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Il governo borbonico

    Il governo borbonico

    Con Carlo III iniziò un’era nuova per il regno di Napoli, il quale riacquistò la sua indipendenza, avviandosi verso il rinnovamento sociale ed economico. Il re attuò una serie di grandiose opere nella capitale e nei dintorni, le quali, pur se ini-

    ziate per soddisfare i gusti e i bisogni del sovrano, contribuirono ad abbellire Napoli, che già era una delle città più ammirate del mondo per i suoi monumenti, e a valorizzarne i dintorni, dove sorsero bellissimi palazzi reali con parchi annessi (Caserta, Capodimonte, Pòrtici) e numerose case signorili.

    Infatti le iniziative del re ebbero il merito di spronare i nobili, gli alti funzionari del regno e i ricchi professionisti e commercianti a costruire anch’essi delle residenze fuori della capitale: tutta la parte salubre delle terre che circondano il Golfo Partenopeo si arricchì di ville e di palazzi padronali, che sono una testimonianza tuttora delle grandi mete raggiunte dall’architettura nella nostra regione.

    « I ricchi signori trascinati da questa foga ampliavano e abbellivano i loro palazzi, la pietà dei cittadini innalzava nuove chiese, e sulla riviera di levante, fra Portici e Torre del Greco, sorgevano a decine quelle magnifiche ville, che seppero mirabilmente fondersi col paesaggio in una perfetta armonia di linee, di proporzione, di colore » (Chierici).

    Non si possono, tuttavia, passare sotto silenzio le opere di pubblica utilità, come la sistemazione del porto e la costruzione di ponti e di strade. Esse provano un miglioramento delle condizioni del regno, dovuto ad una più saggia amministrazione e all’eliminazione dei tributi straordinari. E intanto si faceva sempre più strada nei cittadini la consapevolezza di essere ormai liberi dallo straniero, di avere una patria e di dover fare da sè.

    Le idee di pochi scrittori, tra i quali in primo luogo il Genovesi, diventano patrimonio di molti, sudditi e governanti. Si comincia a pensare alla difesa dello Stato,

    a mal tollerare i privilegi, a reagire con fermezza allo strapotere del clero, a sollevare le sorti della nostra economia. Che se fu soprattutto lo spirito dei tempi a portare alla realizzazione di tante opere, piuttosto che la coscienza del re e dei suoi ministri di attuare un ambizioso programma di sviluppo, vada ad essi il merito di aver assecondato con le loro iniziative il processo di rinnovamento e di aver accolto le idee nuove che provenivano dai paesi più evoluti di Europa! Le arti e le lettere fecero dei progressi molto considerevoli e destarono l’ammirazione dei dotti stranieri, che cominciarono ad affluire numerosi a Napoli e dintorni.

    Quando Carlo passò sul trono di Spagna (1759), a compiervi altre egrege cose, gli successe il figlio Ferdinando IV, il quale continuò le opere intraprese dal padre e altre ne iniziò. Tra queste si possono ricordare la sistemazione dei giardini pubblici di Chiaia e la bonifica del lago Fusaro, dove fu costruito un casino reale (1782). Il re fece sorgere importanti manifatture della seta a San Lèucio (1789), dove si proponeva di fondare una città che si sarebbe dovuta chiamare Ferdinandòpoli ; creò vari parchi nella piana di Venafro, a Bovino e a Persano, e fece costruire comode strade di accesso ai siti reali. Considerevole è anche il casino reale del Collerini, sorto nel 1787 nella tenuta di Carditello, a nord del Volturno, ora semiabbandonato e ruinante.

    clero. E in queste iniziative il governo fu confortato dalle nuove correnti di pensiero, che trovarono a Napoli illustri sostenitori (Genovesi, Pagano, Cirillo, Galanti, ecc.). I Gesuiti furono espulsi dal regno (1768) e una parte delle rendite dei beni incamerati servirono per sostenere l’Albergo dei Poveri e per favorire altre iniziative d’interesse sociale. Nel 1788 il re non riconobbe il vassallaggio del suo Stato alla Chiesa e rifiutò l’omaggio annuale per tale investitura, che durava dal 1264.

    Vedi Anche:  Forme di attivita economica, utilizzazione delle risorse del suolo

     

     

     

    La resistenza del clero e dei baroni alle nuove idee e ai provvedimenti governativi fu molto vivace, ma non valse a conservare le loro posizioni, che si andavano a mano a mano indebolendo con la perdita graduale di molti diritti e che erano destinate ad essere presto scardinate. Pur essendo stata notevole l’evoluzione sociale nella seconda metà del ‘700, tuttavia le condizioni di estesissime aree del Mezzogiorno e della Campania rimanevano molto precarie. I lavoratori della terra avevano scarsi vantaggi e molti vivevano in ricoveri di fortuna (grotte, capanne, tuguri) e nel più grave disagio: interi centri erano costituiti di capanne e i loro abitanti non avevano possibilità di costruirsi una casa (San Gennaro Vesuviano con 2000 abitanti). Il Galanti descrive con grande efficacia le condizioni delle nostre province alla fine del secolo XVIII, ne analizza le cause dei mali e suggerisce le riforme da attuare.

    La Rivoluzione francese ebbe ripercussioni anche nel Napoletano, in quanto Ferdinando aderì alla coalizione antifrancese promossa dall’Inghilterra e inviò a Roma un esercito che ebbe ragione delle poche truppe dello Championnet, ma questi, ricevuti successivamente i rinforzi necessari, attaccò il regno, mentre il re si rifugiava in Sicilia. La via per Napoli era aperta dopo la caduta di Capua: un’insurrezione popolare fu presto domata e fu proclamata la Repubblica Partenopea (1799). La reazione non tardò molto e trovò il popolo di Napoli pronto ad appoggiarla, mentre la flotta di Nelson poneva le ancore nel porto. I repubblicani si arresero, ma i vincitori, violando i patti, ne mandarono al patibolo i più autorevoli rappresentanti: Francesco Caracciolo, Mario Pagano, Domenico Cirillo, Francesco Conforti, Ettore Carafa, Eleonora Pimentel Fonseca ed altri.

    Napoli Giuseppe Bonaparte (1806), cui successe il Murat nel 1808, il Mezzogiorno godè un periodo di pace fino alla restaurazione borbonica (1815), fu riorganizzato amministrativamente e vide attuarsi alcune riforme sociali che la classe dotta sentiva da tempo.

     

     

     

    Parecchi ordini religiosi e loro affiliazioni furono soppressi con la confisca dei beni, la feudalità fu abolita (1806) e i baroni furono ridotti in condizione di sudditi, sebbene conservassero il diritto di usare e di trasmettere il titolo nobiliare, come prova di appartenenza ad una classe privilegiata. Questo titolo, invero, sarebbe stato da considerare in molti casi di demerito piuttosto che di merito, per aver gli appartenenti a tale classe ritardato lo sviluppo politico, economico e sociale delle nostre regioni e per aver costretto a vivere in condizioni miserevoli i loro sudditi.

    Sono del periodo francese la fusione di varie accademie nella Società Reale, la creazione dell’Orto Botanico, dell’Osservatorio Astronomico e del Conservatorio Musicale di San Pietro a Maiella, la fusione di vari istituti bancari nel Banco delle Due Sicilie (1810), che nel 1863 sarà riconosciuto come ente pubblico, acquisterà indipendenza rispetto al governo ed assumerà il nome di Banco di Napoli.

    La restaurazione riportò sul trono il vecchio sovrano, che assunse il nome di Ferdinando I delle Due Sicilie, il quale, malgrado le pressioni della nobiltà e del clero per riottenere i privilegi perduti, mantenne molte delle leggi precedenti e annullò solo una piccola parte delle confische.

    Vedi Anche:  La zona di media intensità colturale

    Napoli risentì per tempo i benefici delle nuove invenzioni. La città fu provvista del telegrafo già sotto i Francesi e fu collegata per ferrovia con Pòrtici nel 1839, che fu la prima linea costruita in Italia, e con Caserta nel 1843; la sua flotta fu dotata nel 1818 di una delle prime navi a vapore che appartenessero aStati italiani.

    Il governo borbonico, però, si andò alienando la simpatia della maggior parte dei sudditi, sia per le incertezze nella politica interna, sia con i provvedimenti di politica economica, sia per l’incapacità dei sovrani (Francesco I, 1825-30; Ferdinando II, 1830-59; Francesco II, 1859-60). I moti scoppiarono in varie parti de] regno, ed in particolare nel 1820 a Nola e nel 1848 su più vasta scala, sia per ottenere la concessione della costituzione, presto ritirata, sia per lo scontento delle classi contadine, specie nel Cilento, sia per qualche tentativo di far insorgere il popolo come quello attuato da Carlo Pisacane, conclusosi tragicamente nella conca di Sanza nel 1857, Poco dopo lo sbarco a Sapri.

    Dopo la restaurazione, il regno attraversò un periodo di risveglio industriale e di trasformazione agraria, che si accentuò con l’applicazione di una politica protezionistica (1823-24) da parte del governo, in ciò seguendo i criteri adottati da altri paesi d’Europa. Le industrie tessili scelsero Napoli, Salerno, Scafati, Caserta, Pie-dimonte d’Alife, e altri centri minori; quelle meccaniche e metallurgiche si svilupparono lungo le sponde del Golfo di Napoli e bastarono al fabbisogno interno ; quelle della carta furono incoraggiate a Sarno, ad Amalfi ed altrove. Furono accolte le idee degli economisti del ‘700, i quali pensavano che l’unica grande risorsa delle nostre regioni fosse l’agricoltura e che l’industria dovesse svilupparsi come sussidiaria di quella. Ciò ebbe conseguenze dannose per la nostra economia, perchè il protezionismo a lungo andare sacrificò l’agricoltura con l’applicazione di forti tributi, di dazi sui prodotti di esportazione a vantaggio dei pochi industriali. Col diffondersi del Romanticismo e con il miglioramento delle vie e dei mezzi di comunicazione si incrementò il movimento dei forestieri verso Napoli e dintorni e si iniziò la valorizzazione turistica dell’arco partenopeo, delle costiere di Sorrento e di Amalfi e delle isole.

    Le condizioni degli operai erano disagiate e forse peggiori di quelle della maggior parte dei contadini: soprattutto su operai e contadini pesava il forte aumento dei prezzi dettato dalle leggi protezionistiche e dai tributi indiretti. « La politica economica del governo sembrava volesse ribadire le sofferenze delle categorie più maltrattate dei sudditi » (Demarco). Inoltre la terra, già sottratta agli enti ecclesiastici e ai baroni, era ritornata in parte nelle loro mani o era passata in quelle della nuova borghesia dei professionisti, degli industriali e dei commercianti, i quali erano ugualmente inesperti di agricoltura, ma più vigili e spesso più esigenti verso i contadini. La feudalità abolita come istituzione giuridica, imperava come sistema economico e sociale, tanto che molti piccoli proprietari dovettero cedere a vii prezzo le loro terre e si degradarono a coloni o braccianti.

    I mendicanti, per lo più privi di un tetto, formarono delle schiere sempre più numerose nelle città e nelle campagne, erano ricoperti di cenci e si cibavano spesso di erbe, di ghiande arrostite e di radici. La popolazione intanto aumentava fortemente, di oltre un quarto tra il 1816 e il 1861, senza che vi fosse stato un proporzionale risveglio edilizio, e si addensava in squallidi quartieri urbani o nei centri di campagna. Le micidiali epidemie coleriche del 1836-37 e del 1854-55, a Napoli, ed altre gravi malattie sono conseguenze di tal modo di abitare della popolazione. D’altra parte i dazi sul pane, che era la base dell’alimentazione delle classi umili, se procuravano cospicue entrate al governo, accrescevano i disagi del popolo.

    Vedi Anche:  Le solennità religiose

    Nelle campagne le masse contadine cercavano nuove terre da coltivare e distruggevano boschi, dissodavano aree pascolative e diffondevano i cereali; ma la terra si esauriva presto per scarsezza di concimazioni e per la mancata applicazione di razionali rotazioni.

    I demani furono in molti luoghi invasi e sottoposti ad una « agricoltura di rapina », ma il rapido depauperamento del suolo ne consigliava presto l’abbandono. Si accentuavano così l’erosione superficiale e il disordine idraulico su molte zone collinari.

    osamente » (Demarco). Ciò avviene nel 1848: gli operai si sollevano per i salari bassi — mentre gli industriali si arricchiscono — e attribuiscono la crisi all’impiego delle macchine; la grande massa dei contadini dà preoccupanti segni di irrequietezza. I possidenti si organizzano e sollecitano un’azione repressiva, la quale fu spietata, ma valse sempre più a staccare il popolo dal sovrano. Operai e contadini, raccolti al sordo richiamo delle tofe (grosse conchiglie marine, trasformate in strumenti a fiato), insorgono nei centri (Napoli, Cava, Nocera, Salerno) come nelle campagne. La guardia governativa è in molti casi impotente, in altri si astiene dall’intervento, oppure viene scacciata dai suoi presidi. La popolazione della provincia di Salerno, che aveva registrato un fortissimo aumento e aveva le terre pianeggianti invase dall’acquitrino e infette dalla malaria, mentre quelle collinari erano poco fertili e interessate dal latifondo, dà i più gravi segni d’insofferenza.

    I contadini devastano i boschi comunali dei Picentini e invadono le terre demaniali dell’Alburno e del Cilento e si dividono di propria iniziativa e con atti notarili un grande bosco a Sanza. Nel Cilento si formano sètte antisociali, che mettono tutto a sacco, quando il suono delle tofe riecheggia di montagna in montagna. La sètta egualitaria, la Fratellanza, esalta i turbolenti e i diseredati a Novi Velia, ad Olèvano e altrove e diffonde teorie comunistiche. A Sassano, invece, i contadini danno origine nel 1860 ad un’associazione clandestina con lo scopo di migliorare le loro condizioni. Il popolo non crede nell’utilità delle rivolte e non sostiene quella di Pisacane, non ha fiducia nella giustizia della classe dirigente e dei possidenti, che solo si preoccupano dei privilegi acquisiti e delle ricchezze accumulate.

    Questo è l’ambiente economico e sociale alla metà del secolo scorso nella nostra regione, tormentata da problemi molto gravi, anche se più urgenti in alcune sue parti. Il solco tra il sovrano, il popolo e la classe colta è ormai profondo; e per di più si fa strada in molti una coscienza italiana che vede nell’unificazione d’Italia il modo migliore per risolvere le questioni regionali. Basta una spinta dall’esterno per far crollare l’edificio politico del vecchio regno; ma occorreranno parecchi decenni per avviare a soluzione i gravi problemi economici e sociali lasciati in eredità da quel governo e sorti in conseguenza dell’integrazione del Mezzogiorno con gli altri organismi politici della Penisola nel nuovo Stato italiano.