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Latifondi e regioni delle colture

    Le regioni umane della Sicilia

    Non certo le unità territoriali delle nove province siciliane possono prestarsi come base per una divisione regionale della Sicilia: tagliate da confini con andamento sinuoso e mutevole quasi a ogni passo, i territori provinciali comprendono aree non soltanto morfologicamente varie ma anche strutturalmente congegnate in maniera assai diversa e spesso contrastante, e parte di queste medesime aree lasciano largamente ricadere entro la giurisdizione delle province vicine. La divisione provinciale non può quindi attagliarsi alla enucleazione e all’analisi delle vere realtà economiche e umane dell’isola, che si stabiliscono sul piano territoriale a dispetto di quei limiti amministrativi. E nemmeno si può concepire, sul piano umano, una regionalizzazione della Sicilia — o di qualsivoglia altro lembo della superficie terrestre — con riferimento all’esistenza o meglio all’evidenza delle unità geomorfologiche che la formano nella sua unità fisica: non tanto per le difficoltà intrinseche alla ricerca di quei limiti — in Sicilia, fuori della catena settentrionale e oltre all’Etna agli Iblei e alla Piana di Catania, e non sempre con chiarezza, anche i lineamenti delle regioni fisico-morfologiche sono spesso confusi e sfumati — quanto invece perché le differenti unità morfologiche, quand’anche esistono, risultano così rotte e frazionate e differenziate dalla profonda diversità delle strutture economico-sociali da non poter essere considerate dal punto di vista umano come unità più o meno ben definite. I territori provinciali in sommo grado, ma anche le unità morfologiche o regioni naturali ci appaiono dunque venir meno — pur nella forza o resistenza dei limiti amministrativi, o nella perentorietà talora ma più spesso nel trapasso graduale e sfumato dei limiti fisici — di fronte all’opera dell’uomo, che tutta la superficie dell’isola è andato variamente plasmando con assai minor sudditanza alle forze naturali di quanto comunemente si vuol pensare o far credere, e con una assai più rimarcata aderenza alle prevalenti condizioni o strutture della vita sociale ed economica che hanno prepotentemente condizionato, a dispetto di ogni considerazione di ordine fisico, le forme di utilizzazione delle risorse naturali dell’isola: strutture sociali ed economiche che l’uomo stesso ha creato, o in piccoli gruppi ha imposto alla maggioranza della popolazione.

    Verso una maggiore complessità delle regioni umane della Sicilia

    Per questi motivi, un pur breve esame delle principali strutture economico-sociali dell’isola che plasmano diversamente le sue differenti contrade, ponendosi come elementi caratterizzanti, di fondo, di realtà umane distinte che non conoscono limiti di compartimentazione amministrativa o termini di confinazione fisica di veruna natura, appare di certo assai più rispondente a cogliere nel vivo la natura e la vera sostanza dei differenti ambienti umani della Sicilia di quanto non possa fare la descrizione, anche se su di un piano umano, delle stranamente conformate entità amministrative provinciali o delle non sempre ben delineate regioni naturali. A chi è interessato ai problemi dell’uomo, non balza alla mente — dopo una visita alla Sicilia, anche breve — una contrapposizione che riposa su’dati di natura fisica: tranne che nelle brevi aree cacuminali della catena tirrenica o della parte terminale del cono etneo, le differenze di altitudine tendono ad essere fortemente e talora pienamente cancellate da tipi o forme di paesaggio che si ripetono con le stesse movenze, gli stessi tratti, gli stessi caratteri, e che tali movenze tratti e caratteri depongono per assumerne o rivestirne altri affatto diversi nello stesso lembo di altipiano, o di tronco vallivo, o di pianura litoranea. Balza per contro alla mente una contrapposizione di strutture: da una parte le vaste, sconfinate campagne cerealicole e pastorali, prive o assai povere di alberi, vuote di case e di uomini, nelle quali i centri abitati — villaggi, borgate, piccole città — fan figura di oasi in un « deserto » erboso, e attorno ai quali, come nelle oasi appunto, non soltanto compare l’albero, ma si fa anche fitto, seppur irregolare nella disposizione e molto vario nelle specie; e dall’altra parte, invece, aree che si van gradualmente dilatando, e che sopportano colture arboree specializzate — agrumi, viti, olivi, e in minor misura nocciòli, pistacchi, alberi da frutta — o piante erbacee intensive: le colture orticole. Sono i due principali tipi di strutture, le due grandi realtà agricole della Sicilia e in genere di tutta l’Italia meridionale, che M. Rossi Doria ha chiamato del « Mezzogiorno nudo » e del « Mezzogiorno alberato ». Sono due tipi di paesaggio che differenti strutture economico-sociali, cioè differenti realtà umane, hanno plasmato. Ma se generalizzando si può opporre — e in effetti per semplificazione molto spesso si oppone — l’interno cerealicolo pastorale dell’isola alla frangia costiera alberata (ciò che può far insorgere deterministicamente facili considerazioni sulla contrapposizione di fattori naturali di ogni specie), in verità tale opposizione non solo non trova appoggio nella realtà delle cose, ma molto spesso si trova rovesciata: la Piana di Catania ancora fino a ieri — e in gran parte ancora oggi — e quasi tutta la fascia litorale africana, ivi compresa la Piana di Gela, ripetono a ridosso dello Ionio e del Mar d’Africa le strutture tipiche tradizionali dell’interno; e per contro diverse aree dell’interno — come specificherò più oltre — già appaiono trapianti di strutture più giovani, più evolute, più moderne, nell’ambito delle regioni « nude ». Ciascuna delle due realtà agricole ora indicate — come ha rilevato anche L. Gambi per la Calabria: e le indicazioni di Rossi Doria e di Gambi io seguo qui — non figura dovunque con gli stessi, identici caratteri : motivi di ordine giuridico, od economico, o tecnologico, o politico — la trasformazione operata dalla riforma agraria dal 1950 in qua, ad esempio — vi hanno introdotto differenze notevoli, attraverso un processo storico più o meno lungo — l’istituto dell’enfiteusi da molti secoli ormai, la pratica della gabella soprattutto dall’Ottocento in poi, e più recentemente l’espansione della classe dei salariati agricoli e di vari tipi di compartecipazione nelle colture di pregio, specie orticole, e infine la formazione e la dilatazione della piccola proprietà coltivatrice — così da originare strutture diverse e più nuove. La realtà economico-sociale della Sicilia è dunque ben più complessa di quanto abitualmente si usa pensare, e va molto al di là di una semplice dualistica divisione tra regioni « nude » e regioni « alberate ». L’unità e l’omogeneità di certi tipi di paesaggio nascondono in effetti una situazione sociale assai varia e contrastante pur nell’ambito di ciascuna di quelle regioni.

    Un aspetto dell’altipiano agrigentino, qui animato da un affioramento arenaceo, nei dintorni di Favara, area tipica di latifondo cerealicolo.

    Isole Eòlie (Messina): minuto terrazzamento sui ripidi pendii vulcanici di Alicudi, che sopportano anche colture d’esportazione, come i capperi.

    Alta valle dell’Alcantara: magro manto di pascolo cespugliato sui monti, piccole frange d’agrumeti sul fondo vallivo, alle porte ormai delle immense distese cerealicole dei latifondi dell’interno.

    Le regioni del latifondo cerealicolo-pastorale

    Le cosiddette regioni « nude », le più povere economicamente e le più depresse socialmente — che lo stesso Rossi Doria indica con espressione realistica « osso » del Mezzogiorno — appaiono in realtà divise in due ambienti sociali affatto diversi: le zone a latifondo di tipo capitalista si oppongono qui alle zone nelle quali sulla stessa grande proprietà latifondistica — quasi sempre prevalente per superficie sulle proprietà medie e piccole — insistono aziende minime, frantumate in un gran numero di piccoli spezzoni di terra fortemente dispersi sul piano territoriale, condotte da contadini in base a rapporti di gestione molto vari da luogo a luogo e nell’ambito delle stesse contrade, e quasi mai fissati in contratti scritti: il cosiddetto latifondo contadino. Nel primo di questi ambienti sociali ora indicati, la grande proprietà — che nonostante le disgregazioni avvenute dall’Ottocento in poi è ancora forte e ben salda: specie nella Piana catanese, in quella di Gela, nell’alto bacino del Dittàino, nelle Madonie e nei Nébrodi occidentali — dà origine a grandi aziende, che in parte vengono condotte direttamente dai proprietari, con l’aiuto di agenti e con abbastanza largo impiego di personale salariato (e questa conduzione diretta interessa fino al 39% della superficie nella Piana di Catania, il 43% negli alti corsi del Bélice destro e del Bélice sinistro, fino a più del 60% in gran parte dei Nébrodi, dal 30 al 37% negli agri di Marineo, Monreale e Corleone) e in parte invece sono gestite con il sistema normale dell’affitto.

    Una grande vasca d’irrigazione presso Gibilmanna, nelle Madonie (Palermo).

    Schema delle principali migrazioni di mano d’opera, secondo le aree e le stagioni (da L. Gambi).

    I) Spostamenti relativi al latifondo frumenticolo : a) limiti della regione interiormente a cui si manifestano abitualmente spostamenti di braccianti per mietere o trebbiare nella zona del latifondo; b) comuni del latifondo verso cui è più forte l’afflusso agli inizi di estate; c) comuni c.s. verso cui l’afflusso predomina a metà di estate; d) provenienze da aree fuori del latifondo.

    II) Spostamenti connessi con la viticoltura del litorale occidentale : e) limiti della regione ove si effettuano per lo più questi spostamenti; f) comuni di maggior afflusso della migrazione stagionale in questa zona.

    III) Spostamenti nella regione delle colture di pregio del litorale orientale : g) aree che forniscono rilevanti contingenti di mano d’opera a questa regione; h) comuni della regione ove più notevole è l’afflusso di mano d’opera da fine agosto ad ottobre (raccolta e lavorazione delle uve e delle nocciole); i) comuni c.s. ove più forte è l’afflusso da ottobre a maggio (raccolta ed esportazione degli agrumi); 1) comuni c.s. ove un particolare afflusso si ha da aprile ad agosto (per i prodotti ortofrutticoli); m) direzioni di spostamenti stagionali fuori dell’area jonica esclusivamente per la raccolta di agrumi; n) direzioni di spostamenti c.s. esclusivamente per la raccolta delle olive.

    IV) Zona di alimentazione in mano d’opera per i lavori agrumari della piana palermitana.

    Un aspetto della campagna siciliana presso Menfi (Agrigento): ampi campi a seminativo nudo variamente alberati, delimitati da muretti a secco o da basse file di agavi e di ficodindia.

    Nelle valli o « cave » iblee, le grotte e i ripari sotto roccia sono ancora usati, talvolta, come depositi e stalle: come qui, nel settore più elevato della Cava d’Ispica, che intaglia profondamente i tavolati orientali per più di dieci chilometri.

    Un aspetto del versante tirrenico della catena dei Peloritani, nei dintorni di Ro-metta (Messina): seminativi arborati e magri pascoli, con qualche piccola macchia di ceduo.

    Distribuzione dei tipi di impresa, secondo Medici-Orlando, semplificata e modificata.

    In entrambi i casi, l’ordinamento colturale poggia su una utilizzazione cerealicola delle terre migliori, e su uno sfruttamento pastorale di quelle più avare : con prevalenza di ovini e in minor misura — perché più voraci e distruttori — di caprini, specialmente nelle aree più elevate. Non sempre la cerealicoltura e la pastorizia si combinano nell’ambito di una stessa azienda; sovente invece le aree pascolative — come i maggesi o riposi — vengono cedute ai pastori delle Madonie, dei Nébrodi, degli alti Iblei, dello stesso Etna, che continuano, anche se in maniera molto meno intensa che in un passato ancora recente, le tradizioni transumanti che li han sempre portati dai monti e anche dagli altipiani interni alle marine: verso la pianura catanese e quelle siracusana e gelese, e in genere verso le cimose di tutta la fascia costiera africana, da Pachino fino a Mazara del Vallo. Tali aziende cerealicolo-pastorali generalmente sfruttano la terra in modo molto estensivo : e si tratta perciò — come ha rilevato molto giustamente la Rochefort — non tanto di aziende capitalistiche, quanto di aziende precapitalistiche, caratterizzate come nel passato dall’assenteismo dei proprietari conduttori, dall’esistenza di rapporti non legali tra le classi — e di qui, di conseguenza, lo smisurato e inumano sfruttamento della manodopera contadina mediante salari irrisori e servitù impossibili — da una utilizzazione del suolo estensiva, oltre che da un eccessivo peso del reddito fondiario e quindi dei prezzi troppo alti della terra. Molto è però cambiato negli ultimi due decenni: e sotto gli stimoli più diversi — di carattere politico, come la riforma agraria; o sociale, come le lotte condotte appassionatamente, e talora tragicamente, dalle classi contadine desiderose di rinnovamento; o economico e tecnologico, per il sempre più grande divario nei redditi tra aziende condotte in modo tradizionale e aziende più aperte a nuovi ordinamenti colturali e a nuove tecniche agricole — se gli arcaismi non sono scomparsi del tutto, si sono però andate gradualmente diffondendo forme di agricoltura più moderne: spesso l’inerzia, che la precarietà e le eccessive oscillazioni del mercato agricolo tendono in zone invecchiate a perpetuare e a cristallizzare, ha ceduto all’intraprendenza dei giovani proprietari, che in genere sono tecnici agrari molto ben preparati. Il dissodamento dei pascoli, le cure portate alla coltivazione non soltanto del grano ma anche dei foraggi — che si dilatano grazie alla costruzione di un numero sempre maggiore di laghetti collinari nell’interno, e alla diffusione dell’irrigazione nelle piane costiere, specie di Catania e di Gela — e quindi l’incremento del patrimonio zootecnico (che è sempre stato il punto debole dell’economia agricola siciliana) stanno dando un volto nuovo a diverse zone dell’isola: e a prescindere dai movimenti migratori, in queste aree non solo i posti di lavoro in agricoltura tendono ad aumentare, per una migliore distribuzione nel corso dell’anno dei tempi di lavoro agricolo e per la presenza di bestiame stabulato da latte che richiede cure continue, ma anche i salari si sono innalzati e tendono a stabilirsi sugli stessi piani di quelli dell’Italia settentrionale: dall’agricoltura estensiva si sta decisamente passando ad un’agricoltura di tipo intensivo. Ma a queste « masserie » che possono considerarsi come aziende modello e che senza dubbio eserciteranno una grande azione di snellimento e di rinnovamento delle antiquate strutture agrarie che ancora le circondano, si affiancano tuttora aziende tradizionali, assai di poco mutate rispetto al passato. Qui la coltura estensiva del grano è ancora dominante, e alternata con riposi nudi o al più con una leguminosa primaverile (veccia, fava, lupino, sulla): un’agricoltura povera, di tipo primitivo, che offre scarse possibilità di lavoro durante gran parte dell’anno, e in alcuni periodi per contro è vorace di manodopera. Per questi motivi, la Sicilia del latifondo cerealicolo conosce ancora grosse correnti mi-migratorie stagionali, nonostante la parziale diminuzione della superficie investita a grano e la diffusione — peraltro ancora agli inizi — di macchine agricole per la mietitura e la trebbiatura, e del trattore (che nell’aratura viene gradualmente a sostituire il mulo) tendano insieme a contrarle e a isterilirle. La falce delle squadre di mietitori non è tuttavia ancora del tutto scomparsa dalla scena del latifondo cerealicolo siciliano: e le correnti migratorie, ancora simili nei loro aspetti specifici a quelle ottocentesche, come le aveva osservate e descritte il Sonnino nel 1876, si dirigono, dai primi di giugno a fine agosto, da aree latifondistiche verso altre aree latifondistiche — e sono questi i movimenti dettati dalla differenza di altitudine, come ha recentemente osservato L. Gambi, che in giugno fan scendere i contadini dai comuni situati al di sopra dei 700 metri verso le zone litorali meridionali, e di qui li fan risalire in agosto verso le aree più interne ed elevate, quando il grano si fa maturo, insieme ad altri contadini degli stessi litorali —; ma anche prendono avvio da comuni situati al di fuori del latifondo, nei quali o l’eccessivo peso demografico, e in particolare della manodopera, o il ritmo stagionale dei lavori agricoli, rendono disponibili una massa più o meno grande di contadini. Salgono questi contadini dalle aree occidentali (Cinisi, Partinico, Alcamo, Buseto Palizzolo, Trapani, Marsala) verso l’agro di Corleone, e dalla zona messinese del nocciòlo, cioè dai Nébrodi orientali, nei territori dell’Ennese e nelle ondulazioni collinari che fan corona alla Piana di Catania, e ancora dalla regione viticola di Pachino verso l’Ennese e il Nisseno, e da quella di Mòdica verso i litorali a latifondo del Gelese e dell’Agrigentino. L’emigrazione modicana, anzi, a differenza delle altre, si presenta come un’emigrazione a circuito chiuso, che si sviluppa lungo tutto l’arco dell’anno, e che gravita solo durante l’estate verso le plaghe granicole. I loro spostamenti, descritti qualche anno fa da R. Rochefort, interessano interi gruppi familiari — circa 800 famiglie — e assumono aspetti e caratteri propri delle più arretrate regioni agricole: i carri, carichi delle suppellettili e dei bambini, trainati dai muli o dagli asini e guidati dagli uomini, si muovono in lunga teoria su percorsi che sembrano interminabili. Un lavoro duro e mal retribuito, e spostamenti continui, ritmano i momenti più importanti della loro vita insieme al periodo di riposo, a Mòdica, da fine novembre a febbraio. La contrazione degli spostamenti stagionali — calcolati dal Gambi per tutto il latifondo cerealicolo a circa 19.000 persone nel i960: ma ritiene che siano ancora molto di più — sta ad indicare che le più antiquate strutture ancora esistenti si vanno gradualmente sgretolando, e che un futuro migliore si sta aprendo a queste terre e alle loro popolazioni.

    Vedi Anche:  Tradizioni, usi, costumi ed analfabetismo

    In molte contrade siciliane le campagne sono divise in appezzamenti di varia grandezza, quasi sempre di forma regolare, da muretti a secco: come negli Iblei, qui rappresentati in un tratto posto intorno a Palazzolo Acréide (Siracusa).

    Il particolare tipo di insediamento predominante in Sicilia — a grossi centri compatti, posti a grande distanza l’uno dall’altro — che radica le proprie motivazioni in condizioni economico-sociali vecchie di secoli e ormai desuete e anacronistiche, obbliga ancora moltissimi lavoratori dei campi — giornalieri e salariati, compartecipanti e mezzadri, piccoli affittuari e proprietari — a lunghi spostamenti tra la casa di abitazione posta nel centro e i campi da coltivare dispersi su largo raggio all’intorno, con asini muli e carri. Qui, il ritorno serale verso Gela (Caltanissetta).

    Le regioni del latifondo contadino

    Ma nell’ambito dello stesso latifondo non tutte le grandi proprietà sono condotte direttamente dai proprietari o gestite in affittanza da grandi affittuari capitalisti. Una parte notevole di queste terre viene ceduta ad imprenditori capitalisti, detti gabellotti, i quali a loro volta subaffittano ai contadini con contratti assai vari di durata annua, e spesso soltanto sulla parola — cioè evitando il contratto scritto per la normale illegalità delle sue condizioni — piccoli fazzoletti di terra, distribuiti molto irrego-golarmente nel territorio, sulla base di un canone in grano (terraggio) o a compartecipazione (metateria). L’ordinamento colturale non cambia da quello cerealicolo pastorale del latifondo proprio, e molto difficile, e spesso impossibile, risulta perciò il riconoscimento delle aree coltivate dai terraggeri e dai metatieri. I quali sono spesso soltanto piccoli affittuari o piccoli compartecipanti delle aree disalberate del latifondo estensivo, e a volte invece accoppiano a questa loro figura operativa anche quella del piccolo proprietario. Essi vivono infatti nei centri abitati, attorno ai quali si è andata formando nel corso degli ultimi cinque secoli una piccolissima proprietà, frequentemente parcellare, in seguito allo sviluppo dell’enfiteusi sulle terre baronali e sui fondi della Chiesa, e dall’Ottocento in poi in virtù delle censuazioni dei beni ecclesiastici e delle quotizzazioni dei demani comunali (che hanno rimpinguato molto di più, tuttavia, le proprietà borghesi), e dalla fine del secolo scorso in rapporto all’enucleazione — ora per le rimesse degli emigranti, ora per la formazione di una classe di piccoli commercianti e di piccoli professionisti — di una nuova piccola proprietà fondiaria a spese del latifondo. Anche dal punto di vista paesistico, le zone poste attorno ai centri abitati appaiono come oasi di colture varie e spesso disordinatamente intrammezzate tra di loro : vite, olivo, mandorlo e anche agrumi punteggiano variamente la corona arboricola, mentre all’ombra di queste colture si continua a seminare il grano e un po’ di mais e di patate nelle zone più elevate, e qualche leguminosa (fave, fagiuoli), o a far pascolare le greggi, e nei tratti più favorevoli si coltivano anche gli ortaggi. L’azienda è molto spesso insufficiente sia per il reddito che se ne può ricavare, sia per le possibilità di impiego di tutta la manodopera familiare; e la sua frantumazione è così spinta — cioè l’azienda è formata da campi posti così lontani dal centro abitato e nelle direzioni più opposte — che la piccola proprietà da un lato e la piccola azienda dall’altro non sono state in grado di dare origine ad un primo popolamento degli agri, di tipo intercalare: e pertanto gli agri rimangono privi di case e di uomini, e punteggiati, talora anche fittamente — come nel territorio di Pachino dove ormai il latifondo è in gran parte scomparso, e in alcune aree dello stesso altipiano interno, nel Nisseno e anche nelle Madonie (a sud di Petralia Sottana) dove invece è ancora largamente presente — soltanto di casette-ricovero, che servono al contadino durante i periodi dei più gravosi e lunghi lavori campestri. Sono infatti queste strutture sociali — cioè la prevalenza della grande proprietà affidata ai contadini da coltivare con i sistemi del terraggio e della metateria: e oggi anche con più moderni e soddisfacenti rapporti contrattuali in rapporto alla rapida scomparizione della figura del gabellotto — a perpetuare nelle aree del latifondo contadino lo stesso tipo di insediamento accentrato, che è stato proprio ed è ancora peculiare delle aree latifondistiche condotte con l’aiuto dei salariati. I motivi storici tradizionali — come la necessità della difesa e la diffusione del plasmodio malarico — e le cause di ordine fisico — come la siccità su gran parte dell’anno e la deficienza delle acque nelle campagne — han potuto certo operare fino ad un certo punto ed in una certa misura in rapporto all’enucleazione di questa forma di insediamento; ma poi hanno avuto la stessa incidenza e anche maggiore — nè avevano mancato di operare prima — le strutture sociali primitive, che opponevano un piccolo gruppo di grossi proprietari fondiari ad una grande massa di contadini priva di tutto: di istruzione, di lavoro, e quindi di risparmio e di possibilità — piuttosto che di capacità — imprenditoriali, e perciò di miglioramento. La condizione di questi piccoli proprietari — che conducono piccoli spezzoni di terreno di loro proprietà insieme ad altri piccoli campi presi in affitto — non è certo più florida di quella dei salariati e dei giornalieri: non è facile nei paesi cogliere le differenze sociali di questi tipi del mondo rurale dall’esame delle loro abitazioni e dei loro modi di vita. E se alcuni riescono a prezzo di un duro lavoro a dare gradualmente alla loro azienda una maggior consistenza, una minor dispersione e una minore precarietà — e questi contadini si spostano più decisamente in tal modo verso la figura del piccolo proprietario — altri non sanno sollevarsi da una situazione incerta e aleatoria, che le variazioni del raccolto annuo (non solo per l’incertezza del cielo, e in particolare delle piogge, ma anche per l’estrema semplicità delle attrezzature che appena grattano la terra, e per la deficienza delle concimazioni che non la ristorano e non la ringiovaniscono) possono rendere improvvisamente disastrosa e fallimentare. In tali condizioni i piccoli coltivatori diretti — proprietari o affittuari — si vedono costretti a prestare la loro opera presso le più grandi aziende, in qualità di giornalieri e persino di salariati : alcuni soltanto o anche tutti i membri della famiglia, durante determinati periodi: e in tal caso la famiglia appare di conseguenza assai più vicina a quella del vero contadino salariato o giornaliero che a quella del piccolo proprietario. Queste condizioni del latifondo contadino — altrimenti noto come colonia parziaria non appoderata o impropria — sono presenti nelle più varie sfumature dovunque domina la grande proprietà; ma in modo molto più evidente e diffuso si manifestano nell’altipiano nisseno tra il medio Plàtani e gli Erei — dove tra il 41 e il 46%- della superficie territoriale è interessata da questo fenomeno — e di lì da una parte tracimano fin sul Mar d’Africa (con maggior forza lungo l’asta del Salso o Imera meridionale fino a Licata) e dall’altra si spandono giù per il Simeto e il Gornalunga fin nella Piana di Catania (dove interessano dal 30 al 36% del territorio), mentre nel settore occidentale dell’isola una grossa macchia distinta contraddistingue l’estesissimo territorio di Salemi.

    Un aspetto della disordinata agricoltura promiscua, di sussistenza, sui declivi profondamente incisi dei Nébrodi centrali, sotto Cesarò (Messina), a circa 1000 metri di altitudine.

    I minuti terrazzamenti di Forza d’Agro, sui Peloritani ionici, occupati da colture promiscue di poco valore, ma anche, nei piani più bassi e nei settori più riparati, da giardini d’agrumi e macchie di olivi, mandorli e frutta polposa.

    L’apparizione di nuove strutture: la riforma agraria del 1950 e la formazione della piccola proprietà contadina

    Il latifondo, come ha giustamente osservato la Rochefort, si è ripercosso sui contadini e fittavoli e in genere sulle meno evolute e poveri classi sociali della campagna non tanto con il peso soffocante della sua estensione, quanto con la tirannia esasperante esercitata dai gabellotti, cioè da coloro che grazie ad un contratto esoso spremevano, cedendo in subaffitto terre non di loro proprietà, piccoli proprietari e affittuari, sfruttandone il lavoro. Ancora nella seconda metà dell’Ottocento i tre quarti del raccolto dei piccoli affittuari spettavano al sovrintendente — e la stessa ripartizione dei prodotti distingueva ancora largamente, nei primi decenni di questo secolo, almeno alcune plaghe dell’interno più tradizionali — cioè dominava un sistema che attraverso la mortificazione del contadino e del suo lavoro, e la cristallizzazione di antiquate forme agricole e di anacronistici rapporti tra proprietà e piccola impresa agricola, bloccava tutto lo sviluppo economico della regione e con ciò eliminava ogni possibilità di miglioramento, anche culturale e spirituale: non diversamente da quanto avviene ancora oggi nei paesi sottosviluppati, dominati e soffocati da un’agricoltura — sotto forma coloniale o no — di speculazione (dove non dòmini addirittura la sussistenza più misera), e quindi da un indecoroso e inumano e immorale sfruttamento: un’agricoltura che soltanto dall’interno, spesso — cioè con un’azione sovvertitrice o comunque stimolatrice delle forze socialmente oppresse — può trovare un motivo di rottura, e spingere gli organi politici responsabili ad un intervento più o meno risolutivo.

    Bonifica e riforma fondiaria: comprensori di bonifica e aree espropriate (in base al materiale pubblicato dalla Cassa per il Mezzogiorno).

    La calcarea mole di M. Inici (1065 m.)( che sovrasta Castellammare del Golfo (Trapani), coperta da un magro pascolo, con seminativi semplici e vigneti alle sue falde.

    Nuovi impianti di irrigazione nell’alta valle del fiume Grande, presso Salemi (Trapani).

    Isole Eòlie (Messina): la piccola regione di Piano Conte, dalle numerose casette sparse tra minuscoli campi a vite e a grano alberati, dominata dalla mole di M. San Angelo (594 m.).

    Vedi Anche:  Sviluppo degli insediamenti umani

    Veduta di Cerda (274 m.), grossa borgata agricola posta sulle estreme propagginazioni nordoccidentali delle Madonie (Palermo), ormai a ridosso della valle del Torto, tra campi aperti di grano e ordinati tratti ad olivo.

    È ciò che è accaduto anche in Sicilia. L’occupazione dei feudi, delle grandi proprietà latifondistiche non sfruttate, risale già al secolo scorso, e mediante il movimento cooperativo — ad Enna prima, e poi nel Palermitano — i contadini siciliani nelle diverse parti dell’isola erano riusciti ad eliminare i gabellotti (ora in via di completa scomparizione) nelle transazioni per l’affitto delle terre. Il movimento dei Fasci Siciliani alla fine dell’Ottocento, le leghe o movimenti contadini dell’inizio del secolo — leghe rosse o socialiste, leghe bianche o cristiane, ideologicamente divise ma sostanzialmente d’accordo nella lotta al latifondo — non furono senza ostacoli né senza martiri: molti sindacalisti di estrazione politica diversa caddero dal 1946 al i960 — e vere imboscate sanguinose furono tese a cortei contadini, come a Portella della Ginestra, nel Palermitano, nel 1949 — soprattutto nel settore occidentale dell’isola, dove il latifondo aveva radici più profonde e tenaci, e in parte ancora le conserva, ed era tenuto vivo dalla mafia: un’organizzazione, quasi un’istituzione, che per la salvaguardia di vecchi interessi costituiti e variamente mimetizzandosi, ha saputo dal secolo scorso, cioè dall’unificazione nazionale in poi, a infiltrarsi nel potere politico, a strumentalizzarlo anche, per immobilizzare una situazione altrimenti in sfacelo. Ma le lotte contadine hanno portato finalmente alla riforma agricola, nel 1950. Già poco prima del 1940, negli ultimi anni del fascismo, si era tentato di intaccare il latifondo in base ad una legge speciale per la sua colonizzazione — ed alcune aziende erano sorte nel bacino del Tumarrano (basso Plàtani), nell’antico ducato Nelson a Bronte sulle falde etnee occidentali, e nella regione iblea (Villasmundo, Pedagaggi) —; ma quel tentativo, anche per gli eventi bellici, era stato prematuramente interrotto: e si trattava comunque di saggi marginali all’area tipica e tradizionale del latifondo, quella interna. La riforma agraria del 1950, per contro, ha avuto notevolissime ripercussioni nell’isola, certamente più indirette che dirette, agendo cioè più sul piano psicologico che incidendo materialmente il bisturi nelle grosse aree latifondistiche per un’opera di ristrutturazione economica e sociale. E di fatto l’Eras, cioè l’ente per la riforma agraria per la Sicilia, ha provveduto all’esproprio di più che 400.000 ettari di terra — 442.944 nel 1958, e 453.000 nel 1963 — ma ne aveva distribuito, a tutto il 1963, appena 95.778, in 23.713 lotti: con una media, dunque, di appena 3-4 o 5 ettari per famiglia di beneficiari: ed invero 330.000 ettari erano stati variamente bloccati, e sottratti all’opera di ridistribuzione. E inoltre l’ente di riforma non soltanto si era impegnato a pagare in contanti o in titoli le terre espropriate anche a valori eccessivamente elevati rispetto al loro stato d’uso — e in verità si trattava di terre molto povere, o appena magramente seminative o pascolative, e talora addirittura sassose e cosparse di rocce affioranti: un 77% di seminativi semplici, un 17% di pascoli, e appena un 4% di seminativi arborati e un 2% di colture più intensive — ma si era anche proposto di farsi compensare nel giro di trent’anni dai nuovi piccoli proprietari (per un quinto costituito da vecchi mezzadri e fittavoli, e per quattro quinti da giornalieri agricoli e manovali) il valore del fondo e delle anticipazioni assegnate. La nuova piccola proprietà non nasceva dunque sotto i migliori auspici. Ciò nondimeno, e nonostante l’eccessiva distanza, spesso, delle zone espropriate dai centri abitati — tra 35 e 40 km. intorno a Mazzarino, da 12 a 34 intorno a Petralia Sottana: per cui non poche delle 4450 case costruite e alcuni dei 24 borghi di servizio già edificati non sono occupati stabilmente, per i più vari motivi: l’abitudine a vivere nei centri, dove sono possibili altri lavori marginali per i diversi membri della famiglia; ma anche la deficienza delle strade, dei servizi di trasporto, di mezzi di distribuzione della luce, ecc. — la riforma agraria ha dato qualche risultato apprezzabile. I nuovi piccoli proprietari hanno piantato nelle distese disalberate dell’interno più di 12.540.000 ceppi di vite, 330.000 alberi di olivi, 305.000 di frutta polposa, e 47.000 eli agrumi, favorendo sostanzialmente, in piccole aree, la trasformazione del paesaggio, anche se non proprio, come era auspicabile, il cambiamento dei tradizionali ordinamenti colturali.

    Una strada a Montemaggiore Belsito (516 m.), cospicua borgata agricola delle Madonie occidentali (Palermo), dalla povera economia agraria, in piena area latifondistica.

    Veduta del Pizzo San Angelo (1051 m.), che si innalza alle spalle di Cefalù e a ridosso del santuario di Gibilmanna, coperto da un manto di boschi cedui e da pascoli.

    In effetti si tratta per la maggior parte di piccole aziende contadine autosufficienti, di sussistenza quindi, mentre sarebbe stata necessaria una diversa soluzione, magari a carattere cooperativo, con aziende che si dedicassero, mediante la diffusione delle leguminose da foraggio, all’allevamento del bestiame, e potessero inserire anche l’agricoltura dell’interno entro la maglia di una efficiente agricoltura di mercato: ciò che si è verificato solo parzialmente. E l’ente di riforma ha provveduto, d’altra parte, in proprio, all’impianto di altri 162.000 alberi nell’opera di sistemazione dei bacini montani contro i pericoli dell’erosione del suolo, e di 86.000 castagni, e ha inoltre proceduto alla costruzione di 1163 chilometri di canalizzazioni irrigue per una superficie servita di 44.648 ettari, e all’apertura di 283 chilometri di strade di bonifica, e all’allestimento di 58 chilometri di elettrodotti e di 84 chilometri di acquedotti e di 321 bevai, e all’escavazione di 306 pozzi, oltre alla costruzione dei borghi di servizio e delle case rurali già ricordati. Queste opere hanno comportato nell’insieme, nell’area del latifondo capitalista e del latifondo contadino, la formazione di una realtà nuova, che potrebbe dar luogo a notevoli, positivi sviluppi. E invero da una parte — forse appunto per la non concentrazione delle aree di intervento e anzi proprio per la loro estrema frammentazione in tutta l’isola : anche se con qualche eccezione in particolari distretti dove la riforma ha inciso più profondamente ed estesamente nelle grandi proprietà, come nell’alto bacino del Bélice — la riforma agraria agisce da stimolo, anche con l’aiuto finanziario della stessa Cassa per il Mezzogiorno, sui consorzi di bonifica, che portano gradualmente a termine lavori più volte iniziati e interrotti fin dal primo dopoguerra: e così è stata completata la canalizzazione irrigua nel comprensorio del Carbòi, per 1200 ettari; e continuano i lavori di bonifica intorno a Ribera nel comprensorio del Magazzolo (o del Verdura) su un’area di 90.550 ettari; e altre opere — strade, canali di irrigazione, sistemazioni montane — sono perseguite con vigore in tutta l’isola; e dall’altra parte soprattutto ha esercitato — e la sua funzione di stimolo non è ancora venuta meno — un’azione psicologica di rottura su tutta la popolazione siciliana. Se in effetti molti terreni espropriati sono sfuggiti alla riforma grazie a vendite fittizie anticipate tra eredi delle famiglie dei grandi proprietari — frazionando così formalmente la proprietà in domini inferiori ai 200 ettari, limite minimo per l’esproprio — o con la promessa di valorizzazione dei terreni estensivamente coltivati, o addirittura mediante l’illegale classificazione di molte aziende come aziende modello (e così il ducato Nelson, dove occorre ancora oggi pagare il pedaggio per transitarvi, si è visto diminuire la quota espropriata da 3679 ettari ad appena 412), nello stesso tempo però il timore dell’espropriazione ha spinto molti grandi proprietari a procedere a vendite considerevoli di loro terre, in piccoli appezzamenti, in contanti o a credito, sotto forma di enfiteusi trentennale o perpetua. La piccola proprietà contadina — che non ha mai cessato di irrobustirsi : e già tra il 1918 e il 1930 ben 140.000 ettari secondo lo Schipani avevano cambiato di mano a favore dei piccoli proprietari — si sarebbe così allargata, in base a stime approssimative, tra il 1950 e il 1960 di circa 300-400.000 ettari. Le trasformazioni così avvenute attraverso il mercato libero risultano pertanto assai più importanti di quelle operate dalla riforma agricola, per quanto concerne le superfici interessate: di ben 3-4 volte. Ma in entrambi i casi si tratta spesso di aziende troppo piccole in rapporto alla natura dei suoli, e ancora arretrate sul piano tecnico, e pertanto incapaci per lo più di migliorare o meglio di modificare radicalmente l’ordinamento colturale, nonostante una certa opera di istruzione professionale promossa dalla Cassa: e perciò nell’uno e nell’altro caso spesso resiste l’ordinamento colturale cerealicolo, come nel latifondo del passato, e il contadino proprietario continua a vivere per lo più negli stessi grossi centri e nelle stesse borgate, e gli agri continuano a restare pressoché vuoti. Le campagne stentano quindi a modificarsi, ad offrire migliori e più larghe possibilità di impiego, e la stessa famiglia contadina talora vi si trova inoperosa: 100 o 50 giornate lavorative per ettaro l’anno — come in alcune terre di Corleone, secondo D. Dolci — sono davvero poche. Ma in altre regioni, come si è detto, la riforma ha avuto esito certamente positivo; e ancor più che in sè, essa è importante per la funzione di stimolo e di rinnovamento che adempirà nel prossimo futuro negli stessi territori ancora avviluppati entro le vecchie strutture della granicoltura tradizionale.

    Veduta della valle del Salso, irrigata e fitta di agrumeti, ampio nastro verdeggiante tra i seminativi semplici e arborati delle zone latifondistiche di Re-galbuto e di Centu-ripe (Enna), entro le quali si insinua e continua la grande area agrumicola dell’Etna sudoccidentale.

    Il ponte della statale tirrenica sul torrente Rosmarino, presso Sant’Agata di Militello (Messina), all’unghia del largo apparato terminale della fiumara, dove la valle comincia a farsi stretta e il ponte può saldarsi con sicurezza alla solida roccia in posto dei ripidi versanti cristallini dei Peloritani.

    Veduta parziale di Ucria (750 m.), situata nell’alta valle della fiumara di Naso o Sinagra, al limite della zona più compatta del noccioleto, nei Nébrodi orientali (Messina).

    Buccheri (820 m.), centro agricolo degli alti Iblei siracusani, ora frequentato anche come soggiorno estivo, qui dominato dalla chiesa di S. Antonio.

    Le regioni delle colture promiscue tradizionali

    Ma la sottoccupazione agricola non è propria soltanto delle zone del latifondo capitalista e contadino, o delle contrade dove la riforma agraria non è riuscita, almeno fino a oggi, a modificare la struttura sociale ed anche economica del passato in modo sostanziale; ma è un fenomeno costantemente presente anche in tutto il settore orientale dell’isola, dove a zone di agricoltura intensiva, cioè di colture di pregio, largamente rappresentate, si giustappongono o alternano anche zone più o meno estese, di solito situate ad una certa distanza dal mare e su terreni piuttosto tormentati morfologicamente — come lungo le fasce mediane dei Peloritani, sullo Ionio come sul Tirreno, e anche là dove, come nei Nébrodi orientali, ha grande rilievo la coltura del nocciòlo — o anche solo lievemente mossi, come sui ripiani o tavolati iblei. In queste regioni resiste una forma o tipo di agricoltura promiscua, che poggia in parte sul seminativo, in parte sulle colture legnose — olivi, vite, alberi da frutto, un po’ di agrumi anche — e in parte sul pascolo: agricoltura promiscua che nel passato, dato l’isolamento di parecchie comunità, poteva anche essere riguardata come una forma piuttosto evoluta e di discreta o addirittura confortevole autosufficienza, con scambi locali limitati, ma che oggi — nell’infittirsi dei rapporti di relazione di ogni tipo — lascia largamente emergere le proprie insufficienze e debolezze, e costituisce un fattore di immobilismo delle società agricole, e le condanna inevitabilmente ad un processo di nècrosi: moltissimi villaggi dominati da questo tipo di agricoltura promiscua a carattere familiare sono in crisi, e il loro peggioramento sul piano economico si manifesta chiaramente nel sensibilissimo assottigliamento della loro consistenza demografica: Limina, ad esempio, che si trova in questa fascia dei Peloritani ionici, ha visto diminuire la sua popolazione lungo l’arco di appena dieci anni, tra il 1951 e il 1961, del 25%, e Itala del 16%, e Fiumedinisi e Ali del 13%; e sull’altro versante dei Peloritani, quello tirrenico, San Pier Niceto del 19% e Monforte San Giorgio del 16%; e nei Nébrodi orientali, entro la zona del noccioleto, Tripi del 21%, Basico del 20%, Ucria del 16% e Librizzi del 14%. Questa forma di agricoltura si ritrova evidentemente anche in altre contrade dell’isola: sia lungo i litorali, dove si fissa in genere a mezza costa tra le colture di pregio e le zone più elevate a pascolo e a bosco, sia nell’ambito dello stesso latifondo: qui una parte notevole, e talora tutta la fascia arborea che fa corona ai villaggi, nota anche con il nome di « fondo censito », è interessata da questo tipo di agricoltura promiscua, anche se la sua origine è un po’ diversa da quella delle zone orientali. E anche qui, nelle zone tradizionali delle colture promiscue — quella orientale, intendo, fuor dal regno tradizionale del latifondo — la proprietà si presenta con le forme più varie: la piccola, sovente polverizzata nella sua coesistenza superficiale e dispersa nella distribuzione spaziale dei fondi da cui è formata, si frammischia a quella media e a quella grande (che è presente via via più largamente alle altitudini maggiori), e si ritrovano tutti i tipi di conduzione, anche i più anacronistici della mezzadria impropria già descritta, e la popolazione tende a migrare stagionalmente, in cerca di lavoro, verso le vicine zone ad agricoltura intensiva.

    Vedi Anche:  Le regioni naturali

    Le regioni delle colture di pregio

    Queste zone di agricoltura intensiva, di pregio — agrumi, ortaggi, viti in particolare — si fissano per la maggior parte nel settore orientale dell’isola: lungo i litorali tirrenico e ionico del Messinese, sui versanti orientale meridionale e sudoccidentale della mole etnea, e tutto intorno agli Iblei, dalla Piana di Catania all’agro posto a ridosso di Siracusa, e da qui alla regione di Pachino e ai territori di Scicli e di Vittoria nel Ragusano. Ma tali zone di agricoltura intensiva si sono sviluppate anche nell’estrema parte occidentale dell’isola, nella Conca d’Oro palermitana, e intorno ai golfi di Carini e di Castellammare, e in una larga fascia da Trapani a Marsala a Mazara del Vallo a Castelvetrano, ed anzi proprio lì hanno avuto più antiche origini.

    Preparazione del terreno, con bassi schermi frangivento di canne, per la coltivazione degli ortaggi lungo il litorale del Mar d’Africa nei pressi di Licata (Agrigento).

    Una veduta dei Peloritani, con la strada che scende a Gesso, sul versante tirrenico, tra boschi, pascoli e colture promiscue disposte su fittissimi terrazzi (ora in parte abbandonati, e già sede, nei secoli scorsi, della gelsicoltura), in corrispondenza di Messina : la città si scorge, con la falcata penisola di San Raineri che ne limita il porto, al di là dell’insellatura peloritana, sullo Stretto, limitato sul fondo dai monti della Calabria.

    Le « solfare » abbandonate di Ciavolotta, nel territorio di Fa-vara (Agrigento), sull’orlo dell’altipiano interno che guarda alla breve pianura costiera del Naro, in via di trasformazione e qui occupata da un vigneto di nuovo impianto.

    Le colture di pregio, presenti sporadicamente già nell’antichità classica (nella forma del giardino mediterraneo di viti) o qui portate dall’invasione araba (l’arancio forte e il limone soprattutto), dalla seconda metà del Settecento han cominciato a dilatarsi in particolari settori: sotto lo stimolo di influenze esterne, specie inglesi, per la vite nel Marsalese; e nell’Ottocento di un mercato via via in espansione e legato ai distretti industriali sia dell’Europa occidentale che delle regioni italiane settentrionali, specialmente per gli agrumi e gli ortaggi. La specializzazione appare in queste regioni molto spiccata: i vigneti negli agri di Marsala e di Trapani e in quelli vicini di Mazara del Vallo e di Castelvetrano, nella piana di Partinico e di Alcamo, sulle medie pendici etnee, orientali e meridionali, negli agri di Vittoria e di Pachino; gli agrumi nella Conca d’Oro e nelle piccole piane litorali del Palermitano, lungo le cimose costiere messinesi, ai margini settentrionali e meridionali della Piana catanese, e nella pianura siracusana; gli orti specialmente nel Ragusano, nei territori tra Pozzallo e Scicli e Santa Croce Camerina, e in larghe aree qua e là entro le zone agrumicole, e in piccoli tratti isolati del litorale africano centrale e occidentale. In queste regioni delle colture di pregio — che interessano circa il 13% della superficie agraria dell’isola, e concorrono alla produzione lorda vendibile dell’agricoltura siciliana con il 52% del suo valore, e nelle quali vive una fitta popolazione — non tutte queste colture ricche creano ambienti altrettanto prosperi. E non soltanto per la maggior o minor ricchezza dei prodotti o per la maggiore o minore stabilità dei relativi mercati, ma anche per la diversa capacità di offerta di lavoro di ciascuna di queste colture e per la profonda contrapposizione dei tipi aziendali — si va dalla piccolissima azienda viticola di Partinico e di Pachino, o agrumicola di Bagheria e di gran parte dei Peloritani, o orticola di Scoglitti, alle grandi aziende viticole del Marsalese, e agrumicole di Paterno e di Lentini, orticole di Siracusa, di Scicli e della Piana di Milazzo — distinti da una diversa organizzazione e da una differente capacità finanziaria: disparità che inevitabilmente si traducono in una maggiore o minore capacità delle aziende di inserirsi nei canali della commercializzazione dei prodotti. I piccoli proprietari conduttori escono danneggiati dal confronto, cioè la loro produzione non raggiunge gli stessi prezzi toccati dai grandi produttori, i quali nello stesso tempo sono anche grossi commercianti. In alcune zone — come nel Lentinese — la nascita e lo sviluppo di cooperative non tanto di produzione quanto di vendita hanno sensibilmente migliorato la situazione economico-finanziaria dei piccoli coltivatori; ma altrove tentativi siffatti sono appena agli inizi, o sono abortiti sul nascere, o addirittura non sono stati ancora tentati. D’altra parte, lo stesso ritmo stagionale dei lavori, in alcune zone e per alcuni prodotti molto accentuato, tende a richiamare nelle zone delle colture di pregio una notevole massa di manodopera stagionale, che L. Gambi ha approssimativamente calcolata — in una recente inchiesta — intorno a 45-50.000 persone per il solo settore orientale (del resto il più importante da questo punto di vista) della Sicilia. E questi movimenti, qui nella Sicilia orientale — dove interessano in massima misura, a differenza di quanto avviene nelle zone del latifondo cerealicolo, anche l’elemento femminile — non provengono soltanto dalle regioni meno ricche dell’agricoltura promiscua più sopra descritta (anche se per la maggior parte traggono origine proprio da qui) ma anche da zone di colture di pregio, dalla Piana milese, ad esempio, e dalla fascia agrumicola dei Peloritani ionici, mentre ad ovest, come ho già osservato, in alcuni periodi dell’estate i vignaiuoli del Trapanese e del Marsalese si fanno mietitori negli agri cerealicoli di Corleone e di Monreale.

    La foce del Plàtani, presso le rovine di Eraclea Minoa, dove i pascoli e i seminativi nudi stanno lasciando il posto a colture più ricche: vigneti e ortaggi.

    Veduta di Borgo l’Annunziata, alle porte occidentali di Randazzo, nell’alta valle dell’Alcantara (Catania), dove le ricche colture che fin lì si insinuano dal litorale ionico, tra i Peloritani e l’Etna, vengono improvvisamente meno di fronte ai seminativi nudi e ai pascoli delle regioni del latifondo frumenticolo degli altipiani interni.

    La chiesa di S. Andrea, a croce egiziana, eretta nei dintorni di Piazza Armerina (Enna) nel secolo XI, è notevole per le strutture architettoniche e per gli affreschi quattrocenteschi.

    Nell’ambito della Sicilia orientale, si tratta in genere di migrazioni che si sviluppano su un arco di tempo molto lungo nel corso dell’anno, da settembre a maggio: nella vendemmia e nella preparazione e spedizione delle uve da tavola in settembre e ottobre; negli agrumeti da ottobre a maggio, nelle aree orticole da aprile ad agosto. Soprattutto l’area del noccioleto — nella quale è ancora cospicua la grande proprietà e diffusa la conduzione con salariati, e gran parte della popolazione rimane senza possibilità d’impiego dopo i periodi di lavoro che richiede la coltura del nocciòlo e che si fissano verso la fine dell’anno per la rimonda, in aprile per la sarchiatura e soprattutto da fine agosto a fine ottobre per la raccolta del frutto: quando per contro questa stessa area diventa centro di richiamo di manodopera stagionale dell’esterno — contribuisce alle migrazioni temporanee con contingenti particolarmente forti: nel complesso, l’area peloritano-caroniense, secondo il Gambi, formerebbe da un terzo a un quarto di tutta la manodopera migrante stagionale della Sicilia ionica. E il carico demografico della zona del noccioleto è tale, che in parte la sua popolazione sciama d’inverno anche negli agri di Cefalù e di Tèrmini Imerese per la raccolta delle olive (da ottobre a gennaio) e in Calabria per la raccolta degli agrumi (da ottobre ad aprile). Nonostante la natura di queste migrazioni stagionali ioniche sia sostanzialmente diversa da quelle dell’interno latifondistico, per la loro « instabilità di itinerari e destinazioni — come scrive L. Gambi — mobilità di occupazioni e remunerazioni, e in complesso oscillazione di contingenti, e tendenza chiara alla specializzazione », sì da sottolineare in modo evidente la presenza in Sicilia di civiltà rurali contrapposte, la situazione economica e sociale di molti di questi migranti non è spesso molto migliore di quella dei lavoratori stagionali del latifondo cerealicolo, anche se diversi sono le loro aperture, il loro desiderio di elevazione sociale, la loro capacità di confronto e di critica, almeno per quanto concerne l’intensità.

    Scorcio del villaggio di Casalvecchio Siculo (Messina), posto sulle pendici mediane dei Peloritani ionici, a 400 m. di altitudine, nella zona dell’agricoltura di sussistenza tradizionale.

    Veduta di San Piero Patti (435 m.), disposto su un forte pendio dei Nébrodi orientali, nell’alta valle della fiumara Timeto, nella zona del noccioleto (Messina).

    Sviluppo agricolo, sviluppo industriale e coordinamento regionale

    Da quanto si è detto, appare in modo abbastanza chiaro che alla semplice e dualistica contrapposizione tra Sicilia interna e Sicilia litoranea, tra Sicilia del latifondo e Sicilia delle colture di pregio, tende a sostituirsi via via una immagine della Sicilia assai più sfumata e varia in tutte le sue parti, con qualche aspetto di luce in quelle più arretrate e antiquate, e la presenza di punti ancora oscuri e di zone d’ombra in quelle più evolute ed avanzate. L’evoluzione in atto, che porta naturalmente verso un più razionale ed organico equilibrio di tutte le regioni dell’isola — e che faticosamente si sta cercando di favorire con numerose iniziative: mediante interventi di sviluppo della Regione siciliana, dell’Eros, dello Stato e di privati — può essere fattivamente portata innanzi anche da un concomitante sviluppo dell’apparato industriale della regione. O può anche essere gravemente compromessa da uno sviluppo industriale non opportunamente programmato, specie per quanto riguarda la dislocazione, entro l’isola, dei poli o nuclei di sviluppo e della loro minore o maggiore potenza. L’inserimento, entro le strutture agrarie della Sicilia orientale, di poderosi complessi industriali — sul litorale megarese prima di tutto, e poi a Gela e a Milazzo — significa certamente un miglioramento e un ravvivamento di tutta la vita economica di questo settore, e costituisce un elemento di rottura con ciò che rimane di tradizioni antiquate e di vecchie mentalità, e indirettamente esercita anche un peso notevole sui rapporti tra imprenditori e lavoratori agricoli: per il prelevamento di manodopera dal settore primario, per la spinta che di conseguenza imprime alle aziende ai fini della meccanizzazione e della motorizzazione, per il graduale — e necessario — adeguamento dei salari agricoli a quelli industriali, per la più libera ed agile lotta sindacale che vi si instaura. Ma sono azioni che si esercitano su un ambiente già piuttosto moderno, e che per contro non operano ancora nella maggior parte dell’isola — in tutto l’interno — o che incidono solo superficialmente e su raggio molto ristretto nei pochi punti nei quali si son formate piccole coagulazioni industriali: oltre che a Palermo, a Porto Empédocle e a Gela sul litorale africano e a Ragusa sui ripiani iblei meridionali soprattutto.

    La colonizzazione del latifondo nei dintorni di Falconara, sul litorale nisseno ad ovest di Gela: case rurali della riforma agraria, sparse nelle distese cerealicole disalberate, che si vanno punteggiando di nuove colture, come la vite e gli ortaggi.

    Vigneti e seminativi nudi nei dintorni di Pachino (Siracusa), già area latifondistica ora dominata dalla piccola proprietà.

    Il processo di uno sviluppo armonico della Sicilia — che già deve poggiare su realtà profondamente diverse — rischia in effetti non solo di essere neutralizzato, ma anche di non avere nemmeno principio nei settori centrali e occidentali dell’isola. La stessa presenza di un maggior numero di centri urbani nella Sicilia orientale rispetto a quella centro-occidentale — che possan servire da fulcro allo sviluppo regionale — è un ulteriore motivo o fattore che ancora una volta fa pendere la bilancia dello sviluppo economico e sociale dell’isola dalla parte del Mar Ionio. In effetti nemmeno l’agricoltura, nella Sicilia centro-occidentale, sembra appoggiata ad un certo numero di città che fungano da stimolo attraverso l’opera di coordinamento e di pianificazione dei vari settori delle attività rurali. Il frazionamento delle regioni, già forte entro i limiti provinciali e ancor cospicuo entro le maggiori suddivisioni subprovinciali, se può servir da base ad una migliore e più coerente impostazione e risoluzione dei vari problemi locali, si traduce per ora su un altro piano — e questo avviene effettivamente — in una caotica disgregazione delle singole parti tra di loro per la mancanza di perni di gravitazione, cioè di centri urbani vitali che ne coordinino le attività.

    La costa e i faraglioni di Scopello, piccolo villaggio sul golfo di Castellammare (Trapani) dominato da una torre di guardia medioevale, posto al limite dell’area viticola di Alcamo-Partinico e alle porte dei vasti pascoli della calcarea penisola di San Vito lo Capo. E anche centro peschereccio, con una tonnara.

    La riforma agraria del 1950 ha inciso nelle strutture agrarie tradizionali della Sicilia meno di quanto abbia fatto il libero mercato fondiario nel corso degli ultimi tre lustri, ma con l’aiuto della Cassa per il Mezzogiorno e della Regione Siciliana ha costruito molte opere infrastruitturali, o di base, come strade, acquedotti, linee elettriche, case e villaggi: come questo di Borgo Manganaro (Palermo), al pari di altri, però, ancora disabitato.