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Origini e vicende dell’industria campana

    Origini e vicende dell’industria campana

    Tra le regioni del Mezzogiorno d’Italia la Campania si distingue per la complessità della sua attrezzatura industriale, che ha un’origine remota, sebbene le industrie risultino ancora concentrate in un’area ristretta, cui bene si potrebbe applicare la denominazione di regione industriale partenopea, perchè gravitante intorno a Napoli e al suo golfo.

    Le origini di questa industria sono naturalmente artigianali e risalgono al Medio Evo, quando lo sviluppo demografico ed economico di alcune città campane, e in particolare di Napoli, eretta a capoluogo del Regno, determinò il fiorire dell’arte della filatura e della tessitura del lino, della canapa e della seta e di altre attività, connesse con la lavorazione dell’oro e di metalli vari, del legno e delle pelli, con l’edilizia e con le costruzioni navali.

    Queste erano attività essenzialmente artigianali e solo eccezionalmente si poteva parlare di piccola industria, e tali sono rimaste fino alla fine del secolo XVIII.

    Il decisivo risveglio industriale della Campania comincia col ritorno dei Borboni dopo la parentesi napoleonica e più propriamente dopo la promulgazione di due noti decreti legislativi del 1823 e del 1824, con i quali fu instaurata nel Regno una politica protezionistica, che, pur modificata nel 1846, perdurerà fino all’Unità d’Italia, richiamando notevoli investimenti, specialmente nella capitale e nel territorio ad essa circostante, meglio servito da strade e da scali portuali.

    L’industria campana potè notevolmente progredire e mettersi quasi alla pari con quella di altre regioni d’Italia e dei paesi europei; ma la regione partenopea richiamò la maggior parte delle attività industriali del Regno, perchè, pur essendo priva di materie prime, trovava sul posto abbondante mano d’opera, più facili e cospicui finanziamenti e i principali mercati di assorbimento dei prodotti, essendo la popolazione di Napoli e dintorni oltre un terzo di quella del Regno ed avendo tale popolazione possibilità di acquisto sensibilmente superiori a quella delle altre regioni, molto più povere.

    L’industria tessile potè contare, in breve volgere d’anni, parecchi opifici, mossi ad energia idraulica e perciò richiamati quasi sempre presso ricche sorgenti o nelle valli di corsi d’acqua perenni. I vari rami dell’industria tessile attraversarono un periodo di insolito splendore per iniziativa di impresari locali e stranieri e trovarono nel Regno buona parte delle materie prime.

    L’industria serica vantò varie manifatture a Napoli, nei centri alla base del Vesuvio, nella Penisola Sorrentina, ad Angri ed altrove, ed un famoso stabilimento a San Lèucio sulle falde dei Tifata, dovuto ad iniziativa reale (1789). La diffusione del gelso e l’allevamento del baco ne ricevettero un grande stimolo, specialmente sui rilievi collinari circumpartenopei.

    Il blocco napoleonico portò al potenziamento dell’industria laniera, alla quale il protezionismo borbonico giovò ulteriormente, favorendo il risorgere delle vecchie manifatture a Napoli, ad Avellino e ad Arpino e la creazione di nuovi opifici, specie nella valle del Liri e in vari altri centri di Terra di Lavoro.

    L’industria cotoniera, invece, aveva subito un crollo durante la parentesi napoleonica, ma si riprese successivamente con l’apporto di esperienze e di capitali svizzeri, tanto da soddisfare quasi tutto il fabbisogno del Regno. Piedimonte d’Alife, Scafati, Salerno (Fratte) e Napoli (Albergo dei Poveri) erano i centri principali della lavorazione del cotone, nella quale erano occupate alcune decine di migliaia di persone verso la metà del secolo scorso. L’importanza dell’industria cotoniera nella Campania si deduce anche dal fatto che la produzione di tessuti di cotone della regione era di poco inferiore a quella della Lombardia e aveva un valore pari ai due terzi del famoso distretto di Biella.

    Note erano le cartiere, create sul Liri, sul Fibreno, sul Sarno e su alcuni corsi d’acqua della Costiera Amalfitana, le concerie e le aziende per la lavorazione del cuoio e delle pelli (calzature e guanti), che si concentravano specialmente a Santa Maria Maggiore (ora Capua Vètere), a Napoli, a San Giovanni a Teduccio, a Resina, a Castellammare di Stabia e a Solofra, e le fabbriche di paste alimentari di Gragnano e di Torre Annunziata.

    Italia, Castellammare di Stabia un cantiere navale con 1800 addetti. Lo stabilimento di Pietrarsa, sorto nel 1840, era forse il più grande d’Italia ed era specializzato nella costruzione di macchine marine, che furono le prime costruite nel nostro paese, di locomotive, di vagoni ferroviari e di altri macchinari.

    Il risveglio industriale fu considerevole nella prima metà del secolo scorso, sebbene le industrie si distribuissero soprattutto nell’arco costiero da Castellammare di Stabia a Napoli. Infatti fuori di questa zona ristretta si trovavano quasi soltanto le industrie tessili, della carta e del cuoio, sulla cui localizzazione era stato più forte il determinismo geografico, dovuto soprattutto alla presenza di materie prime e di energia idraulica. Il protezionismo doganale, però, non giovò a lungo andare ad un armonico sviluppo dell’economia del Regno e della Campania e, sebbene gli industriali continuassero « a ritagliarsi lauti guadagni, perchè dopo i replicati provvedimenti di ridu-

    zione dei dazi adottati dal 1846 in poi, la tariffa del Regno di Napoli restava sempre la più alta tra quelle degli altri Stati italiani » (Demarco), le condizioni sociali degli strati più poveri della popolazione (operai, braccianti) erano tutt’altro che buone.

    L’inserimento del Mezzogiorno nel nuovo Stato italiano, con l’applicazione di tributi eccessivi e con l’instaurazione del liberismo economico, aggravò ulteriormente le condizioni dell’agricoltura e riuscì rovinoso alla nostra attrezzatura industriale. La Campania ne subì i danni maggiori e la zona che gravitava più da vicino intorno alla capitale, ormai degradata a capoluogo di provincia, avvertì maggiormente la crisi. Ridottesi le commesse statali e « infranti i vetri della serra in cui le industrie meridionali avevano vissuto fino allora », parecchi stabilimenti cessarono o ridussero la loro attività, le file degli operatori economici si assottigliarono, le maestranze si dispersero e i capitali disponibili furono richiamati in altre regioni più favorite dalla vicinanza alle nuove fonti di energia e ai mercati di consumo, da una superiore organizzazione aziendale e mercantile e da migliori infrastrutture. « La grande industria nascente nella regione del Mezzogiorno più evoluta, la Campania, pressoché abbandonata da un governo imbarazzato da grandissime difficoltà politiche, economiche e finanziarie, e meno sollecito di queste regioni, per necessità o ignoranza dei loro stessi bisogni, fu, prima o poi, affatto travolta; e la media rimase atrofizzata nel suo promettente sviluppo » (Milone). Solo poche resistettero alla crisi, per la tenacia e per la competenza degli imprenditori, i quali, costringendo i dipendenti a lunghi turni di lavoro e non sottraendosi essi stessi a prolungate ore di fatica, riuscirono a salvare le loro aziende e a conservare le maestranze. L’atteso mutamento della politica economica del governo doveva avvenire negli ultimi decenni del secolo scorso con l’applicazione di una nuova tariffa doganale prima (1878) e col ricorso al protezionismo poi (1887), ma era troppo tardi per il Mezzogiorno!

    Si andava, infatti, ingigantendo la Questione Meridionale e, nel seno di questa, se ne formava una napoletana, che, col passare degli anni, l’aumento della povertà relativa e le epidemie coleriche evidenziarono sempre più. Essa non poteva lasciare insensibili economisti, parlamentari e sociologi, non soltanto meridionali, i quali cominciarono ad agire sull’opinione pubblica e ad attirare l’attenzione degli organi responsabili dello Stato sul problema del Sud e dell’antica sua capitale, alla quale la politica borbonica aveva dato una discreta attrezzatura industriale e assicurato conseguentemente un certo sviluppo commerciale e alla quale il nuovo governo italiano non aveva offerto quasi alcun aiuto per ristabilire il turbato equilibrio economico e per favorire, su più solide basi, il suo sviluppo industriale e commerciale.

    Una certa ripresa si cominciò a registrare dagli ultimi anni del secolo scorso col potenziamento dei vecchi impianti nelle zone tradizionali e con la costruzione di nuovi stabilimenti sul litorale fiegreo, tanto che ai primi del nostro secolo la provincia di Napoli occupava il terzo posto, dopo quelle di Milano e di Firenze, per il numero di addetti ad attività industriali. Cominciavano gli interventi straordinari in favore dell’economia napoletana attraverso le note leggi speciali, che si rinnoveranno fino ai giorni nostri, quando tutto il problema meridionale sarà affrontato con larghezza di

    mezzi. Ai fini dell’industrializzazione dell’arco partenopeo assume grande importanza la legge Gianturco del 1904, che portò alla creazione dello stabilimento siderurgico di Bagnoli e di varie altre attività industriali.

    L’industria campana si riprende, sia per le spinte dall’esterno, sia per l’aumento dei consumi della crescente popolazione e del reddito per abitante, ma nel contempo

    notevole sviluppo è assicurato alle industrie dei materiali da costruzione, in rapporto col rinnovamento edilizio delle città, e a quelle delle conserve alimentari, legate alla diffusione delle colture ortofrutticole nelle aree tradizionali e nei territori riscattati successivamente dall’acquitrino e dalla malaria.

    Da un lato si verifica un agglomeramento di stabilimenti nei poli industriali dell’arco partenopeo, dove si formano numerose industrie sussidiarie e collaterali intorno a quelle esistenti, prevalentemente meccaniche e metallurgiche, sono trasferite parecchie di quelle allontanate dai quartieri urbani e ne sorgono alcune di sviluppo recente o di grande promessa (chimiche), dall’altro si ha la dispersione delle nuove attività industriali, legate all’utilizzazione dei prodotti del suolo, che a Frattamaggiore, a Nocera Inferiore, a Pagani, a Battipaglia e altrove creano nuclei industriali destinati a grande fortuna.

    Gli eventi bellici e le esigenze della politica autarchica potenzieranno alcuni rami di tali attività e ne danneggeranno altri, ma non arresteranno che temporaneamente l’espansione industriale, la quale si riprenderà con vigore nel secondo dopoguerra, ma non sempre in modo ordinato e in funzione dell’armonico sviluppo economico delle varie parti della regione.

    La tendenza degli impianti industriali a localizzarsi nella zona litoranea da Castellammare di Stabia a Baia aveva creato, già nell’anteguerra, gravi squilibri economici nell’ambito regionale, produceva nel dopoguerra il congestionamento del traffico e accentuava il fenomeno dell’urbanesimo costiero, imponendo la creazione di sempre nuovi posti di lavoro. La situazione si aggravò col disordinato sviluppo urbanistico dei vari agglomerati cittadini e col moltiplicarsi dei mezzi di trasporto.

    Si cominciò presto ad avvertire la necessità di rompere il circolo vizioso su cui procedevano sviluppo industriale e demografico. Già dal 1948 la SVIMEZ, associazione industriale per lo sviluppo del Mezzogiorno, promosse l’elaborazione di un piano regionale di sviluppo industriale, che riconobbe nella valle del Sebeto, nella bassa pianura del Sarno e intorno al lago di Patria tre aree suscettibili di essere industrializzate. Se il piano non ebbe pratica attuazione, gli sforzi per spingere gli industriali a scelte fuori del comune di Napoli e dell’arco partenopeo sortirono notevoli effetti, perchè portarono alla creazione di importanti nuclei a Casoria e a Pomigliano d’Arco.

    Seguiva nel 1956 il Piano Territoriale del Provveditorato alle Opere Pubbliche, il quale contemplava un armonico sviluppo economico della regione, la formazione di aree industriali intorno a Mondragone e a Battipaglia e l’integrazione di quelle tradizionali o in corso di industrializzazione. Ma una nota legge del 1957, mirando ad accelerare lo sviluppo industriale delle zone più favorite, ha portato alla creazione di appositi consorzi provinciali, dei quali quello sollecitamente costituito nella provincia di Napoli ha promosso la compilazione di un piano provinciale di sviluppo industriale.

    I valenti compilatori di tale piano si sono basati su molteplici fattori ubicazionali e sulle infrastrutture esistenti e di immediata attuazione ed hanno scelto cinque aree suscettibili di nuova o ulteriore industrializzazione: Napoli, Quarto-Giugliano, Ca~ soria, Volla-Nola, bassa valle del Sarno. Il piano prevede la piena occupazione delle forze di lavoro di una provincia piccola e popolosa, dai confini estremamente bizzarri e a contatto con altre molto più povere, per cui gli effetti previsti o sperati difficilmente potranno essere raggiunti e gli inconvenienti attuali sensibilmente ridotti, se il processo di sviluppo industriale nel territorio provinciale di Napoli avverrà senza coordinazione con analoghi piani di sviluppo delle province limitrofe e con un ritmo molto più sostenuto.

    La compilazione di tali piani di sviluppo regionale e provinciale ha richiamato l’attenzione degli operatori economici su un certo numero di aree della regione, in cui si venivano a incrociare delle strade importanti e a moltiplicare le infrastrutture, ed ha contribuito alla creazione o al potenziamento di parecchi nuclei e poli industriali fuori della zona partenopea. In tal modo si vanno costituendo dei nuclei industriali ad Avellino, a Piedimonte d’Alife, a Mondragone, a Maddaloni, a Sparanise, a Nola, a Pompei, e si consolidano vari poli industriali, come quelli di Benevento, di Casoria, di Scafati, di Salerno, di Pontecagnano e di Battipaglia.

    L’aumento degli addetti alle attività industriali e le variazioni delle unità aziendali mettono in sufficiente luce lo sviluppo dell’industrializzazione della regione. Secondo i censimenti della popolazione del 1951 e del 1961, gli addetti all’industria sono passati da 401.368 a 538.636 nel decennio considerato, ma secondo quelli industriali essi erano 207.467 nel 1951 e 269.473 nel 1961. Le differenze sono assai sensibili tra le due fonti, ma imputabili in gran parte alla tendenza generale a dichiarare un numero di dipendenti inferiore a quello reale e ad escludere i lavoratori stagionali o addetti ad attività sussidiarie. I dati, comunque, se confrontati con quelli di tutto il Mezzogiorno peninsulare, ci mettono in evidenza la notevole spinta subita dall’industrializzazione in Campania. In questa gli addetti alle industrie nel 1951 erano il 48% rispetto al totale, mentre nel 1961 sono risultati il 53%.

    Interessante sarebbe considerare le variazioni avvenute nel decennio nella ripartizione degli addetti tra le varie province, ma i pochi accenni alla dispersione delle industrie ci lasciano intravedere una perdita relativa di importanza della provincia di Napoli, dove risulta ora occupato il 61% degli addetti alle attività industriali della Campania, a favore di quelle di Salerno e di Caserta, dove ne sono occupati il 20% e l’8% rispettivamente.

    Vedi Anche:  Incremento della popolazione

    La concentrazione industriale è sempre assai considerevole nella regione partenopea e non trova riscontro che in poche altre zone d’Italia, come si può vedere anche dal fatto che la densità di addetti all’industria per chilometro quadrato è nella provincia di Napoli (145) più del doppio di quella della provincia di Torino (66), poco meno rispetto a quella di Genova (79). Solo nella provincia più industrializzata d’Italia e nel ristretto territorio di Trieste si registrano valori superiori (333 e 150 rispettivamente).

    Se poi si pensa che oltre la metà della provincia di Napoli è costituita da monti in parte disabitati e da penisole e isole, pressoché prive di attività industriali, si deve dedurre che nella zona tra i Lattari e il Gàuro la densità delle persone occupate nelle

    industrie è superiore a 300-400 per chilometro quadrato. Basta questo valore, che è tra i maggiori, se non il più alto d’Italia, per dimostrare la grande concentrazione di aziende, di operai specializzati e di tecnici, di capitali e di energia nella ristretta regione industriale partenopea, tanto da assumere aspetti patologici, che giustificano le preoccupazioni degli urbanisti, degli economisti e dei sociologi, i quali sollecitano adeguati interventi per limitarne gli effetti.

    I settori industriali.

    L’industria estrattiva ha in Campania limitata importanza e riguarda quasi soltanto l’estrazione di materiali da costruzione mediante cave, la cui distribuzione è legata, a determinate formazioni geologiche e influenzata da svariati altri fattori, come ad esempio dalla facilità dei collegamenti con le aree di consumo e da esigenze urbanistiche e paesaggistiche.

    Sono appunto considerazioni archeologiche e paesaggistiche a ridurre o a vietare

    10 sfruttamento dei depositi di pozzolana nel territorio sud-occidentale dei Campi Flegrei, sono ragioni economiche a far abbandonare alcune cave di calcare litoranee, essendo tavolta più conveniente ricorrere ai trasporti terrestri che a quelli marittimi.

    Nè bisogna trascurare le cave aperte presso fabbriche di materiali da costruzione, delle quali le principali sono quelle di Castellammare di Stabia (calce e cemento), di Salerno (cemento, laterizi), di Calvi Risorta, di Alvignano, di Benevento e di Calitri (laterizi). Tra i rilievi che rivestono maggiore importanza per l’industria estrattiva si possono ricordare i Lattari, in cui sono state aperte in tempi diversi profonde ferite,

    11 versante meridionale del Vesuvio, le colline flegree e i Tifata, in cui l’estrazione del calcare si è intensificata negli ultimi anni in sèguito all’aumentata richiesta di questa materia prima da parte delle industrie della pianura e di Bagnoli e allo sviluppo edilizio di Napoli e delle altre città campane.

    Un cenno bisogna fare, inoltre, delle cave di tufo della valle dell’Isdero, dell’alta pianura campana, della Penisola Sorrentina e di altre zone, di quelle di dolomia e farina dolomitica della valle del Lete (Pratella), che alimentano anche una piccola esportazione, delle poche cave di gesso della valle del Cervaro e di quelle di marmo di Triflisco (Monte Maggiore) e di Vitulano (Taburno) e, infine, delle miniere di zolfo di Altavilla Irpina e di Tufo. Queste sono aperte nella formazione miocenica gessoso-solfifera affiorante nella media valle del Sàbato e scendono fino a 250 m. di profondità. Esse hanno importanza geografica ed economica, perchè hanno modificato il paesaggio della valle con la costruzione delle opere esterne alla miniera per la fusione del minerale, e costituiscono

     

     

    una delle poche fonti di reddito industriale nella provincia di Avellino, assorbendo alcune centinaia di dipendenti ed avendo una considerevole produzione annua di zolfo.

    Gli addetti all’industria estrattiva sono 3748 in tutta la regione (1961), ma si sono ridotti nel corso degli ultimi quinquenni, perchè la meccanizzazione su vasta scala ha respinto da tale settore industriale più addetti di quanti abbiano trovato lavoro nelle nuove cave.

    Le industrie manifatturiere della Campania assorbono 215.737 addetti (1961) e pongono la regione dopo la Lombardia, il Piemonte, l’Emilia-Romagna e la Toscana per forze di lavoro occupate da tale settore dell’attività industriale. Tuttavia la loro distribuzione è assai irregolare tra le varie parti della regione, in quanto la provincia

    di Napoli ne assorbe il 60%, per circa i due terzi nel comune del capoluogo. Questo occupa il quarto posto nella graduatoria dei comuni capoluoghi di provincia per numero di addetti all’industria manifatturiera; ma, se si considera la loro densità per chilometro quadrato, si vede che quella del comune di Napoli non trova riscontro in nessun altro comune capoluogo di provincia d’Italia.

    La concentrazione industriale nell’area partenopea è da considerare una delle maggiori del nostro paese, ma questo primato non tende ad attenuarsi con i nuovi piani provinciali di sviluppo economico, mentre sarebbe necessario favorire la dispersione dei nuclei industriali nei luoghi più adatti della Campania e una migliore distribuzione degli stabilimenti nell’ambito della provincia di Napoli, tanto più che tale primato non è degno di invidia per le sfavorevoli ripercussioni sulle attività terziarie e aggrava i problemi connessi col sovrappopolamento e con l’urbanesimo.

    Tra i vari rami dell’industria manifatturiera si distinguono quello metallurgico e meccanico con 57.657 addetti, secondo il censimento industriale del 1961, quello tessile e dell’abbigliamento, del cuoio e delle pelli con 50.639 addetti, quello alimentare con 47.764 addetti, quelli del legno e del mobilio (21.555 addetti) e dei minerali non metalliferi (17.825) e, infine, quello chimico e petrolchimico con 10.736 addetti.

    Gli stabilimenti metallurgici e meccanici hanno di solito notevoli dimensioni, ricevono la materia prima per mare e sono stati richiamati dalla zona costiera tra Castellammare di Stabia e Baia; solo negli ultimi tempi ne sono stati impiantati alcuni più nell’interno (Casoria, Pomigliano d’Arco). Carattere prevalentemente artigianale ha il ramo industriale relativo all’abbigliamento e alla lavorazione del cuoio e delle pelli, sebbene siano sorti stabilimenti con varie centinaia di addetti a Pompei, a Salerno,

     

     

     

    ad Aversa, a Benevento ed altrove. Numerose sono le ditte a Napoli e sobborghi, negli altri capoluoghi di provincia e in vari centri minori (Frattamaggiore, Santa Maria a Vico) che si avvalgono dell’opera di migliaia di lavoratori a domicilio. Nè vanno trascurate l’industria dei guanti, che trova a Napoli un famoso centro di lavorazione, e le concerie, più numerose nella bassa valle del Sebeto, a Santa Maria Capua Vètere e a Solofra.

    L’industria tessile era il principale ramo manifatturiero della Campania ed era molto dispersa, ma la lunga crisi ne ha ridotto l’importanza. Oggi conta stabilimenti di notevoli dimensioni per la lavorazione del cotone a Salerno, a Napoli, a Piedimonte d’Alife, della iuta e della canapa a Frattamaggiore e a Marcianise, e della seta nei sobborghi di Caserta, della lana ad Avellino e delle fibre sintetiche a Casoria.

    L’industria alimentare, invece, è andata guadagnando sempre più terreno, perchè accanto ai nuclei tradizionali dei molini e dei pastifici di Gragnano e di Torre Annunziata, ulteriormente potenziati, se ne sono formati altri per le conserve alimentari (pomodori, frutta, ortaggi) a Nocera Inferiore, a Pagani, a Pontecagnano e a Battipaglia. Numerosi sono poi gli stabilimenti o i complessi isolati (San Giovanni a Teduccio, Caserta, Salerno, Cicciano).

    Uno sviluppo molto considerevole hanno avuto anche i due rami manifatturieri dell’industria chimica e petrolchimica e dei materiali da costruzione. La prima ha raddoppiato il numero degli addetti’e si è localizzata soprattutto nella bassa valle del Sebeto intorno alla raffineria del petrolio e a Casoria (fibre sintetiche), a Pozzuoli (gomma), a Torre Annunziata e a Capua (medicinali); la seconda conta stabilimenti isolati in varie parti della regione e specialmente ad Alvignano, a Calvi Risorta, a Benevento, a Calitri (laterizi), a Castellammare di Stabia (calce) e a Coroglio (cemento, tubi), a Salerno (laterizi, cemento), a Caserta (vetro) e a Torre Annunziata (tubi).

    Un cenno a parte bisogna fare degli impianti per la produzione di energia elettrica, che è aumentata rapidamente in funzione della forte richiesta. Le centrali idroelettriche danno un contributo modesto (623 milioni di kWh nel 1961) al soddisfacimento del fabbisogno energetico della regione e sono sorte alla base dei rilievi calcarei con ricche sorgenti o presso corsi d’acqua perenni (Pratella, Piedimonte d’Alife, San Mango sul Calore, Pertosa, Olèvano sul Tusciano, Morigerati). La derivazione delle acque dal Volturno al Garigliano ha permesso di creare altre notevoli centrali a Rocca d’Evandro e a Sant’Ambrogio. Integra l’energia idroelettrica campana quella che affluisce dall’Abruzzo e dalla Sila, ma soprattutto la produzione degli impianti termoelettrici di Napoli (1346 milioni di kWh), che sono tra i maggiori d’Italia, e della centrale termonucleare del Garigliano, entrata recentemente in funzione.

    La distribuzione delle attività industriali nelle varie parti della regione è, quindi, assai irregolare, ma è agevole riconoscere dei luoghi o delle aree di maggiore concentrazione. Sono questi i nuclei, i poli e le zone industriali, che si differenziano secondo i tipi e le dimensioni degli impianti, le impronte da questi lasciate nel paesaggio geografico e gli effetti economici, antropici, sociali e demografici dell’industrializzazione.

    Nuclei, poli e zone industriali.

    Lo sviluppo economico della Campania ha portato al potenziamento delle vecchie aree industriali, differenziandole ulteriormente, e ne ha favorito il sorgere di altre con la formazione di nuovi complessi o nuclei industriali. Le valli e le conche interne hanno scarsamente risentito gli influssi del processo di industrializzazione, se si escludono pochi centri (Piedimonte d’Alife, Benevento, Avellino, Solofra), di alcuni dei quali si è già fatto cenno. Tra tutti si distingue Benevento, che vanta una certa concentrazione di stabilimenti alla destra del Calore, presso la stazione ferroviaria, e una notevole industria dei laterizi alle sue porte. I prodotti manifatturati principali sono materiali da costruzione, dolci (torrone), liquori (strega), guanti, fiammiferi e mobili. Una certa importanza va acquistando anche il nucleo industriale di Avellino, il quale, con Atripalda, conta alcuni stabilimenti alimentari, tessili (lana) e dell’abbigliamento, per la lavorazione del legno, per materiali da costruzione e per prodotti chimici, ed ha elaborato un programma di sviluppo industriale, che dovrebbe essere più celermente realizzato con l’apertura della nuova grande strada di comunicazione tra la Campania e la Puglia.

    Prendendo in considerazione i centri forniti di due o più stabilimenti con oltre 50 addetti e con aziende di minore importanza, si distinguono nuclei industriali minori e maggiori, che diventano poli industriali, quando hanno una attrezzatura più complessa e differenziata e notevole forza agglomerativa e sono capaci di favorire nei dintorni uno sviluppo economico e sociale.

    Tra i principali nuclei industriali si possono ricordare Marcianise (apparecchi elettrici e tessili), Maddaloni (apparecchi telefonici, alimentari, estrattive), Sant’Antimo (alimentari, tessili), Acerra (alimentari, concerie), Nola (alimentari, del legno, dei materiali da costruzione), Ottaviano (vestiario e abbigliamento, materiali da costruzione, carta), Resina (meccaniche, dell’abbigliamento, tessili), Pòrtici (materiali da costruzione, poligrafiche), Pompei (tabacco, confezioni, carta), Sant’Antonio Abate e Gragnano (alimentari), Angri (alimentari, tessili), Mercato San Severino (alimentari), Cava dei Tirreni (alimentari, tessili, ceramica), Eboli (alimentari).

    Un cenno a parte va fatto degli stabilimenti metallurgici e meccanici di Pomi-gliano d’Arco e del complesso Pozzi di Sparanise. Pomigliano è uno dei nuovi centri dell’industria meccanica campana, la quale per la prima volta si è allontanata dalla zona litoranea con due stabilimenti in ciascuno dei quali trovano lavoro oltre iooo addetti (carri, autobus, aerei). A questi impianti altri ne sono seguiti a Casoria, a Ca-savatore e altrove, tanto da creare un cuneo dell’industria pesante dalla zona industriale di Napoli verso l’interno.

    Il complesso Pozzi è in corso di completamento nella pianura a nord del Volturno, presso le falde del Monte Maggiore, all’incrocio di importanti vie di comunicazione. Esso si compone di quattro stabilimenti (articoli sanitari, elettrodomestici, vernici e materie plastiche), capaci di assorbire 2000 addetti. E poiché non sono disponibili sul posto le forze di lavoro necessarie e sono richiamate intorno al complesso altre attività industriali e terziarie, si deve prevedere per un prossimo futuro la creazione di edifici residenziali nella zona.

    Abbastanza numerosi sono nella pianura i poli industriali, nei quali si contano parecchi stabilimenti di media grandezza e un certo numero di aziende minori, con centinaia di operai stagionali e di lavoranti a domicilio. Nel Piano Campano si possono ricordare Aversa (industrie alimentari, meccaniche, dell’abbigliamento, delle costruzioni), Frattamaggiore (tessili, delle calzature) e Casoria; sulle sponde del Golfo Partenopeo si distinguono Pozzuoli (macchine da scrivere, apparecchi elettrici, pezzi di ricambio, fonderie, gomma), Bagnoli, Torre Annunziata e Castellammare di Stabia; nella valle del Sarno e nella Piana del Sele sono noti Scafati (tessili, della carta, alimentari, delle costruzioni), Battipaglia (alimentari, del tabacco, delle costruzioni), Pontecagnano (alimentari, meccaniche, chimiche) e Salerno.

    Questi poli industriali sono in espansione, ad eccezione di Pozzuoli, da dove si tende a trasferire nell’interno alcuni sttabilimenti per ragioni balneari e archeologiche. Casoria è il più recente di tutti ed è tanto vicino a Napoli, da rientrare quasi nella zona industriale nord-orientale di questa città. La sua rapida fortuna è da mettere appunto in relazione con una posizione oltremodo favorevole rispetto alle vie di comunicazione e al porto di Napoli, senza contare la grande disponibilità di mano d’opera e le numerose infrastrutture.

    meccaniche, chimiche, alimentari, dei materiali da costruzione), tra cui si distingue una grande fabbrica di fibre sintetiche.

    A Bagnoli-Fuorigrotta si è formata l’area industriale sud-occidentale di Napoli, che ha avuto come nucleo originario lo stabilimento siderurgico, intorno al quale gravitano varie industrie collaterali, e in particolare quella del cemento, che ne utilizza la loppa. Il cementificio fornisce a sua volta materia prima al tubificio sorto nelle immediate vicinanze. Un progetto di ampliamento dello stabilimento siderurgico, che è già uno dei maggiori d’Italia e dispone di una attrezzatura portuale adeguata ai suoi bisogni, prevede la colmata dello specchio d’acqua antistante ed ulteriori profonde modificazioni di quel tratto del litorale fiegreo. L’area industriale si è andata ulteriormente differenziando, perchè si è arricchita di attività non legate all’industria siderurgica (dolciumi, pannelli di resine sintetiche).

    Vedi Anche:  La Campania dall'Unità d'Italia ai nostri giorni

     

     

    Torre Annunziata e Castellammare di Stabia sono due centri industriali la cui formazione risale alla prima metà del secolo scorso (cantiere navale, fabbrica di armi). Essi sono serviti da buoni porti e si distinguono per la presenza di grandi stabilimenti (cantiere navale, Italsider), di numerose industrie alimentari (paste, conserve), chimiche e farmaceutiche, dei materiali da costruzione (calce, cemento, tubi), del vetro e così via. Tali stabilimenti si susseguono a catena presso il mare e tendono ormai a costituire un’unica zona industriale tra i Lattari e il Vesuvio.

    Polo industriale di notevole importanza è anche Salerno, le cui industrie sono state richiamate dalla valle dell’Imo (laterizi, cotone, materiali da costruzione, ceramica) e si sono distribuite nella zona costiera (paste alimentari, cemento, confezioni). Un apposito consorzio, recentemente costituito, mira ad accelerare l’espansione dell’area industriale sulla base delle scelte già manifestatesi spontaneamente, e cioè in direzione di Mercato San Severino e di Pontecagnano.

    Oltre ai nuclei e ai poli industriali e alle aree in corso di industrializzazione, di cui si è fatto cenno, si possono distinguere tre zone industriali, in cui le industrie sono più numerose e la loro presenza lascia delle orme maggiori nel paesaggio, e talvolta addirittura lo caratterizza.

    Una di queste si estende alla base dei Tifata e trova in Capua, in Santa Maria Capua Vètere e in Caserta i principali centri industriali. Una serie di cave sulle falde del rilievo calcareo, alcuni impianti serici a San Lèucio e in altri sobborghi di Caserta, pastifici, concerie, industrie chimiche (medicinali), del vetro e dell’abbigliamento sono gli stabilimenti meglio rappresentati, ai quali altri se ne aggiungono gradatamente, specialmente ai lati della Via Appia.

    Un’altra zona industriale si può considerare quella che ha il centro principale in Nocera Inferiore, al quale fanno corona vari nuclei minori (Pagani, Angri, Nocera Superiore), e mostra la tendenza a congiungersi a Cava dei Tirreni e a Scafati. L’industria conserviera, con le attività sussidiarie relative, è prevalente (pomodoro), si avvale di migliaia di lavoratori stagionali, determina una grande animazione sulle strade e nei centri durante i mesi estivi ed autunnali e lascia nel paesaggio una impronta notevole con le numerose ciminiere che si innalzano presso le fabbriche.

    La più estesa e più complessa zona industriale della Campania si trova ad oriente della città di Napoli e si sviluppa tra le colline flegree e le falde del Vesuvio, ma il nucleo di maggiore concentrazione è tra la stazione ferroviaria e San Giovanni a Teduccio. In questo caso si può veramente parlare di paesaggio industriale, nel senso che predominano nettamente gli edifici industriali con le relative aree di servizio. Le ciminiere, le torri di distillazione e poche altre costruzioni si innalzano sulla massa dei capannoni, dei depositi di carburante e di idrocarburi e sulle costruzioni annesse agli stabilimenti. L’aria stessa ha un odore tutt’altro che salutare.

    I palazzi per civili abitazioni sono pochi e respinti ai margini del nucleo centrale della zona industriale. Questa si può considerare divisa in due parti dalla stazione ferroviaria e dal relativo fascio di binari, una a sud, più estesa, in cui sono presenti più grandi stabilimenti, prevalentemente meccanici, metallurgici, chimici e petrolchimici (raffineria del petrolio), conservieri, del legno, delle pelli e cosi via, l’altra a nord con un gran numero di aziende industriali di media e piccola grandezza (guanti, confezioni, prodotti chimici, alimentari, mobili) e officine meccaniche e per montaggio di autoveicoli, che si inseriscono nel paesaggio urbano, a costituire nuclei o elementi differenziatori, e rivelano la loro presenza attraverso un’edilizia più popolare, il gran numero dei servizi e le attività terziarie che vi si svolgono.

    La zona industriale partenopea continua sul ripiano di Capodichino e di Secondi-gliano (macchine da scrivere, paste alimentari, birra) e tende ad espandersi verso i nuovi centri industriali di Casoria, Casalnuovo e Volla. Essa è una delle più importanti d’Italia e dà lavoro ad alcune decine di migliaia di addetti negli stabilimenti e altrettanti nelle attività terziarie legate alla presenza delle industrie, i quali vi affluiscono dalla città di Napoli, dai suoi sobborghi e da altri centri della provincia, grazie ai buoni collegamenti ferroviari e stradali. Gravita direttamente sul porto, col quale è a contatto e dal quale riceve le materie prime, ma i prodotti manifatturati sono destinati per la maggior parte a rifornire la regione campana, se si escludono i derivati del petrolio, che in quantità assai considerevoli vengono destinati ai rifornimenti e alle esportazioni.

    Il commercio.

    La Campania ha avuto sempre una notevole importanza commerciale, sia perchè è sede della metropoli partenopea, già capitale del Regno ed ora una delle città più popolose d’Italia, dove convergono le principali strade del Mezzogiorno, sia perchè la sua cospicua popolazione ha avuto sempre maggiori possibilità di acquisto, sia perchè allo sviluppo industriale si sono accompagnate attività commerciali favorite dalla presenza di buoni porti.

    Note erano nel passato le fiere e i mercati che si celebravano con regolarità, specie in occasione delle feste patronali, nelle principali località della pianura e dell’interno e richiamavano gran concorso di gente dalle campagne circostanti. In tali occasioni avvenivano scambi dei prodotti manifatturieri e dell’agricoltura o dell’allevamento, destinati soprattutto a Napoli o alle altre città.

    Ormai questa specie di commercio si è molto ridotta, perchè si è perfezionata l’organizzazione per la vendita dei prodotti a domicilio, si sono moltiplicati i negozi nei maggiori agglomerati urbani e rurali e si contano parecchi mercati all’ingrosso, su cui l’afflusso delle merci è quotidiano. Tuttavia il commercio ambulante conserva ancora una certa importanza, specie nelle zone collinari più popolose, come prova il numero delle persone (16.632) che nel 1961 si dedicavano a questa classe di attività economica.

    In Campania gli addetti al commercio sono passati da 127.513 a 170.276 nel corso del decennio 1951-61, con un aumento assai notevole, che nelle varie province è direttamente proporzionale allo sviluppo industriale. La provincia di Napoli ne assorbe circa il 60%, essendo in essa ben rappresentate le varie forme di attività commerciali, dal commercio all’ingrosso (8620 addetti) o ambulante (9332) a quello al minuto (58.726) o svolto negli alberghi e nei pubblici esercizi (18.414), la provincia di Salerno meno della quinta parte e le altre insieme poco più di quella di Salerno.

    I capoluoghi di provincia esercitano sulle ditte commerciali un grande richiamo, che si spiega in parte con le maggiori capacità di acquisto della loro popolazione, ma che è in stretta relazione con la loro forza attrattiva verso gli abitanti dei sobborghi e di altri centri della propria provincia o di quelle confinanti, con l’attrezzatura portuale, col numero e con la qualità dei servizi disponibili.

    II commercio al minuto si esplica attraverso una rete di esercizi piccoli, per lo più a gestione familiare, ma si vanno rapidamente diffondendo i mercati ortofrutticoli rionali e i supermercati, questi ultimi dapprima nei principali quartieri di Napoli e poi nelle altre città, nelle quali apposite ricerche di mercato hanno consigliato di aprire tali grandi magazzini. Nè vanno trascurati i negozi dei grossisti, specializzati nella vendita di determinati prodotti, che si ritrovano nei centri di maggiore importanza commerciale, e in particolare nel quartiere della città di Napoli gravitante intorno al porto e alle stazioni ferroviarie.

    Un cenno a parte meritano i mercati all’ingrosso dei prodotti ortofrutticoli, che sono ubicati nelle città (Napoli, Pozzuoli, Salerno, Caserta, Castellammare di Stabia), dove servono ad assicurare il quotidiano rifornimento dei prodotti del suolo alla popolazione urbana, o in alcuni centri delle zone di produzione (Giugliano, Pagani), dove hanno la funzione di richiamare i prodotti dai dintorni e di smistarli verso altri mercati vicini o lontani. Secondo i dati pubblicati dall’Istituto Centrale di Statistica su tali mercati all’ingrosso vengono riversati annualmente oltre 5 milioni di quintali di ortaggi e frutta (media del biennio 1961-62). I mercati principali sono quelli di Pagani, di Nocera Inferiore e di Napoli, su ognuno dei quali affluiscono oltre 1,3 milioni di quintali di prodotti dalla Campania e da altre parti d’Italia.

    La nostra regione riceve modeste quantità di ortaggi (carciofi) e di frutta (agrumi dal Sud, pere e frutta varia dal Nord) dalle altre, ma alimenta considerevoli correnti commerciali verso Roma, Bologna, Milano, Verona, Siracusa, Bari e poi Torino, Padova, Genova, Palermo e così via, con la differenza che i mercati meridionali assorbono in gran prevalenza ortaggi (nei mesi estivi) e quelli centro-settentrionali anche grandi quantità di frutta.

    Sui due vicini mercati di Nocera Inferiore e di Pagani affluisce una quantità di ortaggi superiore a quella riversata sul mercato di Torino e inferiore soltanto a quella di Milano. Al confronto Napoli ne riceve soltanto la terza parte, perchè molti prodotti degli orti vicini sono trasportati in città quotidianamente con i carri dai produttori stessi o da piccoli commercianti, senza passare per i mercati all’ingrosso. Pagani è il più importante mercato all’ingrosso della Campania non tanto per gli ortaggi, quanto per la frutta fresca e secca e per gli agrumi.

    Ai tre principali mercati all’ingrosso ricordati, seguono a distanza e in ordine d’importanza quelli di Sarno, di Giugliano, di Santa Anastasia, di Castellammare di Stabia, di Salerno, di Pozzuoli e di Caserta.

    Come per Napoli, così per le altre maggiori città della regione il rifornimento quotidiano dei prodotti ortofrutticoli avviene direttamente dalle zone di produzione circostanti, senza passare per i mercati all’ingrosso.

    Oltre ai mercati ortofrutticoli occorre far cenno anche di quelli ittici costieri (Pozzuoli, Salerno, Napoli e Torre Annunziata), tra i quali si distingue Pozzuoli, dove affluiscono circa 30.000 q. di pesce all’anno. Nè va taciuto che il porto di Napoli riceve grandi quantità di baccalà e stoccafisso dai paesi nordici e ne distribuisce al suo retroterra.

    Vie di comunicazione.

    La Campania vanta alcune delle strade più note ed antiche d’Italia. Capua era il centro di convergenza di quelle provenienti dai porti di Cuma, di Pozzuoli e di Napoli (Via Consolare Campana, Via Atellana) ed era attraversata dalla Via Appia, che si

    riuniva con la Via Casilina e continuava per Benevento e Brindisi. La zona costiera era servita dalla Via Domiziana, che da Sinuessa passava per Liternum e Cuma e continuava fino a Pozzuoli, attraversando il famoso Arco Felice, e con duplice percorso fino a Napoli.

    Nel Medio Evo tali strade vanno in rovina e di esse sono percorribili, sebbene il loro tracciato sia modificato, quelle che uniscono Capua con Pozzuoli, con Napoli, con Teano e con Benevento. Tra i centri costieri, come ad esempio tra Napoli e gli scali della Penisola Sorrentina, i rapporti avvengono via mare. Ed è con difficoltà che si svolge un limitatissimo commercio tra la capitale e le varie province della Campania, della Puglia e dell’Abruzzo, per lo stato delle strade e per la mancanza di sicurezza. Nelle regioni appenniniche assicuravano i collegamenti i trattini, cioè le larghe piste percorse dal bestiame transumante tra il monte ed il piano.

    Le condizioni della viabilità cambiano nel secolo XVIII con l’indipendenza del Regno, perchè si sistemano le strade per l’Abruzzo, per la Puglia e per la Calabria, si

    aboliscono i diritti di passo e si costruiscono ponti sui fiumi principali. La Campania avrà, quindi, la prima ferrovia italiana nel 1839 tra Napoli e Pòrtici, alla quale altri tronchi seguiranno da Napoli per Caserta (1843), per Sarno, per Torre Annunziata e Castellammare di Stabia e, infine, per Vietri sul Mare (1860); ma la situazione al tempo dell’Unità era tutt’altro che buona fuori dell’area partenopea, per cui notevole fu lo sforzo del nuovo Stato italiano per fornire di una efficiente rete ferroviaria il Mezzogiorno nei decenni successivi all’unificazione della Penisola, tenute anche presenti le enormi difficoltà connesse con l’accidentalità del rilievo, con l’irruenza dei numerosi torrenti e con la malaria delle pianure litoranee.

    La diffusione degli autoveicoli impone, nel nostro secolo, la creazione di una rete stradale efficiente, non solo per assicurare i collegamenti nell’ambito della regione, ma per moltiplicare i rapporti tra il Sud e l’Italia centro-settentrionale, che si svolgono in gran parte attraverso la Campania.

    Non si possono negare i vantaggi conseguiti, ma si deve riconoscere che gli interventi per migliorare le comunicazioni tra le regioni meridionali e quelle centrali sono risultati inadeguati e le strade per la Calabria e per la Puglia sono di difficile percorso, eccessivamente strette e tortuose e con forti pendenze.

    Soltanto nel secondo dopoguerra la rete stradale si è infittita ed è migliorata, e quasi tutti i principali centri della regione sono stati raggiunti dalla strada rotabile.

     

     

    Gli interventi recenti mirano alla costruzione di strade di grande comunicazione per il facile scorrimento del traffico in transito; e si inquadrano nel programma di sviluppo del Mezzogiorno l’Autostrada del Sole, inaugurata in tutta la sua lunghezza nel 1964, quella per la Calabria, già in esercizio fino a Battipaglia e quella per la Puglia in costruzione, le strade litoranee delle zone pianeggianti, della Penisola Sorrentina e del Cilento, che hanno determinato la valorizzazione turistica e balneare del nostro litorale.

    Tuttavia non si può dire che il problema delle comunicazioni nella regione partenopea sia risolto, perchè occorrono altre strade di scorrimento alla periferia dell’area urbana di Napoli e occorrerebbe una via litoranea più ampia e più efficiente che snellisse il traffico tra la zona flegrea e i quartieri sud-orientali di Napoli. Tale strada potrebbe essere ampliata verso il mare con colmate e con lieve sacrificio dell’area del porto, il quale riceverebbe in compenso maggior respiro dal più rapido smistamento degli autoveicoli.

    Vedi Anche:  bonifiche e irrigazioni

     

     

     

     

     

     

    La Campania, secondo l’Annuario Statistico Italiano, disponeva nel 1961 di una rete ferroviaria di 1246 km., di cui 1006 statali e 240 in concessione, e di una rete stradale di 8742 km., di cui 1995 statali, 5890 provinciali e 857 comunali. Le ferrovie statali sono per due terzi elettriche e comprendono dei lunghi tratti a doppio binario, essendo stata recentemente raddoppiata la linea ferroviaria tirrenica, sulla quale si svolge un traffico intensissimo. Le ferrovie in concessione sono per lo più a scartamento ridotto ed hanno la funzione di favorire il movimento centripeto e centrifugo dei viaggiatori tra Napoli e la popolosa regione circostante, circumvesuviana, flegrea e del versante settentrionale della Penisola Sorrentina.

    Se si fa un rapporto tra i veicoli in circolazione nella regione e la lunghezza delle strade, si vede che esso è purtroppo tra i più alti d’Italia, in quanto ad ogni iooo veicoli corrispondono in media 28 km. di strada, e se si fa il rapporto tra il numero degli abitanti e la lunghezza delle strade, si deve ugualmente constatare che la Campania è all’ultimo posto tra le regioni italiane, essendo disponibili soltanto 184 km. di strada (Italia 381) per ogni 100.000 abitanti.

    Tenendo presente l’irregolare distribuzione della rete stradale e degli autoveicoli, non è da meravigliarsi se su alcune strade il traffico (arco partenopeo e valle del Sarno) sia oltremodo congestionato, anche perchè al movimento dei veicoli a motore si aggiunge quello dei carri a trazione animale, particolarmente intenso in alcune ore del giorno e in parecchi mesi dell’anno.

    Lo sviluppo dell’industrializzazione e delle attività terziarie e l’aumento del tenore di vita tendono ad accrescere il numero degli autoveicoli, molto più che la capacità delle strade, e a rendere sempre più difficile la circolazione, con grande perdita di tempo per lo spostamento di persone e di cose, che si riflette sulla produttività, sui costi di produzione e di distribuzione, e quindi sulla capacità di competere con altre regioni meglio fornite di strade. Il solco di Cava dei Tirreni e la zona litoranea vesuviana e flegrea, essendo dei passaggi obbligati per i rapporti tra l’Italia meridionale e quella centro-settentrionale, rappresentano alcune delle zone d’Italia di più intenso traffico stradale e ferroviario.

    Tra le altre vie e mezzi di comunicazione della regione bisogna ricordare le quattro funicolari di Napoli, che hanno l’importantissima funzione di collegare i quartieri bassi con quelli alti, le funicolare di Capri e di Montevergine, le seggiovie del Vesuvio e di Monte Solaro e le funivie di Posìllipo e del Faito, che consentono di raggiungere luoghi di grande interesse e assai frequentati.

    Un cenno bisogna anche fare dei trasporti aerei, che fanno capo all’aeroporto di Capodichino, il quale si colloca al quarto posto tra gli eroporti nazionali, dopo quelli di Fiumicino, di Milano e di Palermo, per movimento di viaggiatori (circa 100.000 all’anno). Parecchi voli con elicottero collegano le isole con il porto di Napoli, nel quale è stata costruita un’apposita piattaforma per l’atterraggio e il decollo di essi.

    Per quanto riguarda i rapporti celeri con le isole, non si possono non ricordare i frequenti servizi quotidiani con aliscafi dal porticciolo di Mergellina a Capri e ad Ischia e dagli scali della Penisola Sorrentina a Capri.

    Vari sono poi i porti che hanno una discreta importanza commerciale (Pozzuoli, Bagnoli, Napoli, Pòrtici, Torre del Greco, Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Salerno) e che richiedono pertanto di essere brevemente illustrati.

    Pozzuoli era nei tempi antichi il porto di Roma ed aveva una grande importanza commerciale, ma lo sviluppo di quello di Napoli ha riservato ad esso una funzione secondaria. Tuttavia ha un discreto movimento di merci (500-600.000 tonn. all’anno) e di passeggeri (400-500.000 all’anno), perchè in esso affluiscono cospicue quantità di materie prime destinate agli stabilimenti del litorale flegreo, da Coroglio a Baia, e merci e passeggeri provenienti da Ischia e da Pròcida o diretti in tali isole, a causa dei frequenti servizi marittimi per passeggeri, merci e autoveicoli, che si svolgono quotidianamente tra Pozzuoli e gli scali insulari. La creazione della zona industriale di Quarto dovrebbe allargarne il retroterra e accrescerne l’importanza.

    Dei porti di Napoli si tratterà estesamente più avanti. Affatto secondari sono, invece, quelli di Pòrtici (40-50.000 tonn.), di Torre del Greco (5-6.000 tonn.) e di Torre Annunziata (80-90.000 tonn.), che sono frequentati da navi di piccole dimensioni. Nei primi due prevalgono nettamente gli sbarchi, nel terzo le differenze tra quantità di merci sbarcate (minerali, frumento) ed imbarcate (prodotti siderurgici, paste e conserve alimentari) sono molto esigue.

    Un movimento commerciale più considerevole e in graduale aumento hanno Castellammare di Stabia (100-150.000 tonn.) e Salerno (130-170.000 tonn.), il cui retro-

    terra è sensibilmente più ampio dell’area urbana o comunale. A Castellammare gli sbarchi sono rappresentati in prevalenza da frumento, sale, legname, sabbia e prodotti siderurgici e petroliferi, mentre agli imbarchi prevalgono calce e cemento e altri materiali da costruzione.

    A Salerno gli sbarchi (carbon fossile, legname, fosfati) risultano superiori agli imbarchi (prodotti dell’industria conserviera, doghe per botti) solo in questi ultimi anni, forse in conseguenza dell’industrializzazione della Piana del Sele. Il porto ha discrete opere protettive, ma un retroterra povero e ristretto, e potrà trarre qualche giovamento dall’attuazione dei piani di sviluppo industriale della valle dell’Imo e della pianura.

    Non si possono non ricordare, infine, i porti di importanza turistica (Marina Grande di Capri, Ischia Porto, Marina di Pròcida, Sorrento, Amalfi e Mergellina) serviti da numerose piccole navi, che in essi sbarcano o imbarcano diverse centinaia o migliaia di passeggeri al giorno.

    Il porto di Napoli.

    Napoli è fornita di un porto molto frequentato, uno dei principali d’Italia e di tutto il bacino del Mediterraneo, che si distingue per il considerevole movimento passeggeri e per il notevole contributo dato dai combustibili a quello commerciale.

    La storia della città è legata a quella del suo porto, grazie al quale essa ha potuto liberamente respirare sulle rotte mediterranee ed oceaniche e diventare il centro di smistamento dei prodotti d’oltremare verso il suo retroterra, abbastanza vasto, seppur non ricco.

    Gli antichi navigatori del Tirreno e i coloni fondatori di Napoli trovavano riparo in due piccole insenature, che si inoltravano verso la Piazza Municipio e quella della Borsa, sufficientemente riparate contro i venti e i marosi di sudovest. Con gli Angioini

     

     

    nel porto furono costruite alcune importanti opere di protezione tra cui il Molo Angioino che, distrutto da una mareggiata nel 1343, fu ricostruito sotto gli Aragonesi (1447); ma, poiché le onde sospinte dal libeccio lo minacciarono presto, si decise di costruire un nuovo porto più ad occidente, meglio riparato dalle appendici peninsulari e insulari.

    Il porto ebbe una certa sistemazione con l’indipendenza del Regno (1743), quando fu prolungato il Molo Angioino e fu costruito quello dell’Immacolatella, ma l’aumento del traffico e del tonnellaggio delle navi mercantili e militari impose profonde trasformazioni nella prima metà del secolo scorso. A riparo del porto militare e dell’arsenale, fu costruito allora il Molo San Vincenzo, che fu prolungato per un chilometro e mezzo nel corso del secolo e costituisce ancora la più efficace protezione dell’area portuale.

    L’aumento del movimento marittimo e commerciale negli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi del nostro, con l’incrementarsi del flusso emigratorio, imponeva la

    Il porto di Napoli nel 1960.

    graduale espansione di esso verso oriente e la costruzione di altre dighe protettive. Le nuove funzioni assunte da Napoli nei rapporti con le terre d’oltremare, come base militare, come scalo per passeggeri, come porto industriale e petroliero, hanno richiesto l’ulteriore espansione dei bacini verso levante, il loro approfondimento e la costruzione di vari moli.

    La darsena dei petroli è stata sistemata recentemente per soddisfare le esigenze della raffineria, che è una delle maggiori d’Italia, e per accogliere anche le petroliere di grande tonnellaggio, di cui si fa sempre più largo uso.

    Occorre esaminare brevemente il traffico che si svolge nel porto per renderci conto delle sue funzioni attuali e delle sue eventuali insufficienze. Il porto di Napoli, con un movimento commerciale di 2,8 milioni di tonnellate di merci sbarcate e imbarcate, occupava il quarto posto tra i porti italiani nel 1938, mentre nel dopoguerra è balzato al secondo posto, dopo Genova, sia per il movimento marittimo che per quello commerciale.

    Le cifre sono gonfiate con un artificio ingiustificabile, cioè inglobando nel movimento del porto di Napoli quello dello scalo di Bagnoli, che ne dista almeno una dozzina di chilometri ed è al servizio degli stabilimenti industriali, per cui non è sempre agevole comprendere l’importanza e le funzioni dei due porti e la consistenza delle direttrici commerciali che ad essi mettono capo.

    Basti pensare che su un movimento commerciale di 12-13 milioni di tonn. all’anno, la quarta parte interessa la racla di Bagnoli, dove vengono sbarcate soprattutto merci pesanti (minerali di ferro, per oltre 1,5 milioni di tonn. e carbone per poco meno di un milione di tonn.) e imbarcati prodotti industriali (metalli, materiali da costruzione, concimi e fosfati) per circa 300.000 tonnellate.

    Per i porti di Napoli è stato registrato negli ultimi anni un movimento commerciale intorno a 9 milioni di tonn. all’entrata, di cui 7 dall’estero e 2 dagli altri porti nazionali, e a 3,5 milioni di tonn. all’uscita, di cui 1,5-2 per l’estero e il resto per gli altri porti italiani.

    Se consideriamo la qualità delle merci sbarcate ed imbarcate, si vede che il contributo maggiore è dato dal petrolio greggio e dai prodotti petroliferi (4-5 milioni di tonn. all’entrata e 1-2 all’uscita), per cui le variazioni dell’afflusso di tale merce incidono sensibilmente sul movimento commerciale del porto di Napoli.

    Se si escludono le quantità di merci sbarcate e imbarcate a Bagnoli e gli oli minerali, il movimento commerciale residuo è molto esiguo e non raggiunge i 3 milioni di tonnellate. Esso consiste soprattutto in carbone (400-500.000 tonn.), in grano e cereali (300-400.000 tonn.), in metalli e minerali (300-400.000 tonn.) e in frutta, ortaggi ed altri prodotti alimentari (400-500.000 tonn.).

    Ne consegue che il porto conserva ancora una certa importanza come importatore di cereali e di altri prodotti alimentari (pesce, frutta e prodotti tropicali) e come esportatore di prodotti agricoli e manifatturati (ortaggi, conserve e paste alimentari), per cui, se esso sente l’esigenza di ampliarsi, è appunto nei settori interessati da tali merci e dagli oli minerali che dovrebbe avvenire l’ampliamento.

    Limitate sono le quantità di merci destinate agli altri scali del Golfo o provenienti da essi, mentre cospicue sono quelle destinate ai rifornimenti, le quali sono in crescente aumento (0,8 milioni di tonn. nel i960; 1,0 nel 1961; 1,3 nel 1963), in funzione del considerevole movimento marittimo.

    Napoli è il porto della Campania, perchè piccolissime quantità di merci invia ad altre regioni o da queste riceve. La parte principale del suo retroterra è anzi assai più circoscritta e si riduce ad un’esile fascia costiera, con piccoli ampiamenti verso la Terra di Lavoro e la valle del Sarno. La sua principale funzione commerciale rimane ancora quella di rifornire la zona industriale limitrofa, ma l’industrializzazione della pianura e di alcune valli interne dovrebbe assicurare ad esso un più ampio respiro. Ed è appunto in funzione delle esigenze delle nuove aree industriali che il porto di Napoli andrebbe attrezzato e sanato nelle insufficienze relative.

    Esso è di gran lunga il primo porto per passeggeri d’Italia e conserva tale primato dal secolo scorso, da quando cioè sulle sue banchine si accalcavano masse pittoresche e misere di emigranti in attesa di imbarcarsi per cercare lavoro o fortuna lontano. Ormai il suo movimento passeggeri è di natura diversa, perchè si tratta in gran prevalenza di turisti che vanno alle isole prospicienti o provengono da esse, di temporanei visitatori stranieri in crociera o in viaggio attraverso il Mediterraneo, di abitanti delle isole o della Penisola Sorrentina che vengono in città per scopi vari e di viaggiatori sulla linea che collega la nostra città a Palermo.

    Oltre due milioni di passeggeri all’anno partono o arrivano nel porto di Napoli e questo movimento si svolge per tre quarti con altri scali del golfo e per il resto in parti quasi uguali con porti italiani e stranieri.

    Un gran numero di navi di modeste dimensioni fa la spola tra Napoli e le località del golfo e delle isole, altre di maggiore stazza assicurano i collegamenti a più lungo raggio e i grandi transatlantici si avvicendano al Molo Angioino, sul quale è stata costruita la più bella stazione marittima d’Italia, dalla quale si può godere una veduta stupenda su Piazza Municipio, sui quartieri urbani e sulla collina di San Martino.

    Tuttavia l’attrezzatura è appena adeguata ai bisogni del movimento passeggeri, ma lo spazio non è sufficiente in alcuni periodi, sia per le navi piccole, alle quali è riservato il ristretto Molo Beverello, sia per quelle grandi, che non sempre trovano posto ai lati della stazione marittima.