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Le attività industriali

    Le attività industriali

    Il fervore eli attività che contraddistingue l’attuale vita economica della Sicilia non è limitato al campo agricolo — dove, pur attraverso tentennamenti e indugi, si procede secondo i termini di una maggiore razionalità e si tende quindi ad un ringiovanimento e irrobustimento di tutto il settore — ma investe l’intero apparato produttivo dell’isola, cioè anche le attività industriali e commerciali. Di guisa che da quattro lustri ormai la Sicilia dà l’impressione di essersi improvvisamente ridestata da un torpore secolare, ed un soffio di vento nuovo par sia venuto ad infrangere una struttura economica e sociale ormai desueta e anacronistica, e a rompere quel senso di inferiorità rispetto alle regioni più progredite del Nord, fino a ieri largamente predominante. A questo rinnovato fervore di attività non è certo estranea la profonda rottura psicologica che da un ventennio si è determinata tra la popolazione dell’isola, che ha chiesto ed ottenuto l’autonomia amministrativa; ma poco avrebbe significato tale rottura, se effettivamente essa non avesse trovato sul suolo stesso della Sicilia un terreno fertile, cioè possibilità obiettive di sviluppo autonomo: quelle possibilità a lungo rimaste latenti, che per un combinato giuoco di fattori stavano venendo alla luce, reimpostando su basi diverse il problema siciliano. Queste possibilità obiettive consistono soprattutto nelle risorse del sottosuolo, che la legislazione regionale ha saputo in parte valorizzare stimolando iniziative nuove, attirando capitali italiani e stranieri, assicurando con la sua partecipazione attiva e con incentivi l’avvio e lo sviluppo del processo di industrializzazione. Ma ad esse se ne sono affiancate poi altre di carattere esterno, legate alla posizione dell’isola rispetto alle principali rotte del Mediterraneo: che sono state enormemente valorizzate durante gli ultimi decenni in seguito al reperimento e sfruttamento di cospicui giacimenti petroliferi in tutta l’area dei paesi mediorientali. Il primo ciclo della politica antidepressiva, inaugurata nel 1947 dal governo regionale e successivamente rafforzata dalla Cassa del Mezzogiorno, ha preceduto di qualche anno il vero avvio all’industrializzazione dell’isola, che si può fissare nel 1954 con la creazione dell’Irfìs, o Istituto regionale per il finanziamento alle industrie in Sicilia: il quale nel giro di quindici anni ha erogato ai complessi industriali dell’isola 75 miliardi, favorendo pure l’investimento di una somma altrettanto cospicua da parte di privati e di società anonime o per azioni. Questi stimoli hanno agito evidentemente in modo selettivo entro un quadro naturale che mostra predisposizioni o vocazioni più o meno accentuate, ma anche ostacoli talora notevoli, e su una popolazione attiva ancora largamente sprovvista di specializzazione, soprattutto al di fuori del campo delle attività agricole.

    Dalla fase precapitalistica borbonica all’avvizzimento postunitario delle industrie.

    Queste deficienze di specializzazione della manodopera operaia sono imputabili all’avvizzimento delle attività industriali e artigianali dell’isola successivo all’unificazione nazionale, piuttosto che alla mancanza di un avvio all’industrializzazione nell’Ottocento. Che anzi si era trattato di un decollo relativamente ardito, anche se le ancor feudali strutture agrarie avevano strettamente limitato tale fenomeno ad una localizzazione puntuale, non certo diffusa, e l’avevano pressoché costretto entro i limiti di alcune città, aperte alle conquiste tecniche dell’Europa ottocentesca. Da un quadro industriale di tipo artigiano, incapace di una evoluzione autonoma in senso capitalistico soprattutto per l’eccessivo costo del denaro, che impediva la meccanizzazione del lavoro — e tale quadro è proprio di tutte le grosse borgate e cittadine siciliane all’inizio dell’Ottocento, che P. Balsamo aveva visitato durante il suo viaggio del 1808, ricche di telai a mano con qualche grosso laboratorio per la lavorazione del lino, del cotone e della seta: specie a Messina e a Catania, e nei loro immediati dintorni — è in effetti balzato fuori gradualmente, grazie all’impiego della macchina a vapore, una prima meccanizzazione dei tessili, con particolare intensità — dopo gli esordi della filatura del cotone a Palermo tra il 1825 e il 1838, e della fabbricazione dei drappi a Trapani nel 1837 — nei due decenni precedenti l’unità nazionale. Palermo e Messina (da dove la famosa fabbrica di cotonate stampate dell’Ainis era stata trasferita a Fiumedinisi, a sud della città, entro una vallata peloritana, nel 1848 dopo un sommovimento rivoluzionario) contavano alcune fabbriche con più di 100 addetti, e vendevano sui mercati italiani, oltre che su quelli inglese, olandese e vicino-orientali. Le cotonate siciliane, secondo il Trasselli, sarebbero state all’avanguardia della produzione tra le regioni italiane verso il 1860. E nel contempo, prima le richieste della Toscana, della Spagna e del Portogallo, e dal 1830 lo sviluppo dell’industria chimica nell’Europa occidentale diedero un improvviso, grande valore ai giacimenti solfiferi dell’altipiano interno e del litorale africano: purtroppo lo sfruttamento dei giacimenti, caduto presto in mani inglesi, fu di tipo monopolistico e coloniale, e servì soltanto a drenare ricchezze dall’isola lasciando miseria persino nelle regioni di estrazione, e non permise l’elaborazione del prodotto localmente — tranne una prima, parziale raffinazione — svuotando ogni possibilità di decisivi sviluppi futuri. E la flotta intanto passava dalla vela al vapore, e i traffici si intensificavano e si facevano più veloci anche tra le varie parti dell’isola, che le vie del mare — non certo però le vie di terra — legavano tra di loro. E i cantieri navali si rafforzavano, specialmente a Palermo, e l’industria enologica fioriva nel Trapanese.

    Il drenaggio del denaro siciliano verso il Nord dopo l’unificazione fu certamente una delle principali cause che bloccarono lo sviluppo delle industrie siciliane, che erano tuttavia distinte da un molto minor dinamismo rispetto a quelle dell’Italia settentrionale; ma non vi furono estranei — ed anzi la loro responsabilità è grande — la classe dirigente locale e i grandi proprietari, che son rimasti quasi sempre passivi evitando gli investimenti dei loro capitali nello sviluppo industriale della Sicilia. Prima di avvizzire del tutto, l’industria siciliana doveva offrire tuttavia un luminoso esempio di resistenza e di tenacia: Vincenzo Florio, e poi il figlio Ignazio — al pari di alcuni altri vere e proprie « figure di capitani d’industria di stile moderno », come si esprime R. Romeo — hanno coraggiosamente percorso le strade del grande capitalismo, con un’ampiezza di vedute e di iniziative che portò al potenziamento di vari settori economici: alla commercializzazione dei vini a Marsala e a Vittoria, alla produzione di conserve e prodotti ittici a Favignana, alla filatura di cotone a Marsala, alla raffinazione dello zolfo a Palermo, e pure a Palermo alla fusione del minerale di ferro (importato dall’estero) — la fonderia Oretea dava lavoro a ben 800 operai nella seconda metà dell’Ottocento — e alla costruzione di navi a vela e a vapore: dai cantieri palermitani doveva uscire l’Elettrico, la nave allora più veloce d’Italia. Ma la fusione di questi cantieri con la società Rubattino di Genova ne segnò presto la decadenza, e poi la chiusura; e pure le attività tessili vennero meno in rapporto alla concorrenza dei prodotti settentrionali, molto meno cari. Gli addetti all’industria, che nel 1861 erano pari al 34,7% della popolazione attiva (e quindi molto più numerosi, in termini assoluti come relativi, di quelli dello stesso Piemonte, che ne contava appena un quarto, cioè il 25,6%, a voler badare ai valori espressi dalle statistiche), scesero pertanto al 28,6% nel 1871, al 26% nel 1901 e al 24% nel 1936. Ma è pur vero, tuttavia, che questi addetti all’industria — anche nel 1861 e prima: e questo costituiva una grave deficienza della Sicilia, come di tutta l’Italia meridionale, rispetto alle più sviluppate regioni del Nord — erano per la maggior parte, piuttosto che operai, semplici artigiani: ed invero ancora nel 1951 appena il 28,8% era occupato in aziende con più di 10 persone, e solo l’i 1,1% in opifici con più di 100 addetti: la maggior parte lavorava in esercizi con meno di 5 addetti (ma in genere con 203 soltanto), cioè interessava settori tipicamente artigiani.

    Decadenza o relativa stabilità delle industrie tradizionali, oggi

    Fin verso la fine del secolo scorso, dunque, quasi ogni attività industriale è stata contenuta entro limiti ristretti, e nell’ambito dell’artigianato, quasi con la sola eccezione dei giacimenti di zolfo dell’interno; e la maggior parte delle industrie era direttamente o indirettamente legata all’agricoltura. La mancanza di infrastrutture — come dirò più avanti — rappresentava una remora di fondo allo sviluppo industriale: un processo di industrializzazione diffuso non aveva alcuna possibilità di sviluppo, e le poche industrie sorte dall’unificazione in poi si fissarono ovviamente nelle città di mare, tramite per il commercio isolano, e soprattutto a Palermo, Catania e Messina, collegate ora con le attività portuali, ora con una prima trasformazione dei prodotti dell’agricoltura. Il persistere di alcune caratteristiche negative, e in particolare la deficienza della rete stradale e del bilancio energetico, fino a pochi decenni addietro, può spiegare il mancato sviluppo o addirittura l’involuzione dell’apparato industriale siciliano: la cui consistenza, pur con qualche variazione, pare non abbia segnato alcun cambiamento fino al 1951. A questa data, gli addetti alle industrie (estrattive, manifatturiere, costruzioni e impianti, energia elettrica, gas e acqua) ammontavano a 155.444, ci°è rappresentavano appena il 22,8% della popolazione attiva (per parte sua, del resto, pari soltanto al 41,7% di quella superiore ai 10 anni). E per giunta erano per la maggior parte legati alle industrie manifatturiere (con la sola eccezione dell’altipiano centro-meridionale, che faceva larga parte alle industrie estrattive) composte per lo più da ditte artigiane o poco più che artigiane, contando in media solo 2,3 addetti ciascuna: in complesso, le ditte che occupavano fino a 10 addetti raggruppavano nel 1951 il 98,6% di tutta la manodopera del settore. D’altra parte, l’accentuato carattere artigianale delle attività industriali può essere ulteriormente messa in evidenza da un fattore molto significativo: l’entità della forza motrice installata. Ora, nel 1951, delle 56.878 unità locali siciliane dei quattro settori considerati, soltanto 10.548, pari al 18,5%, erano dotate di forza motrice; e ciascuna disponeva in media di appena 25 HP.

    Collesano (Palermo): lavorazione della ceramica d’uso comune, sulle Madonie.

     

    Più che l’industria vera e propria, prevale dunque di gran lunga l’artigianato. E non pare pertanto strano che la struttura familiare o comunque artigiana di molte attività considerate industriali ne abbia gravemente compromesso le possibilità di sopravvivenza: l’apertura recente di tutta l’isola ai circuiti commerciali dei prodotti industriali dell’Italia settentrionale e dei paesi stranieri ha fatalmente messo in crisi vecchi e tradizionali settori di attività che l’isolamento del passato aveva mantenuti saldi e vivaci ; e l’opera di sgretolamento, iniziato nelle città, in primo luogo in quelle marittime e portuali, ha ormai raggiunto anche i villaggi più lontani. La forza di resistenza di queste attività è debolissima: per il peso delle tasse rispetto ai redditi; per l’alto costo delle materie prime e delle macchine necessarie all’ammodernamento delle piccole aziende ; infine perchè certi « mestieri » sembrano per sempre condannati al livello artigiano, e comunque ad un drastico ridimensionamento dei loro addetti (come i sarti: ancora 20.478 nel 1951 ma 12.392 nel 1961; e i fabbri ferrai) o anche alla completa scomparsa (come i cordonai: ancora 30.000 nel 1951, ma solo 69 nel 1961). E pertanto fino ad oggi, ad eccezione di qualche esempio significativo e di qualche settore particolare, di natura artigiana han conservato i tratti salienti pressoché tutte le attività secondarie tradizionali dell’isola: così la manipolazione dei prodotti agricoli a scopo alimentare, che conta ancora il 42,7% degli addetti all’industria manifatturiera (1961), ma li vede occupati in molini, pastifici e conservifici numerosi e diffusi in tutta l’isola, di piccola capacità produttiva e con poco numeroso personale, e soltanto in alcune grosse città — Palermo, Catania, Messina — o nelle borgate loro vicine o nei centri di maggior produzione granaria (a Caltanissetta, per esempio) in complessi modernamente attrezzati, con più di 50 e anche 100 addetti: soprattutto dei molini, dove il ridimensionamento è stato notevole (da 2.222 nel 1903 si è passati a 1500 nel 1943, e a 967 nel 1961), anche se la loro potenzialità media di lavorazione si è tanto accresciuta (123 molini hanno una capacità media di 90.000 quintali annui) da essere in grado di assorbire il doppio della produzione media di grano dell’isola, come pure dei pastifici (223 fabbriche per lo più piccole e poco attrezzate, ma con alcune grandi: la media degli addetti è di 13,5 per unità locale, ma sale a 68 nel Nisseno) che sono in crisi da tempo. E lavorazione artigiana presenta ancora la produzione dei formaggi — caciocavallo o provola e pecorino, soprattutto — e dello stesso olio — con 1092 unità locali, per lo più frantoi, con pochi oleifici moderni; e persino la lavorazione delle uve, i cui opifici — 332: dimezzati come quelli da olio rispetto al 1951 — per gran parte sono di piccola entità (e infatti la media degli addetti è di appena 5,5) e presentano un certo peso e rilievo soltanto a Marsala e a Trapani: nella provincia trapanese si trova in effetti il 41,5% degli esercizi, ma il 72% degli addetti: anche se la dispersione delle aziende e l’impossibilità, per ora, di raggiungere una adeguata uniformità nel tipo dei vini prodotti e nella loro quantità (ma recentemente alcune grosse case, come le rinomate, antiche Ingham, Woodhouse e Florio sono state incorporate dalla piemontese Cinzano) non hanno impedito la produzione di vini di altissima qualità, come il marsala, i moscati di Pantelleria e di Siracusa, la malvasia di Lipari, il corvo di Casteldaccia, vari vini dell’Etna, e l’affermarsi (ora anche nelle grandi città italiane del Centro-Nord, in seguito alla grande diaspora delle popolazioni siciliane) di liquori squisiti, come l’Amaro Siciliano di Caltanissetta.

    Marsala (Trapani): veduta di una delle grandi cantine di stagionamento del « marsala », degli Stabilimenti Florio.

    Il legame a questa attività è valso poi a tenere ancora in vita l’artigianato dei bottai, mentre altre attività hanno lasciato un po’ di respiro ai carrai: ma in complesso l’attività del legno è rappresentata soprattutto da botteghe artigiane (i soli falegnami ed ebanisti formano il 27,7% dei 18.427 addetti al settore) cioè da minuti esercizi e solo in alcune città da aziende di tipo industriale (specie a Palermo, Messina e Catania): in tutto erano ancora 32.270 le unità locali di questo settore nel 1951, ma sono ora (1961) soltanto 9343. E artigianali sono ancora gli esercizi dediti alla produzione dei dolci, spesso caratteristici, dei gelati, del latte di mandorla, e appena agli inizi — a Messina e a Siracusa — la produzione su scala industriale dei succhi d’agrumi, delle essenze agrumarie e di gelsomino (con alcune grosse ditte da tempo affermate in campo mondiale, con 100-300 operai: come la Ruegg, la Bossurgi, la Sanderson) e delle conserve, specie di pomodoro; mentre da qualche decennio si è imposta l’industria della birra (con un grande stabilimento a Messina, la Trinacria: con una produzione di 70.000 ettolitri di birra e alcune decine di malto e di bibite diverse, e con uno più recente a Catania). Pure modeste, d’altra parte, e costrette a servirsi anche di pesce congelato d’importazione, le industrie di conservazione del pesce (specie a Trapani : con 20 ditte, che danno lavoro a 937 persone).

    Casteldaccia (Palermo): veduta di un deposito provvisorio dello stabilimento enologico del Duca Sala-paruta, nella Conca d’Oro.

    Di assai modeste proporzioni sono anche le industrie metallurgiche e meccaniche: perché artigiani e occupati in piccole aziende, specie di riparazione di automezzi di ogni tipo, oltre che fabbri, sono circa i 3/4 dei 25.400 lavoratori di questo settore, nel quale resistono ancora gli artigiani del ferro battuto — a Giardini, Castelbuono, Tortorici — e gli argentieri e orefici (specie a Palermo). Soltanto tre impianti siderurgici di qualche rilievo si possono infatti segnalare (due a Palermo ed uno a Catania) e accanto ad essi e anche più importanti alcuni cantieri navali: di Palermo, dove i Cantieri Navali Riuniti, eredi della Florio, si occupano soltanto, in un bacino di carenaggio di 70.000 tonn., di riparazioni navali, con 2500 operai (che erano 4900 ancora nel 1956); e di Messina, che vanta due cantieri più piccoli (la Rodriguez, con 280 operai, specializzata nella produzione di aliscafi, ora anche largamente esportati, e la Cassaro con 325 addetti), oltre all’arsenale militare, che ha visto recentemente scendere gli addetti da 3000 a 1700, con grave disagio nel campo del lavoro cittadino. E quasi inesistenti sul piano veramente industriale sono le industrie tessili, vago ricordo, specie nel Messinese, dell’importanza avuta nei secoli scorsi e fino all’Ottocento: l’industria della seta è del tutto scomparsa, mentre la filatura e la tessitura del cotone interessa ancora (1961) alcuni stabilimenti di discrete dimensioni solo a Palermo (9 con 838 addetti, complessivamente). Qualche nuova azienda, però, è sorta da poco, soprattutto nel campo dell’abbigliamento: maglifici a Villafranca Tirrena (Messina) e a Ragusa; calzifici ancora a Villafranca Tirrena, a Barcellona-Pozzo di Gotto, a Palermo. Nel settore del tessile si son mantenute in vita, stimolate dal turismo, alcune attività tradizionali tipiche: dei ricami a Taormina (le cui botteghe vengono rifornite da forti nuclei di giovinette che attendono al ricamo nelle borgate vicine, come a Sant’Alessio, a Giardini e a Linguaglossa) e a Palermo (su cui gravitano i centri di lavoro della Conca d’Oro, di Monreale, di Tèrmini Imerese, Cefalù e Cerda) e dei tappeti, specie ad Erice e in alcuni paesi delle Madonie.

    Vedi Anche:  La rete idrografica e l'azione dei fiumi

    Le alte pareti di una cava di calcari tufacei, intagliata nei rilievi che fan corona a Menfi (Agrigento).

    Veduta della Salina Grande, nei dintorni di Marsala (Trapani).

    Ma nemmeno su basi veramente industriali si ergono altri tipi di industrie legate allo sfruttamento delle risorse naturali dell’isola: non le cave di pietra da costruzione — notevoli quelle di calcari di Siracusa e di Còmiso, e di pietre tufacee del Marsalese — e nemmeno le cave di pietre ornamentali, numerosissime nel Trapanese, soprattutto nelle formazioni giurassiche (dove tuttavia si possono già osservare grosse segherie con 100 e più telai nella zona di Balata di Baida, a Custonaci e a San Vito lo Capo) ma presenti anche a Marettimo nel gruppo delle Egadi, nei Peloritani (a Mirto, a San Marco d’Alunzio) e in forma pure industriale a Piana degli Albanesi e — per i soli stabilimenti di lavorazione — a Cefalù, a Trapani e nel vicino centro di Paceco: attività che hanno avuto forte sviluppo negli ultimi anni, ed hanno portato la produzione a circa 80.000 tonnellate nel 1962, per più di metà spedite verso altre regioni italiane. Né veramente industriali sono le fornaci per laterizi o mattonaie, assai diffuse nell’isola per l’abbondanza di marne e argille — son 285, con 3324 addetti — anche se esistono alcune grosse imprese: con più spiccata localizzazione nella provincia di Messina (specie sul versante tirrenico dei Peloritani: a Villafranca, a Spadafora) che da sola conta poco più di 1/5 delle unità locali, ma ben la metà degli addetti. E nemmeno l’industria delle ceramiche, che pur vanta ottime tradizioni a Patti (che poco prima dell’unificazione aveva 50 piccoli stabilimenti con 3500 tornitori di vasi e addetti ai forni, ed ora ha appena 14 forni e 200 operai) a Centuripe, Collesano, Caltagirone e Santo Stefano di Camastra (rimasta questa la più vivace, insieme a Caltagirone, già famosa nel Cinquecento e soprattutto nell’Ottocento per le sue faenze siciliane): ma ora rafforzata da due grossi opifici: la Pozzi, nella nuova zona industriale siracusana, con 300 addetti, e la Cesarne (Ceramica Sanitaria del Mediterraneo) nella zona industriale di Catania, con 250 addetti.

    Una cava di granito nella valle dell’Alcantara, sulle falde settentrionali dell’Etna.

    Isole Eòlie (Messina): cave di pómice, a Canneto

    Anche le saline si trovano ancora in una situazione preindustriale e per giunta angustiate da problemi di organizzazione e di ammodernamento. Si trovano per gran parte concentrate nel Trapanese in una piatta fascia costiera che si slarga subito a ridosso del capoluogo, e in minor numero vicino ad Augusta, sul litorale ionico. Esse presentano un paesaggio pittoresco, fissato in tratti vecchi di secoli: i mulini a vento per il sollevamento dell’acqua di vasca in vasca, i grossi mucchi di sale, le piccole case dei « curatoli » disperse in una fittissima maglia di esili arginetti, e le piccole,, piatte barche per il trasporto del sale al porto di Trapani, lungo i canali. Una certa riorganizzazione delle operazioni produttive tra i cinquanta proprietari delle vasche c’è stata, come pure una certa meccanizzazione del lavoro, nel tentativo di resistere alla concorrenza straniera.

    Mattonaia di tipo tradizionale presso la costa tirrenica dei Peloritani, presso Venético Marina (Messina).

    La produzione è tuttavia molto ridotta rispetto ad un passato anche recente, e in complesso da 191.350 tonn. nel 1938 e 187.450 nel 1950 si è scesi a 150.000 nel 1962 (di cui 1 ‘87% da Trapani e il resto da Augusta). E molti dei 1200 salinai che vi lavorano per quattro mesi l’anno ricurvano ancora le spalle sotto le ceste piene di sale (da 25 a 30 kg.) tra le vasche e i depositi, come nel passato: così nel 1938 li aveva descritti il Cumin, così nel 1961 li aveva rivisti il Ruocco. E addirittura languenti o scomparse del tutto appaiono le attività estrattive di materiali metalliferi, sfruttati fin dall’antichità, ma di poco valore: di galena argentifera — a Fiumedinisi, in contrada Vacco, ancora oggi una decina di minatori lavora saltuariamente alla sua estrazione — di pirite, di calcopirite, di antimonite. Mentre ha segnato un significativo sviluppo, sul piano produttivo come su quello organizzativo, lo sfruttamento della pietra pómice di Lipari: le bianche cave che orlano la costa soprattutto tra Lipari e Canneto — dove lavorano circa 300 operai — hanno più che raddoppiata la produzione di questo dopoguerra (è stata di 242.000 tonn. nel 1961) e la stanno ancora incrementando: e dal porto di Canneto la pietra pómice viene avviata per una metà verso i porti dell’Italia settentrionale e per l’altra metà verso l’estero (negli Stati Uniti, 43%; nel Regno Unito, 15%; in Francia, 13%; in Canada, 8%). E altre industrie tradizionali, specie quelle estrattive di salgemma, di asfalto e di zolfo — in assai minore misura quella del gesso — sono state salvate in diverso grado da una ancor più fatale decadenza dal nuovo corso del processo industriale isolano, che da poco più di tre lustri ha preso l’avvio, mentre il miglioramento economico generale e il sensibile innalzamento del tenore di vita hanno ingigantito, come in tutta Italia, il settore delle costruzioni — erano 49.000 gli operai e 72.000 i manovali nel 1961 — da qualche anno in crisi per la sopravvenuta e ancora non del tutto risolta recessione economica, e qui più sentita per la eterogenea struttura delle imprese e in parte per la loro improvvisazione. Ma giova ricordare che molte di queste imprese sono molto forti, ben attrezzate e ottimamente guidate, e che danno lavoro a centinaia di operai e manovali: con caratteri e interessi ormai a raggio nazionale.

    Isole Eòlie (Messina): cava di ossidiana, a Lipari.

    Veduta del tratto terminale della teleferica che unisce, su un percorso di 18 km., la miniera di kainite di San Cataldo allo stabilimento chimico di Campofranco, della Montédison. In primo piano il corso del Plàtani; sullo sfondo, l’abitato di Campofranco (Caltanis-setta).

    L’avvio all’industrializzazione: lo sviluppo dell’energia elettrica

    Il recente sviluppo industriale siciliano, nonostante l’apparizione di moderne aziende in vari centri dell’isola, è stato distinto da una marcata concentrazione: soprattutto nella fascia litorale tra Augusta e Siracusa e alla periferia di Catania, e poi intorno a Ragusa e a Gela, Porto Empedocle, Milazzo, mentre a Palermo e a Messina la situazione appare piuttosto stazionaria. Anche se limitata nello spazio, l’industria ha visto crescere i suoi addetti in modo sostanziale: a 477.000 unità nel 1961, e a 531.000 nel 1962: rispetto alla popolazione attiva dell’isola, essi rappresentavano ancora il 22,8% nel 1951, ma già il 31,6% nel 1961, e il 34,4 nel 1962. Questo forte avvio all’industrializzazione è stato facilitato dal grande sviluppo delle fonti di energia: in ispecie dell’energia elettrica. Sino alla fine del secondo conflitto mondiale, in effetti, la produzione di energia elettrica era stata trascurabilissima. La struttura economica particolarmente depressa dell’isola non costituiva affatto un impulso all’investimento di grandi capitali in costosi impianti elettrici, e le centrali, soprattutto termiche, erano quasi soltanto limitate ai principali centri urbani, e soddisfacevano prevalentemente alle necessità dell’illuminazione (del resto ancor poco diffusa in tutto il territorio insulare). Nel 1909 le centrali termiche, cittadine, avevano una potenza installata di appena 7300 kW, e alcuni piccoli impianti idroelettrici disponevano di una potenza installata trascurabile (650 kW): nel complesso, essa rappresentava solo l’i,7% di quella italiana. Se da una parte il gravame finanziario rappresentato dall’importazione della materia prima (carbone) per le centrali cittadine manteneva contenuto lo sviluppo dell’energia termica, dall’altra i caratteri idrologici dei corsi d’acqua e la stessa struttura dei terreni avevano largamente diffuso l’opinione che la costruzione di bacini artificiali fosse irta di difficoltà ed antieconomica: i primi impianti idrici di una certa importanza, invero, furono innalzati solo nel 1910 e nel 1911 rispettivamente sul Cassibile e sull’Alcantara, cioè su corsi d’acqua tra i più brevi dell’isola, ma che — come ho già detto nel capitolo quarto — per una cospicua alimentazione da sorgenti perenni mostrano deflussi medi, durante i mesi estivi, non del tutto trascurabili. Eppure, le risorse idriche della Sicilia non sono estremamente povere, come si soleva prospettare: i dati raccolti ed elaborati dal Ministero dei Lavori Pubblici nel 1929 avevano accertato un potenziale idrico capace di una producibilità annua di 868 milioni di kWh, cioè di poco inferiore al consumo di energia in Sicilia nel 1957. Le acque dell’isola — la cui utilizzazione veniva in parte trascurata dalla Società Generale della Sicilia, che tuttavia costruiva un secondo impianto sull’Alcantara nel 1919 e uno sull’Alto Bélice nel 1922 — venivano nel frattempo sfruttate da numerosi enti comunali in centrali di piccole dimensioni, sicché nell’assieme, su una potenza installata di 26.800 kW nel 1918 e di 58.200 kW nel 1929, all’energia idrica spettavano rispettivamente il 38,4 e il 40,6%. In quest’ultimo anno la produzione fu di appena 128 milioni di kWh, che salì a 223 milioni all’inizio dell’ultimo conflitto, in seguito alla costruzione di altre centrali idriche, come gli impianti di San Carlo (1938) e di Poggiodiana (1940). Nel 1939 — limitando i raffronti alle altre regioni del Mezzogiorno — la produzione siciliana superava soltanto quelle della Puglia e della Basilicata, ed era grosso modo pari a quella della Sardegna. La disponibilità per abitante era di appena 55 kWh, di fronte ai 196 della Sardegna, ai 325 della Calabria, ai 520 dell’Abruzzo e Molise; nello stesso anno le regioni del Nord vantavano 650 kWh per abitante.

    Isole Eòlie (Messina): i pontili di imbarco per la esportazione della pómice, a Canneto.

    La diga di sbarramento del Lago Arancio, sull’alto bacino del Carbòi, presso Sambuca di Sicilia (Agrigento). L’acqua di questo serbatoio artificiale — che ha una capacità di 32 milioni di metri cubi — viene sfruttata per la produzione di energia elettrica e per l’irrigazione di un settore (circa 40 kmq.) della piana costiera di Menfi.

    Veduta di una delle piccole centrali idroelettriche a scorrimento sul fiume Alcantara, tra i Peloritani e la mole etnea.

    Nel nuovo clima politico ed economico di questo dopoguerra, più sensibile ai problemi dello sviluppo delle nostre regioni attardate, la disponibilità di energia siciliana — nel 1946 ritornata sulle posizioni prebelliche dopo le riparazioni dei danni di guerra — apparve del tutto insufficiente. Nel 1947 la costituzione dell’Ente Siciliano di Elettricità fece entrare l’isola in un nuovo periodo: nel volgere di pochi anni questo ente pubblico costruì gli impianti idrici dell’Ànapo, del Carbòi, dell’Ancipa, di Grottafumata, del Plàtani, per una producibilità annua di no milioni di kWh, esercitando uno stimolo vivificatore sull’attività della Sges, fino a quel momento pressoché l’unica produttrice e distributrice dell’isola. La Sges lasciò l’iniziativa dei nuovi impianti idrici alla società pubblica — impianti molto costosi, ma che avevano nel contempo il vantaggio, ai fini della pubblica utilità, di permettere l’irrigazione di notevoli estensioni di terreni mediante la raccolta delle acque meteoriche in grandi serbatoi, come quelli di Arancio sul Carbòi (32,8 milioni di me.), di Fanaco sul Plàtani (20 milioni di me.) e dell’Ancipa sul Traina (30 milioni di me.) e procedette invece all’installazione di nuovi gruppi generatori nelle centrali termiche già esistenti, costruì la nuova centrale diesel-elettrica di Messina (1947), realizzò in compartecipazione con la Ese e l’Amministrazione delle ferrovie dello Stato — fondando la Società Termoelettrica Siciliana — la centrale termica di Palermo (1953~5: della potenza di 99.000 kW), provvide con cavi aerei ad un ardito allacciamento elettrico con la penisola attraverso lo Stretto (1955), eresse una grande centrale termica ad Augusta (1959) mediante la consociata Tifeo (della potenza di 225.000 kW) e costruì la più grande centrale idrica siciliana (di 80.000 kW), ad accumulazione e pompaggio, sul Guadalami (i960), affluente del Fiume Grande (o Bélice Destro), soprattutto per fronteggiare le punte di massima richiesta e per permettere nel contempo il più razionale sfruttamento delle centrali termoelettriche. Successivamente, altre centrali termiche sorgevano a Tèrmini Imerese (per una potenza installata di 330.000 kW), Porto Empedocle (150.000 kW), Gela (della stessa potenza), e ancora a Trapani, Milazzo e Catania, e venivano condotte a termine quelle idriche di Paterno, Barca e Contrasto. In complesso, esistono ora (1964) 40 centrali idriche per una potenza di 234.600 kW, e 49 centrali termiche con una potenza di 1.128.400 kW. La produzione di energia è pertanto cresciuta enormemente, passando da 267 milioni di kWh nel 1947 a 538 nel 1952, a 1109 nel 1958, a 1330 nel 1959, a 2623 nel 1962, a 4294 nel 1964: per il 7,4% idrica, e per più dei 9/10 termica. E tanto è cresciuta ormai la potenza installata, che lo scarto tra producibilità e produzione è piuttosto notevole: allo sviluppo della disponibilità di energia elettrica non ha corrisposto infatti un adeguato incremento dei consumi: e ciò nonostante un forte aumento delle richieste da parte delle industrie, del resto ancora modeste di fronte a quelle di molte altre regioni italiane. Nel 1964, su un consumo complessivo di 2696 milioni di kWh, il 65,6% è stato impiegato nell’industria, il 15% nell’illuminazione, il 4% nella trazione, l’8,3% nelle applicazioni domestiche, il 2,8% nell’agricoltura e il 4,3% per altri usi (servizi e bisogni collettivi). Eppure, la produzione elettrica siciliana nel 1964 — nonostante sia cresciuta di 20 volte rispetto al 1938 — è ancora piuttosto bassa rispetto alla produzione nazionale: ne rappresenta infatti soltanto il 5,6%, con un divario, pertanto, ancora molto alto nel consumo pro-capite: 889 kWh annui in Sicilia di fronte ad una media di 1462 kWh per l’Italia. Evidentemente, il consumo è ancora oggi tenuto relativamente basso (ma era appena di 279 kWh annui pro-capite nel 1959) dalla struttura economico-sociale dell’isola, ancora attardata, nel complesso, nonostante i notevoli sforzi di miglioramento; ma è stato ostacolato, fino a qualche anno fa, anche dai prezzi dell’energia, molto più alti delle medie nazionali. Il passaggio di questo settore produttivo di base ad un ente statale — l’Enel — potrà certamente servire, equiparando le tariffe su tutto il territorio nazionale, a togliere un altro intralcio allo sviluppo della Sicilia.

    Piccola centrale idroelettrica, innalzata in corrispondenza di un salto del Simeto, nel territorio di Adrano (Catania).

    Veduta parziale della centrale termoelettrica Tifeo, con il pontile per lo sbarco del combustibile liquido, presso Tèrmini Imerese (Palermo).

    Diga di tenuta sul Fiumefreddo (Catania), sul versante nordorientale dell’Etna, le cui acque vengono sfruttate a fini irrigui.

    L’industria petrolifera

    Accanto all’incremento della produzione di energia elettrica, il reperimento del petrolio nel Ragusano e nel Gelese si è posto come un secondo fattore positivo nelle prospettive di sviluppo industriale dell’isola. Indizi di idrocarburi — gassosi, liquidi e solidi — sono particolarmente frequenti in Sicilia: nelle zone argillose, i gas (soprattutto metano) fuorescono talora con violente eruzioni da piccoli vulcani di fango (macalube) — come nel territorio di Aragona — e spesso da semplici fessure del suolo ; e piccole manifestazioni di petrolio sono note da tempo immemorabile in diverse località; e infine nel Ragusano, nel cuore dell’altipiano ibleo, si trovano importanti depositi di idrocarburi solidi, da tempo sfruttati: gli asfalti. Ma a dispetto di questa notevole ricchezza di manifestazioni, geologicamente legate a formazioni del Terziario (dall’Eocene al Pliocene), la ricerca petrolifera ha avuto una storia incerta sino alla fine dell’ultimo conflitto. Iniziata all’alba di questo secolo, con sondaggi a Santa Agrippina di Nicosia, essa parve assumere caratteri di intensità solo dopo il 1926-27 in seguito alla istituzione dell’Azienda Generale Italiana Petroli (Agip): ma si perforò in poche località, e troppo superficialmente.

    Vedi Anche:  Latifondi e regioni delle colture

    Priolo (Siracusa): veduta dell’impianto di cracking per la produzione di benzina, nel complesso dell’Augusta Petrolchimica (Montédison).

    Cave d’asfalto a sud di Ragusa.

    I risultati furono negativi da un punto di vista industriale: quantità trascurabili di petrolio e di gas erano state tuttavia individuate a Bivona, in vai Riena di Lercara, a Gioitto e a Bronte. Le ricerche, tralasciate dall’Agip nel 1946, dopo appena 18 sondaggi, furono riprese dal geologo americano I. G. Thomas per conto della « Gulf Oil of New Jersey» subito dopo: nel 1953, sotto lo stimolo della nuova legge regionale sugli idrocarburi, si passò alle perforazioni esplorative in contrada Pennente di Ragusa, e la sonda toccò, a 1890 metri di profondità, una potente pila di calcari dolomitici triassici, molto fratturati: essi costituiscono la roccia madre del giacimento ragusano. Il fortunato ritrovamento richiamò in Sicilia numerose altre società petrolifere: la maggior parte delle concessioni è ora divisa soprattutto tra Gulf Italia, Eni ed Edison (ora Montédison), che direttamente o grazie a società consociate controllano la maggior parte di tutta la superfìcie di ricerca. Le indagini ripresero con vigore: nel 1956 l’Eni scopriva il giacimento di Gela, nella Piana del Signore, immediatamente a ridosso della città, a 3404 m. dalla superficie; la Cisda (Britannica Petroli) quello di Vittoria poco tempo dopo; e l’Agip Mineraria o società consociate, il metano a Fontana Rossa (Catania), a Gagliano Castelferrato (Enna), a Trapani, a Mazara del Vallo. La maggior attività estrattiva è ora concentrata sull’altipiano ragusano: qui la Gulf Italia ha in attività 53 pozzi, in una fascia di terreno che si stende a nord e a sud della città su poco più di 53.000 ettari. Le ottimistiche previsioni di qualche anno fa, che calcolavano le risorse del giacimento fino a 500 milioni di tonnellate, sono state successivamente costrette entro limiti molto più esigui: ma le ricerche continuano con ritmo intenso in tutta la regione. La produzione di greggio è aumentata gradualmente solo nei primi anni (148.000 tonn. nel 1955; 1,1 milione di tonnellate nel 1957; 1,4 nel 1960) e poi si è stabilizzata intorno a 1,3-1,5 milioni di tonnellate l’anno. Il campo di Ragusa è allacciato dal 1957 con un oleodotto di circa 75 km. alla zona industriale di Augusta e alla penisola di Magnisi — da dove in parte la produzione viene avviata ad altri porti italiani — e mediante oleodotti secondari con il cementificio e l’impianto petrolchimico della società ABCD, a Ragusa. In questa città, i più positivi risultati del reperimento del petrolio sono stati la conversione degli impianti di distillazione per asfalti della ABCD in impianto petrolchimico (i960) e l’irrobustimento della stessa società. Essa cura ancora, in effetti, l’estrazione e lo sfruttamento dell’asfalto, a sud della città: ma la produzione di questo minerale — da cui si ricavano anche cemento, mattonelle e bitume, oltre ad altri numerosi prodotti — è diminuita da 195.000 tonn. nel i960 a 92.000 nel 1962. Per contro, ha trattato 185.000 tonn. di petrolio, e ne potrà elaborare prossimamente fino a 625.000, ricavandone olio combustibile, bitume, gas liquido, polietilene; ed altro petrolio ragusano sarà impiegato anche nel cementificio della stessa società. Dal campo gelese — punteggiato da 56 pozzi, di cui due sottomarini a circa 1800 m. dalla costa — proviene la rimanente parte del petrolio siciliano: 45.000 tonn. nel 1957, 186.000 nel 1958, 552.000 nel i960, 443.000 nel 1961, 460.000 nel 1964. La produzione fino a qualche anno fa veniva esportata soprattutto verso altri porti italiani; ma ora viene utilizzata nel grande stabilimento petrolchimico dell’Anic, sorto a ridosso di Gela, con una capacità di circa 3 milioni di tonnellate di greggio. Questo complesso si compone di quattro settori: uno petrolifero per la produzione della benzina, gasolio e bitume; uno petrolchimico, che tratta i residui di prima lavorazione ricavandone prodotti azotati ed etilenici; uno dei fertilizzanti (solfato ammonico e urea); ed uno termoelettrico, in cui si utilizza il coke di petrolio: la produzione è di circa 1,5 milioni di tonnellate per i prodotti petroliferi, di 250.000 per quelli petrolchimici, di 1,3 miliardi di kWh per l’energia elettrica. La produzione di petrolio dovrebbe essere portata a 3,5 milioni di tonnellate l’anno, da circa 150-200 pozzi. La produzione di petrolio siciliano, in complesso — di circa 2 milioni di tonnellate l’anno — è ben poca cosa rispetto alla quantità di petrolio che viene raffinato o utilizzato per la produzione di energia elettrica nell’isola: cinque raffinerie ne hanno trattato ben 9,2 milioni di tonnellate nel 1962: specie la Rasiom di Augusta (5,2 milioni di tonnellate: ma con una capacità di 8,5), la Sarom (Mediterranea) di Milazzo (2,6 milioni di tonnellate: ma sono in corso lavori per portarne la capacità ad 8), oltre a quelle di Tèrmini Imerese, di Gela e di Ragusa, e più di 12 milioni nel 1964. A differenza del petrolio, il metano non è stato rinvenuto in depositi di particolare rilievo, e la produzione, per quanto in sensibile aumento, rimane ancora piuttosto contenuta. Nel Trapanese, e in ispecie nei campi di Lippone e di Mazara del Vallo (legati con gasdotto a Marsala), il metano viene ora usato come gas di città, al pari di quello di Catania (Fontanarossa), in parte sfruttato anche dalla locale centrale termica. Ma grandi possibilità, tra i giacimenti di recente scoperti, sembra che abbiano soprattutto i campi di Gagliano Castelferrato (Enna), produttivi anche per il petrolio: il gas di Gagliano viene tutto avviato, con un metanodotto di 87 km., all’impianto petrolchimico dell’Anic di Gela.

    Condizioni geologiche e risorse naturali.

     

    Vecchia miniera di zolfo dell’altipiano nisseno. Le miniere di questo tipo, molto numerose nell’Ottocento, sono state pressoché tutte abbandonate.

    Industrie minerarie vecchie e nuove: zolfo, salgemma, sali potassici

    Prima del reperimento dei giacimenti petroliferi, l’industria mineraria siciliana per antonomasia era costituita dalle solfare: numerosissime sull’altipiano interno che da Enna e Caltanissetta digrada verso il Mar d’Africa, sfruttate spesso con metodi primitivi, esse erano nel contempo il simbolo dell’industria e di una delle aree più depresse dell’isola. Il momento più fortunato di questa attività estrattiva dal punto di vista economico (che coincide anche con il periodo di massimo sfruttamento dei minatori e di numerosi bambini, i « carusi », che lavoravano in condizioni disastrose e venivano falcidiati dalla silicòsi e da frequenti crolli nelle miniere: erano 36.000 nel 1892) si pone negli ultimi decenni del secolo scorso, quando la produzione salì tra il 1870 e il 1900 da 200.000 a 500.000 tonn. di zolfo greggio in pani: produzione assorbita dai paesi industriali dell’Europa occidentale e dagli Stati Uniti. Le miniere si andarono pertanto moltiplicando, addentrandosi tra le rocce gessoso-solfifere mioceniche, nelle quali lo zolfo si trova associato allo stato nativo prevalentemente al gesso. Esse si infittirono soprattutto ad est del corso medio del Plàtani, in un’ampia fascia che da Racalmuto attraverso Caltanissetta ed Enna si spinge fino a Centuripe, su una distanza di 100 chilometri, e tra il Salso e il Gela, da Campobello di Licata a Caltagirone, per 55 chilometri; ma raggruppamenti cospicui comparvero anche lungo la valle del Plàtani da Lercara Friddi ad Aragona, e da Bivona a Cattolica Eraclea. Un insieme di motivi ha poi precipitato questa industria in una situazione di crisi permanente: l’uso delle piriti nella produzione dell’acido solforico, la scoperta di giacimenti di zolfo particolarmente ricchi e di facile sfruttamento nel Texas e nella Louisiana, e l’introduzione del metodo estrattivo Frasch (1903) — che non può essere applicato nelle miniere siciliane a causa della struttura del minerale, a lenti di modesta dimensione e potenza — ponevano sul mercato notevoli quantitativi di zolfo, e a basso prezzo. La produzione della Sicilia, di conseguenza, è andata diminuendo in modo cospicuo, pur con qualche punta di ripresa, fino a toccare una media di 1,2 milioni di tonnellate di minerale di zolfo nel 1955-59, e di 0,9 milioni nel 1962: lo zolfo fuso è passato da 147.000 tonn. nel 1955 a 88.000 nel 1959, a 40.000 nel 1962, mentre sono aumentati i concentrati umidi di flottazione, pari a 84.000 tonn. nel 1962 e gli sterri utilizzati nell’industria chimica dell’isola (circa 350.000 tonn. nel 1961-62). I vari mezzi escogitati per fronteggiare la crisi — crisi di carattere permanente — non hanno avuto effetto positivo; ma il tentativo di ridimensionamento dell’industria solfifera, ora in atto, sembra discretamente avviato: delle miniere già in attività — ancora 105 nel 1957 e 56 nel 1962 — soltanto 19, le più produttive, sono in fase di riorganizzazione e di meccanizzazione, mentre le altre, antieconomiche, sono state o verranno chiuse. Da poche delle più ricche — in particolare dalle miniere di Trabia, Trabonella, Cozzo Disi e Montagna Mintini — viene ora quasi la metà di tutta la produzione siciliana. La quale dovrebbe crescere fra qualche anno a 2 milioni di tonnellate di minerale, da collocare sul mercato allo stato naturale o di concentrato; mentre la produzione di zolfo fuso dovrebbe essere ridotta al minimo: a circa 22.000 tonn. Questa soluzione è resa possibile solo da una verticalizzazione della produzione nell’ambito regionale: il minerale viene infatti sempre più richiesto dai complessi chimici isolani per la produzione di acido solforico. La riorganizzazione del settore, tuttavia, comporterà un’ulteriore contrazione della manodopera: gli operai, che erano quasi 10.000 nel 1955, 7400 nel 1959 e 6250 nel 1962, dovrebbero ridursi ad appena 2800. Molti minatori hanno già preso, e da tempo, la via dell’emigrazione: verso la Francia, il Belgio, la Germania. Ma tale riorganizzazione potrebbe incontrare anche altre difficoltà: specie sotto la minaccia — che si presenta non lontana — della produzione dello zolfo di recupero dalla desolforazione dei gas naturali.

    L’azione che l’industria chimica siciliana sta esercitando sulla riorganizzazione e sul potenziamento del settore solfifero, si presenta con risultati molto più appariscenti in un’altra industria estrattiva: quella del salgemma. Localizzata per la massima parte nei territori di Cammarata, Cattolica Eraclea e Racalmuto, nel retroterra agrigentino — nonostante i giacimenti siano molto numerosi e sparsi su un territorio esteso da Cattolica Eraclea a Nicosia e da Racalmuto a Centuripe, alla base della formazione solfifera — essa ha visto aumentare in breve tempo la produzione: da una media di 160.000 tonn. annue nel 1951-56 (ma erano appena 71.200 nel 1938 e 81.700 nel 1946) a 218.000 nel 1957, a 349.000 nel 1959, a 490.000 nel 1962. Il salgemma siciliano non viene infatti più assorbito soltanto dall’industria chimica dell’Italia settentrionale e degli Stati Uniti, ma è richiesto in quantitativi sempre maggiori anche da quella siciliana per la produzione di fertilizzanti.

    Zolfara di Grottacalda, sullo spartiacque tra Imera meridionale e Dittàino-Simeto, a sud-ovest di Valguarnera Caropepe (Enna).

    Vecchio e nuovo sugli altipiani interni di Sicilia: nei monotoni, disalberati paesaggi cerealicoli del Nisseno si innalzano gli imponenti impianti della miniera San Cataldo per l’estrazione di minerale kainitico (sali potassici), della Montecatini (ora Montédison). La miniera, una delle più moderne del mondo, dà lavoro a 700 persone, e forma con gli altri complessi chimici della stessa società — di Campofranco e di Porto Empedocle — il cosiddetto « triangolo del potassio ».

    La miniera di San Cataldo è altamente automatizzata. I poderosi mezzi meccanici impiegati — come la tagliatrice in azione su un fronte di avanzamento, qui raffigurata — permettono di estrarre giornalmente 3500 tonn. di kainite.

    Al fervore di attività di prospezione mineraria che si è fatta particolarmente intensa in Sicilia dopo il 1949, si deve anche il rinvenimento di un’altra importantissima risorsa del sottosuolo: i sali potassici, trovati nel 1951-52 dall’Ente Zolfi Siciliani (Ezi) in quantità e con tenore tali da poter essere sfruttati industrialmente. Le ricerche furono intensificate: nel 1953 la Montecatini localizzò un cospicuo giacimento presso Serradifalco, nel «permesso» San Cataldo, e poi altri a Racalmuto e a Nicosia; e successivamente la società Trinacria ne rinvenne nei territori di Villapriolo e Cala-scibetta, e nella regione Pasquàsia-Capodarso, a nord di Enna; la Sincat (Edison) a Santa Caterina Villarmosa ; la Misab (Mineraria S. Barbara) nei dintorni di Àssoro; la Società Salifera Siciliana non lontano da Serradifalco, e numerosi altri nello stesso altipiano. In complesso, la regione indiziata a sali potassici corrisponde all’estensione della formazione gessoso-solfifera : i giacimenti salini, come quelli solfiferi, appartengono infatti alla stessa età sarmaziana del Miocene: ma vi si presentano con notevoli soluzioni di continuità. I depositi sono formati prevalentemente da kainite, talvolta accompagnata da sali più pregiati come la carnallite e la silvinite. Le prime stime delle riserve, ancora incomplete, già si aggirano su parecchie centinaia di milioni di tonnellate di minerale economicamente sfruttabile, cioè con un tenore superiore al 10% di ossido di potassio: anche se ora si sfruttano i depositi con un tenore del 12-17%. Non tutti i giacimenti finora reperiti sono attualmente coltivati, essendo ancora in corso le ricerche per la loro delimitazione. Sono già entrate nel ciclo produttivo, invece, le miniere di San Cataldo, Santa Caterina Villarmosa, Corvillo, Montedoro, Racalmuto e Pasquàsia: il minerale kainitico estratto è passato complessivamente da appena 1105 tonn. nel 1957 — quando si iniziò la produzione — a 60.000 nel 1958, 330.000 nel i960, e poi a un milione nel 1962 e a 1,5 milioni nel 1964. La necessità di arricchire il minerale almeno fino ad un tenore del 40% di ossido di potassio comporta una prima lavorazione nell’ambito delle miniere; e poi, ai fini di uno sfruttamento economicamente conveniente, è necessaria la presenza di impianti per la trasformazione della kainite in solfato potassico nelle vicinanze, dove siano a disposizione quantitativi notevoli di acqua. Sorgerà pertanto uno stabilimento della società Trinacria presso la stazione ferroviaria di Villarosa, dove corre il torrente Morello, per la lavorazione dei sali potassici di Pasquàsia e di Villapriolo e Calascibetta, mentre la Edison ha già apprestato gli impianti lungo il Salito, da dove il solfato potassico viene inviato per ferrovia verso la zona industriale megarese per la produzione di fertilizzanti ternari. Infine, la Montecatini ha creato il complesso finora più imponente : quello che va sotto il nome di « triangolo del potassio ». I tre vertici di questo triangolo industriale sono rappresentati da San Cataldo, Campo-franco e Porto Empédocle, strettamente legati tra di loro. Dalla miniera di San Cataldo — situata sull’altipiano nisseno a circa tre chilometri a nord di Serradifalco — la kainite viene avviata per mezzo di una teleferica trifune di 18 km. allo stabilimento chimico di Campofranco, che sorge sulla destra del Plàtani (dove già esisteva un vecchio impianto di fertilizzanti fosfatici): e dopo la sua trasformazione in solfato potassico viene trasportato con autocarri e per ferrovia a Porto Empédocle: qui lo stabilimento Akragas ha infatti aggiunto recentemente al settore già in funzione per la preparazione di fertilizzanti binari un nuovo settore, costruito in parte su terreni di colmata a scogliera artificiale, lungo lo specchio portuale, per l’apprestamento di concimi complessi ternari. L’industria dei sali potassici si presenta pertanto come uno dei settori economici più promettenti, anche in rapporto con la deficienza di questa materia prima nelle altre regioni italiane e con le forti capacità di assorbimento del nostro mercato. La produzione siciliana è destinata a raddoppiarsi entro qualche anno, cioè a toccare i 3 milioni di tonnellate di minerale kainitico.

    Vedi Anche:  L'allevamento, il bosco e la pesca

    Veduta del moderno cementificio di Porto Empédocle (Agrigento).

    Il complesso industriale megarese

    La maggior parte delle attività industriali della Sicilia non hanno determinato l’insorgenza di grosse concentrazioni o coagulazioni di opifici su aree ristrette : alcune, come l’industria elettrica, si presentano come fatti di estrema dispersione; altre, come quelle estrattive, si sono per lo più limitate alla fase di sfruttamento dei giacimenti, senza creare nell’ambito delle zone minerarie attività di trasformazione e di riebola-zione dei prodotti tali da interessare larghe masse di lavoratori. Questo processo di coagulazione industriale si è invece attuato, al di fuori delle aree minerarie, lungo il litorale megarese, dai pressi di Augusta fino a nord di Siracusa, su una distanza di circa venti chilometri: e si tratta di un complesso industriale basato prevalentemente sul petrolio. Il processo di industrializzazione ha avuto un inizio quanto mai modesto: nel 1949-50 veniva costruita nella località Punta Cugno di Augusta una piccola raffineria, con una capacità produttiva annua di 450.000 tonn. di petrolio. La nuova società — la Rasiom — era stata attratta su questo litorale soprattutto da due fattori: la posizione centrale nel bacino Mediterraneo, che rende meno dispendioso l’approvvigionamento di greggio dal Vicino Oriente e il successivo inoltro dei prodotti petroliferi verso i paesi dello stesso bacino e di quelli posti al di là di Gibilterra e di Suez, e la presenza di fondali profondi, naturalmente atti all’attracco anche di grandi petroliere. Alcuni fatti politici, come la crisi coreana e quella persiana, servirono poi da forte stimolo al potenziamento degli impianti e delle attrezzature: cosi nel 1953 la Rasiom aveva già una capacità di raffinazione superiore a 2 milioni di tonnellate annue.

    Priolo (Siracusa): veduta parziale degli impianti per la produzione di butadiene e propilene, del complesso petrolchimico Sincat (Montédison).

    La presenza della raffineria non aveva tuttavia ancora suscitato, in questo periodo, l’insorgenza di grandi attività industriali. Indipendentemente da essa, infatti, ed all’estremità meridionale della pianura megarese, era sorta già nel 1950-51 una cementeria (la Saccs) in prossimità di cave di calcari e di argilla, su iniziativa di un ricco barone della provincia siracusana, e qualche anno dopo (1954) le si era affiancata la Eternit Siciliana per la produzione di cemento-amianto. In connessione con la Rasiom erano sorti soltanto due piccoli stabilimenti per l’imbottigliamento di gas liquido (la Liquigas e la Ilgas, nel 1951) a ridosso della stessa raffineria. Altri stimoli erano pertanto necessari alla formazione di questo grande complesso basato sul petrolio: e tali stimoli hanno cominciato ad agire quasi di concerto nel 1953, per una fortunata combinazione di fattori: la possibilità di ottenere forti finaziamenti dallTrfis a tassi di interesse particolarmente basso o in parte anche a fondo perduto, e il reperimento, a pochi mesi di distanza, del petrolio di Ragusa (che ha agito più specificamente sul piano psicologico) e soprattutto dei sali potassici nell’altipiano interno. Sensibilissimi alle nuove sollecitazioni economiche si mostrarono subito i gruppi Edison e Montecatini, quest’ultima operante da tempo nell’isola (ma ora unite in un solo cartello, dal 1966). Dopo il 1956, scoppiò il «boom» industriale: per iniziativa della Edison sorsero gli stabilimenti chimici Sincat (1956) e Celene (1958); la Montecatini costruì la Augusta Petrolchimica (1956) subito a sud della Sincat; la Sges innalzò una delle centrali termoelettriche più grandi d’Italia, la Tifeo (1956) a gomito con la raffineria; il gruppo Ifi-Fiat pose le basi di un grande cementificio, la Cementeria di Augusta (1955-56), mentre si diede l’avvio alla costruzione di altre industrie più piccole, soprattutto metalmeccaniche: le Officine Grandis (1958) e la Sicilmeccanica Bonaldi (1959) nei pressi della borgata di Priolo Gargallo, e la Sibi (Siciliana Bitumi) nei pressi della Rasiom. Contemporaneamente sulla penisola di Magnisi — dove nel frattempo era giunto l’oleodotto da Ragusa — si impiantò la Espesi (Estrattive Petrolchimiche Siciliane, 1954-57), a Tàrgia la Savas costruì una moderna cartiera (la prima iniziativa del genere in tutta la provincia di Siracusa) e la Saccs allargò i suoi impianti collegandovi un secondo stabilimento per manufatti di cemento, la Savaf (1957-58). Tutte queste industrie non formano un « complesso » semplicemente per la loro coagulazione topografica lungo il litorale megarese — dove da una parte i numerosi pontili offrono la possibilità di un traffico più elastico, sciolto dai gravami delle organizzazioni portuali, e dall’altra la presenza del doppio asse ferroviario e stradale che collega Siracusa a Catania facilita in modo sensibile il movimento per l’approvvigionamento delle materie prime isolane (minerali di zolfo, salgemma, sali potassici, calcari, argille) e per lo smercio di una parte dei prodotti finiti —; ma costituiscono un «complesso» nel senso più completo del termine per gli stretti rapporti di interdipendenza che le legano, in ultima istanza, alla Rasiom. I prodotti derivati del petrolio, infatti, possono servire sia come materia prima per un vasto settore delle industrie chimiche, sia come fonte di energia per le industrie che ne abbisognano in grandi quantità e con un potere calorifico molto elevato, come quelle del cemento e delle ceramiche. Ora, nella zona megarese prevalgono appunto le industrie chimiche e dei materiali da costruzione; mentre quelle meccaniche debbono considerarsi come attività collaterali, sorte in funzione soprattutto delle esigenze di quelle chimiche. La Rasiom, pertanto (che ha una capacità di raffinazione di 8,5 milioni di tonnellate di greggio all’anno) è unita con una serie di brevi oleodotti e gasdotti a quasi tutte le industrie qui riunite: essa rappresenta pertanto il vero nucleo attorno al quale si è andato organizzando tutto il complesso industriale. Nel quale è tuttavia possibile distinguere in modo netto, ancora oggi, due raggruppamenti principali: quello delle società monopolistiche del Nord tra Augusta e la penisola di Magnisi, e quello posto immediatamente a sud, a Tàrgia, espressione originale dell’iniziativa imprenditoriale siciliana. Il greggio sbarcato in Sicilia nel 1962, pari a 9,2 milioni di tonnellate (per poco più di un quarto proveniente dal Kuwait, per un altro quarto dall’Arabia Saudita, per un 12-14% dalla Libia, dall’Irak e dalla R.A.U.) per circa il 55% è stato trattato dalla Rasiom, che ha poi inviato la metà dei prodotti petroliferi (costituiti prevalentemente da benzina, petrolio, oli da gas e residui della distillazione) verso molti paesi dell’Europa nordoccidentale e dello stesso bacino mediterraneo, e l’altra metà ha avviato in piccole quantità verso altri porti italiani e in quantità notevolissime ha destinato invece alle industrie della zona e ai bunkeraggi.

    Il complesso industriale megarese nel 1960.

    1, industrie con meno di 50 addetti; 2, idem, con 51-100; 3, idem, con 101-200; 4, idem, con 201-500; 5, idem, con 501-1000; 6, idem, con più di 1000; 7, addetti alle singole industrie; 8, addetti alle ditte appaltataci di servizi e di costruzione di nuovi impianti, impegnate all’interno delle singole industrie; 9, area al di sotto dei 50 m.; io, area tra i 50 e i 100 m. ; 11, area tra i 100 e i 200 m. ; 12, area al di sopra dei 200 m. ; 13, oleodotto proveniente dal campo petrolifero di Ragusa; 14, strade principali; 15, ferrovie principali; 16, ferrovie secondarie.

    Movimento giornaliero o pendolare di operai e impiegati occupati stabilmente presso gli opifici del litorale megarese (con esclusione degli addetti alle ditte appaltatoci di servizi e di costruzione di nuovi impianti impegnate all’interno delle industrie maggiori), nel 1960.

    1, comuni che mandano quotidianamente fino a 5 persone; 2, idem, con 6-10; 3, idem, con 11-25; 4′ idem, con 26-50; 5, idem, con 51-100; 6, idem, con 101-200; 7, idem, con 201-500; 8, idem, con 501-1000; 9, idem, con più di 1000; 10, area industrializzata; 11, limiti dell’area nella quale il movimento pendolare risulta costante; 12, limiti dell’area nella quale il movimento pendolare appare come fatto provvisorio, in quanto gli operai e impiegati che vi risiedono tendono a stabilirsi nei centri abitati situati presso la zona industriale; 13, confini di provincia; 14, area al di sopra dei 500 metri.

    In questo complesso megarese si produce poi la maggior parte delle olefine siciliane (etilene e propilene), della polietilene, e di altri prodotti similari; dei fertilizzanti chimici (il resto viene dagli stabilimenti di Porto Empédocle, Milazzo, Gela, Licata), di numerosi altri prodotti chimici (solfato ammonico, acido solforico, acido fosforico, ammoniaca, soda, potassa, cloro, urea, bromo, ecc.), dei cementi (per il 30% circa: su una produzione complessiva nell’isola che si ragguaglia a 1,5 milioni di tonnellate negli ultimi anni: gli altri più importanti complessi cementiferi si trovano ad Isola delle Femmine, e a Ragusa). Questo asse industriale megarese, o di Augusta-Siracusa, ha comportato nell’assieme un forte sviluppo delle attività commerciali, una intensificazione delle comunicazioni, un rafforzamento delle industrie minerarie tradizionali, un’attivazione del mercato del lavoro: in questo complesso trovano oggi impiego circa 15.000 persone (di cui circa un terzo nelle industrie chimiche) che provengono soprattutto da Siracusa (per una metà), da Augusta e da Priolo Gargallo, oltre che da Melilli, Floridia, Avola, Sortino, Solarino, Belvedere e da altri centri anche più lontani. Il movimento pendolare giornaliero è pertanto molto intenso (ben sei sono le linee automobilistiche pubbliche che vi fanno capo, con due o tre corse giornaliere nei due sensi, oltre al servizio urbano con Siracusa, ogni ora). E il paesaggio è così cambiato nei suoi tratti da obliterare completamente quelli della vecchia Sicilia, qui ancora dominanti fino a tre lustri fa, e da dare l’impressione di trovarsi in una delle meglio attrezzate e moderne aree industriali delle regioni più sviluppate. Questa zona industriale è tuttavia ancora in fase di espansione: già sono sorti altri opifici (come la Fiat-Squibb per detersivi e cosmetici presso la Cementeria di Augusta, la Multigas (Edison) per gas liquidi e ossigeno, un grosso stabilimento della Pozzi per manufatti di plastica, il complesso Otis per prodotti meccanici, un opificio della Sicula Vernici), mentre gli impianti petrolchimici della Sincat e della Celene sono in fase di notevole potenziamento. Ovviamente, anche se tutto il complesso può essere riguardato come un esempio di industrializzazione pesante, diretto per lo più da grandi enti monopolistici interessati ad indirizzare gli ulteriori sviluppi della zona secondo le loro necessità e i loro vantaggi, ci sono molti sintomi e motivi per pensare che lo stesso processo in atto, potenziando la struttura economica della provincia siracusana e la capacità di soddisfare i propri bisogni da parte della popolazione, porterà anche all’insorgenza e allo sviluppo di altre attività industriali, capaci di offrire un numero assai più grande di lavoratori.

    Veduta generale dello stabilimento chimico di Campofranco, della Montédison, eretto sulla riva destra del Plàtani nell’altipiano interno, sul principale asse di comunicazione tra Tirreno e Mar d’Africa.

    Stabilimento di Campofranco (Montédison) : la sala di centrifugazione per la produzione dei sali potassici.

    Le “zone industriali” urbane: l’esempio di Catania

    Anche se in forma minore, i processi di coagulazione industriale sembrano destinati a moltiplicarsi, e a costituire più o meno importanti e più o meno omogenei «complessi»: sia quelli che tendono a formarsi quasi spontaneamente su precedenti nuclei industriali (come a Porto Empédocle, Milazzo, Licata) sia quelli pianificati: gli organi regionali hanno infatti da tempo progettato per ciascuno dei capoluoghi provinciali (ad eccezione di Enna) una « zona industriale » allo scopo di arricchire le loro strutture urbane nel campo delle attività economiche e di creare di conseguenza maggiori possibilità di lavoro. Di tutte le « zone industriali » progettate, tuttavia, la sola realizzata è quella di Catania: le tradizioni imprenditoriali e operaie, più forti e vivaci, la stessa posizione della città rispetto ad un retroterra agricolo vasto ricco e in fase di trasformazione, hanno rappresentato elementi sicuri di stimolo su un processo che negli altri capoluoghi di provincia non è stato sufficientemente sollecitato dai provvedimenti legislativi della Regione, del resto per gran parte inadeguati. Palermo, a dispetto del suo notevole aumento demografico, sta esaltando finora in campo regionale — al pari di Roma in quello nazionale — soltanto la funzione tipicamente amministrativa e politica, oltre a quella commerciale, mentre le altre città, e in particolare Messina, sembrano ancora troppo sonnolente e attardate su forme che pur abbisognano di una pronta e radicale trasformazione.

    La « zona industriale » di Catania è sorta all’estremità nordorientale della Piana, a contatto con l’aeroporto e con il Lido di Plaia: a circa tre chilometri a sud della città. Essa forma una fascia compatta, limitata ad ovest dalla ferrovia Catania-Siracusa, ad est dalla strada nazionale per Siracusa, e a sud dal canale Buttaceto. La posizione è ottima sia rispetto alla città che alle vie di comunicazione: non altrettanto favorevole, invece, era la topografia della zona, in parte già pantanosa. L’allestimento di quest’area ha avuto in tal modo due risultati ragguardevoli: quello di creare una nuova fonte di lavoro, e quello di risanare una vasta zona disalberata e brulla, campo d’azione di mandrie ovine, che si opponeva con crudo contrasto alla vita dinamica e movimentata della città, proprio alle sue porte. La zona industriale appare oggi divisa in due tronconi diseguali da una compatta striscia di terreno, dove si trovano raggruppate le sorgenti d’Arci: di Pezza Grande a nordovest, a ridosso della linea ferroviaria, di Pantano d’Arci a sudest: qui sorge anche il centro direzionale. Nell’assieme, la zona industriale di Catania — ottimamente attrezzata — occupa una superficie di poco superiore ai tre chilometri quadrati. A differenza del complesso megarese, essa è formata da opifìci medi e piccoli, ed è contraddistinta da una spiccata varietà di produzione e quindi da una notevole indipendenza tra le varie industrie. I tratti del paesaggio risultano pertanto molto diversi: opifìci lindi e moderni, mancanza di ciminiere per l’uso esclusivo di energia elettrica nonostante la presenza di alcune industrie chimiche, assoluta deficienza di vita sociale: questa zona industriale non fa posto, in effetti, ad alcun quartiere operaio: tutti gli addetti provengono quotidianamente dalla città. Nel 1963 vi erano già in esercizio — come rileva F. Flac-comio — 41 stabilimenti, che davano lavoro a 3870 operai. Quando sarà stata completata, i lavoratori supereranno le 10.000 unità: la sola Cyanamid, ora in costruzione, darà lavoro a 1500 operai. Hanno per ora la prevalenza le industrie metalmeccaniche (laminati in ferro, carpenteria metallica, attrezzature e arredi in genere, impianti frigoriferi, autocarri ribaltabili e rimorchi, tubazioni per irrigazioni a pioggia), tra le quali sette hanno più di 100 addetti. Ma gruppi abbastanza cospicui sono formati anche dagli opifici che si dedicano ai materiali di costruzione e ai prefabbricati per l’edilizia, e dalle industrie alimentari. Sono presenti anche le farmaceutiche (Spadaro Ventura, con 140 operai), quelle del legno e le ceramiche sanitarie: finora, la Cesarne (Ceramica Sanitaria del Mediterraneo, con 250 addetti), la Costruzione Montaggi (con 300) e la Ales (con 500: per la produzione di apparecchi elettrici e transistor) rappresentano le industrie più importanti per manodopera occupata. La maggior parte della produzione di questa zona industriale viene assorbita dal mercato siciliano: per i loro stretti rapporti sia con l’agricoltura — di cui trasformano i prodotti e per la quale preparano attrezzature e mezzi meccanici — sia con i settori dell’isola in fase di più vivace espansione per l’accresciuta domanda sul mercato di apparecchiature elettriche e sanitarie e di arredi metallici e di legno, gli opifici della zona industriale catanese hanno davanti a sè notevoli possibilità di sviluppo. Non tutte le imprese sono di nuova costituzione: alcune vi si sono trasferite dal centro della città — dove hanno lasciato la sede amministrativa o direzionale, e talora anche una parte degli impianti — attratte dalla maggior disponibilità di spazio a buon mercato e dai notevoli vantaggi offerti dall’Ente della « zona ».

    La « zona industriale » di Catania nel 1960 (Il centro direzionale era in fase di attuazione).

    Messina, porta della Sicilia: l’imbocco del seno portuale messinese, visto da una invasatura d’attracco delle navi-traghetto. Sullo sfondo la catena dei Peloritani, ormai declinanti verso Punta del Faro.