Vai al contenuto

Le regioni naturali

    Le regioni naturali

    L’impressione di estrema varietà e di toni monotoni del paesaggio siciliano si deve per un verso alla cruda giustapposizione di forme del terreno estremamente differenti, e per l’altro al ripetersi, talora su superfici anche molto estese, degli stessi tipi di suoli, della stessa secchezza dell’aria, e della stessa povertà delle risorse idriche, che si traducono in paesaggi naturali eguali o simili. La discreta elevazione dell’isola e l’incertezza del suo rilievo contribuiscono a dare una certa uniformità alle aree interne, mentre la mutevolezza estrema dei paesaggi rappresenta una peculiarità della frangia costiera. Qui, e in particolare nel settore nordorientale dell’isola, si fissano i gruppi montuosi e la mole vulcanica etnea: il terreno — su una superficie che è circa un quinto di quella complessiva della Sicilia — vi assume forme aspre, rotte, spesso abrupte, di vera montagna. Ma altrove, su quasi i due terzi del territorio insulare, predominano incontrastate le forme piuttosto tranquille di colline dai profili riposanti o solo lievemente mossi, e di tavolati o ripiani orizzontali o poco inclinati, che localmente possono animarsi per le forti incisioni operate dai corsi d’acqua, o per l’adergersi risoluto di placche o di blocchi rocciosi più resistenti e compatti. Alle pianure resta poco spazio: esse si trovano come incastrate tra le protuberanze calcaree dei principali promontori — le pianure di Palermo, di Carini, di Alcamo-Partinico —, o si allungano più o meno corpose a ridosso di rilievi in diversa misura energici : la Piana di Milazzo, la Piana di Gela e la fascia pianeggiante che da Trapani si snoda sino a Campobello di Mazara. Una sola, la Piana di Catania, che è la più estesa (430 kmq.), si fa largo spazio tra due regioni montuose ben nettamente delineate: tra la massa vulcanica dell’Etna e le formazioni, pure vulcaniche, degli Iblei settentrionali, e dallo Ionio si spinge e s’interna profondamente verso ovest fino a ridosso dei terreni arenacei e argillo-marnosi dell’altipiano interno.

    La Piana di Catania dalle ultime propagginazioni iblee. I « giardini » di agrumi sono difesi dai venti salmastri provenienti dal mare vicino, oltre che da una cortina arborea fìtta e compatta, anche da schermi lineari di canne palustri.

    Le forme del rilievo della Sicilia.

    I terreni della Sicilia.

    .

    I Peloritani, estremo lembo del massiccio calabro-peloritano

    Le forme del suolo sono più aspre e i lineamenti più rotti nell’estrema cuspide nordorientale dell’isola. Questa cuspide, dalla forma triangolare, è occupata dai monti Peloritani, ultimo lembo meridionale del cosiddetto massiccio calabro-peloritano. Lo Stretto di Messina, largo appena 3 km. e profondo soltanto un centinaio di metri, rompe attualmente in due tronconi diseguali l’antica unità morfologica e strutturale del massiccio: ma la regione peloritana ripete nella costituzione geologica i caratteri dei rilievi calabresi, e si distingue nettamente, per converso, da quelli delle regioni siciliane contigue. Come la Calabria a sud del Pollino, i Peloritani sono fondamentalmente cristallini — filladi, gneiss, graniti di età paleozoica —; ma a differenza di quelli calabresi, il nostro rilievo si profila in una catena esile, allungata, e forse a causa di questa sua esilità non vi compaiono i pianalti tipici del vicino Aspromonte, sagomato a gradini: soltanto a nord delle Masse, lungo la fiancata che scende al Capo Rasocolmo, si osservano spianate in qualche modo comparabili. I Peloritani, in complesso, terminano in alto con tratti acuminati, fatti di creste e cime rilevate, sottili e talora puntute, che sembrano tuttavia smorzarsi nel generale profilo ondulato del crinale. Il quale, assai smilzo all’altezza di Messina, e piuttosto basso (M. Ciccia, 609 m.), tende gradualmente ad irrobustirsi e ad innalzarsi, mantenendosi poi quasi sempre al di sopra dei 1000 m. : M. Antennamare, 1124 m. ; Pizzo Poverello, 1279 m-J Pizzo Acqua Bianca, 1210 m. ; Pizzo di Vernà, 1286 m. ; Montagna Grande, 1374 m. Quest’ultima rappresenta il punto più elevato della catena — insieme alla calcarea Rocca di Novara, 1340 m., che si erge più a nord sulla stessa dorsale trasversale — per coloro che se la configurano delimitata, verso occidente, dalle valli corse, in opposta direzione, dalla fiumara di Novara di Sicilia e dall’Alcantara. Ma per altri — cioè per coloro che limitano i Peloritani al settore cristallino della catena, che si stende solo fino ai solchi delle fiumare di Rodi e di Antillo, alla sella di Filippazzo (857 m.) — il punto più elevato rimane il Pizzo Poverello. Dall’alto dell’esile crinale i Peloritani scendono con spalle scoscese, e talora abrupte sullo Ionio, dove spingono fino a ridosso del mare forti sproni e contrafforti, sovrincombenti, e con fianchi un po’ più dolci e sfumati verso nord, sul Tirreno, dove alle più basse altitudini le rocce cristalline lasciano posto ad una fascia or esigua or salda di arenarie e di argille eoceniche, che fan da trapasso alla Piana milese. Ma su entrambi i versanti le groppe peloritane, erte di spuntoni rocciosi, sono profondamente intaccate verso l’alto, al di sopra dei iooo m., dalle incassate incisioni di un notevole numero di corsi d’acqua, che più in basso si aprono letti larghi e ghiaiosi, al pari delle fiumare calabresi. Gli scisti cristallini e i graniti, profondamente alterati e facile preda dell’intensa azione erosiva meteorica, offrono abbondante materiale detritico alle fiumare, che durante i periodi delle piogge lo trascinano a valle. La montagna offre sovente lo spettacolo — dove l’opera dell’uomo non l’ha fissata in una successione di numerosi, minuscoli terrazzi in gran parte ora privi di colture e abbandonati — di pendii in sfacelo; e il magro pascolo che la copre e la mancanza di ogni forma di insediamento umano fanno ancora più forte e crudo il contrasto con le più basse pendici della catena, ravvivate da fitte colture e da numerose borgate. La compattezza e la saldezza della catena, a dispetto della sua fragilità ed esilità, sono tali che le strade si fermano alla base del rilievo vero e proprio, poco più in alto dei 400 m., inerpicandosi sui versanti ripidi o ondeggiando sui crinali dei contrafforti, evitando cioè il fondo incerto e instabile delle valli, dominio delle incostanti fiumare. Nessuna strada attraversa i Peloritani dall’uno all’altro versante: solo all’altezza di Messina, dove la catena si deprime ad appena 465 m. nella Portella di San Rizzo, si inerpica la strada statale con numerosi tornanti e dislivelli notevoli; e una fitta rete di strade comunali distingue a nord di questa direttrice le Masse, in un paesaggio ormai più calmo, e con altitudini solo in un punto superiori ai 600 m. (M. Ciccia, 609 m.). Una strada sommitale — prima chiusa alla libera circolazione perché tracciata entro i limiti di una zona militare — corre dalla Portella di San Rizzo all’Anten-namare, e si è trasformata di recente in una via molto battuta dal turismo locale, tra pascoli e boschi fitti e freschi, a dominio dei due mari.

    Veduta dell’alta costa tra Patti e Capo d’Orlando, disseminata da brevi ed esili cimose pianeggianti, nel tratto cristallino dei Nébrodi (Messina).

    Un aspetto dei Peloritani tirrenici nei dintorni di San Cono, nella valle della fiumara di Saponara (Messina).

    Uno degli aspetti più imponenti delle « fiumare » dell’Italia meridionale è il largo letto ghiaioso, che convoglia al mare grosse masse d’acqua soltanto nei mesi di più forte piovosità. Qui la fiumara di Novara di Sicilia, nel suo tratto terminale, al limite tra i Peloritani cristallini e i Nébrodi arenaceo argillosi.

    Vecchi terrazzi di coltura, ora abbandonati, e nuovi terrazzamenti per il rimboschimento nella valle della fiumara Gallo, presso Gesso (Messina).

    Il fitto manto vegetale — boschi di pini, eucalipti e robinie — intorno alla Portella di San Rizzo (465 m.), sullo spartiacque dei Peloritani, cui tende con ripidi tornanti la strada — completamente nascosta dalla vegetazione — proveniente da Messina.

    I Nébrodi o Caronie

    Là dove i Peloritani, lungo la dorsale che sopporta la Rocca di Novara e la Montagna Grande, tendono a spostare decisamente in senso orizzontale l’asse del loro allineamento, e a farsi più corposi, vengono a cessare per far posto ai Nébrodi e alle Madonie. Il passaggio è per molti aspetti insensibile, e sul registro topografico, di conseguenza, le tre masse montuose costituiscono una vera fascia continua e compatta, la sola, in Sicilia, che assuma i caratteri di catena. Sul piano della costituzione geologica e delle forme del rilievo, le discrepanze sono per contro notevolissime: ai Peloritani cristallini succedono i Nébrodi arenaceo-argillosi. Questo tratto della catena montuosa settentrionale — conosciuta con denominazione letteraria come Nébrodi, e nella sua parte occidentale con il nome più usuale e noto di Caronie — forma una robusta balaustra lunga circa 70 km. fino al solco del Pollina e larga da 20 a 30, che si innalza largamente al di sopra dei 1000 m. : e in una serie continua di alte groppe — Serra di Trearie, M. Soro, Pojo Tornatore, Pizzo Fau, M. Castelli, M. Sambughetti — supera i 1500 m., attingendo la sua massima elevazione nel M. Soro, a 1847 m. La spina dorsale della catena è formata da arenarie terziarie, lambite al di sotto dei 1000 m. da argille scagliose. Il rilievo, a dispetto dell’altitudine notevole, assume forme morbide, che si ripetono dolci su larghi tratti: più tranquille comunque nelle argille che nelle soprastanti arenarie per la loro differente capacità di resistenza all’erosione subaerea. Il paesaggio si arricchisce di lineamenti più vivaci là dove l’affioramento di masse più resistenti di calcari mesozoici dà contorno a picchi aspri e arditi, nei settori più elevati, o dove, più in basso, le formazioni argillose sono state tormentate, e talora sconvolte, da frane e smottamenti che vi hanno impresso segni duraturi, o sono state intagliate profondamente dalle acque meteoriche in sequenze più o meno estese di incisioni di tipo calanchiforme. In complesso il paesaggio, dal profilo quasi dovunque morbido, ripete i caratteri essenziali del paesaggio dell’Appennino settentrionale arenaceo-argilloso, come ha messo in evidenza il Sestini. Il contrasto tra le arenarie e le argille ricompare vivo anche negli aspetti della vegetazione: le arenarie sopportano la più estesa macchia boschiva di tutta l’isola —• con prevalenza del bosco ceduo —; sulle argille, al contrario, nude di alberi, han preso posto le colture erbacee, di tipo estensivo: sul versante meridionale, che trapassa nei monti della Sicilia interna, tali colture — grano, fave, sulla — tendono a smorzare i caratteri di transizione con un manto uniforme e monotono. Questo versante meridionale, che si deprime sino intorno ai 500 m. di altitudine — fin sulla valle del Traina ad occidente, e ad oriente su quella dell’Alcantara, dove si effettua l’attacco con le propagginazioni più basse della massa etnea — risulta più compatto, anche se profondamente inciso da larghi corsi d’acqua; ma sul versante settentrionale dei Nébrodi, la massa montuosa si protende decisamente entro il mare, a formare una cospicua, salda protuberanza che si attesta da una parte a Capo d’Orlando e dall’altra a Capo Calavà: qui riappaiono su larghe estensioni gli scisti cristallini della catena peloritana, alla quale sono geologicamente connessi. Le forme del terreno — nelle numerose, lunghe e assottigliate propagginazioni o contrafforti divisi da altrettante piccole valli — si animano in modo sensibile, e i profili inclinati predominano in contrasto con i lineamenti morbidi della parte cacuminale. Le valli incise dai corsi d’acqua sono più svasate, i fondi vallivi più larghi; e nei tratti terminali le fiumare hanno costruito, con il ricco sfasciume trascinato giù dai monti, piccole, ben riparate e fertili pianure alluvionali: tipica, tra queste, la minuscola piana di Patti.

    La costa presso Capo d’Orlando (Messina), uno dei promontori più aspri e pronunciati del litorale tirrenico della Sicilia.

    Il massiccio calcareo delle Madonie

    Le stesse forme plastiche nebrodensi tendono a continuare anche più ad occidente, al di là della doccia segnata dalla fiumara di Pollina. Ma qui la montagna perde la sua direzione longitudinale, e viene ad assumere per contro una conformazione tozza e tondeggiante, che dà corpo ad un vero e proprio massiccio. I terreni calcarei mesozoici, presenti nei Nébrodi come placche isolate, si manifestano nelle Madonie in modo compatto, con notevole potenza. Dolomie e calcari biancastri occupano tutta la parte più alta del gruppo montuoso, slargandosi, entro pareti rocciose precipiti, in pianori carsificati, ricchi di conche e doline — le quarare —, e innervosendosi in groppe e dossoni particolarmente elevati: Pizzo Carbonara, 1979 m.; M. San Salvatore, 1910 m. ; M. dei Cervi, 1794 m. I valloni che intagliano le pareti sono ripieni di ricco materiale detritico di sfasciume, qui abbandonato dalle acque meteoriche prima di inabissarsi entro le cavità carsiche. Torno torno ai terreni calcarei — dove le acque del settore più elevato riappaiono in numerose sorgenti — fan corona le formazioni arenacee ed argillose, tranquille e riposanti come quelle simili dei Nébrodi. Il disegno morfologico ripete da presso quello dei massicci dell’Appennino campano-lucano. Compatto nella sua parte centrale ad oriente del Rio Grande (o Imera settentrionale), al di là di questo fiume e fino al Torto il massiccio delle Madonie si rompe e disarticola deprimendosi fino intorno ai 1000 m. : li supera sensibilmente soltanto il M. Roccellito (1145 m.), che domina Sclàfani e Montemaggiore Belsito.

    Vedi Anche:  Sviluppo degli insediamenti umani

    Il Pizzo di Pilo (1384 m.), coperto da un pascolo magassimo, che si innalza a sud di Gratteri nel massiccio calcareo delle Madonie.

    Veduta dell’alta costa tirrenica dei Peloritani nelle vicinanze di Capo d’Orlando (Messina), punteggiata da esili piane e frange costiere.

    La svasata valle del Fiume Grande o Imera settentrionale, nei pressi della foce.

    Opposizione di tipi di rilievo nei monti della Sicilia occidentale

    Termina così, sbrecciata, la catena montuosa settentrionale. Al di là del Torto, che volge al Tirreno, e del Plàtani che a sud tende al Mar d’Africa, i lineamenti morfologici mutano completamente sembianza: su tutta la fronte tirrenica giù giù verso l’interno fino a toccare, seppure per breve tratto, la costa siciliana che guarda alla Tunisia. Due tipi di rilievo si oppongono qui con forte contrasto. Quasi tutta la Sicilia occidentale è interessata da una successione monotona di colline confuse, dai contorni dolci, senza rotture di profili, che in complesso si mantengono sui 200-300 m., per svilupparsi, soprattutto nell’interno, intorno ai 400-600. Si tratta di una vasta piattaforma di alture argillose o marnose mioceniche, facile preda dell’erosione delle acque meteoriche, che tutto tendono a livellare e a rendere incerto. Ma su tale piattaforma dai profili sfumati, si adergono prepotenti e robusti, dal taglio rude e brusco, aspri rilievi distribuiti in modo irregolare: masse calcaree o calcareo-dolomitiche di età mesozoica, rilevate in alture modeste di 300-400 m., o corpose e robuste superiori ai 1000 e anche ai 1500 m. A dispetto dell’altitudine, tutti questi rilievi si impongono da lontano con i loro profili nervosi : la tipica asimmetria che a pareti abrupte e balze scoscese e dirupate su un fianco oppone sul fianco opposto un pendio meno brusco, se non proprio regolare, per l’intervento di masse anche cospicue di sfaciumi rocciosi; la configurazione della parte sommitale, ora modellata a crestone seghettato o a punta acuminata, ora disposta a pianoro piatto e calmo. Queste masse calcaree rilevate sono note localmente con il nome di « rocche », e da lontano assumono veramente l’aspetto di castelli imponenti e saldissimi. Alcune formano sproni assai accentuati, a ridosso del mare, o decisamente vi si immergono come snelli promontori, con pareti a perpendicolo sulle acque, da Tèrmini Imerese sino a Trapani: gli stessi monti di Termini (San Calogero, 1325 m.), il M. Pellegrino (606 m.) e il M. Gallo (596 m.) a nord di Palermo, il M. Castellacelo (890 m.), il Pizzo Montanello (964 m.) e il M. Pecoraro (910 m.) che fan da quinta alla piccola piana di Carini, e più ad occidente il M. Inici (1065 m.) sovraincombente su Castellammare del Golfo, il M. Spàragio (1108 ni.) che sta alla radice della nuda dorsale calcarea della penisola di Capo San Vito, e ancora i monti Còfano (650 m.) e San Giuliano (751 m.), sul quale si innalza Erice a guardia di Trapani, di cui è nota dominante e caratteristica. Disponendosi a ridosso del litorale, essi hanno comportato la tipica conformazione della costa a larghe falcature: delimitano così i golfi di Palermo, Carini, Castellammare, Còfano e Bonagìa.

    Ma le masse calcaree formano rilievi ancor più imponenti e maestosi nell’interno, dove emergono fuor dalla coltre tranquilla delle argille con tratti decisi: soprattutto la Rocca Busambra (1615 m.), che sostiene il Bosco della Ficuzza sul suo versante settentrionale — e lì alle sue falde dà ricetto a Ficuzza e Mezzoiuso, dove i calcari fan posto alle argille e liberano l’acqua in sorgenti di contatto —, e il M. Barracù (1457 m.) che insieme al primo domina, con la sua mole spelata, la cittadina di Corleone; e appena più a sud tali masse, tenendosi abbastanza vicine l’una all’altra, tendono a dar corpo ad una pur poco consistente fascia montagnosa che da Sambuca di Sicilia volge fino a Gammarata, e qui appunto culminano nel monte omonimo (1580 m.): i cosiddetti monti Sicani. L’erosione normale soltanto in parte spiega il forte risalto che oppone queste masse calcaree alle sottostanti, calme colline marnose o argillose, oppure, lungo il litorale, a ben livellate pianure alluvionali e ad altrettanto composti ripiani tufacei. Alla formazione di questo tipo peculiare di paesaggio ha contribuito in modo più determinante la struttura: le masse calcaree o calcareodolomitiche, di età mesozoica, sono state interessate a più riprese da fenomeni di rottura o fagliatura, e portate poi in alto da movimenti tettonici: l’erosione subaerea ha dunque cominciato ad operare su aree già in forte contrasto tra di loro dal punto di vista della posizione altimetrica, e ad agire in modo differenziato su quei materiali — calcari e argille — diversamente capaci per la loro stessa natura di opporre resi-sistenza. Il contrasto tra le due differenti formazioni geologiche e quindi tra i due distinti tipi di paesaggio morfologico cui dan luogo, viene ulteriormente accentuato dal contrasto che vi crea l’opposizione delle colture che sopportano: qualche bosco quando son ricoperti da un mantello di terreni argillo-marnosi, o pascolo, o nudi e spogli, i calcari; colture erbacee, le argille e le marne; colture di pregio, le minute pianure alluvionali sgranate lungo le coste.

    La massa calcareo-gessosa del M. San Calogero (386 m.), che scende con pendii dirupati verso il Mar d’Africa presso Sciacca (alle spalle) e domina, quasi spoglio di vegetazione, la campagna di Sciara (Agrigento).

    Ambiguità del rilievo nella Sicilia centrale

    I contrasti morfologici caratteristici della Sicilia occidentale vengono meno a sud di Trapani. In questo lembo sudoccidentale dell’isola — da Trapani cioè sino a Sciacca — tali monti non giungono fino al mare: a circa 10-15 dal litorale essi cedono il posto ad una fascia di basse piattaforme lievemente ondulate, che da 150-200 metri di altitudine inclinano dolcemente sino ad immergersi nelle onde del Mar di Sicilia o africano. Calcari e arenarie, predominanti — pliocenici e quaternari di origine marina — si configurano in ripiani a struttura tabulare, pochissimo turbati dall’erosione a motivo della modesta altitudine. La roccia affiora largamente, con il suo colore bianco-giallastro, mettendo in mostra la sua struttura grossolana. Gli affioramenti assumono talora l’aspetto di bastionate, talora invece di scoscendimenti più o meno abrupti, rimarchevoli soprattutto presso la linea di costa: dove ora sovrincombono a strette frange di materiale alluvionale recente o di bassi cordoni dunosi, ora invece son battute, lungo la linea di una piccola ripa, direttamente dalle onde del mare.

    Verso l’interno, per contro, si ha l’impressione che senza alcuna soluzione di continuità la plastica peculiare dei monti della Sicilia occidentale si ripeta continua fino alle pendici etnee e ai bordi della Piana di Catania, cioè tra il Plàtani e il Simeto, e dalla catena settentrionale fino al litorale del Mar d’Africa: interessando quindi la maggior parte di tutta la superficie dell’isola. Una serie infinita di bassi monti e colline si sussegue a perdita d’occhio, senza un ordine preciso: nessuna chiara disposizione o orientamento vi si può scorgere, come aveva già rilevato molti anni fa O. Marinelli; ma un senso di ambiguità e incertezza sembra disporre a caso, le une dopo le altre, gobbe e dorsali dalle linee ampie, tondeggianti, dai pendii poco sensibili, divise da valli larghe e svasate, dove i fiumi si muovono pigramente con volute meandriformi : un vago ondeggiar di linee, che sembrano ammucchiarsi all’orizzonte. L’ambiguità delle forme plastiche è il carattere distintivo del rilievo, e dà il tono all’ambiente; l’altitudine è relativamente bassa, tra 400 e 600 m. Si ripetono pertanto, qui, soltanto le forme di un tipo di rilievo della Sicilia occidentale, quello delle formazioni argillo-marnose: manca la nota vivace dei rotti profili delle masse calcareo-dolomitiche. Sono appunto le forme molli del rilievo largamente prevalenti — nonostante qualche locale accidentalità — e la trascurabile altitudine che hanno valso a questa vasta area interna della Sicilia il nome di altipiano centrale: ma impropriamente. I terreni, prevalentemente argillosi, di età miocenica e pliocenica — siamo nel regno delle argille, e quindi nel dominio delle frane, che numerose si formano in questi terreni facili all’erosione, dando un aspetto anche più incerto e caotico all’ammasso di queste alture — degradano in modo blando verso il Mar d’Africa, dove spesso appaiono nettamente troncati delineando una costa alta e importuosa. L’altitudine media — 400-600 m. — ora si deprime in modo sensibile, ora invece si esalta in groppe e pianori, fino a 800-1000 m. I terreni — argille gessose e sabbiose, negli strati più bassi normalmente salate, e gessi marne e altre formazioni che includono ricche lenti di gesso: si parla perciò di serie gessoso-solfifera, nella quale si localizzano i depositi e le miniere di zolfo, salgemma e sali potassici — si dispongono in banchi pressoché suborizzontali, e l’erosione differenziale su materiali di diversa compattezza ha portato all’isolamento, fuor dalle morbide argille, di spuntoni, creste e piccoli pianori di natura gessosa, calcarea o arenaceo-conglomeratica, che punteggiano le dorsali delle alture. I pianori e i dossoni di gesso, abbaglianti sotto il sole, sono sede frequente di fenomeni carsici: le acque sprofondano entro i gessi — dove formano cavità e grotte in intricato groviglio — attraverso le fessurazioni del terreno e gli inghiottitoi, che si aprono entro piccole conche depresse o doline, qui note come zubbi. Ad est del Salso il paesaggio si anima anche di più: un sistema di groppe e ripiani più marcati e ravvicinati forma, lungo la direttrice Enna-Piazza Armerina, i cosiddetti monti Erei. Qui i terreni miocenici non sono più prevalenti, perché risultano ricoperti da una coltre di depositi pliocenici di origine marina, costituiti nelle parti più elevate — cioè fino intorno ai iooo m., come ad Enna e a Calascibetta — da tufi calcarei e conglomerati assai resistenti, che danno maggior energia ai rilievi: grosse placche tabulari di tufi e conglomerati proteggono le sottostanti argille, e per la loro stabilità hanno richiamato per tempo gli insediamenti umani. Talora questo ricoprimento calcareo si presenta piuttosto sottile, così da poter essere facilmente intaccato dalla stessa azione solvente delle acque agenti sui sottostanti materiali argillo-gessosi : in tal caso anche tale ricoprimento sprofonda, lasciando posto a depressioni locali di tipo carsico come — par probabile — il lago di Pergusa, a sud di Enna. Dovunque, sotto i rilievi più pronunciati, le svasate valli argillose, turbate dalle frane e dagli smottamenti, vengono puntualmente evitate dagli insediamenti umani come dalle strade.

    Parte cacuminale del Monte di Erice, di calcari giurassici regolarmente stratificati, che domina imponente la piana di Trapani. Qui una veduta del Castello della cittadina turistica di Erice.

    Aspetti della campagna nei dintorni di Alcamo (Trapani): vigneti e larghi campi aperti votati alla granicoltura.

    Vedi Anche:  Il clima e la vegetazione

    La suggestiva « gola » dell’Alcantara, intagliata nelle lave scaturite dal vicino gruppo vulcanico di M. Moio. presso Moio Alcantara.

    Calascibetta (878 m.), grossa borgata agricola dell’altipiano interno, costruita dagli Arabi su un rilievo roccioso, in posizione sicurissima, durante l’assedio posto nell’851 a Castrogiovanni (Enna).

    Il tavolato ibleo

    Proprio ai margini meridionali degli Erei, tra San Michele di Ganzarla e Calta-girone, l’altipiano interno della Sicilia si innesta al tavolato ibleo, una delle regioni meglio definite sotto il profilo morfologico nell’àmbito dell’isola. Esso si sviluppa nella tozza cuspide sudorientale, che occupa integralmente, da mare a mare. Lo costituisce una potente pila di strati calcarei, miocenici e pliocenici, disposti in forma tabulare, cioè grosso modo orizzontalmente. I lineamenti del paesaggio sono assai riposanti, anche se gli Iblei si innalzano nella loro parte più elevata ad un migliaio di metri: il M. Lauro tocca i 986 m. Ciò si deve alla particolare disposizione dei terreni in piattaforme uniformi, digradanti torno torno : le più estese tra 400 e 500 m. — ben marcate quelle mioceniche di Ragusa e di Mòdica, formate da un calcare bianco-giallastro, e più ad oriente quelle intagliate tra il Téllaro, il Cassibile e TAnapo; e meno rilevate quelle plioceniche, come la piattaforma che si sviluppa intorno a Vittoria, intagliata dall’Ippari, e crudamente giustapposta lungo una ripida scarpata, alla cui ombra sta Cómiso, al tavolato ragusano; le più basse, vere terrazze marine, al di sotto dei 100 m. di altitudine: alle quali fanno corona, appena su qualche tratto, cospicue pianure alluvionali — quella di Catania a nord, e quella di Gela a sudovest — o brevi cimose costiere di natura dunosa. Queste piattaforme poste a diversa altitudine sono limitate da scarpate più o meno pronunciate, che diventano forti gradini verso oriente, dove presentano i caratteri tipici di una costa di abrasione; e le più basse — dove non orlate da lembi di pianura terrazzata — prospettano direttamente sul mare, con ripe rocciose che si articolano in seni e piccoli golfi. Il rilievo si fa leggermente più accidentato soltanto verso la zona cacuminale, occupata da tufi e da espandimenti basaltici pure di età miocenica, che a volte si intercalano a volte invece si sovrappongono ai calcari: dalla zona di M. Lauro essi scendono verso nord, occupando gran parte del meno sviluppato versante settentrionale, dove calano fin nei territori di Militello in Val di Catania e di Francofonte. Ma la diversa natura di queste formazioni — che si plasmano in grandi groppe cupoliformi — non è valsa a turbare il generale andamento tabulare degli Iblei. I corsi d’acqua che si dipartono a raggera dalla zona sommitale — l’Àcate o Dirillo, l’Irminio, il Téllaro, l’Ànapo e il Margi — non l’hanno incisa sensibilmente; ma più sotto, sui calcari, agendo soprattutto in profondità le acque hanno intagliato valli anguste e strette — note con il nome di cave — che frammentano i tavolati in numerosi blocchi, quasi scissi ed estranei l’uno all’altro. Queste cave, dai pendii spesso abrupti, a perpendicolo, contrastano vivacemente con le piattaforme pianeggianti, che sono insensibilmente inclinate verso l’esterno: insieme, costituiscono i motivi peculiari della morfologia iblea. Evitate dalle strade per la strettezza del fondo e la scoscesità dei versanti, le cave — dove gli strati affiorano largamente cariati — hanno dato ricetto, fin dall’età preistorica, a caverne e ripari sicuri per l’uomo — e in parte vi si conservano ancora oggi ripostigli, ricoveri e stalle — e alle tombe di immense necropoli: come quella della sicula Pantàlica, sul medio corso dell’Anapo. Del resto gli stessi calcari, di facile taglio, si sono prestati nell’antichità (come nelle « latomie » di Siracusa) e si prestano tuttora (in cave squadrate dette tufare) per l’estrazione di copioso materiale da costruzione. Va osservato che nonostante l’enorme diffusione dei calcari, le forme classiche del carsismo vi sono del tutto assenti.

    I tavolati iblei, piatte formazioni di calcari a stratificazione orizzontale, sono divisi in diverse unità da profonde incisioni vallive — le cave — a pareti verticali, come quella qui raffigurata, nei dintorni di Ragusa.

    La Piana di Catania e le altre minori pianure alluvionali

    Verso nord, l’altipiano ibleo quasi precipita sulla Piana di Catania. In un’isola assai povera di vere pianure, e in particolare di pianure alluvionali, la Piana cata-nese, estesa su 430 kmq., si impone come cospicua. Dal mare, dove la limita una linea di costa pressoché diritta, sensibilmente rialzata in una fascia dunosa di sabbie, essa si insinua nell’interno, stretta tra le più basse propagginazioni iblee e le estreme pendici dell’Etna, innalzandosi a grado fino intorno ai 100 metri di altitudine, e ingolfando verso occidente le prime pendici dei colli e dei monti della Sicilia interna.

    Veduta parziale della vasta necropoli di Pantàlica (Siracusa) — formata da circa 5000 grotte scavate entro le ripide pareti di un terrazzo calcareo nell’alta valle del fiume Anapo — del periodo siculo (XII-VIII secolo a. C.).

    L’hanno formata le alluvioni qui trascinate dal Simeto e dai suoi affluenti, specie il Dittamo e il Gornalunga, i più sviluppati: e ancora oggi questi fiumi la percorrono svogliatamente, attardandovisi in numerosi meandri. I quali, seppur un po’ incassati entro le stesse alluvioni del piano, nel periodo delle piogge prolungate vi tracimano facilmente, tutto inondando. Le opere di sistemazione idraulica, pressoché portate a termine — esse hanno interessato il piano vero e proprio, ma anche la fascia costiera, dove il deflusso delle acque è reso difficile o impedito dallo sbarramento dunoso — non soltanto hanno contenuto da diversi decenni e da poco hanno quasi annullato i pericoli delle esondazioni, ma dando un governo normale alle acque hanno liberato dal peso della malaria — che per secoli vi ha infierito — tutta la Piana: che perciò si vien ravvivando di strade, case e colture più intensive e fruttuose dei semplici seminativi e riposi a maggese. Di conseguenza, l’antico profondo silenzio della Piana tende a restringersi ad aree vieppiù limitate, e a scomparire.

    La Piana di Catania — sul fondo — viene crudamente a contatto, nella sua parte interna ora agrumetata ora cerealicola, con le povere pendici calcaree o laviche degli Iblei, coperte da magri oliveti e da una macchia mediterranea degradata.

    La Piana di Oliveri (Messina), occupata da agrumi e ortaggi, è rappresentativa delle brevi pianure del litorale tirrenico della Sicilia, strette tra il mare e i monti da presso incombenti.

    Al di fuori di questa, le altre pianure alluvionali son di estensione trascurabile: piccole fasce costiere; o addirittura semplici cimose addossate ai monti sovrincombenti sul mare, talora prolungate con sinuose propagginazioni a lingua su per il corso affossato delle fiumare, come gran parte di quelle che orlano la regione peloritana, sia sul Tirreno — quelle di Sant’Agata di Militello, di Patti, di Falcone —, sia sullo Ionio — dalle porte meridionali di Messina fino a Capo Sant’Alessio —; o con l’aspetto, talora, di più larga fascia, come quella che si appoggia alle falde dell’Etna, dalla foce dell’Alcantara fino ad Acireale; o ancor più corpose, talaltra, come quelle che si sviluppano da Cefalù a Trapani, chiuse tra promontori e pittoreschi rilievi calcarei — soprattutto la Conca palermitana, le piane di Carini e di Alcamo-Partinico —, o quella di Milazzo, dove i materiali portati da numerose fiumare — le più lunghe dei Peloritani — si sono variamente giustapposti e sovrapposti a formare un piano triangolare che si è coordinato con l’affusolato, lanceolato promontorio cristallino omonimo. O ancora, sul litorale del Mar d’Africa o siciliano, la consistente Piana di Gela, orlata lungo il mare da dune assai rilevate (fino a 30 m. d’altezza) e disposte in fascia compatta (larga fino ad un chilometro), che lievemente si innalza verso l’interno, lungo l’asse del Gela-Maroglio, trapassando in modo insensibile dai materiali alluvionali a quelli pliocenici di formazione marina, conformati a ripiano o terrazza. E quest’ultimo tipo di pianura che con caratteri più evidenti si ritrova nel vicino, attiguo piano di Vittoria, e nell’estremità occidentale dell’isola, tra Trapani e Castelvetrano, come ho già osservato. Invero, non soltanto le pianure alluvionali — prima fra tutte la Piana catanese — ma anche le larghe terrazze quaternarie che quelle continuano verso l’interno o che direttamente si aprono sul mare, offrono alla Sicilia, a dispetto della sua prevalente collinosità, una dotazione non proprio trascurabile di terreni piuttosto bassi e livellati: un quinto almeno dell’isola si trova al di sotto dell’isoipsa di 100 metri.

    La Piana di Gela, sul litorale del Mar d’Africa, è ancora distinta dalla grande proprietà fondiaria e da estesi campi aperti, che si coltivano alternativamente a frumento, cotone e ortaggi. L’irrigazione, in fase di sviluppo, dovrebbe accrescerne notevolmente le potenzialità agricole.

    Il grosso centro abitato di Regalbuto (525 m.), disposto su un colle pianeggiante dell’altipiano interno orientale (Enna). Sullo sfondo, l’Etna coperto di neve.

    La grande mole etnea e le isole vulcaniche

    Sul piano topografico e morfologico, una unità chiaramente individuata è costituita, sulla fronte ionica della Sicilia, dalla grande mole etnea. Racchiusa tra il mare, le valli dell’Alcantara e del Simeto e la Piana di Catania, essa occupa una estensione di circa 1570 kmq., con un perimetro circolare o meglio ovoidale che si sviluppa su poco più di 210 chilometri. Da lontano colpisce la mole imponente del vulcano, che si eleva con profilo ardito specie nella parte più alta, fino a 3290 m. ; ma da vicino meraviglia e avvince il contrasto tra le falde poco inclinate, fin sui 1500-1600 m., e i fianchi assai ripidi e sempre più abrupti verso l’alto: contrasto sottolineato in basso dalla diffusione delle colture intensive, spesso di pregio, e da un intenso popolamento umano ; e in alto da scure colate laviche e grandi depositi di scorie aride, coperti da placche di bosco, di pascoli magri, e più in su punteggiati da macchie di ginestre e di cuscini di spinosanto, fino intorno ai 2400 m. di altitudine, e poi completamente nudi.

    L’Etna non forma dunque un massiccio conico regolare, ma si suddivide in almeno due tipi morfologici particolari. Sotto i 1500-1600 m. gli espandimenti lavici si stendono sui terreni sedimentari postpliocenici, che si ritrovano in lembi staccati ancora a 800 m. di altitudine: le argille quaternarie di Santa Maria La Vena e di Santa Venera attestano l’importanza dei fenomeni bradisismici e tettonici nella formazione della grande montagna. A questi espandimenti lavici sui terreni sedimentari si deve il profilo appiattito dell’apparato vulcanico in rapporto alla sua altezza. La base vulcanica appare pertanto ben rilevata sul livello marino. Il vero cono etneo trae forma in effetti soltanto intorno ai 1500 metri, e s’aderge imponente fin sui 2900 m., dove si appiattisce in un relativamente esteso altipiano, di contorno ellittico, che si presenta come il residuo di un antico cratere. Da questa piattaforma tabulare si innalza il cono terminale, suscettibile, appunto per la natura vulcanica del rilievo tuttora attivo, di variare nel volgere del tempo, a seguito delle eruzioni, e forma e altitudine: ora termina a 3290 m. con un cono regolare, con pareti interne in gran parte verticali. La regolarità della mole conica risulta tuttavia assai varia nei dettagli per la presenza di diverse centinaia di coni secondari e di crateri avventizi, alti alcune centinaia di metri sul loro imbasamento, isolati o disposti a disegnar linee regolari lungo le principali fratture delle eruzioni laterali. Anche da questi crateri, oltre che da quello culminale, sono fuoruscite e tuttora fuorescono imponenti colate laviche, che discendono fin entro la zona delle colture, fittamente popolata. Due di queste si spinsero fino al mare: una — quella del 1669 — sommergendo persino alcuni quartieri di Catania e proseguendo per circa 700 metri entro le acque dello Ionio; l’altra, assai più recente — nel 1928 — distruggendo l’abitato di Màscali, a nord di Giarre e Riposto. E a rendere ancor più varia la morfologia della mole etnea concorrono pure le fratture e gli squarci, talora impressionanti, causati dalle esplosioni: come l’orrido taglio corrispondente alla valle del Bove — con pareti abrupte alte da 600 a 1200 m. — che rompe paurosamente la montagna sul versante orientale, a monte di Zafferana Etnea e di Milo. Questo taglio rivela in modo chiaro la struttura del vulcano, mettendo in evidenza l’alternanza di correnti di lava e di banchi di tufo, rotta da numerosi dicchi.

    Vedi Anche:  Tradizioni, usi, costumi ed analfabetismo

    I terreni vulcanici sono costituiti prevalentemente da lave e basalti andesitici, e ancora da tufi lapilli e ceneri, mentre i terreni alluvionali son formati da argille e ghiaie poco cementate, oltre che da più recenti sabbie. Ad eccezione delle argille, si tratta di terreni molto permeabili: sicché le acque di precipitazione — che da un minimo di 600-700 mm. l’anno lungo le pendici del vulcano salgono a circa 1400 nelle parti più elevate — e quelle di fusione della neve — che incappuccia il vulcano da 1600 m. in su nell’inverno — scompaiono tra i meati del terreno per ricomparire scarse al di sopra dei 1000 metri, e abbondantissime al di sotto dei 700-800 m. Al contrasto morfologico, si sovrappone pertanto anche un contrasto nei caratteri idrologici della circolazione delle acque: nella zona alta, prevalentemente arida, manca una vera idrografia superficiale; in basso, per contro, le acque abbondano: accanto alle sorgenti naturali, frequenti pozzi attingono alla falda acquifera sotterranea, raggiunta a diverse profondità, da un minimo di 10 a più di 100 metri e talvolta a più di 150.

    Il cratere principale dell’Etna (3269 m.), chiazzato di neve.

    Al pennacchio di vapori dell’Etna rispondono dal Tirreno i bagliori di Stromboli e di Vulcano. Il fenomeno del vulcanesimo presenta in effetti in Sicilia numerosi esempi e molteplici varietà, anche al di fuori della più maestosa e suggestiva montagna etnea. E il paesaggio vulcanico è ancor più diffusamente rappresentato, anche in distretti in cui l’attività vulcanica è spenta. Quasi tutte le isole che fan corona alla Sicilia — emerse fin dal Terziario, ma anche nel Quaternario: e l’emersione ha segnato varie fasi, e ha permesso di conseguenza la formazione di più ordini di terrazze — son di origine vulcanica: l’arcipelago delle Eòlie (o Lipari) e Ustica nel Tirreno, Pantelleria e la minuscola Linosa nel Mar di Sicilia. Tutte hanno una profonda radice — cioè la base — nel fondo del mare, fin intorno ai 2000 m. sotto il livello delle acque; e si innalzano sino a 600-950 m. sopra il livello marino: non son dunque molto diverse, per mole e imponenza, dallo stesso Etna, tutto subaereo. La parte visibile degli apparati vulcanici insulari risulta tuttavia assai meno complicata, nelle forme, dell’Etna, specialmente quando son costituiti da un solo cono: è il caso di Stromboli e di Alicudi. Ma talora il paesaggio vi si fa più vario per la presenza di numerose accidentalità — coni e crateri diversamente conservati, e variamente intaccati dall’erosione —: a Lipari, a Salina, a Vulcano, o si presenta con forme ancor più complesse o addirittura intricate e di difficile interpretazione, come a Pantelleria.

    Il cratere di Vulcano, nell’arcipelago delle Eòlie: sullo sfondo l’isola di Lipari.

    Eruzioni e terremoti: una minaccia sempre incombente

    L’attività vulcanica in Sicilia non si è limitata, nel corso della storia geologica, a quelle regioni che attualmente vengono riguardate come teatri di fenomeni eruttivi; è al contrario attività antichissima, e preetnea, cioè rimonta assai al di là del periodo terziario: ne fanno fede le grandi formazioni vulcaniche precretaciche della regione di Pachino, intorno a Capo Pàssero, e quelle tufacee rotte da dicchi che formano la piattaforma sulla quale si sono accumulati, in tutto il Siracusano, i calcari miocenici successivamente squarciati, sul versante settentrionale degli Iblei, da altre notevoli formazioni tufacee e da larghi espandimenti basaltici. Ma ora le eruzioni sono limitate essenzialmente a due focolai, molto diversi per frequenza e grandiosità di manifestazioni esterne: la mole etnea, e Stromboli nell’arcipelago liparota. Per l’Etna, non soltanto i ricordi, ma anche le descrizioni sono assai antichi: l’eruzione del 475 a. C. è stata menzionata da Pindaro e da Eschilo; e alla frequenza delle eruzioni — fonte di profonde suggestioni collettive e di indicibile timore — Diodoro attribuisce addirittura l’emigrazione dei Sicani dalle regioni orientali a quelle occidentali dell’isola. Assai più numerose e dettagliate sono le notizie riguardanti le eruzioni in epoca storica: nella sua ricostruzione dei fenomeni sismici nell’Italia meridionale, il Baratta ne ricorda almeno 135. La mole etnea ne veniva ogni volta ritoccata in modo molto sensibile nelle sue forme esterne, cioè arricchita di nuovi crateri e di profonde lacerazioni nel suo corpo, in relazione ai concomitanti terremoti di origine locale. Molte eruzioni spinsero le colate laviche spesso fin entro la zona abitata, distruggendo colture e insediamenti umani e spingendosi fin entro il mare: nel 1329 raggiungendolo a nord di Aci, nel 1381 a Catania, che danneggiò in parte. Ma un ricordo assai più vivo lasciò l’eruzione del 1669: la colata lavica uscita da un largo e profondo squarcio — provocato da terremoti locali — che dal cratere centrale si spinse sul versante meridionale fino a Nicolosi, investì numerose borgate — Nico-losi, Malpasso, Massa Annunziata — che furono completamente distrutte, insieme ad alcuni quartieri settentrionali di Catania. Il Settecento contò 16 eruzioni, l’Ottocento 19, minacciando paesi e distruggendo colture, strade, e la ferrovia circumetnea. E nel nostro secolo il fenomeno continua con la stessa forza, anche se con minore intensità — nell’Ottocento si ebbe un’eruzione in media ogni cinque anni —: nel 1910, bruciando boschi e colture appena sopra Borrello e Belpasso, e formando, su un lungo squarcio, un allineamento di 23 crateri, noti come Monti Ricco; nel 1911, sulla fiancata di nordest, intercettando la circumetnea e quasi giungendo ad ostruire l’Alcantara; nel 1923, distruggendo quasi tre chilometri quadrati di boschi e di colture, la stazione di Castiglione, l’agglomerato di Cerro e parte del villaggio di Catena; nel 1928, quando, calando dall’alta Val del Leone, la più spaventosa eruzione recente sommerse il centro abitato di Màscali e raggiunse, al di là della sede stradale e ferroviaria, Carrabba, quasi sul mare. E ancora nel 1947 e nel 1950-51. Un’idea indiretta delle distruzioni arrecate si può avere dalla conoscenza della quantità di lava eruttata: intorno a 990 milioni di metri cubi nel 1669, circa 800 milioni nel 1950-51. E le eruzioni interessano anche le Eòlie, in particolare l’isola di Stromboli, che dall’alto della sua cavità craterica vomita lava pressoché costantemente tra cupi boati, spesso riversandola fino al mare giù per l’impressionante « sciara di fuoco ».

    Terreno di scorie laviche su una colata del 1669 nei dintorni di Camporotondo Etneo: sullo sfondo il cono principale dell’Etna.

    Le eruzioni sono spesso accompagnate, come ho già detto, da terremoti di carattere locale. Ma le principali manifestazioni sismiche della Sicilia non sono affatto collegate con il vulcanesimo attuale. Il grande terremoto che squassò quasi tutta la regione peloritana, intorno a Messina, il 28 dicembre 1908 — che fu accompagnato da summovimenti del mare, rovinosamente abbattutosi su larghi tratti di litorale, e che distrusse pressoché tutta la città e le borgate intorno, e fece ben 27.848 vittime — al pari di quello del 1783 (che mietè 617 vittime nella sola Messina) collega invero l’estrema cuspide nordorientale della Sicilia — la regione cristallina, assai fagliata, ed estrema propagginazione del massiccio calabro-peloritano — ai grandi centri sismici della Calabria: il terremoto del 1908, che accomunò nella sventura Messina e Reggio Calabria, con le borgate e cittadine poste intorno ai due capoluoghi, fu il sisma della regione dello Stretto. E la concomitanza dei sismi sulle due sponde dello Stretto — come ha ben messo in evidenza, e più volte, M. Baratta — è occorrenza ordinaria.

    Sisma calabro-peloritano del 28 dicembre 1908.

    Nuove case costruite su terreno lavico a Bronte (Catania).

    Montevago (Trapani): una veduta dell’abitato, completamente distrutto dal sisma del 15 gennaio 1968,

    Di assai maggior sismicità appare d’altra parte la regione iblea, i cui scuotimenti — molto numerosi — possono ripercuotersi su largo raggio, fin oltre l’Etna sullo Ionio e sul Tirreno, e fin oltre il Plàtani nell’interno dell’isola: noti e gravi soprattutto i sismi del 1169 e del 1542; ma addirittura disastroso quello dell’11 gennaio 1693, che interessò rovinosamente — dice il Baratta — quasi metà della Sicilia, ad est di una linea che lega Naso (pure colpita) sul Tirreno a Gela (rimasta immune) sul Mar d’Africa, ed ebbe epicentro tra Lentini, Melilli, Sortino, Feria e Càssaro. Più di 50 città e borgate distrutte — compresa Noto, il capoluogo del Vallo omonimo —, più di 50.000 morti. Nella sola Catania, secondo il Baratta, i due terzi della popolazione — cioè 16.050 persone — persero la vita sotto le macerie delle case distrutte; circa 5000 morti su 9946 abitanti ebbe Ragusa; circa 4000 Siracusa (su 15-399)i 3400 Mòdica, 3000 Noto, 2300 Augusta, 2000 Scicli; tra 1000 e 1500 Lentini, Mineo e Vizzini; tra 750 e 1000 Grammichele, Licodia Eubea, Buscemi, Caltagirone e Acireale; tra 500 e 750 Palazzolo Acreide, Giarratana e Militello in Val di Catania; e tra 300 e 500 Avola, Francofonte, Chiaramonte Gulfi. e Buccheri. Ma la Sicilia conta ancora altri centri o regioni sismiche minori, che si fissano intorno a Naso, nei Peloritani — squassata in modo disastroso nel 1613, 1739, 1786 e 1823; tra Palermo e Trapani — colpite in modo grave rispettivamente nel 1726 e nel 1823 (come riflesso del movimento tellurico con epicentro in Naso) la prima, nel 1709 e nel 1726 la seconda —; nel territorio di Cefalù, nelle Madonie — dove particolarmente gravi furono i sismi del 1726 e del 1823, come a Palermo; e intorno a Sciacca, colpita nel 1578, 1652, 1724, 1740 e ancora nel 1831 ; e può essere talora scossa violentemente anche in settori ritenuti piuttosto tranquilli, ma comunque situati in prossimità di aree frequentemente colpite: come la zona posta tra il Dèlia e il medio Bélice, nell’estremo settore occidentale, ove il 15 gennaio 1968 un catastrofico movimento tellurico ha completamente raso al suolo Montevago, Gibellina e Salaparuta ed ha gravemente danneggiato Santa Ninfa, Santa Margherita Bélice, Poggioreale, Partanna e Menfi, causando la morte di alcune centinaia di persone e il ferimento di molte altre. E si devono ricordare in aggiunta come soggette a terremoti le isole di Ustica e di Pantelleria; e le Eòlie, scosse da sismi di natura locale, chiaramente legati all’attività eruttiva, ma anche da quelli, assai più violenti, della regione calabro-messinese : del 1780, 1783, e più forte di tutti quello del marzo 1892. In complesso, è la corona periferica o marittima della Sicilia quella che appare interessata in modo più o meno grave da ricorrenti fenomeni sismici; l’altipiano interno per contro si presenta da questo punto di vista come un’area di notevole stabilità. Eruzioni e terremoti — pur affatto legati, ed anzi per lo più indipendenti — vengono dunque a turbare spesso la vita e il lavoro delle aree litorali o comunque periferiche dell’isola, che nel loro assieme si presentano assai più vivaci di attività umane — nonostante la presenza di settori ancora attardati — e quindi assai più densamente popolate delle regioni interne.

    Sisma di Catania e del Val di Noto dell’11 gennaio 1693.

    Anche il grosso centro di Gibellina è stato completamente distrutto, come Montevago, dal terremoto che ha colpito la Sicilia occidentale il 15 gennaio 1968.

    Messina: il Duomo dopo il terremoto del 1783 (da un’incisione dell’epoca).