetta (da 1069 a 6774), a Trapani (da 2789 a 8057). Assai minori, per contro, gli incrementi registrati da Siracusa (da 2789 a 3986) e Ragusa (da 1114 a 1900). Circa la metà di questa superficie boschiva siciliana — che comprende anche i castagneti — è costituita da fustaie, in prevalenza formate da boschi misti di resinose e latifoglie (per una metà), per più di un terzo di latifoglie, e soltanto per circa un settimo da resinose pure: nei rimboschimenti, si tende infatti a dare la preferenza, nelle regioni più elevate, ai boschi misti di conifere e di latifoglie: per la particolare resistenza di queste specie alle infestazioni parassitarie, per la maggior capacità protettiva del suolo, e ancora per la varietà dei prodotti industriali che offrono; mentre nelle colline — più aride — si va divulgando l’eucalipto, di esigenze più limitate, di facile crescita, e di proficua utilizzazione nell’industria della cellulosa. Il resto dei boschi è costituito per circa un sesto da cedui composti, prevalentemente di latifoglie, e da circa un quarto da cedui semplici: boscaglie in cui prevale la quercia.

    Piccolissime, insignificanti macchie di boschi punteggiano le montagne calcaree della Sicilia occidentale: qui un tratto boschivo presso il santuario di S. Rosalia, sul M. Pellegrino di Palermo.

    Di tutte le aree boschive di Sicilia, la più compatta e insieme la più estesa è quella che grava sulle spalle delle Caronte o Nébrodi. Comincia fin dal mare, che tocca tra le fiumare di San Fratello e Buzza e tra Caronia e Santo Stefano di Camastra: quest’ultimo settore, attorno a Caronia, fu già così noto e meraviglioso nel suo assetto da dare il nome a tutta la catena montuosa più elevata e più lunga dell’isola. Dal mare questa zona boschiva si innalza fin sul culmine delle montagne, e da lì tracima largamente anche sul versante meridionale, specie entro i bacini del Troina, dei numerosi torrenti che formano l’alto Simeto, e dell’Alcàntara. Si tratta di almeno 40.000 ettari di bosco — cioè più dei due terzi del manto boschivo della provincia di Messina — costituito prevalentemente da cedui. Prevalgono le querci — negli orizzonti più bassi nella varietà del leccio, favorito dai frequenti affioramenti calcarei — e più in alto i faggi.

    Raccuia (650 m.), attestata in forma compatta all’alta valle di Sinagra, nei Nébrodi orientali (Messina), è circondata da noccioleti schietti, pascoli cespugliati e minuscole aree di bosco ceduo.

    Ma ad ovest prendono invece il predominio le querce da sughero, specie nei territori comunali di Carom’a — che da solo ne avrebbe più di metà di tutta l’isola, come rileva F. Milone: cioè circa 3 milioni di alberi — di Tusa, Mistretta, Santo Stefano di Camastra, e Pettineo, oltre che in quelli — orientali — di Patti, San Fratello, Ficarra, Capri Leone e Oliveri. Soltanto nei settori più elevati, nelle parti cacuminali della catena, si esce fuor dal piano della foresta caducifoglia a querceti per entrare nell’orizzonte del faggio, rappresentato da piccole aree sparse. Ad est dei Nébrodi — che nella loro parte orientale presentano solo macchie sparse di bosco — i Peloritani fan figura di montagna disalberata e nuda: un pascolo magro ne copre per lo più il lungo e ampio dorso. Che soltanto verso Messina, dove si fa più sottile, torna a coprirsi di un manto boschivo: e si tratta, su questi terreni cristallini, soprattutto di castagni: i quali, al di sopra dei 1000 metri, cedono il posto — nonostante qualche loro insinuazione più in alto — a piccole aree di cedui e di alte fustaie. All’estremità occidentale della catena tirrenica, le essenze boschive risultano per contro molto più dilatate che sui Peloritani: anche se minutamente trapunte da minute aree di seminativi soprattutto e di pascoli, le Madonie sono in eftetti tutte macchiate di chiazze boschive: che in parte ripetono i caratteri dei Nébrodi, con ampie aree a sughero — intorno a Geraci Siculo e a Collesano, per esempio — ma in prevalenza son costituite da altre querce, sormontate, al di sopra dei 1400 m., da due grosse aree di faggi. Sono queste le più importanti zone a bosco, alle quali bisogna aggiungere, oltre al gran Bosco della Ficuzza, nel Palermitano, che riveste parzialmente la Rocca Bu-sarnbra risalendola sul suo versante settentrionale — più di 4000 ettari di ceduo composto, dove la querce (la rovere in ispecie) domina incontrastata, con macchie di lecci, di castagni, di frassini e di olmi: conservatisi, data la piuttosto umile altitudine della regione e la vicinanza di non piccoli centri abitati, perché già riserva di caccia nell’Ottocento borbonico, e poi demanio inalienabile dopo l’unificazione — anche la mole etnea. Il manto boschivo di questa grande montagna vulcanica non è compatto e continuo: al contrario, appare rotto dalle grandi colate laviche — sulle quali, dove non son nude e nere, si stende il pascolo — in fasce più o meno allungate, che dalle medie pendici si innalzano fino intorno ai 2000 metri, dove cedono il posto alle ginestre e agli astràgali. Fino intorno ai 1300 m. son soprattutto cedui di querci (lecceti) in formazione compatta, e più in alto di castagni e in minor misura di faggi: ai quali sovrastano, da 1300 a 2000 metri, le fustaie di pino laricio (oltre 2700 ha. in piantata schietta): queste ultime molto più sviluppate sul versante settentrionale, più aspro e più umido, che su quello meridionale, che ha risentito più pesantemente dell’opera trasformatrice e distruttrice dell’uomo. Ma non soltanto qui, sull’Etna, si esaurisce il patrimonio forestale catanese: un’estesa isola di fustaie di sughero si innalza invero a sud di Caltagirone, su terreni di natura conglomeratica, dove ora si impiantano anche gli eucalipti. I quali hanno interessato soprattutto, fino a questo momento, il vicino territorio di Enna: intorno a Piazza Armerina quasi 12.000 ettari sono già stati trasformati in eucalipteti, la cui produzione sarà sfruttata da un complesso industriale per la cellulosa da tempo progettato. Altrove, come nei monti che fan corona a Palermo, si impiantano invece boschi misti di latifoglie e di resinose, come ho già detto; e lo stesso sarebbe auspicabile si facesse anche negli alti Iblei e nei cosiddetti monti Sicani, tra Corleone, Sambuca di Sicilia, Casteltérmini e Cam-marata, dove il processo di rimboschimento è in ritardo, e dove si scorgono per ora soltanto piccolissime aree di ceduo: come nella conca di Bisacquino, nei Sicani.

    La produzione forestale, nonostante i recenti miglioramenti al manto dei boschi e nonostante la loro sensibile dilatazione, appare ancora molto contenuta, e trascurabile rispetto a quella complessiva italiana. Si tratta di circa 25-30.000 metri cubi di legname da lavoro, di cui 60-100.000 metri cubi di legna da ardere (oltre a 40-50.000 metri cubi di fasciname), di 40-50.000 quintali di carbone vegetale: tutte produzioni in sensibile diminuzione (di 2/5 il legname da lavoro, di 1/3 la legna da ardere) forse per la maggior cura prestata, in questo periodo di ricostituzione forestale, nello sfruttamento del bosco. Il legname da lavoro proviene dalle fustaie, in minore misura da quelle di pino, in maggior quantità da quelle di latifoglie, specialmente di querce.

    E di qualche rilievo è stata anche la produzione non legnosa dei boschi e dei sottoboschi: nel 1962, ad esempio, 22.700 q. di sughero gentile, 17.900 q. di castagne, 55.280 q. di ghiande per l’allevamento suino, oltre a 310.600 q. di erba da foraggio, e intorno a 300 q. di origano, e 4000 q. (da appena 22 nel i960 e 600 nel 1961) di liquerizia. E perciò la Sicilia è ancora costretta ad importare legname da fuori: dalle altre regioni italiane (1,6 milioni di quintali nel 1962, secondo i dati del Banco di Sicilia) e anche dall’estero (1,1 milioni di quintali, per un terzo dalla Romania, un quarto dall’Unione Sovietica, e un quinto dalla Iugoslavia, nello stesso anno).

    Le contraddizioni dell’agricoltura siciliana: coesistenza di strutture arcaiche e di moderni apparati produttivi

    Appare senza dubbio facilmente rilevabile, da quanto si è detto, la contrapposizione tra le regioni a prevalente coltura estensiva e le regioni, molto più ristrette o marginali, distinte dalle colture intensive degli agrumi, della vite, degli ortaggi. Eppure a guardare più in profondità, la realtà appare più complessa: sia perché è facile individuare, anche nell’interno cerealicolo, un certo numero (non più esiguo) di aziende razionalmente condotte, che alla cerealicoltura hanno vantaggiosamente accoppiato l’allevamento bovino secondo tecniche molto evolute o addirittura si sono specializzate in colture di pregio; sia perché anche nell’ambito delle colture ricche, accanto alla razionalità di molte imprese agricole si può osservare un ancor maggiore numero di aziende, in prevalenza medie e piccole, che usano tecniche prettamente tradizionali o comunque sorpassate. D’altra parte, se è vero che la proprietà con più di 100 ettari — che nel 1947 occupava ancora il 34% della superficie agraria dell’isola, e dopo la riforma del 1950 e soprattutto in relazione ad un abbastanza attivo mercato fondiario ne occupa ora (1961) il 19,7% — è ancora legata per la maggior parte ad una utilizzazione estensiva del suolo, specie nell’interno cerealicolo, e generalmente soltanto nelle regioni viticole e in particolare agrumicole ha da poco investito somme notevoli per l’ammodernamento dei lavori agricoli, della rete e dei mezzi di irrigazione, e degli impianti di raccolta e distribuzione; è pur vero che nell’interno, come pure nelle aree delle colture di pregio, la piccola proprietà, anche quella di recente formazione — quella fino a 5 ettari occupa il 31,8% del suolo agrario nel 1947 e il 28,2% nel 1961, e quella con 5-10 ettari è passata nello stesso periodo dall’8,1% al 14,9% del suolo agrario — ha continuato in gran parte ad essere angustiata dalla deficienza di capitali, e pertanto è stata costretta — come nel passato — ad ovviare a tale inconveniente con una considerevole elargizione di ore di lavoro, assiduo e costante, rese più gravose dalla fortissima frantumazione dell’unità aziendale (le aziende con più di tre corpi distinti di terreno, secondo il censimento del 1961, sono il 26,6% del totale, e interessano il 41,2% della superficie agraria) piuttosto che con attrezzature più moderne e più atte da una parte a dar sollievo alla fatica fisica e dall’altra ad aumentare le rese della produzione agricola.

    Vedi Anche:  Le regioni naturali

    Estesi campi pascolativi, spesso utilizzati per una magra granicoltura, limitati da chiusure a maglia larga, regolare, di muretti a secco, sulle piatte spalle del M. Pojummoru (1433 m.), nei Nébrodi orientali, ad ovest di Floresta (Messina).

    Metodo tradizionale di aratura — con l’aratro di legno, munito di vomere di ferro — nei terreni aperti, sconfinati, disalberati, dell’alta valle del-Troina, nei dintorni del lago artificiale dell’Ancipa (Catania), dove l’albero comincia a fare una prima, timida comparsa, accompagnandosi allo smembramento degli antichi latifondi cerealicolo-pastorali.

    I pendii degli alti Iblei si presentano largamente terrazzati per far posto ad una magra granicoltura, come appare in questa zona calcarea nei dintorni di Feria (Siracusa), a circa 600 metri di altitudine.

    La breve piana vitata di Scopello, sul golfo di Castellammare (Trapani), vista dalle pendici del calcareo M. Scardina.

    In complesso, l’agricoltura siciliana, nonostante un sempre più intenso processo di modernizzazione, del resto più puntualizzato che diffuso, dà l’impressione di essere ancora relativamente attardata. E tale impressione è avvalorata dal confronto che si può stabilire sul piano della produttività con le regioni italiane del Nord, e per alcune colture anche con quelle del Sud: per il grano, ad esempio, la coltura più divulgata, nel 1964 la produzione unitaria fu di 9,6 q. per ettaro, contro i 33,6 della Lombardia, i 31,4 del Veneto, i 29 del Piemonte e fu superiore soltanto, in Italia, a quella della Sardegna (7,8); per la vite in coltura specializzata fu di 48,4 q. per ha. (Veneto, 134; Emilia-Romagna, 103,6; Piemonte, 72,6), sensibilmente inferiore anche a quella della Puglia (54,4); e per l’olivo, la produzione unitaria (12,1 q. per ha.) fu largamente sorpassata da quella della Puglia (23) e della Calabria (14,1). A tali basse rese concorrono molti motivi (si tratta di colture dalla forte variabilità annua di produzione, specie per l’olivo) ma anche l’ancor poco nota e diffusa pratica delle profonde arature, e l’esiguo uso dei fertilizzanti, e la poco razionale rotazione delle colture: cioè la mummificazione delle più vetuste tecniche agrarie. La meccanizzazione dell’agricoltura è infatti ancora alla fase iniziale: appena 7626 trattori (cioè appena il 2,7% del totale nazionale) e 890 trebbiatrici (pari al 4% del totale nazionale) e 514 mietitrebbiatrici (4,4%) e 7130 motocoltivatori (9,4%) e appena 180 motofalciatrici (su 207.816: nemmeno un centesimo), indispensabili per un più efficiente uso del suolo nelle piccole aziende. E l’uso dei fertilizzanti chimici è pure oltremodo bassa: nel 1964 soltanto 43,2 kg. per ettaro di concimi azotati (Lombardia: 113,2); 44,1 kg. di fosfatici (66,6 in Lombardia), 2 kg. di potassici (contro 13,8) e 32,8 kg. di concimi complessi (di fronte a 84,4). E pure gli antiparassitari si usano con parsimonia, anche se con molta maggior larghezza che negli anni scorsi (2,4 kg. per ettaro, cioè la metà di quelli usati in Lombardia: 5,1), mentre la lotta contro gli insetti è proceduta più intensamente: oggi si usa in Sicilia quasi la stessa quantità di insetticidi che in Lombardia (1,6 kg. contro 1,9). Ma l’elettricità a uso agricolo è solo parzialmente e in qualche area di colture di pregio adoperata in misura soddisfacente: e in effetti si tratta in media appena di un consumo di 40,3 kWh per ettaro, per i 9/10 assorbiti dall’irrigazione, cioè la metà del consumo lombardo (che all’irrigazione ne dedica soltanto un terzo); mentre non raggiunge nemmeno un quarto del consumo medio della Lombardia l’uso dei carburanti (18,7 kg. a ettaro contro 81,1).

    La profonda vallata, dai magri seminativi arborati, interposta tra Enna (948 m.) e Calaseibetta (878 m.), disposte su poderose platee arenacee emergenti vivacemente fuor dai calmi orizzonti dei terreni argillosi.

    Ma l’impressione della relativa arcaicità dell’agricoltura siciliana è avvalorata anche dal confronto che si può stabilire con le regioni settentrionali sul piano sociale: perché dovunque, e persino nelle regioni di agricoltura più avanzata, la situazione dei contadini non è sempre molto migliorata rispetto a quella dei contadini settentrionali: nel 1963-64 un massaro del Nisseno percepiva circa 615.000 lire l’anno (retribuzione lorda minima contrattuale), un massaro delle zone floricole del Catanese 686.000, un annaloro (acquaiuolo) palermitano 455.000, un curàtolo del Trapanese 505.000 (ma un bergamino del Mantovano 1.113.000, che scendevano però a 764.000 per un mungitore del Comasco); e la paga giornaliera dei braccianti variava da 1332 lire per otto ore lavorative in provincia di Enna a 2300 lire nelle regioni agrumicole della provincia di Catania, e quella delle donne da 932 lire a 2300, e quella dei giovani da 1066 a 2000 nelle stesse province (mentre nel Bolognese era di 2750 lire). E i giornalieri per molti giorni dell’anno, anzi per mesi talora — fino a quattro, anche — rimangono ancora senza lavoro (mentre la disoccupazione agricola praticamente non esiste al Nord).

    La produzione globale dell’agricoltura, di conseguenza, non è quella che ci si aspetterebbe da una regione ancora prevalentemente agricola, anche se da qualche lustro scossa, e in qualche parte energicamente, da nuovi fermenti in altri settori economici, quello industriale e quello terziario, del commercio e dei servizi: nel 1965 l’agricoltura ha contribuito soltanto con il 20,8% alla formazione del reddito produttivo del settore privato e della pubblica amministrazione. La produzione lorda vendibile dell’agricoltura è stata pari, nel periodo 1957-61, a 291 miliardi di lire, cioè all’8% di quella italiana: ma è notevolmente cresciuta negli ultimi anni, e risulta ora pari, con 402 miliardi nel 1965, al 9,7% del valore complessivo della produzione agricola italiana. Non è molto: non tanto in rapporto al peso della popolazione siciliana rispetto a quella italiana (che è del 9,1%), quanto invece in relazione alla popolazione agricola dell’isola, o meglio a quella che dell’agricoltura vive: nel 1961 si trattava di 610.000 addetti attivi nell’agricoltura, ma di 1.534.185 persone che gravitavano su questo settore della produzione. Un rapido calcolo fa apparire che il reddito netto prodotto per persona attiva fu di circa 660.000 lire, e per persona che vive dell’agricoltura di 262.000: appena il 68,8% del reddito netto prodotto per abitante con qualsiasi fonte di lavoro, che era pari nel 1965 a 380.562 lire: con minimi di 251.756 in provincia di Agrigento e di 255.898 in provincia di Enna — secondo i calcoli del Tagliacarne — distinte da strutture economiche più antiquate di quelle delle altre province siciliane, né ancora sufficientemente rafforzate da un pur piccolo ma robusto nucleo di industrie. Ma i dati medi del valore della produzione agricola appaiono ancor più indicativi se riferiti alle singole province, e mettono in mostra una graduatoria che parrebbe a prima vista poco credibile: la produzione netta vendibile dell’agricoltura e delle foreste dà una media di appena 88.584 lire a ettaro per la provincia di Enna, di 122.885 lire per quella di Palermo, che risulta assai vicina a Cal-tanissetta (123.623), mentre mostra valori già decisamente più alti per Agrigento (148.706) e Messina (151.717) e ancor più elevati per Catania (199.074), Siracusa (223.891) e Trapani (251.114) e soprattutto per Ragusa (273.743). Da questi dati risulta in modo chiaro che le province contraddistinte contemporaneamente da settori agricoli molto evoluti (colture di pregio) e da settori territorialmente più estesi ancora molto attardati (cerealicolo-pascolativi) — come Palermo, Catania e Messina — sono largamente sopravvanzate da altre province (specie da Ragusa) dove il processo di ammodernamento delle colture come deH’allevamento ha interessato, anche se in diversa misura, pressoché tutto o gran parte del loro territorio giurisdizionale. Ma certamente, dati i salari correnti, la situazione è dovunque più precaria, sul piano economico, per i salariati e per i compartecipanti, in rapporto alle ancor basse retribuzioni in uso e ai patti di compartecipazione piuttosto sfavorevoli alla massa contadina (questi tipi di conduzione interessano il 29,7% della superficie agraria; e ad essi si possono accomunare altre ancor più antiquate forme di conduzione, per il 20,6% della terra coltivata) che non per i piccoli conduttori diretti: ai quali spetta il 48% della terra agricola.

    Un aspetto dell’alta valle del Salso, presso Cave di Pietra, a sud di Nicosia (Enna): morfologia tranquilla che lascia posto a larghe distese di seminativi nudi, a macchie boschive nelle grandi anse dei calmi meandri fluviali, e a seminativi punteggiati da magre macchie di ceduo sui dorsi più mossi dei rilievi.

    Castellammare del Golfo (Trapani): la cittadina, disposta su un impianto di strade ortogonali ai piedi del bastione calcareo di Pizzo Stagnone (802 m.), occupa il sito dell’antico porto del centro élimo di Segesta.

    Le montagne calcaree sono assai povere di mantello boschivo. Anche il Monte di Erice, che si innalza vigoroso a dominio di Trapani, verso la città mostra una compatta macchia di cedui misti ad aghifoglie, mentre sugli altri lati, dai calcari stratificati largamente affioranti, appare nudo o assai povero di vegetazione.

    Anche il calcareo M. Pellegrino (606 m.), che incombe da presso su Palermo, appare per lo più spoglio di vegetazione arborea e ricoperto invece da un magro manto pascolativo, tranne che in brevi tratti, sui detriti di falda che si slargano ai piedi delle sue ripidi pareti: come nel settore qui rappresentato, che guarda al Lido di Mondello.

    Eppure, nonostante certe gravi pecche di struttura, l’agricoltura siciliana sta muovendo verso posizioni migliori. I rendimenti di alcune colture si sono in effetti molto sensibilmente rialzati nel corso di questo secolo: ad esempio, si è passati da 42,5 q. per ha. di uva in coltura specializzata nel 1911-13, a 50,1 nel 1957-59; e da 11 q. per ha. di olive a 12,5 negli stessi periodi. Ma le deficienze del settore agricolo riappaiono non solo nella stabilità delle rese di altri prodotti (19,3 q. per i foraggi nel 1911-13, e 18,9 nel 1957-59), ma anche nella frequenza con la quale per gli stessi prodotti, nel corso degli anni, a buone rese si alternano rese piuttosto mediocri e anche molto basse: per il grano, ad esempio, il rendimento unitario — di 9 q. per ha. nel 1911-13 — fu di 9,8 nel 1958-60, di 10,8 nel 1961, di appena 8,6 nel 1962, di 12,1 nel 1963, di 9,6 nel 1964, di 13,9 nel 1965; per la vite, fu di 60 q. per ha. nel 1958-60, di 75,4 nel 1961, di 54,1 nel 1962, di 48,4 nel 1964: ciò indica in modo chiaro la fragilità e le debolezze delle strutture produttive agricole, che fattori esterni, tuttavia, impediscono di vincere completamente anche nelle regioni più evolute. Ma un buon auspicio di miglioramento viene tuttavia dal peso diverso che assumono, nel valore globale della produzione lorda vendibile della terra, le colture principali: il valore dei cereali (in assoluta prevalenza si tratta di frumento) è così diminuito dal 16,5% nel 1956 al 12,1% nel 1964 (che fu però una cattiva annata); mentre quelle degli ortaggi si è rafforzata dal 10,3% nel 1956 al 15,8% nel 1964. I prodotti delle piante erbacee, che ora occupano il 57% della superfìcie agricola dell’isola, concorrono nell’insieme alla produzione lorda vendibile per un valore pari al 29,7%. Sono le colture arboree — oltre agli ortaggi — che han preso il sopravvento: da meno di un quarto della superfìcie produttiva (24%), essi ora ricavano più della metà del valore della produzione (53,9% nel 1964): e qui è particolarmente forte il contributo degli agrumi — passati dal 18,3% nel 1956 al 20,4% nel 1964: quasi ogni anno ormai superiore a quello di qualsiasi altro prodotto — della vite (che presenta però valori più instabili: 17,4% nel 1956, 19,9% nel 1962, 15,9% nel 1964) e poi, ma in assai minor misura, dell’olivo (10,5% nel 1956, 6,3% nel 1964) e delle mandorle (6,3% nel 1964). I prodotti dell’allevamento mostrano infine valori più rigidi: essi rimangono da diversi anni stazionari sul 15-17%, anche se tendono a crescere per il bestiame bovino (7% nel 1964), il latte (5,3%) e le uova (3,2%). Tutti questi valori medi vanno soggetti a fortissime variazioni qualora si passasse a considerarli non in generale, per tutta l’isola, ma in particolare per le singole aree o distretti a prevalente conformazione economica tradizionale o da più o meno antica data apertisi a più moderni ritmi di sviluppo e di sfruttamento del suolo. Se sulla tastiera regionale essi suonano in complesso — con la sola eccezione degli agrumi — su toni inferiori a quelli delle regioni settentrionali, sulla tastiera provinciale e ancor più su quella delle più piccole ed omogenee regioni economico-agrarie tali valori medi riflettono anche più marcate opposizioni: sono queste discrepanze che sottolineano le contraddizioni interne dell’agricoltura siciliana, e mettono in rilievo la coesistenza di strutture ancora arcaiche — sul piano territoriale tuttora prevalenti — e di assai moderni apparati produttivi. Una volta avviato il processo di razionalizzazione dell’agricoltura isolana, c’è solo da augurarsi che possa continuare con maggiore alacrità e fervore, tale da porre su moderne basi tutto l’apparato produttivo legato ad una terra che certo non è così ingrata come secoli di avvilimento e di avvizzimento, piuttosto che difficoltà d’ambiente, tenderebbero a far credere.

    Case di pescatori a Santa Panagia (Siracusa), sede di una delle tonnare di Sicilia.

    Vedi Anche:  Le attività terziarie: trasporti, commercio e turismo

    La pesca: crisi di strutture tradizionali e fermenti di novazioni

    Nella società siciliana, i pescatori formano un mondo a sè: la pesca, che pur riveste un rilevante peso nel quadro ittico nazionale, si presenta come un’attività quasi marginale, che ha permesso la cristallizzazione e il congelamento di vecchie strutture, di usi e costumi particolari, di sentimenti altrettanto peculiari, impermeabili al prepotente e fin sul mare predominante mondo degli agricoltori. Come ha ben osservato R. Rochefort, tale distinzione del mondo della pesca si manifesta su due piani: sul piano materiale del lavoro, i cui ritmi sono opposti a quelli dell’agricoltura; sul piano psicologico, che conchiude i pescatori entro i limiti decisamente segnati da un folclore, da un comportamento e persino da un vocabolario e linguaggio peculiari; e infine persino sul piano dell’insediamento: la divisione dei quartieri dei pescatori dagli altri quartieri residenziali nelle grandi città — la Cala palermitana, il rione dei pescatori a Catania, il vecchio centro di Marsala — come nelle città medie — le fasce di casette disposte linearmente alla linea di spiaggia a Gela, a Sciacca, a Tèrmini Imerese, a Porto Empedocle — sottolinea quella distinzione, e fa balzare chiaramente anche il contrasto economico-sociale che oppone la gente di mare ai settori agricoli, commerciali e industriali della popolazione: tale contrasto è tanto più vivo quanto più complessa e variata appare la struttura economica della città. E dove i pescatori, per contro, si radunano su litorali quasi disabitati o comunque lontani dai centri da cui pur dipendono nel quadro dell’amministrazione — Torre Faro sul bosforo messinese, Torre Archirafi vicino a Giarre, Portopalo nel territorio di Pachino, Siculiana Marina ad ovest di Agrigento — la frattura risulta anche più netta, perché il mondo dei pescatori si mostra lì quasi nei suoi caratteri più puri. Tali peculiarità di modi di vita dei pescatori vengono meno, per contro, laddove l’arcaicità dei sistemi di pesca e lo sfruttamento del mare prevalentemente da parte del singolo, con la barca tradizionale — fattori che limitano i tempi e scombussolano i ritmi della pesca, subordinandoli allo stato del mare e del tempo — hanno costretto il pescatore a dedicarsi saltuariamente a lavori agricoli (come i pescatori di Castellammare del Golfo e di Alcamo nei vicini vigneti, quelli di Trappeto nella mietitura nell’agro di Corleone); e dove da pochi lustri la divulgata abitudine ai bagni di mare e al turismo ha offerto ai pescatori, in certe stagioni, la possibilità di trovare una occupazione come guida (a Mondello, ad esempio, ad ovest di Palermo) o come bagnini: specie a Marina di Ragusa, a Pozzallo, a Scoglitti, oggi le principali « marine » del Ragusano. Ma in alcuni grandi centri di mare — anche se i casi sono rari — la pesca si fa prevalente, dando tono e colore a tutto l’insediamento: ad Acitrezza, sul litorale catanese, e a Mazara del Vallo, nel Trapanese, dove — scrive R. Rochefort — «persino i vignaiuoli si fanno discreti, e tutto rivela l’onnipresenza della pesca: i chilometri di reti che asciugano fin nei sobborghi, le nasse che si fabbricano in tutte le case, l’odore delle conserve che si spande nelle strade, senza dimenticare la moltitudine variopinta delle imbarcazioni di tutti i tipi, che rimontano per più di un chilometro il fiume Mazaro e fanno di Mazara la prima città da pesca d’Italia, se non per l’importanza del pesce catturato, almeno per quella dei battelli che si consacrano alla pesca ».

    La « mattanza » dei tonni — qui nelle acque della tonnara di Bonagla, alcuni decenni fa — divenuta di recente una delle principali attrazioni turistiche del Trapanese.

    I caratteri peculiari della gente di mare, conservatisi quasi intatti fino ai nostri giorni, indicano in modo chiaro e univoco il persistere di vecchie tecniche nelle attività della pesca. Ciò è reso evidente anche dalla stessa struttura del naviglio: che è costituito da 565 motopescherecci in attività (1964) — concentrati per i 2/5 nel Trapanese e per poco più di un quarto nel compartimento marittimo di Porto Empedocle, e aumentati in modo considerevole soltanto nell’immediato dopoguerra: erano appena 151 nel 1937, ma già 522 nel 1951 — da 3407 motobarche (che usano il motore soltanto come mezzo di propulsione: erano solo 552 nel 1951) e da ben 8020 barche a vela e a remo (per un terzo nel Messinese e un quarto nel Palermitano), nonostante la motorizzazione in atto da alcuni anni porti al loro graduale declino: erano il 91% del naviglio da pesca nel 1951, e sono oggi il 66,6%. E i pescatori addetti ai motopescherecci sono attualmente 4900, ma 11.630 quelli delle motobarche, e più di 15.000 quelli che operano nel settore removelico, con una media di circa due unità per scafo. Che le vecchie tecniche di cattura siano ancora prevalenti lo dice poi anche la quantità del pesce catturato: che rappresenta sì il 18-22% della produzione ittica italiana (ma negli ultimi anni bloccatasi sul 18% o poco più), ma si distingue anche per la bassa produzione unitaria: che è di 14-26 quintali per ogni chilometro quadrato di piattaforma litoranea, assai al di sotto delle medie della Liguria (86 q.) e lontanissima da quella degli opposti litorali marocchini (160 q.). Si tratta in effetti, in prevalenza, di pesca costiera, su piattaforme litorali in genere poco estese e sul Tirreno molto ridotte, che si sono andate via via impoverendo di pesci, e le cui risorse sono per giunta compromesse dalla sconsiderata depredazione operata dalla pesca di frodo, condotta in luoghi e tempi proibiti — come D. Dolci ha rivelato per i mari di Castellammare del Golfo e di Trappeto — anche con l’uso di bombe. E di pesca, le cui tecniche sono ancora prevalentemente tradizionali, e soltanto in parte relativamente evolute. L’uso più moderno della pesca a strascico (con la sciàbica) — apparso su questi litorali già nel 1889 — se interessa il maggior numero dei motopescherecci (che sono il 17,4% della flottiglia italiana) non riguarda che in modo molto trascurabile (per il 2% soltanto del totale nazionale, mentre sono per numero il 29%) le barche a motore. Più diffuse sono invero le tecniche di pesca a circuizione, o anche con fonte luminosa — numerose le lampàre — o a posta o palangresi, o con sistemi ancor più rudimentali. Si tratta quindi di un’attività sottoposta a piuttosto sensibili variazioni di produzione da un anno all’altro — è stata di 360.000 quintali, in cifra tonda, nel 1958, di 407.000 nel i960, di 377.000 nel 1963, di 405.800 nel 1965 — e che è decisamente al di sotto di quella di una quindicina di anni fa (635.000 q. nel 1952) nonostante l’incremento della pesca di alto mare. La quale si svolge soprattutto nel Canale di Sicilia, intorno a Pantelleria e al largo delle acque tunisine: dove i contrasti con il vicino paese africano per lo sfruttamento ittico di queste acque non tendono a venir meno, e le operazioni di pesca si fanno più difficili e pericolose, e scoraggiano una regolare frequentazione dei banchi.

    La produzione ittica siciliana, che si aggira da una decina d’anni tra 360 e 450 mila quintali annui, rappresenta poco meno di un quinto di quella complessiva italiana, ed è formata per poco più di 8/10 da pesci (di cui quasi i due quinti son alici, sarde e sgombri), per circa 1/10 da molluschi, per 1/20 da crostacei. Particolarmente forti risultano le catture sul mar africano, specialmente nei compartimenti marittimi di Trapani (quasi la metà di tutto il pescato) e di Porto Empedocle (circa un quinto) : qui stanziano in effetti 422 dei 565 motopescherecci in attività — cioè il 74,6% — che si dedicano alla pesca d’alto mare nel Canale di Sicilia. La pesca tradizionale delle spugne e dei coralli — già vivace nell’Ottocento intorno a Sciacca e nelle acque di Pantelleria, e di qui allargatasi o meglio trasferitasi tra la fine del secolo e il 1925 sui litorali tunisino (Sfax) e libico: dove sciamavano circa 2000 persone, specie dal Trapanese — si è ormai disseccata. E invece resistono, con alterna fortuna, sia la pesca del tonno che quella del pesce spada. Fiorente nella seconda metà del XIX secolo, in particolare nel Trapanese — dove i Florio avevano costruito un importante complesso per la conservazione sott’olio, a Favignana — la cattura del tonno è andata gradualmente contraendosi. Le principali tonnare e tonnarelle esistono ancora, anche se non tutte funzionano ogni anno: al largo di Capo Granitola, a Favignana, Formica, Bonagia, San Cusumano, Secco, Magazzinazzi, Castellammare, Scopello, Trefontane nel Trapanese; Trabia e Solunto nel Palermitano; del Tono, di San Giorgio e Oliveri nel Messinese; di Marzamemi e di Santa Panagia nel Siracusano. Ma i tonni hanno dimostrato di disertare le tradizionali vie di passaggio nei pressi dei litorali siciliani, o almeno di non frequentarli più con la stessa regolarità: per un abbassamento delle temperature delle acque presso le coste; per la povertà delle risorse planctoniche; per gli indiscriminati sistemi di pesca, che tendono ad uno spreco straordinario delle risorse del mare, e in particolare del pesce azzurro e delle altre forme larvali e giovanili (la « neonata », di cui la cattura è proibita, ma che si vende liberamente nei mercati ittici — non soltanto in Sicilia — e si offre come piatto speciale nei ristoranti) come spesse volte ha messo in evidenza lo stesso Banco di Sicilia attraverso il suo prezioso e lodevole « Notiziario economico-finanziario » annuale. E pertanto attraverso i foratici delle enormi reti gettate sui bassi fondali lungo i tradizionali corridoi di corsa e sostenute da potenti e numerosi galleggianti, passano i tonni sempre meno numerosi di camera in camera fino a quella della morte, dove la « mattanza » assume toni di sconcertante crudeltà, al punto da richiamare a frotte i turisti, da maggio, quando ha inizio questo tipo particolare di pesca, fino a luglio, i tre mesi di più intensa attività (per i 9/10 del pescato). La cattura dei tonni varia in modo considerevole da un anno all’altro: fu di 13.709 q. nel 1952, di 24.336 nel 1957, di 18.048 un anno dopo, di 15.948 nel 1959, di 6017 nel i960, di 12.599 1961, di 6159 nel 1962, di 11.582 nel 1963, di 9631 nel 1964, di 12.315 nel 1965: e non è sufficiente all’approvvigionamento delle non numerose industrie interessate alla sua conservazione sott’olio, alle quali ne viene avviato però meno di un terzo, poiché il resto è immesso subito al consumo diretto. La pesca del pesce spada, per contro, è riuscita, grazie ad una continua opera di modernizzazione e di adattamento, a conservarsi assai più vivace. Limitata allo Stretto di Messina — dove sulla sponda opposta agiscono i pescatori calabresi, di Bagnara e poi anche di Scilla, Cannitello, Favazzina e in minor misura di Palmi, come ha da poco puntualmente e con grande eleganza descritto L. Gambi — essa veniva praticata in un passato ancora molto vicino con due piccole imbarcazioni: una per l’avvistamento dei banchi lungo le direttrici di passaggio, al tempo della fregola, dal Tirreno allo Ionio, esile e munita di un altissimo albero di vedetta (fino a 25 m.), e l’altra, il piccolo e veloce « lontro », per l’inseguimento e l’arpionamento. La pesca era pertanto essenzialmente ridotta alla fascia di mare vicina al litorale, e limitata ai mesi di giugno e luglio, prevalentemente. Un solo battello ha concentrato ora, da qualche anno, le funzioni della coppia di imbarcazioni tradizionale: dotato di un albero di 10-12 m. e di una lunga passerella press’a poco delle stesse dimensioni che s’avanza esile a prua, e dotata di motore, la nuova imbarcazione, molto più autonoma, può agire anche per un più lungo periodo dell’anno: da aprile fino a settembre almeno (con particolare intensità da maggio ad agosto). Le condizioni triennali delle condizioni marine — così come le ha descritte L. Gambi — comportano ciò nondimeno forti sbalzi nelle catture del pesce spada: i pescatori della zona del Faro (che in parte si dedicano anche alla coltivazione dei mìtili nei laghetti di Ganzirri) ne catturano comunque ogni anno da 2/3 a 3/4 della produzione italiana (l’altro terzo o quarto viene dall’opposta sponda calabrese): cioè 1650 quintali nel 1958, 1200 nel 1959, 2000 nel i960, 800 nel 1962.

    Il porto-canale di Mazara del Vallo (Trapani), uno dei principali centri pescherecci della Sicilia.

    Riparazione delle reti da pesca sulla spiaggia di Bonagia, a nord di Trapani.

    Messina: veduta di Ganzirri, borgata di pescatori all’estremità settentrionale della conurbazione messinese, presso Punta del Faro. Parte della popolazione di questa borgata si dedica alla coltivazione dei mìtili nei due piccoli laghi omonimi — detti anche Pantano Grande e Pantano Piccolo — e alla cattura del pesce-spada nelle acque dello Stretto.

    In complesso, la pesca siciliana mostra dunque, almeno fino ad oggi e nonostante diversi tentativi di ammodernamento, decisi caratteri di mediocrità. I mari intorno all’isola manifestano segni di stanchezza in rapporto al prolungato e poco oculato sfruttamento; e una parte della flottiglia da pesca — i motopescherecci, in particolare — possono avventurarsi soltanto fino al largo delle assai più ricche platee tunisine — che l’accordo tra l’Italia e la vicina repubblica africana precluderanno ai natanti siciliani dopo il 1970 — ma non possono spingersi, per la loro limitata autonomia e per il piccolo tonnellaggio che li distingue (per un terzo son sotto le 20 tonnellate di stazza lorda, per un terzo da 20 a 35, per un sesto da 35 a 50, per un ottavo tra 50 e 100 e per appena un ventesimo al di sopra delle 100 tonn.) negli spazi di mare posti tra Lampedusa e la Tripolitania. Nuove vie si devono tentare: specialmente quella della pesca atlantica — alla quale si dedica già una decina di motopescherecci da 200 a 800 tonnellate di stazza, di Mazara del Vallo e di Trapani, muniti di impianti congelatori, di celle di conservazione e di altri utilissimi strumenti: ecografi, ittioscopi, radar, radiotelefoni, radiogoniometri — che comporta la firma di speciali accordi con gli stati africani occidentali, dal Marocco al golfo di Guinea; e poi — non meno importante, e con l’altra pur legata — la via dell’ammodernamento di tutta la flottiglia da pesca, così da ottenere più forti rese, e migliori condizioni di vita per la classe dei pescatori. I quali ancora oggi — specie nella tradizionale pesca del tonno, dove il salario è « a parte », cioè in rapporto al pescato — toccano guadagni irrisori, e per lunghe stagioni rimangono inoperosi: e tendono quindi a lasciare le attività della pesca e ad occuparsi nella marina mercantile — la quasi totalità nei più dispersi e arretrati centri pescherecci — o ad emigrare verso altri settori professionali (fatto che comporta quasi sempre anche un cambio di residenza). Ma appare necessaria anche la ristrutturazione dei mercati ittici, che i numerosi intermediari rendono eccessivamente pesante: il pesce straniero — delle attrezzatissime flottiglie norvegese e giapponese, e di quelle meno attrezzate di Spagna, Portogallo e Turchia — conquista facilmente il mercato siciliano (nel 1962 ne sono stati sbarcati 108.000 quintali, pari a circa un quarto del prodotto isolano) mentre i pescherecci siciliani, scoraggiati dai prezzi irrisori che la vendita all’asta comporta, non esitano spesso a prolungare il viaggio fino a Napoli o addirittura fino a Genova, dove attingono assai più alte mercedi.