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Tradizioni popolari di Roma e del Lazio

    Tradizioni popolari di Roma e del Lazio

    Il patrimonio folkloristico del Lazio — o meglio quanto rimane di questo patrimonio — appare quanto mai disperso e difforme, come conseguenza tra l’altro, di un fatto già tante volte segnalato, che l’unità amministrativa denominata oggi Lazio, comprende regioni che dal punto di vista etnologico, dialettale, culturale, sono — come dal punto di vista fisico — molto disparate. Ce lo mostra tuttora, nel modo forse più evidente, il dialetto nelle sue forme più fedeli alla tradizione parlata: accanto al romanesco, che già presenta varietà notevoli — il ciociaro, ad esempio, mostra già chiare infiltrazioni campane — vi sono le parlate dell’estremo sud, da Gaeta e da Cassino in giù, che rientrano nell’area dialettale campana, vi è la parlata sabina con affinità umbre, vi è infine la parlata del Vulsinese, di Acquapendente, ecc. con influssi toscani e umbri, arrivati del resto fino a Roma già negli ultimi anni del Cinquecento. Non è possibile, pertanto, tracciare dei limiti.

    Isole etniche non italiche non esistono in territorio laziale. Per nessuna di quelle che avrebbero avuto origine da stanziamenti di Saraceni si hanno documentazioni attendibili. La tradizione secondo la quale il paese di Saracinesco sarebbe stato fondato da un nucleo di Saraceni, che, penetrati per la valle deH’Aniene e respinti dalle truppe di Papa Giovanni X (915) si sarebbero rifugiati qui (e anche nella vicina Anticoli Corrado) non trova basi nelle fonti storiche ; e lo stesso deve dirsi per San Biagio Saraci-nisco, dove, se pur la notizia è vera, si sarebbero stanziati, ma per breve tempo, gruppi di quei Saraceni che si erano accampati sul Garigliano. Ancor più dubbie sono le tradizioni di stanziamenti saraceni a Nettuno, a Sperlonga o in altre località costiere. In ogni modo nessuna traccia rimane più oggi deH’asserita provenienza: in mancanza di studi speciali anche il tipo fìsico degli abitanti non rivela alcunché di esotico. Nel 1757 un gruppo di 39 famiglie albanesi provenienti da Scutari e dintorni ottenne dal Papa Benedetto XIV di insediarsi a Piansano, nel territorio di Castro. Essi avrebbero mantenuto, ancor fino a 60-70 anni fa, i loro riti, le loro preghiere, i loro usi; ora sono dispersi nei paesi vicini, soprattutto a Ischia di Castro.

    La statua di Pasquino secondo il Beatricetti (1507-50)

    Aspetti folkloristici di Roma

    Se cominciamo da Roma, dobbiamo constatare amaramente che le trasformazioni degli ultimi decenni hanno distrutto quasi tutto quello che di caratteristico nell’aspetto folkloristico della città ci appare vivo nei sonetti di Gioachino Belli o nelle figurazioni di Bartolomeo Pinelli; forse non hanno ancora distrutto il romanesco tipo di facinoroso, facile all’ira, alla minaccia e pronto all’occasione anche a menar di coltello, ma altrettanto pronto alla generosità, che il poema di Giuseppe Berneri (1637-1701) impersonava nel suo «Meo Patacca». Il Lancellotti scrive: «Il romano de Roma, quello nato all’ombra del Cupolone è un tipo energico, piuttosto ruvido, ma schietto, di buon cuore, superbo e dignitoso, ma di indole gaia, amante delle facezie, della buona tavola e delle belle feste, amico vero con gli amici… Il romano, in un certo senso, è un essere superiore: egli non si ingerisce di nulla, non si umilia a nulla, non tollera nulla. Si compiace di fare il comodaccio suo e lo lascia fare agli altri quando ciò non gli nuoccia… Fa gran conto del danaro e dell’onore. E sa difendersi anche col coltello ».

    Pasquino è, dunque, muto da tempo, come il suo interlocutore Marforio : la satira politica o morale che fiorì nei secoli XVI e XVII con « pasquinate » che correvano di bocca in bocca in tutto il popolo, si esplica oggi in forme più evolute e più efficaci, ma meno spontanee e meno aderenti allo spirito arguto e impertinente del popolo che non risparmiava neppure il Papa e la sua Corte. Sisto V punì Pasquino, ossia gli autori eventualmente scoperti di pasquinate antipapali, col taglio delle mani.

    Sono scomparse le grandi feste e i fastosi spettacoli della Roma papale, i rumorosi carnevali romaneschi, le corse dei bàrberi (liberi cavalli delle tenute romane), gli spettacoli nautici a Piazza Navona il giorno di Ferragosto, i fuochi artificiali a Corea (il Mausoleo di Augusto) ed anche la loro trasformazione modernizzata nella « Girandola » al Pincio.

    E venendo anche ai tempi più recenti, all’ultimo mezzo secolo, che l’autore di queste pagine ha vissuto senza interruzione, quanti colpi sono stati dati al folklore romanesco, a quello autentico, tradizionale e popolaresco che rispecchiava lo spirito romano! Vi hanno contribuito anche trasformazioni edilizie. E scomparso così l’ultimo centro folkloristico della vecchia Roma, Piazza Montanara, luogo di convegno, di contrattazioni e di mercato, dove convenivano i « mercanti di campagna » nei loro caratteristici costumi, a smerciare i loro prodotti ed a fare acquisti, e si incontravano con popolani e popolane, con intermediari e sensali : ciociari e burini, trasteverini e ripa-roli e d’altri rioni formavano un insieme quanto mai caratteristico. Non raro era di vedere, in qualche angolo, il banchetto di un barbiere indaffarato a « far belli » quelli che venivano dalla campagna; ovvero qui (ma più spesso in prossimità di una delle porte della città), il banco di uno scrivano pubblico cui gli analfabeti convenuti dalla campagna dettavano istanze, suppliche o lettere di ogni specie, o quello della « sen-sala » di balie scelte e di altri servizi. Le fattucchiere e le cartomanti invece non si facevano vedere in pubblico, ma agivano in antri o terranei, frequenti e affollati soprattutto in Borgo: oggi le hanno soppiantate le numerose chiromanti, chiaroveggenti, metapsichiche distribuite in appartamenti e locali spesso elegantemente arredati, in ogni angolo della città. Non sono forse molto mutati i mezzi per illudere i creduli clienti; ma questo è un altro discorso.

    Anche un altro angolo caratteristico di Roma è scomparso o per lo meno svisato dal suo aspetto vivo ancora pochi anni fa: Campo dei Fiori, centro folkloristico anche questo di grandissimo interesse; nei banchi occupanti la piazza principale e le minori adiacenti, si vendeva un po’ di tutto: dai libri e dalle stampe agli abiti vecchi, dai mobili usati, a umili oggetti d’uso comune, a soprammobili, ad arredi sacri, monete, medaglie, ecc. Ogni banco aveva o pretendeva di avere le sue specialità, e i suoi acquirenti abituali. Tra questi soprattutto gli amatori di libri, in cerca di qualche rarità; e la ricerca, ai primi arrivi di merce al mattino, non era sempre senza successo. Convenivano al mercato, che si teneva il mercoledì, in folla i forestieri: Campo dei Fiori aveva una rinomanza quasi mondiale. Ora lo sostituiscono in parte il più raccolto mercato di libri, stampe e altre anticaglie a Piazza Borghese, e quello domenicale, vastissimo, tumultuoso e confuso, di Porta Portese. Il ghetto è pure scomparso o per lo meno ha perduto le sue peculiari caratteristiche; non poco vi ha contribuito il barbaro scempio compiuto dai Tedeschi durante l’ultima fase della seconda guerra mondiale, che tutti a Roma, qualunque sia la loro fede religiosa o politica, ricordano con orrore.

    Delle fastose feste natalizie ben poco rimane; i presepi, alcuni dei quali si facevano all’aperto, sono oggi costruiti entro le chiese; più a lungo è rimasta come manifestazione pubblica solo una di carattere profano: il cottìo del pesce, che si teneva l’antivigilia nel mercato di San Teodoro.

    Il carnevale romano non esiste quasi più, come è — si può dire — scomparsa la maschera romana, « Rugantino », prepotente attaccabrighe (il romanesco ruga significa protestare minacciosamente) pronto a menar le mani avendone però sempre la peggio, ma in fondo sincero e anche generoso, il cui costume era caratterizzato da una specie di frack rosso, con panciotto e calzoni corti dello stesso colore, calze bianche e un cappello alto foggiato ad incudine, e codino. E forse (a parte più lontane e dubbie origini) una caricatura dei soldati del Bargello, sorta nel secolo XVIII ; ebbe fama soprattutto per merito del burattinaio romano Gaetano Santangelo (morto nel 1832) che ne fece il suo principale personaggio insieme con la inseparabile sua compagna, la Nina, trasteverina linguacciuta e tracotante, ma onesta e « de-core », fiera dei suoi gioielli e dei suoi spilloni sulla nera capigliatura, tra i quali nascondeva, a buon bisogno, un appuntito coltello.

    Il teatro dei burattini, ambulante, era pur esso un elemento caratteristico del folklore romanesco. Nelle forme più recenti era un semplice, alto palco quadrato, retto su quattro robusti piedi, che nella parte superiore si apriva nel piccolo palcoscenico; nella parte inferiore, mascherata da tendaggi, nascondeva il burattinaio (più spesso uno solo, talora due), che presentava i burattini e con le mani celate sotto le loro vesti, li reggeva e li agitava con molta abilità, mutandone le voci con l’aiuto di soffietti di gomma. Il teatrino girava di piazza in piazza, preferendo i vecchi rioni, ed aveva sempre un pubblico di spettatori, non sempre solo ragazzi. Ma le maschere romane di Rugantino e della Nina non vi comparivano più, sostituite da Pulcinella e da altri personaggi; il repertorio era cambiato, al pari del dialetto. Qualche sparuto superstite di questo teatrino girovago sussisteva ancora — o era stato riesumato — dopo la seconda guerra mondiale. Altri mestieri girovaghi sono ormai quasi solo un ricordo del passato: il robbivecchi quasi sempre ebreo, che girava col suo carretto segnalando a gran voce la sua presenza a chi volesse sbarazzarsi di oggetti usati d’ogni sorta; l’arrotino, il riparatore di ombrelli, ecc.

    Di personaggi che furono vivi, ma il cui ricordo appartiene ormai ad un piccolo cantone del folklore romanesco, chi scrive ricorda ancora il «generale Mannaggia la Rocca», che in certe occasioni girava per Roma cavalcando un asino e tutto coperto di decorazioni, naturalmente false, Tito Livio Cianchettini ostinato e infaticabile nel protestare contro i « capezzatori » il cui ricordo rivive in quello che fu il suo giornaletto, il Travaso delle Idee, ed il Sor Capanna, popolaresco poeta stornellante con romanesca arguzia, ultimo di una stirpe di cantastorie che pur non andrebbe dimenticata.

    Di feste popolari romane che cosa rimane? La Befana ha la sua più chiassosa espressione nella fiera di Piazza Navona, ridotta però a una successione di bancarelle dove si vendono modesti regali per bambini e dolciumi. Rimane la festa di San Giovanni, indiavolata baraonda caratterizzata da mangiate di lumache e altre vivande di stagione, da copiosissime libagioni, da danze, da canzoni e dal frastuono di campanacci destinati in origine a tener lontani gli spiriti (una località pochi chilometri fuor della porta San Giovanni, tutta perforata da grotte si chiama ancora Cessati Spiriti!). Rimane, il lunedì dopo la Pentecoste, il pellegrinaggio al Divino Amore (sulla Via Ardeatina — nella tenuta di Castel di Leva — a 12 km. da Roma), con caratteri peraltro mutati : fino a pochi anni fa aveva ancora un sapore folkloristico quando le famiglie romane vi si recavano in carrozzelle infiorate entro le quali le « minenti » spose di ricchi commercianti e bottegai, sfoggiavano abiti vistosi e sfolgoranti gioielli. Ora, trasformato interamente il vecchio Santuario, l’automobile ha quasi del tutto dato il bando alle carrozze. Al pellegrinaggio convengono tuttavia non solo gli abitanti di Roma, ma anche quelli dei vicini Castelli Romani, ancora un po’ più fedeli alle vecchie, ma non lontane tradizioni.

    Le feste rionali che tuttora permangono, come la festa de noantri nella vecchia Trastevere, sono ripristini ammodernati che non risalgono a lontane tradizioni, ma conservano tuttavia alcuni elementi arcaici. Si balla ancora il saltarello, la caratteristica danza romanesca, che si perpetua in molti paesi del Lazio, e tra i ballerini si può ancora vedere chi indossa il vecchio costume festivo: giubbetto di velluto, panciotto di panno rosso o a righe con larga fascia alla vita, e brache ; gli alti cappelli tutti ornati di fiori e le ricche vistose gonne per le donne. Si fabbricano dolci e biscotti, e focacce, come il maritozzo, che un tempo si offriva alla novella sposa con l’anello nuziale nascosto nell’interno (donde forse il nome), si gioca alle bocce, alla morra, alla passatella, i tre caratteristici giuochi romani, che molto diffusi persistono nei paesi e nelle campagne del Lazio.

    Il saltarello in una figurazione di Bartolomeo Pinelli (1808).

    Il dialetto romano

    Per quanto riguarda il dialetto, il visitatore che viene anche per la prima volta a Roma, non tarderà ad accorgersi, dopo un breve soggiorno, che le parole che suonano esotiche o sono di difficile comprensione non sono molte e tendono a scomparire. L’uso del tu, caratteristico del romanesco che non conosceva il lei, va purtroppo declinando. Facili a rilevare, ma anche ad intendere sono la soppressione della sillaba finale dei verbi (annà, magnà, defenne, vede, soffrì) e anche di altre parole (embè, per ebbene ; tu per tuo ; plurale tui), come pure le varianti, non proprie solo del romanesco, negli articoli (er, tte, li, je, me, per il, ti, i, gli, mi, ecc.), il passaggio di gl a ij (i allungato: fijjo, mejjo, vojjo, pjjà = pigliare), l’uso di talune consonanti pronunziate fortemente, come fossero doppie, specie tra vocali (subbito, cuggino, la bbella ggente), l’uso frequente di r per 1 (sarta, sarvo, sordato, carza, quer per quel), il passaggio di mb a mm (gamma), di nd a nn (granne, mannà, munno) di mbi a gn (cagnà per cambiare) o anche di ng a gn (magnà). Non raro l’uso di u per o (nun, cu-gnato), di za per eia (panza). Ci finale diventa spesso chi (dichi, amichi). Nella coniugazione dei verbi andammo, facemmo diventano andassimo, facessimo, andarono diventa andòrno, ecc. Ma una frase come: «sso arivati ggiù l’amichi tui; vacce a vede » nella quale ogni parola presenta qualche variante rispetto al toscano, tutti la capiscono. Alcune parole che un forestiero poteva stentare a capire (paino, sminfaròlo, patirai, ciurcinato, ciumaca, rugare, tropea, einiehetto, tortore, vassallo in senso di ragazzaccio, buzzico, gioco di ragazzi, zùzzica, altro gioco comune soprattutto in Trastevere) si sentono sempre meno spesso.

    Ma i glottologi ci avvertono che tra il romanesco antico, quale è rispecchiato, ad esempio, dalle «Storie de Troja e de Roma», dalla celebre «Vita de Cola di Rienzo », dal « Diario » di Stefano Infessura, e il dialetto attuale vi sono assai notevoli differenze in ogni campo (fonetica, morfologia, ecc.); l’evoluzione, iniziata alla fine del XIII secolo si venne compiendo nel corso del secolo XVI sotto l’influenza del Toscano, e anche per infiltrazione della lingua di corte e per altre cause. Del secolo XVII sono II Iacaccio di G. C. Peresio (1688) e il Meo Patacca di G. Berneri (1695), ma in questi poemi, il dialetto non è spontaneo e variamente inquinato da influssi letterari.

    Ma limitandoci, come è necessario, a tempi più vicini ai nostri, si riscontrano segni, sempre più chiari, di deperimento. Nei duemila sonetti del Belli (1791-1863) vive la plebe di Roma, della quale fu pittore fedele e vivacissimo; vive anche nella sua parlata, la intende egli, come dichiara con le sue stesse parole: «esporre le frasi del romano, quali dalla bocca del romano escono tuttodì, senza ornamenti, senza alterazione, senza pure inversione di sintassi e troncamenti di licenza se non quelli che il parlatore romanesco usa egli stesso ». Ma molte sue locuzioni che tra il 1830 e il 1850 uscivano veramente dalla bocca del popolino sono cadute dall’uso attuale.

    Per Cesare Pascarella (1858-1940) il dialetto non è più fine a sè stesso, non è più volto direttamente a dipingere il popolo e la sua vita, ma eccelle soprattutto nei più brevi componimenti messi in bocca a un narratore popolano, come il Morto de Campagna e La Serenata, oltre che nel più famoso capolavoro: La scoperta dell’America. In Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950) il dialetto è più semplificato e serve a cogliere situazioni e figure della vita borghese, a contesser favole intessute di arguzia, di ironia, di frecciate che ben colpiscono nel segno.

    Vedi Anche:  La Tuscia romana

    Ma accanto a questi astri maggiori, non vanno dimenticati nomi che sarebbe ingiusto di chiamare minori; e non sono pochi e di diverse tendenze: Adolfo Giaquinto, Augusto Sindici, Nino Ilari, Luigi Pizzirani, Giuseppe Martellotti, Augusto Jandolo, Settimo di Vico, caduto eroicamente nella grande guerra. Un posto a sè spetta a Giggi Zanazzo (1860-1911) nelle cui poesie, specie poemetti in sestine, l’elemento folkloristico ha largo posto, colorito con arguzia e con efficacia veristica, che ricorda non di rado il Belli. Egli diede vita nel 1887 ad un settimanale dialettale, il simpaticissimo Rugantino, che ebbe a collaboratori alcuni degli autori sopra ricordati e per molti anni ebbe larga diffusione e contribuì non poco a manter vivo quanto di più caratteristico rimaneva della parlata, delle tradizioni, del patrimonio folkloristico romanesco.

    A lui si debbono anche tre volumi di raccolte folkloristiche (novelle, favole, canti popolari, usi, costumi, superstizioni, ecc.) che pur presentando difetti di metodo, restano tuttora la più ricca fonte folkloristica che si possegga per Roma.

    Il teatro romanesco e le relative compagnie non hanno precedenti molto antichi. Se qualche rappresentazione dialettale si ebbe nei teatri Capranica ed Alibert, come culla del teatro romanesco si considera il vecchio teatro Pallacorda, poi denominato Metastasio, dove Filippo Tacconi, detto il « gobbo Taccone » iniziò nel 1834 la rappresentazione di commedie e farse musicali tratte da argomenti vari ed anche commedie scritte originariamente per il teatro dialettale da Luigi Randanini. Ne continuò l’eredità Pippo Tamburri, che si creò molta notorietà impersonando la bizzarra, popolare figura del «Marchese del Grillo». Anche Giggi Zanazzo formò una compagnia teatrale romanesca, avendo come collaboratrice, per qualche tempo, Giacinta Pezzana; e un’altra fu diretta da Gastone Monaldi, per la quale scrissero commedie, oltre lo stesso Monaldi, Augusto Jandolo, Nino Ilari e altri. Ne continua oggi con decoro la tradizione Checco Durante.

    Ma ai giorni nostri il più vivace e veramente insuperabile interprete dello spirito romanesco nelle sue note più argute, più beffarde e sfottenti, lo abbiamo avuto in Ettore Petrolini (1886-1936), non tanto nelle commedie da lui recitate, ma nei tipi genialmente creati, nei motti, nelle canzoni che, a poco meno di trentanni dalla sua scomparsa, rimangono tuttora vive nella bocca del popolo e sono diventate elementi del patrimonio folkloristico.

    Facciamo seguire qui alcuni esempi del dialetto romanesco:

    « Sto Lazio, fiji cari, è ‘na cuccagna

    Una cuccagna che nun pare vera

    Er sole scalla, la brinata abbagna

    E ‘gni grazzia de Dio caccia la tera ».

    (Sindici).

    « Pe’ le murelle, l’archi e pe’ la riva

    baccajava e cresceva l’acqua… gialla,

    arribullenno come la lisciva…

    te faceva pavura de guardalla!…

    Mo’ quarche bestia morta, o mezza viva,

    tra la schiumaccia risommava a galla;

    mo’ ’na capanna rotolava via…

    arberi e robba d’una masseria ».

    (Sindici).

    « A un piano, tutto rena e tufi e brecce

    Fossi e grottoni pieni de spinozzi

    E grossi roghi in più rentorte trecce

    Intorniati a frascheti e sterpi mozzi

    Da radiconi longhi e gobbe e vecce

    S’alza la noce indrento a quei macchiozzi

    Dove ognuna de lor co’l farfarello

    Van le pazze a la notte a far bordello ».

    (La noce di Benevento. Ottava 68. Canto VI del poema II Iacaccio di G. C. Peresio. Secolo XVII, testo di F. A. Ugolini).

    Ed ecco due ottave improvvisate dai poeti a braccio (o cantastorie) che ancora esistono nella Campagna Romana e si esibiscono talvolta a Roma in occasione della Festa de Noantri ; la prima è risplendente di vita e di gioia, la seconda permeata d’una disperazione senza freno:

    « Rosa del mio giardino, la bbella pianta

    ssei piccolina e ssei tanto odorente.

    In petto ce le porti ddu rose bianche

    riluce lo splendore a l’oriente.

    In testa ce la porti ‘na ritta crina

    ’mezzo a lo petto ’na chiara funtana

    e chi ce prenne l’acqua la mattina

    morti e feriti tutti l’aresana ».

    « Quanno sò mortu voio lassà dittu

    nun me mettino accanto a un antro morto

    me faccinu un fossittu longo e strittu

    quanto ce capi lo misero mio corpu.

    Su la lapida poi ce lasserò scrittu

    e chi la leggerà sarà un gran dottu:

    ce giace qui ’n’amante affrittu

    che dalla bella mai ebbe confortu ».

    Prima di lasciare l’argomento del dialetto romanesco vero e proprio, non si può fare a meno di accennare che nella Campagna Romana, della cui vita economica parleremo altrove, convenivano lavoratori da molte località anche lontane, soprattutto dall’Abruzzo, ma anche dalla Toscana, dalle Marche, ecc. Per lo spurgo dei fossi e anche per altri lavori di fatica si reclutavano abruzzesi designati anzi senz’altro con l’appellativo di aquilani; per il taglio dei boschi erano specializzati quelli di Sassoferrato; i carbonai venivano dall’Aretino o dalla Lucchesia; da Piobbico e da Sarnano i fa-cocchi, ecc. Ora dalla comune convivenza di questi diversi elementi si era venuto formando un gergo, molto diverso dal romanesco vero e proprio, del quale purtroppo non fu fatto mai — credo — uno studio sistematico, ma di cui sopravvivono ancor oggi modi di dire e parole che non sarebbero forse comprese neppure da un romano: citiamo come esempi presi quasi a caso, allacciò (correre), cafurchia (catapecchia, abituro rudimentale), sfardare (rubare), garufente (miserabile), moscetto (piccolo proprietario di pecore), rapazzola (giaciglio o letto), zirlivarli (gingilli), ecc. Neppure possiamo trattenerci sulle superstizioni, gli incantesimi, ecc. che peraltro erano e sono spesso comuni ad altre parti del Lazio e in genere dell’Italia Centrale.

    Ecco qualche stornello, desunto dal bel volume del Metalli, che fu udito, con lievi varianti anche dallo scrivente :

    Visetto bruno

    Tutti vonno sapé come me chiamo

    Me chiamo nun me fido de nessuno.

    Fior di granato

    La vigna nun po’ sta’ senza canneto

    Manco la donna senza innamorato.

    Dove sta lo mi’ amore pozza piove

    E per ombrello gli mando er zinale

    Se nun basta er zinale, pure er core

    La cucina romana

    Caratteristiche proprie conserva, anche se in minor misura che nel passato, la cucina romana, assai apprezzata per i vari cibi appetitosi. Ne ha delineato di recente gli aspetti più salienti un’esperta scrittrice di libri di cucina (Ada Boni) in questi termini : « Nella cucina romana si preferiscono le cose semplici e genuine: tutto quello che presenta la complicazione della cucina internazionale viene inesorabilmente bandito. Il romano ha una cordiale antipatia per le vivande troppo elaborate e — severo conservatore — non accoglie che con diffidenza ciò che si distacca dai suoi cibi consueti. Non si lascia allettare dal “ poco costo ”, convinto, e con ragione, che l’economia fatta nell’alimentazione è una assai malintesa economia. Paga volentieri qualche cosa di più, ma vuole roba sceltissima, di prima qualità… Il condimento essenziale, nella cucina romana, è offerto dallo strutto, cioè dal grasso di maiale preparato in casa e conservato d’anno in anno per tutti gli usi di cucina. Appartengono anche ai condimenti il lardo, il guanciale, la ventresca e il grasso di prosciutto, i quali servono generalmente per il cosiddetto “ battuto ”. L’olio si adopera per condire le verdure crude e qualche rara volta per pietanze di magro stretto; e si adopera anche nella frittura e special-mente per friggere il pesce, poiché nelle altre fritture di grasso da taluni viene preferito lo strutto». Troppo lungo sarebbe elencare i cibi tipicamente romani, alcuni dei quali noti fin dall’antichità. Basterà ricordare tra le minestre i gnocchi, le fettuccine, gli spaghetti (specie quelli alla amatriciana, cioè alla moda di Amatrice), i maccheroni con la ricotta; tra i piatti di carne l’abbacchio (agnello di latte), la coratella, le animelle al prosciutto, la coda alla vaccinara, il saltimbocca alla romana, la trippa alla romana e poi ancora i carciofi alla giudìa, i supplì (crocchette di riso ripiene), i fagioli con le cotiche e tanti altri. Tutti questi cibi vengono poi innaffiati con vini generosi, tra i quali dominano quelli dei Castelli Romani, primo tra tutti il Frascati, limpido e dorato, di gradevole sapore. Buona fama hanno anche quello di Montefiascone (il ben noto Est Est Est legato ad una notissima leggenda che poi ricorderemo), il Cesanese del Piglio, l’aleatico di Gradoli e molti altri. Non può far meraviglia che Roma, i Castelli Romani e le principali località del Lazio siano dotate di osterie famose, che hanno trovato chi ne ha celebrato i fasti. Tipiche dei Castelli sono le cantine. « Qui è il campo del Dio coronato di pampini; i pali delle viti, come le innumerevoli piramidi di fucili di un esercito, e come un’apocalittica fortezza, circondano e difendono i luoghi della grazia, e l’odor del vino e il sole si spandono poeticamente su tutta questa terra… Siamo nel paese fatato del bevitore, ove ogni casa è una cantina e un altare del culto orgiastico, ove ogni sgabello posto dinanzi ad un bacile è un tipico tripode » (Barth).

    Folklore della Campagna e dei Castelli Romani

    La Campagna Romana è tutta sparsa dei ruderi, torri, avanzi di castellacci, ecc. ed ognuno di questi — si può dire — ha le sue leggende. E la Campagna ha avuto, come i suoi pittori, anche il suo poeta già ricordato, Augusto Sindici (1839-1921).

    I titoli delle sue notissime 14 leggende accennano alle condizioni di scarsa sicurezza che un tempo esistevano nella regione (Malagrotta; Femmina morta; Marpasso; Malafede, ecc.). Del resto anche la toponomastica, feroce e talvolta macabra, è copiosa nella Campagna; nomi come Canemorto, Strangolagalli, Casa Mala, Squarciarelli, Passo dello Scannato, Tiradiavoli, Coccia di Morto, Valle dell’Inferno, Omo morto, Malborghetto si riferiscono di certo a condizioni del passato. Un diario del 1516, al 22 novembre, presso la valle della Caffarella (5 km. da Roma), riferisce « come fu ammazzato misser Bernardo Macaro, procuratore, che lo fece ammazzare casa Orsina, perchè lui fece ammazzare lo cavaliero Orsini, ecc. ».

    Di feste collettive la più importante era la mèrca, che non è ancora scomparsa. Si fa di maggio e consiste nel marcare a fuoco buoi, vacche e anche cavalli. I bovini introdotti prima in uno spazio recintato, vengono da questo sospinti a tre o quattro per volta in un chiuso più ristretto (rimissino) e lì, dopo esser fatti correre fino a stancarsi, dai così detti lottatori sono stramazzati a terra e impastoiati: allora il massaro o il mercante di campagna gli imprime un marchio a fuoco con le iniziali o le insegne padronali alla spalla sinistra e alla coscia destra e il numero deiranno in corso sull’anca destra. Alquanto diversa era la mèrca dei cavalli. Padroni e invitati erano disposti sotto ripari di frasche attorno al chiuso.

    La mèrca è seguita da un festoso banchetto ; talora costituiva una vera e propria festa organizzata dal mercante di campagna e durava più giorni con copiose distribuzioni di vino, cibarie, ecc.

    Oggi la mèrca, che un tempo era una vera festa caratteristica della Campagna — quale è vivacemente descritta dal Sindici in una delle sue leggende, Malafede — è andata riducendosi sempre più alla sola operazione vera e propria.

    Animavano le grandi vie della Campagna — soprattutto TAppia, la Tusco-lana ma anche la Casilina e la Prenestina, lungo le quali alcune osterie (della Storta, del Curato, della Mesa, ecc.) costituivano delle soste quasi obbligate — i caratteristici carri a vino, specie di carri-ricovero, lunghi (fino a 3 m. e più) con stanghe lunghissime e due grandi alte ruote, trainati da un robusto cavallo, che portavano a Roma il vino dei Castelli. Essi trasportavano una diecina di barili, sei in una fila più bassa, altri quattro di solito sovrapposti a quelli; dietro, due alte aste di legno colorate impedivano che i barili rotolassero giù. Nella parte anteriore sui primi due barili si adergeva una specie di mantice o meglio di capanna emisferica aperta, costruita con una intelaiatura di canne o di altro materiale ligneo leggiero rivestito all’esterno da telami colorati, aH’interno da una più spessa coltre di stoffa colorata con un soffice cuscino a spalliera imbottita. Da un lato del mantice pendeva un folto gruppo di grandi campanelli costituenti una vera soneria; sotto il carro una lanterna e spesso un bigoncio. Entro la capanna il guidatore dormiva sonni pacifici interrotti solo da qualche bevuta da un barilotto a portata di mano, mentre il cavallo andava e riandava l’abituale via, sempre la stessa praticata tre o quattro volte la settimana; un cane sostituiva spesso il conduttore immerso nel sonno ristoratore.

    I caratteristici carri per il trasporto del vino dai Castelli a Roma.

    Del folklore dei Castelli Romani poco è sopravvissuto. Si vogliono ricordare alcune popolari feste: la festa del vino a Marino, in occasione della quale si fa sgorgar vino dalla fontana principale, la processione della prima domenica di settembre a Castel Gandolfo, la deliziosa « infiorata » di Genzano, in una domenica della prima quindicina di giugno, successiva al Corpus Domini, dove (dal 1778) le strade maggiori sono trasformate in artistiche    aiuole (tutta la città — scriveva Riccardo Voss — pareva una gigantesca aiuola), la sagra delle fragole a Nemi (in giugno), durante la quale le avvenenti ragazze del paese offrono in dono ai forestieri cestini del gustoso frutto. Più recenti la sagra dei carciofi a Ladispoli e altre.

    Un cenno merita, pure, la preparazione di dolci, biscotti e simili che hanno talora caratteristiche singolari : i visitatori dei Castelli Romani conoscono ad esempio i biscotti duri di Frascati, a forma di animali, di uomini o di donne con triplice o anche quadruplice mammella.

    Nei Castelli ed in altri paesi immediatamente circostanti a Roma abbigliamenti caratteristici che escano dal tradizionale costume non se ne vedono quasi più. Celebrato era un tempo il costume delle donne di Nettuno, pittoresco per i corsaletti e le ricche stoffe di vivace color rosso, per gli ornamenti intorno al capo intessuti d’oro e d’argento; richiamavano a qualcuno la vaga tradizione di un’origine saracena. La leggenda è raccolta dal Padre Labat nel suo Voyage en Espagne et en Italie. Il Tassoni nella descrizione che fa del viaggio per Napoli (Secchia rapita, canto X), descrivendo il litorale da Ostia a Gaeta « le donne di Nettun vede sul lito. In gonna rossa e col turbante in testa ». Il turbante era una cintura di seta intrecciata di argento e oro (man-tricella) dalla quale pendevano ornamenti preziosi. « Porta di raso rosso er corpettino — guarnito d’oro e rossa cià la vesta, co la pedana puro d’oro fino — varzente al collo e perle e anello a cesta ». Così il Sindici (Fontana co’ Banditi). Pare che una caratteristica ne fosse anche la gonna troppo succinta tanto che nel 1572 papa Gregorio XIII ordinò che essa fosse allungata fino al collo del piede. Oggi un bell’esemplare è esposto nel Museo delle Arti e Tradizioni Popolari (Roma) e qualche altro rimane presso privati. Ma sfoggio di abbigliamenti vivaci, con mostre di gioielli e monili fanno ancora in occasione di sagre e feste solenni le donne e specialmente le ragazze di Genzano, di Ariccia, di Montecompatri, Velletri dove ammiratissimo era il bianco abito nuziale della sposa.

    Il costume delle donne di Genzano è così descritto : « Il capo non è coperto ; vagamente intrecciati, i capelli sono sostenuti con un lungo spillo d’argento che finisce in un bel covone di spighe di grani di svariati fiori; una specie di corona formata da un nastro di seta color rosa, o rosso, o celeste li circonda. D’estate un corpetto di bianco pannolino e d’inverno di panno scarlatto stringe la vita fino a mezzo l’antibraccio. Su quel corpetto è un busto di forma arcuata, di piccole stecche di balena, ricoperto di seta o di lana a vivi colori e di cui una estremità dà proprio nel mezzo della cintura e le altre due tirano verso le spalle ; la veste è di panno a svariati colori ». Ma l’Abbate, cui dobbiamo questa descrizione, scrivendo nel 1890, avvertiva che il costume era andato già in disuso.

    Vedi Anche:  La Sabina

    Patrimonio folkloristico delle altre località del Lazio

    Man mano che ci si allontana da Roma verso le zone periferiche del Lazio e soprattutto in Ciociaria, nella montagna lepina, ernica, simbruina ai confini con la Campania e con l’Abruzzo, ma anche in Sabina, si constata che il patrimonio folkloristico si è meno deteriorato, anzi in taluni casi si è tenacemente mantenuto fedele alle tradizioni.

    L’infiorata di Genzano.

    Ciò vale per alcune festività, cerimonie religiose e pellegrinaggi. Il più celebre pellegrinaggio nel Lazio è quello che si effettua nella domenica della Trinità, cinquan-tacinque giorni dopo la Pasqua, che coincide sempre con un plenilunio, e nel giorno di S. Anna (il 26 luglio), al Santuario della SS. Trinità che sorge a 1337 m. sui fianchi del Monte Autore, presso le sorgenti del Simbrivio, sopra Vallepietra, che è a 825 metri. « Non è arrischiato veramente asserire che non esiste in Italia un altro pellegrinaggio il quale offra le caratteristiche peculiari di questo che sempre, al secondo plenilunio susseguente a quello di Pasqua, raccoglie, sotto l’immenso e impressionante anfiteatro di roccia che si apre a levante sui fianchi dell’Autore, gli abitanti di tanta parte dell’Italia centrale » (Buonaiuti). Convergono qui infatti pellegrini dai finitimi paesi dell’Abruzzo, da Tagliacozzo a Cappadocia, da tutto il medio ed alto Aniene, dalla Ciociaria, da tutta la regione ernica e simbruina. Convergono a gruppi, o compagnie, guidate da un caporale, mentre uno dei più giovani regge lo stendardo. Convergono nei loro pittoreschi costumi — ed anche per questo lo spettacolo è fol-kloristicamente dei più interessanti — salendo per faticosi sentieri, e accompagnandosi con salmodie celebranti il mistero della Santissima Trinità. Il ritornello che viene ripetuto di continuo, tanto da diventare ossessionante, è il seguente: « Su, fedeli, ripetiamo — con amore e fede viva — viva sempre, sempre viva — la Santissima Trinità ». Per i paesi più lontani il pellegrinaggio dura da due a tre giorni : si percorrono fino a 40 km. con freddi pernottamenti airaperto. Si calcola che la domenica della Trinità vi arrivino non meno di quarantamila pellegrini. Ma il Santuario è una piccola cappella, scavata nel masso e vi si accede per uno strettissimo corridoio e le « compagnie » si accalcano senza potersi indugiare e, penetrate nel Santuario, vi fanno una breve sosta per poi far posto ai sopravvenienti. Il territorio sacro del Santuario comincia al ponte di Comunacqua, alla confluenza del Simbrivio con l’Aniene, che i vessilliferi traversano camminando a ritroso; singolare è ivi il rito dei pellegrini, che, inginocchiandosi, gettano una pietra nel fiume per liberarsi dalle insidie delle malefiche potenze infernali.

    Coloro che sono giunti al Santuario nelle ore notturne, accendono per tutta la notte grandi fuochi; i più giungono la mattina della domenica. Scene paurose si verificano per l’accesso al piccolo Santuario: la folla si urta e si sospinge; molti lo percorrono in ginocchio o si trascinano baciando la terra fino a raggiungere Tedicola dove si venera la caratteristica raffigurazione della Trinità in tre immagini di Cristo benedicente.

    Il mattino della festa ha luogo la rappresentazione del Pianto : uno stuolo di giovani zitelle di Vallepietra sul balcone prospiciente al tempietto, rievoca la passione di Cristo « con accenti di nenia, che appaiono come il residuo di una superstite rappresentazione sacra » (Buonaiuti).

    Altri pellegrinaggi frequentati, ma con raggio più ristretto, sono pur numerosi nel Lazio: citiamo quello al Santuario della Mentorella sul Monte Guadagnolo il 29 settembre, quello alla Chiesa del Galloro presso Ariccia l’8 dicembre, la processione detta delle stuzze a Fiuggi (Anticoli di Campagna) il 2 febbraio; il pellegrinaggio al Santuario della Madonna della Civita sopra Itri (21 luglio); ecc.

    Anche resti di rappresentazioni sacre sopravvivono qua e là più o meno alterate: si cita quella detta del Cristo morto a Contigliano, dove si rappresenta da personaggi del paese la passione di Cristo. Una rappresentazione analoga, eseguita su un grande spiazzo presso Sezze nei Lepini, è invece di origine recente.

    Del resto ogni paese ha, in occasione della ricorrenza del patrono locale o in altra circostanza, le proprie feste e cerimonie religiose. A Viterbo il 4 settembre si celebra la festa di S. Rosa; il giorno precedente una processione percorre le principali vie della città portando in giro una pesante « macchina » finemente lavorata, con la statua della Santa sontuosamente decorata ogni anno in modo vario ; la prima « macchina » risale al 1663, ma la festa è assai anteriore. Il 14 maggio di ogni anno ha luogo la processione alla Chiesa di Maria Santissima del Monte presso Marta; anche qui viene trasportata da quattro uomini la cosiddetta fontana, un palco di legno con l’immagine della Madonna e con ornamenti pittoreschi di fiori e di frutta ; seguono il clero e poi i cittadini ordinati secondo i loro mestieri (bifolchi, calzolai, pescatori, ecc.) recanti ciascuno in offerta le primizie e gli emblemi del proprio mestiere. « A quali remote origini risale la festa? Tutto sembra accennare alla rappresentazione di un’antica cerimonia pagana. L’offerta di frutta, la santificazione dei mestieri e dei lavori agricoli fatta coll’esporre gli emblemi dinanzi alla Vergine è indubbiamente un saggio adattamento della Chiesa cristiana a riti ben più antichi ». Così scriveva Th. Ashby che assistette personalmente alla processione intorno al 1925.

    Nemi. Donne in costume in occasione della sagra delle fragole.

    A Rieti tra le molte feste sacre e profane, la processione di S. Antonio è forse la più caratteristica per le manifestazioni della religiosità popolare. A Leonessa si celebra il 4 febbraio la festa di S. Giuseppe da Leonessa, missionario cappuccino morto nel 1612.

    Ad Aspra in Sabina si celebra la festa di S. Antonio Barone durante la quale le donne, fuori della porta della Chiesa dell’Annunziata, portano a benedire il sale entro grandi fazzoletti bianchi e poi lo distribuiscono alle bestie. « Quindi vengono benedetti grossi cesti contenenti ciambelle (tortuli’) e poi il sacerdote fa il giro per benedire le bestie. I festaroli, dopo che il sacerdote ha benedetto le bestie messe in bell’ordine, infilano nelle corna dei buoi un grosso ciambellone » (Palmeggiani).

    A Cittareale, una grande festa si celebra nel giorno della SS. Trinità nel Santuario della Madonna di Capodacqua per ricordare il miracolo compiuto dalla Vergine nel 1799 durante una prolungata siccità, facendo cadere, dietro le preghiere del popolo, un’abbondante pioggia. A Cittaducale il 19 agosto si celebra la festa di S. Magno, in occasione della quale ha luogo una fiera molto frequentata.

    A Fiamignano il 2 luglio ha luogo la caratteristica processione della Madonna del Poggio, piccola chiesa presso l’antico castello di Poggio Poponesco; vi convergono i fedeli da tutto il Cicolano.

    A Bagnoregio si celebra con gran solennità il 14 luglio la festa di S. Bonaventura. Nel giorno del Corpus Domini a Vignanello è organizzata una « infiorata » non dissimile da quella di Genzano, con grande concorso dei paesi vicini. Decaduta è 1’« inchinata » di Tivoli celebrata il 14 agosto, durante la quale era portata in processione alla Chiesa di S. Maria Maggiore una macchina con la statua della Madonna ed un’immagine del Salvatore, festa antichissima perchè avrebbe origine da una processione istituita da Papa Sergio I alla fine del VII secolo. Al principio del secolo scorso era ancora in pieno fiore, come ce la rappresenta un’incisione di Bartolomeo Pinelli del 1828.

    Ad Anticoli Corrado la seconda domenica di settembre una miracolosa immagine della Madonna, conservata nella piccola Chiesa della Madonna del Giglio, viene trasportata nella Chiesa di S. Maria della Vittoria in cima al villaggio e quivi rimane esposta tutta la notte per essere poi riportata in solenne processione attraverso il paese fino alla chiesetta che la ospita il resto dell’anno.

    Nel Lazio meridionale, tra le altre festività cui concorrono i fedeli dai paesi circostanti, ricordo quelle del 25 marzo e 8 settembre a Genazzano, al Santuario della Madonna del Buon Consiglio che si collega con la leggenda di due pellegrini scam-

    La chiesetta di S. Michele negli Aurunci (m. 1198).

    pati con l’immagine della Madonna ai Turchi nel 1467, la festa della Madonna della Quercia il 5 agosto a Marano Equo, la festa del 24-25 agosto    ad Arsoli, con una fiera affollatissima, la festa di S. Rocco del 21 marzo a Roiate, durante la quale una pietra incavata nella cappella sulla quale il Santo, afflitto da malattia si distese e morì, tramanda gocce di sudore di salutare efficacia; la festa di S. Cataldo a Supino (10 maggio), quella che ha luogo la vigilia dell’Ascensione a Sonnino. Quivi i Sonninesi raccoltisi in un punto all’estremo confine del territorio comunale si dividono in due gruppi che all’Ave Maria percorrono in senso opposto tutto intorno il confine del territorio cantando litanie e sparando colpi di fucile, i due gruppi si ritrovano alla Madonna della Misericordia e rientrano in paese dopo la mezzanotte con una fiaccolata. Taluno pensa che si abbia a che fare con un’antica festa al Dio Termine, consistente in una ricognizione dei confini. Ed ancora si possono ricordare la Sagra delle Regne (covoni di grano) a Minturno (il 2 luglio) e la festa del Mare a Gaeta (la domenica dopo Ferragosto), durante la quale uno sciame di imbandierate imbarcazioni a motore — una volta a remi — segue il pontone che reca la statua della Madonna di Porto Salvo in processione nella rada.

    In coincidenza di molte festività sacre 0 profane hanno luogo fiere e mercati, che un tempo avevano anche interesse folkloristico, ora in gran parte perduto. Tra i più frequentati erano in passato quelli di Rieti, di Cantalice, di Amatrice, di Leonessa e altri nel Reatino ; quella di Proceno il 5 agosto (fiera di bestiame) ; in Ciociaria quelli di Frosinone e di Alatri.

    Vari tipi di dolci si fanno ancora in occasione di Natale, Pasqua, ecc., a Sezze, ad Anticoli ed altrove: ad Anticoli caratteristici quelli in forma di donna con inserito un uovo sodo nel petto.

    Per la Befana si confezionano capaci calze apposite, che nessuno potrebbe portare addosso e che perciò costituiscono un elemento di quella festività.

    Redentore (Aurunci). Pellegrini diretti al Santuario di S. Michele.

    La Montagna Spaccata di Gaeta, sede d’un noto santuario

    Costumi e abbigliamenti

    Costumi e abbigliamenti, maschili e femminili, furono più volte descritti da non pochi autori per varie località del Lazio, ma la maggior parte di queste descrizioni rispecchiano caratteristiche di un passato ormai superato. Una mostra di costumi laziali, tenuta a Roma nel marzo 1927, faceva già largo posto a elementi ricostruiti o ricomposti e ciò è avvenuto spesso anche più tardi, con sempre minore aderenza alla genuinità di altri tempi. La foggia del vestire degli uomini è andata in disuso o si è deteriorata più presto di quella femminile.

    Per la Sabina ecco in riassunto quanto descrive il Palmeggiani. Per l’uomo l’abito da lavoro era un lungo camice di tela grezza detto sarga; il vestito ordinario era formato da pantaloni corti fino al ginocchio, e assai attillati, con un piccolo fiocco all’estremità esterna dove figuravano anche due bottoni; calze bianche di filo, lunghe, scarpe di rozza pelle con un’orecchietta rovesciata in avanti; giacca diritta di colore scuro o verde con farsetto a doppio petto rosso scuro o giallo oro con bottoni dorati o argentati disposti a doppia fila; camicia di bianco lino con collo rovesciato sul farsetto… cappello scuro a cono tronco, a falde tese più o meno ampie… ecc.

    Un pastore dei Monti Lepini.

    Il costume femminile era (ed è) più complicato e caratteristico per i colori vivaci: un corpetto accollato dalle maniche ampie, restringentisi ai polsi, che assumeva un aspetto pittoresco insieme con l’ampia veste. Sotto il corpetto o anche in sostituzione di questo, una candida camicia ; sopra il corpetto, il busto quasi sempre ornato di nastri a gai colori intonati a quelli di un grande laccio che attraverso numerosi occhielli occupava tutta la parte della schiena stringendosi un poco alla vita. Un grembiule bianco, a ricami di eccezionale bellezza artistica copriva la gonna, accuratamente pieghettata, a tinta unita (giallo oro, rosa pallido, rosso scuro, celestino) ovvero anche in broccato o in seta con magnifici disegni a fiorami. Un ampio fazzoletto bianco di seta a frange o finemente ricamato era posto a mo’ di triangolo sulle spalle; un altro più piccolo (maritile) posato sul capo, a pieghe e fermato sui capelli da lunghi spilloni (spadini) terminanti con fiori o pomi dorati e argentati così sottili che tremolavano all’incedere della donna (tretticarelli). L’abito da festa era ancor più ricco, per i magnifici broccati, i finissimi pizzi, l’abbondanza di monili, vezzi, ecc. Orecchini a pendenti, di solito a forma di grossi anelli, non mancavano mai.

    Il Palmeggiani, che presiedette a una mostra del costume sabino nel 1930, scriveva già (nel 1932) usando l’imperfetto; altri trent’anni sono ora trascorsi, ma rari esemplari di quei costumi possono forse vedersi ancora in occasione di festività, in alcuni paesi nei quali la tradizione è più tenace.

    Quello che suol chiamarsi il costume ciociaro, alquanto diverso del resto da luogo a luogo, ma sostanzialmente comune anche ad altri paesi fuori della Ciociaria, è stato più volte descritto. Le cioce, consistono in una robusta suola di cuoio, tutt’intorno alla quale sono praticati dei buchi per farvi passare piccoli lacci o strisce pure di cuoio che si fissano poi al piede, ravvolto da una fascia di tela bianca risalente su fino al ginocchio; questa calzatura di origine probabilmente antichissima, era portata un tempo sia dagli uomini che dalle donne. Queste ora le usano più di rado : comunque la ciocia non è che un elemento del costume tradizionale. Nell’uomo questo era caratterizzato dai calzoni corti, da una giubba lunga di colore scuro, da un sottostante farsetto di colore solitamente rosso e con bottoni dorati e da un cappello di feltro alto con larghe tese.

    Nelle donne caratteristico il panno bianco o rosso sulla testa scendente dietro, sulle spalle, la veste corta a colori vivaci, all’esterno un busto a stecche colorato — forse l’elemento più costante dell’abbigliamento femminile ciociaro — e un grembiule di lana ricamato. Queste fogge di vestire anche se notevolmente decadute, si possono ancora vedere talvolta, nei giorni festivi, a Frosinone e in altri paesi dei dintorni, usate ancora specie dalle vecchie. A Sezze un tempo le donne portavano i capelli legati da grandi nastri neri, annodati in due fiocchi nelle maritate in un sol fiocco nelle nubili.

    Costumi di Villa Latina (Frosinone).

    Costumi di Nemi.

    Nella valle dell’Aniene il costume femminile va in disuso : ad Anticoli le donne lo indossano nella festa della Madonna del Giglio 1*8 settembre; a Saracinesco non mi è accaduto di vederli ; a Cervara sopravvive ancora ma quasi come rarità.

    Nel Lazio meridionale sono da segnalare il costume femminile di Esperia: camicetta bianca con bretelle nere e orlature gialle e gonna nera e quello, più finemente complicato, di Sant’Elia Fiumerapido. La camicia, con maniche a minute pieghe, è coperta da un fazzoletto ricamato; la gonna, di color indaco è sostenuta per mezzo di due nastri da un piccolo busto e coperta posteriormente da un panno scarlatto, cui è sovrapposta una saia verde e anteriormente da un grembiule azzurro. Il capo è coperto da una pezza increspata e ripiegata dalla fronte sulle spalle. Al collo una collana a doppio filo (cannaccci) e una più lunga a palline d’oro.

    Vedi Anche:  Storia della popolazione nel Lazio

    Questo costume, che è alquanto divergente da quello consueto nei dintorni, ha dato credito alla tradizione — non appoggiata peraltro da prove sicure — che qui si stabilisse intorno al X secolo una colonia greca o forse bulgara.

    Colori vivaci sono preferiti dal costume femminile nei paesi più vicini alla Campania. Splendido il costume femminile di Pontecorvo: gonna verde con soprastante grembiule a vari colori, busto breve sorretto alle spalle da due nastri intessuti d’oro o d’argento; una candida camicia e sulla testa un panno sostenuto ai capelli da spilIoni e orlato di finissime trine. Vistosi i costumi di Casalvieri, di Minturno (la pacchiana) e di altri paesi soprattutto per le vivaci gonne rosso-scarlatte e per gli artistici grembiuli con ricchi orli. Elementi molto frequenti, sempre, il piccolo busto, la candida camicia con maniche larghe, ma arricciate in fondo sui polsi, il panno o copricapo contornato di merletto scendente spesso dietro sul collo.

    Ad Arpino e paesi vicini sopravvive invece ancora il tradizionale costume maschile: giacca corta di color verde scuro, marrone, ecc. con bottoniera d’oro; sotto un farsetto rosso coperto alla base da una larga fascia colorata che circonda tutto il corpo ; camicia bianca col collo rovesciato sulla giacca; cappello di panno scuro a larghe falde.

    In alcuni paesi del Lazio meridionale — Arpino, Alvito, Picinisco, Casalvieri, Casalàttico, Terelle, ecc. — persiste l’uso di cortei nuziali. Precede una giovane che reca alcuni doni; segue la sposa col padre dello sposo, poi coppie di giovani donne con ricchi abbigliamenti a colori vivaci; da ultimo lo sposo con la madre della sposa.

    I vivi colori delle vesti delle donne d’accompagno contrastano col candore dell’abbigliamento della sposa: gonna, busto, grembiule, camicia, velo nuziale, tutto in bianco, ma con fini e ricchi merletti; d’oro una duplice collana che scende sul petto, d’oro gli orecchini a grosse gocce pendule, d’oro o d’argento lo spillone a finissimo intaglio che fissa il velo sui capelli.

    Costumi di Villa Latina (Fresinone).

    A Casalvieri e altrove durante la cerimonia nuziale la sposa si cinge di una specie di scialle di panno rosso che il fidanzato le ha in precedenza donato.

    L’elenco potrebbe continuare a lungo, se si volessero rintracciare e riesumare altri esemplari di abbigliamenti che il turista invogliato potrebbe ancora ammirare e ritrarre soprattutto in occasione di festività. Qui si potrà piuttosto rilevare come, anche dalle poche e scarse descrizioni cui ci siamo limitati, emergano chiaramente, sotto le numerose varietà, non pochi elementi comuni.

    Costumi di Cervara e di Nettuno.

    Costume femminile di Minturno.

    Leggende sacre e profane

    Tutto il Lazio pullula di leggende sacre e profane, antiche e recenti. Tra le più antiche quella della Montagna Spaccata, una rupe precipite del Monte Orlando, presso Gaeta, dove ora sorge il Monastero della Trinità: la montagna ha questo nome per tre spaccature verticali prodottesi — secondo una pia tradizione — per effetto del terremoto avvenuto alla morte di Cristo; una scala di 33 gradini (gli anni di Cristo) scende nella spaccatura centrale e ivi si mostra sulla roccia l’impronta di una mano appoggiatavi da un miscredente (si dice fosse un Turco), che rimase impressa nel sasso fattosi improvvisamente molle e cedevole.

    Numerose leggende relative alla vita o ad azioni miracolose di S. Francesco sono diffuse nel Reatino e specialmente nei cinque monasteri francescani. A Poggio Bustone, dove il Santo dimorò in due grotte, si racconta che egli salutasse quanti incontrava con le semplici parole « buon giorno, buona gente » e in memoria di ciò il 4 ottobre un paesano fa il giro del paese con un tamburo, e batte a tutte le porte ripetendo il saluto francescano. E in questo medesimo santuario si mostra sulla roccia di una cappella l’impronta del corpo del Santo che si attaccò alla rupe quando il demonio tentò di farlo precipitare in basso.

    Così nella media e alta valle dell’Aniene pullulano le tradizioni, rivestite dalla leggenda, intorno a S. Benedetto o a S. Scolastica ; la devozione del popolo le tramanda di generazione in generazione con commoventi sentimenti di devozione.

    Altre leggende per lo più di carattere profano, si collegano a grotte o fenomeni carsici.

    Nella Tuscia Romana, tra Castel Giuliano e Ceri, vi è una grotta nota come Grotta dei Serpenti, nella quale per vero di serpenti non vi è traccia alcuna ma che il volgo crede — o credeva — celati di giorno in nascondigli invisibili, dai quali uscivano di notte per succhiare gli umori maligni di ammalati che venivano a dormire nella grotta : serpenti benefici dunque! A Poggio Catino vi è una caverna dove la leggenda vuole che abitasse un terribile dragone, cacciato per il personale intervento di Papa Silvestro I ; la grotta fu poi dedicata a S. Michele Arcangelo. Una dolina esistente prima della bonifica nella Pianura Pontina, non lungi da Cisterna, e denominata Casa Affonnata traeva questo nome perchè gli abitanti di quelle case non osservavano la festa domenicale. Un’analoga leggenda riguarda l’origine del Pozzo Santullo presso Collepardo: al posto di esso vi sarebbe stata un’aia sprofondata perchè i contadini avevano voluto battervi il grano il giorno dell’Assunta. Leggende simili sull’origine di laghi carsici

    o di doline sono diffuse anche altrove nel Lazio; altre si connettono a denominazioni singolari di località: una strettoia detta il Malpasso, ai confini tra Bassiano e Carpi -neto avrebbe ricevuto questo nome da una contesa fra i cittadini dei due paesi nella quale quelli di Carpineto, vincitori, avrebbero respinto i Bassanesi, mozzando però loro le orecchie.

    Più recenti le numerose leggende che si raccontano ancora a Itri e nei dintorni su Fra Diavolo, che fu peraltro un personaggio reale, Michele Pezza, nativo proprio di Itri, una specie di capobanda di ribelli, che condusse la guerriglia contro i Francesi sostenuto dal Borbone, finché fu preso e impiccato a Napoli il i° novembre 1806. A Sezze è ancor vivo il ricordo della banda del brigante Gasparone che vi fu arrestato nel 1826, ed Terracina quello del brigante Mastrilli, alcuni anni dopo.

    Ogni paese del Lazio ha le sue leggende — e parliamo qui di quelle diffuse tra il popolo, non di quelle, più o meno erudite o elaborate da studiosi sull’origine del paese. Chiunque vada in giro per questa vetusta regione può raccoglierne gran numero. Ma questo non è un libro di leggende e noi ci siamo limitati a menzionarne alcune, per la maggior parte dovute a conoscenza personale.

    Terminiamo con una che riguarda l’origine del nome del famoso vino di Monte-fiascone, noto col nome di Est Est Est. Si narra che un prelato tedesco in viaggio per Roma, essendo molto amante del vino si facesse precedere da un domestico, incaricato di segnalargli le osterie fomite dei migliori vini, scrivendo sulla porta la parola Est.

    Il domestico, giunto a Montefiascone, eccitato dall’eccellenza del vino, avrebbe scritto tre volte la parola Est, e il prelato avrebbe bevuto all’osteria del paese tanto vino che ne morì. Che il prelato sia esistito non par dubbio: se ne legge il nome Johannes Fugger nella chiesa inferiore di S. Flaviano, sulla pietra tombale postagli dallo stesso domestico; che fosse amante del vino non si stenta a crederlo e il resto è leggenda: l’iscrizione sulla pietra tombale non è oggi interamente decifrabile.

    Quanto a superstizioni, stregonerie, credenze in geni malefici, ciò che persiste nel Lazio non ha caratteri peculiari che differenzino questo campo del patrimonio folkloristico da quello di altre regioni. Lo rilevo anche dagli accuratissimi studi di Carlo Vignoli sul folklore di Castro dei Volsci suo paese nativo. « Esse glie ligramante! » (ecco il negromante) dice la mamma al bimbo cattivo, ma i ragazzi non ci credono più, e neppur più molto al municacèglie, unico superstite di quel mondo pauroso : un ragazzetto con un berretto rosso a cupola in testa, che si diverte la notte a far dispettucci, a rubare in casa d’altri per portar doni agli inquilini della casa che frequenta: parente prossimo del folletto o linchetto del folklore toscano e del munaciello napoletano.

    Dialetti e proverbi

    L’angolo nordorientale del Lazio — Leonessa, Amatrice, Borbona, Accumoli — rientra nel dominio dei dialetti abruzzesi, forse con qualche influsso marchigiano.

    A sud, una linea tracciata aU’ingrosso dalla Meta, per Cassino, a Gaeta limita l’area meridionale del Lazio che rientra nei dialetti campani.

    Nel dialetto dell’alto Viterbese, per esempio di Acquapendente, anche un profano riconosce influssi toscani, ma mancano studi in proposito. Per quanto riguarda gli altri territori riuniti oggi nella regione amministrativa Lazio, il dialetto sabino mostra affinità umbre tanto che alcuni studiosi riunirono in un solo gruppo le parlate umbrosabine. Rieti ebbe un suo poeta dialettale nel secolo XVII in Loreto Mattei (1622-1705), del quale riporto qui un sonetto (dall’edizione 1829) sul Giudizio Universale.

    O quanto spaentusu è lo Juiziu

    Que cuntu stiracchiato aemo a renne

    Denanzi a quellu Iuice tremenne

    Che all’ome ha fatto tantu benefiziu

    Non joa nalloco recoprì lo iziu

    Mancu faùri né quatrini a spenne

    Prequè l’aeremo a fa con chi la ntenne

    E pr’onne mou se corre a precipiziu

    Li morti ’ncarne e n’ossa tuttianti

    Papi, Re e Signuri e gran goernu

    Comparirau con già spaenti e pianti

    Su ’n Paraisu ’nsecula neternu

    Jerau li boni a retroà li Santi

    E li annali jerau jo nell’infernu.

    Per i dialetti della valle dell’Aniene, il lettore interessato potrà leggere la novella, La dama di Guascogna e il re di Cipro del Boccaccio (Decam. I. 9), tradotta in trentuno dei parlari di quella vallata. Ecco le prime righe nel dialetto di Licenza: « mo vollio areccontà na storiella e velie ke areccontea villu singniore ka sse ciamèa Ggiuvanni Bboccacciu; ve l’arecconto kkuscì alla bbona, komme se usa allu paese meiu ». Eccole nel dialetto di Arsoli : « mo vve olio rekordà na faràbbula de velie ke rekordava sur Giu-vanni Bbokkacciu, ma cce metto poko e ve la icérraio (dicerò = dirò) ssuci alla bbona komme kustumemo nuiari (noialtri). E nel dialetto di Subiaco: «kuanno nuiari aremmo piccirilli de verno akkanto allu foko, ntremente mamma stea a kkoce l’erbe ella pizza de raniturku, la bon alema de tata ci rakkontea tante bbelle fraule ; na sera ci rakkontà kesta ka ittu l’era liggiuta a nnu libbiru antiku de nu omo ke sse ciamea Bbokkacciu ».

    Il lettore potrà giudicare da sè le molto notevoli diversità.

    Resterebbe da dire qualche cosa sul dialetto così detto ciociaro, che del resto presenta anch’esso notevoli varietà difficili — credo — a coordinarsi in uno schema comune. Tra i meglio studiati sono i dialetti di Alatri, di Veroli, di Castro dei Volsci e di Amaseno.

    Del dialetto di Veroli possono dare un’idea queste strofette di un canto popolare religioso, intitolato Lu mantu de la Madonna, ispirato alla credenza che il mantello della Madonna protegga i fedeli, anche se peccatori, dall’ira divina.

    « C’è mminuto Ggesù Kristo. i ss’e zdegnato fra dde noi ».

    La Sua Madre l’ha pregato pe llu letto ke ccia dato:

    « Filio mio karissimo perdona a li pekkatore ka nzanno ke sse fa ».

    « Mamma mia karissima nei pozzo perduna ka so ppikkadi dii’ ani

    i mme kuminceu abbiastimà ».

    No ffrate e nno ssurelle nisciuno bene se vo’ no kkumpare i nno kkummare

    Del dialetto di Amaseno riportiamo questo stornello : « A cquesto vicoletto c’è nna stella — nessuno ce la prince eh’è Ila sua — C’è nna donna cu gliu petto bbjanco

    — in patto gli porti lu pomo d’argento — chi la tocca ci aresta sante — e cchi la bbacia ci arestà contènte ».

    Ecco una bella canzonetta di Castro dei Volsci.

    « Quattre suspir’ aglie mi’ amore ce mande come quattro fidel’ ambasciatore.

    Un’alla porta glie farò abbussare n’ante gli farò métte nginucchione un’alla recchia glie farò pparlare n’ante ce cuntarà la mia passione.

    Tutt’i cquattro glie farò ggridare.

    Ggiustizia, ggiustizia d’amore ».

    Riportiamo ora alcuni proverbi, molti dei quali sono del resto comuni, sia pure con varianti, ad altre regioni.

    A gratisse, nun lo sai, vór di ’a ufagna E picche nicche è ’na parola greca Che vór dì, bello mio, paga chi magna.

    D’Aprile nun t’alleggerì De Maggio vacce adacio De Giugno bbutta via er cuticugno.

    Sant’Antonio de la gran freddura San Lorenzo de la gran cardura L’uno e l’antro poco dura.

    Se Monte Cavo se mette il cappello Vendi le capre e fatti il mantello Se Monte Cavo se mette le brache Vendi il mantello e fatte le capre.

    (il cappello è la nebbia alta, le brache la nebbia bassa).

    Chi vuo’ conoscer la gente balzana Vada a Oriolo, Cisterna e Manziana.

    Se nnen pjove tra mmarz’ i abbrile

    Vinne la vakka ku ttutte le fire. (Castro dei Volsci).

    Chiudiamo, infine, con altri proverbi e detti della zona di Minturno, che riguardano la vita agricola:

    Quannò tozzola, ‘nponta fiumu Piglia gli vóve e va’ faticà;

    Quannò tozzola a Reento,

    Piglia gli vóve e mittigli dento (i).

    (i) Quando il vento batte alla foce del Garigliano (cioè da sudest) prendi i buoi e va a lavorare; quando batte al Monte d’Àrgento (cioè da sud), prendi i buoi e mettili dentro.

    Chi vo’ fa’ gliu musto — zappa la vigna d’austu.

    Natale asciuttu e Pasca temperata Viatu chigliu campére ch’à semmenatu.

    Nu vacu de rauriniu — Nu tuturu tantu! (i).

    Artigianato

    Delle attività artigiane tradizionali poco rimane nel Lazio e scarsi elementi si rilevano anche da vecchie opere. Forse la più importante è quella della ceramica, che sussiste ancora in alcune località della Tuscia Romana, non, a quanto sembra, come sopravvivenza, ma piuttosto come reviviscenza dell’arte etrusca; ma essa tende ad industrializzarsi, come avviene a Civita Castellana — che ne è il maggiore centro — e a Vasanello dove la rinascita è recente.

    In più luoghi della Ciociaria, a Palestrina, ecc. si fabbricano oggetti di rame, come catini, ma specialmente le caratteristiche anfore panciute e dalla larga bocca che le donne portano sulla testa, appoggiate spesso ad un cercine di stoffa (volgarmente crolla); anche questa — vogliamo dire l’anfora — è un elemento folkloristico, che risale ad epoca antica e perdura dove l’acqua si attinge a sorgenti o fontane lontane dalle abitazioni. E questa abitudine spiegava a Goethe il maestoso incedere delle donne dei Castelli Romani. Spesso le anfore sono anche martellate con graziosi disegni.

    In alcuni paesi del Reatino si fabbricano oggetti di legno, ma per lo più d’uso comune e privi di senso artistico; e lo stesso può dirsi delle terraglie e degli oggetti di coccio (Sant’Oreste), tutte piccole botteghe artigianali sommerse ormai dalla produzione di officine di centri industriali. In più luoghi si fabbricano ancora figurine in gesso colorato per presepi, lucerne a olio in maiolica colorata; ad Arpino vasi da vino pure in maiolica e catini o scodelle con fondo dipinto e spesso con la scritta di un motto arguto (« ti darò un bacio appena mangiato »).

    Nel Museo delle Arti e Tradizioni Popolari (in Roma) si possono vedere esempi dei bei tappeti di lana variopinti, di autentico gusto artistico, un tempo lavorati in vari centri del Lazio. Oggi solo ad Amatrice e nei vicini paesi — a confine con l’Abruzzo — si trovano ancora, ma sempre più rari, telai a mano che tramano ed ordiscono tappeti con motivi simmetrici ed arcaici, a due o più colori; presenti pure ad Atina e Pontecorvo, dove hanno maggiore interesse con stoffe adatte ai ricordati costumi locali.