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La flora e la fauna

    Il paesaggio vegetale e la fauna

    I vari aspetti della vegetazione toscana

    A rendere più vario il paesaggio toscano contribuiscono i diversi aspetti della vegetazione, che ne fanno una delle regioni italiane più interessanti dal punto di vista botanico. Dai dolci litorali versiliesi o grossetani alle aspre giogaie delle Alpi Apuane, dalle scogliere dell’Elba alle severe foreste dell’Abetone o di Camaldoli, dai canneti dei « paduli » del Valdarno Inferiore ai querceti del Chianti, la vegetazione toscana ci mostra innumerevoli contrastanti aspetti che colpiscono anche l’osservatore più superficiale. Un loro esame accurato ci porterebbe molto lontano: ci limiteremo perciò ad illustrare le principali forme del paesaggio vegetale spontaneo, procedendo in senso altitudinale, cioè descrivendo dapprima la vegetazione costiera e via via fino ai pascoli delle più elevate cime appenniniche.

    La Toscana partecipa di due mondi vegetali diversi: quello delle Alpi e quello del Mediterraneo. La flora mediterranea, caratteristica dei territori che limitano il mare omonimo, trova, in Toscana, la sua massima espressione nelle regioni costiere; e tuttavia si spinge talora profondamente verso l’interno, raggiungendo la conca di Firenze, il Valdarno Superiore, le colline senesi, ecc., sia pure con manifestazioni non strettamente tipiche. Le sugherete della Maremma, la « macchia » e le pinete dei dintorni di Firenze, ecc., sono, oltre alla fascia costiera, espressioni di questo tipo di vegetazione.

    Viceversa la fascia appenninica, per la sua maggiore altitudine e per il suo clima più umido e più rigido, mostra una vegetazione che, pur essendo in gran parte tipica deill’Appennino, possiede numerosi elementi dei boschi e dei pascoli delle Alpi e della regione centro-europea. Si osservano così numerose genziane, sassifraghe, primule, rododendri (il rododendro ferrugineo) che raggiungono in questi territori il loro limite meridionale di diffusione; ed altre piante che si spingono ancora più a sud, come la silene acaule (Silene acaulis), la driade o camedrio alpino (Dryas octo-petala), ecc.

    Litorale sabbioso di Castiglione della Pescaja.

    Nel considerare la distribuzione altitudinale della vegetazione, i geografi botanici usano distinguere dei « piani » di vegetazione, suddivisi in « orizzonti ». Ecco come questi si succedono in Toscana dal mare alle cime montane:

    1. orizzonte litoraneo: comprende la fascia costiera della parte peninsulare e delle isole dell’Arcipelago Toscano ed è formato praticamente dalla vegetazione dei litorali pianeggianti o degli scogli (e in questo caso può spingersi fino a pochi metri di altitudine);
    2. orizzonte mediterraneo: comprende la vegetazione immediatamente retrostante alla costa, che si spinge fino a 300-400 metri di altitudine, ed è costituito tipicamente dalla « macchia mediterranea » e dai boschi cosiddetti mediterranei ;
    3. orizzonte submontano : occupa la fascia altitudinale superiore da 200-400 metri fino a circa 900 metri, ed è formato dai boschi di alberi a foglia caduca (escluso il faggio), cioè dai querceti e dai castagneti;
    4. orizzonte montano inferiore: si spinge da 900-1000 metri fino a 1700 metri circa, ed è costituito dalle foreste montane (faggete ed abetine);
    5. orizzonte montano superiore: comprende le «praterie pseudo-alpine», cioè i pascoli di altitudine al di sopra dei 1700 metri fino alle vette.

    Oltre a questi « orizzonti » altitudinali di vegetazione, vi sono poi altri ambienti molto caratteristici, che si ritrovano più o meno alle diverse altitudini: ci riferiamo alla vegetazione dei luoghi umidi (laghi, paludi, fiumi), alla vegetazione delle rocce ed a quella delle zone modificate dall’uomo (colture, abitati, ecc.).

    La vegetazione della fascia costiera

    Il litorale toscano, come già si è detto, si presenta prevalentemente sotto forma di spiaggia sabbiosa e in poche zone (Quercianella, Talamone, Argentario, l’Arcipelago) con l’aspetto di costa rocciosa. La vegetazione degli scogli litoranei è sempre molto discontinua e costituita da poche piante che si spingono sulle rocce alla ricerca del poco terreno loro necessario. Più abbondante e caratteristico è invece il manto vegetale delle coste basse, cui segue nell’entroterra una fascia più o meno pianeggiante, costituita spesso da dolcissime dune ad andamento parallelo alla linea costiera.

    Dune colonizzate da Juniperus macrocarpa a Cècina.

    La vegetazione della spiaggia è ormai in gran parte alterata dall’intervento dell’uomo, che ha distrutto gran parte di quello che era il manto vegetale spontaneo. Nelle poche zone dove esso è rimasto inalterato si presenta formato dalle tipiche piante « psammofile » (cioè di sabbia) : il convolvolo delle sabbie (Calystegia soldanella), l’erba medica marina (Medicago marina), l’eringio marittimo dalle foglie spinose (Eryngium maritimum), il candido gnafalio marittimo (Otanthus candidissima), il papavero giallo (Glaucium flavum), euforbie, graminacee, il bellissimo mesembrian-temo dalle foglie carnose e dai grandi fiori gialli e rosa (Mesembryanthemum acina-ciforme), ecc., e, nei punti in cui la spiaggia è più ondulata o sulle prime dune costiere, i ginepri marittimi (Juniperus phoenicea, J. macrocarpa).

    Nei luoghi dove, per l’azione del mare, si accumulano depositi salini (spiagge e paludi litoranee salmastre) abbondano le piante a foglie carnose, tipiche di questi ambienti : primeggiano fra di esse le chenopodiacee e le salsolacee (Salicornia, Suaeda, Saisola, ecc.), dal portamento molto caratteristico.

    La macchia e i boschi mediterranei

    Spingendosi verso l’interno, la vegetazione cambia in breve spazio. Basta osservare le pianure costiere o salire sulle prime colline della Versilia, sopra Castiglion-cello, nella Maremma per rendersi conto del grande sviluppo che prende la cosiddetta « vegetazione mediterranea ». La più tipica espressione di questa vegetazione è la « macchia » (nella Maremma chiamata « forteto »), che è una specie di boscaglia a prevalenza di arbusti od alberetti di pochi metri di altezza, dove predominano le piante odorose od aromatiche: il corbezzolo (Arbutus unedo), il lentisco (Pistacia lentiscus), l’erica (Erica arborea), il mirto (.Myrtus communis), il lillatro (.Phillyrea sp. pi.), le brèntine o cisti (Cistus salvifolius, C. monspeliensis, ecc.), ed ancora il rosmarino, la lavanda (Lavandaia stoechas), ecc. La macchia, diffusa prevalentemente sulle colline costiere, si spinge poi all’interno, specialmente nella valle dell’Arno: basti pensare alle colline di Monsummano, al Monte Albano, alle colline intorno a Firenze per rendersi conto dei multiformi aspetti della macchia mediterranea.

    Mentre presso il mare la macchia si presenta nelle forme più caratteristiche, verso l’interno (e talora anche sulla costa) può modificarsi per la comparsa di alberi, non molto elevati, ma tipici di queste formazioni. Così il leccio si mescola spesso alla macchia, così pure, sulle rocce calcaree costiere, il pino d’Aleppo (Pinus halepensis), dal tronco contorto e dalla corteccia in alto argentea (come presso Quercianella), o più frequentemente il pino marittimo (Pinus pinaster), che sui monti pisani, sulle colline pesciatine e su quelle fiorentine costituisce uno degli alberi più caratteristici, con la sua chioma verde scura ed il tronco quasi nero.

    Macchia degradata in Maremma.

    Le pinete mediterranee hanno tuttavia la loro più caratteristica espressione nelle pinete di pino domestico o pino da pinoli (Pinus pinea). Questi boschi occupano una fascia immediatamente retrostante alla costa, che una volta doveva costituire una striscia parallela alla spiaggia dalla Bocca di Magra fin sotto il Monte Argentario, interrotta solo dalle poche zone rocciose. Questa fascia era coperta un tempo da imponenti foreste di pino domestico, delle quali restano maestosi testimoni nei lembi che prendono il nome di « tomboli ». Basti pensare al tombolo di Migliarino (Pisa), alla pineta di Tombolo presso Livorno, ai tomboli di Cècina, di Grosseto e di Feniglia (Orbetello) per rendersi conto della bellezza e della maestosità che devono aver mostrato queste stupende foreste costiere.

    Queste pinete però non sono probabilmente originarie. E opinione generale che il pino domestico sia stato introdotto in epoca molto antica daH’uomo e si sia sviluppato ed ambientato perfettamente, mescolandosi agli alberi ed agli arbusti che formavano la foresta originaria e prendendo il sopravvento su di essi. La foresta primitiva doveva infatti essere costituita prevalentemente dal pino marittimo e dalla farnia (Quercus pedunculata), la maestosa quercia a foglia caduca, che essendo caratteristica dei luoghi più freschi, è gradatamente scomparsa lasciando poche tracce, come nella Selva Pisana a San Rossore. La pineta di San Rossore, posta fra le foci del Serchio e dell’Arno, rappresenta appunto un magnifico esempio di un’antichissima foresta costiera di pianura, che con poche modificazioni si è mantenuta fino ai tempi nostri.

    Bassa macchia a rosmarino e pineta litoranea a Castiglione della Pescaja (Grosseto).

    Le restanti foreste costiere sono rappresentate invece dalle tipiche pinete di pino domestico: fra di esse merita di essere citata, in primo luogo, la pineta di Migliarino, dove sotto il pino domestico e il pino marittimo crescono alberetti, arbusti, cespugli a formare un denso e intricato consorzio, talora non agevole a percorrersi, dove predominano il leccio, il ginestrone (Ulex europaeus) e gli elementi della macchia. Un altro splendido esempio è rappresentato dalla pineta di Tirrenia (fra Marina di Pisa e Livorno), nella quale vegeta una curiosa liana, la periploca (.Periploca graeca), raro esempio di pianta subtropicale una volta diffusa nelle foreste costiere ed ora quasi completamente scomparsa.

    A nord di Migliarino e a sud di Livorno le pinete sono ridotte a ben poca cosa (Marina di Massa, Viareggio, Cècina, Follonica, Orbetello, ecc.); si tratta ormai in gran parte di pinete dove l’uomo è intervenuto con tagli, rinnovazioni, sfruttamento del legno, della resina, dei pinoli, per cui si presentano ben diverse da come dovevano essere alcuni secoli fa.

    Oltre alle pinete, si possono osservare nell’orizzonte mediterraneo due esempi di foresta di querce sempreverdi: la lecceta e la sughereta. I boschi di leccio difficilmente sono puri; più spesso sono mescolati agli elementi della macchia, e così si possono osservare in alcune zone interne della valle della Magra, del Serchio e sulle colline della Maremma, ove si spingono in alto fin quasi a mille metri, mescolandosi alle querce caducifoglie. Nelle parti più basse della Maremma stessa è caratteristica invece la quercia da sughero, che per il suo portamento a tronco tozzo e chioma ampia e rotondeggiante, per il tipico colore bruno-arancio della corteccia desughe-rata, presenta un aspetto inconfondibile e facilmente identificabile anche da un osservatore superficiale. Chi percorra la via Aurelia o la ferrovia da Cècina a Roma può osservare facilmente la pianura maremmana leggermente ondulata, dove enormi alberi di sughero si distribuiscono qua e là imponenti e maestosi per il loro portamento ed il fogliame scuro anche in pieno inverno.

    Pineta di Follonica

    La pineta di Camaiore.

    I querceti caducifogli ed i castagneti

    L’orizzonte submontano è occupato in Toscana dai querceti a foglia caduca e dai castagneti. Questi boschi si spingono da poche diecine di metri (200-300) fin quasi a mille metri, e talora anche più in alto. Nel livello più basso troviamo particolarmente diffusi i querceti di roverella (Quercus pubescens), i cosiddetti « quercioli » che tanta parte prendono nella vegetazione della regione. La zona più caratteristica per la diffusione della roverella è il Chianti: le colline senesi, le valli della Pesa e dell’Elsa, i monti fra il Senese e l’Aretino ed anche le valli dell’Ombrone grossetano sono coperte di questi quercioli che, spesso mescolati al cerro, danno un aspetto molto caratteristico al paesaggio vegetale.

    Durante l’inverno, quando gli altri alberi perdono completamente le foglie, i quercioli, generalmente arbusti od alberetti di pochi metri, seccano le loro foglie, che fino a primavera restano sulla pianta senza cadere. Il sottobosco presenta ancora qualche affinità con quello dell’orizzonte mediterraneo; dominano tuttavia arbusti e bassi cespugli, come ginestre, rovi, ecc., e, nella Toscana settentrionale (alto Chianti ed Appennino), il caratteristico « brugo » (Collima vulgaris), elemento principale delle brughiere dell’Europa atlantica e delle colline subalpine piemontesi e lombarde, che raggiunge in Toscana l’ultimo suo limite. Sulle colline fiorentine, sul Monte Albano, sul Preappennino pistoiese, ecc., la fioritura di questo piccolo cespuglio di poche diecine di centimetri, una specie di erica nana, erompe d’autunno con densi grappoli di fiori rosa, ravvivando le boscaglie ormai riarse dal sole estivo e già pronte al riposo invernale.

    Cipresseta presso Fiesole.

    In questi boschi submontani è spesso mescolato alla roverella il cerro (Quercus cerris), specialmente nei boschi chiantigiani, ma lo si trova di frequente anche sul-l’Appennino, misto al castagno od anche a formare boschi puri (cerrete) fino a 1100-1200 metri.

    Nell’Appennino tuttavia la pianta caratteristica di questo orizzonte è il castagno. Una volta meno abbondante, il castagno ha assunto per opera dell’uomo una diffusione notevolissima ed è venuto ad occupare nel volgere dei secoli un’area certamente superiore a quella che copriva in origine. Sporadico nella Toscana centrale e meridionale (lo si osserva qua e là nelle Colline Metallifere e, più frequente, sul Monte Amiata), il castagno forma sull’Appennino dal Passo della Cisa fino all’alta vai Tiberina una fascia quasi continua fra 400 e 900-1000 metri. I castagneti toscani sono anzi fra i più tipici esempi di questi boschi per l’Appennino ed allietano con la loro ombra luminosa, con il loro fogliame verde brillante i numerosi luoghi di villeggiatura delle nostre montagne. La valle del Serchio, l’Appennino Pistoiese, il Casentino, il Pratomagno, il Mugello sono ricchi di castagneti, appunto perchè l’uomo ne ha favorito sempre lo sviluppo e la coltivazione per l’utilizzazione del legno e dei frutti. Si può anzi dire che il diverso scopo con cui il castagno veniva sfruttato ha prodotto la fisionomia del bosco stesso: nel castagneto da frutto gli alberi sono rimasti imponenti, radi a tronchi tozzi e maestosi e con chioma abbondante; dove invece il castagno doveva essere utilizzato per ricavarne pali 0 tronchetti, l’uomo è intervenuto con la ceduazione, cioè tagliando il tronco alla base in modo che dalla ceppaia si sviluppassero numerosi polloni. Quest’ultima è quella forma di castagneto che è comunemente indicata col nome di « paline », appunto per l’utilizzazione che ne vien fatta. Purtroppo gravi malattie minano da alcuni anni l’esistenza dei nostri castagneti: particolarmente il « cancro corticale », fungo terribilmente virulento, il cui attacco provoca in breve il disseccamento e la morte del castagno; nella sola provincia di Lucca dalla guerra ad oggi questa malattia ha ridotto quasi a metà i castagneti distruggendone più di diciottomila ettari.

    I castagneti del Monte Amiata.

    Le foreste montane

    Oltre i 900-1000 metri si sviluppano le foreste montane, cioè essenzialmente le faggete e le abetine. La maggiore estensione di questi boschi si ha sulla catena appenninica, dove al di sopra del castagno si trova il faggio e, in alcune zone, l’abete; sul Monte Amiata. la cui vetta raggiunge i 1734 metri, il faggio occupa tutto l’orizzonte superiore fino alla cima. Verso il livello inferiore difficilmente il faggio si abbassa al di sotto dei 900 metri; tuttavia lo si può osservare eccezionalmente in alcune zone interne fino a 400 ed anche a 300 metri, però sempre sotto forma di piante isolate.

    Il faggio nell’Appennino Toscano si spinge fino a circa 1700 metri e prevalentemente si presenta sotto forma di faggete cedue; sotto questo aspetto lo si può osservare nell’alta Lunigiana, in Garfagnana, sui monti dell’Appennino Pistoiese, nell’alto Mugello, sul Monte Falterona, ecc. Rare sono invece le faggete d’alto fusto, in cui cioè il faggio ha un portamento arboreo, con tronco alto e grosso, e raggiunge i trenta metri ed oltre di altezza; esse sono generalmente limitate ad alcune valli interne, isolate o riparate (dove l’intervento dell’uomo è giunto molto tardi), ed hanno potuto mantenersi sotto quella forma per l’azione dell’Azienda forestale che ne ha impedito la trasformazione.

    Vallombrosa : faggeta.

    Fra i migliori esempi di faggete d’alto fusto si possono citare le foreste della valle del Sestaione nell’alta vai di Lima (Pistoia), del Teso (Pistoia), alcune faggete del Pratomagno (Vallombrosa), ecc. Come i castagneti sono luminosi e popolati di erbe vivaci ed eliofile e talora di piccoli cespugli, così le faggete sono ombrose e, particolarmente quelle d’alto fusto, dense e ricche di piante sciafile. La maestosità di una faggeta d’alto fusto con i grossi tronchi diritti e colonnari a corteccia grigiastra e coperta di licheni, col sottobosco ricco e sovente coperto di uno spesso feltro di foglie cadute, provoca ammirazione ed incute rispetto non solo al botanico ma anche al turista.

    Foresta di conifere all’Abetone.

    Talora mescolati al faggio possono esservi altri alberi, come tigli, aceri, carpini, tremoli e, più frequentemente, abeti. L’abete bianco (Abies alba) occupa più o meno lo stesso livello altitudinale del faggio e, si suol dire, compete con esso nelle foreste montane appenniniche. La distribuzione dell’abete è andata certamente soggetta a molte oscillazioni, perchè l’uomo ha distrutto gli alberi per utilizzarne i prodotti e li ha talora ripristinati con rimboschimenti artificiali. Per questa ragione ben poco resta della situazione originaria delle abetine toscane. I più begli esempi si hanno in Toscana al Passo dell’Abetone, a Vallombrosa, a Camaldoli e alla Verna. Si tratta di bellissime foreste pure di abete (talora mescolato al faggio), in cui questo magnifico albero raggiunge la sua più tipica espressione di vigoria e di perfezione. Chiunque avrà visitato l’Abetone o Camaldoli sarà rimasto colpito dalle mirabili architetture regolari di questi boschi, dal silenzio e dalla pace che essi racchiudono, simbolo di vetustà e di perfezione della natura.

    I pascoli appenninici

    Siamo giunti nella nostra descrizione alle fasce più elevate dei monti toscani. Come è stato detto più sopra, spesso le foreste (e precisamente le faggete) giungono fino alle vette delle montagne: basti pensare al Monte Amiata, al Pratomagno, al Falterona in cui la faggeta si spinge fin oltre 1700 metri. Al di sopra di questa altitudine gli alberi si riducono, divengono bassi e contorti, talora prostrati, e poco più sopra scompaiono del tutto. E noto che sulle Alpi al di sopra dei boschi la vegetazione è costituita da arbusti prostrati, come rododendri, mirtilli, salici nani, l’uva orsina, l’azalea nana, ecc. (la cosiddetta brughiera alpina), oltre i quali inizia il pascolo; ciò invece non accade sull’Appennino, dove al limite dei boschi inizia sùbito il pascolo appenninico, popolato qua e là di pochi cespugli (ginepro). Una sola zona dell’Appennino Toscano ricorda molto da vicino le Alpi per la presenza di pochi resti di brughiera alpina: all’Alpe delle Tre Potenze e al Libro Aperto si possono osservare ancora rododendri (Rhododendron ferrugineum), mirtilli ( Vaccinium myrtillus e Vaccinium uliginosum), l’empetro (Empetrum nigrum), ecc., consociati in un caratteristico arbusteto montano, che una volta doveva occupare, oltre che le Alpi, anche le montagne appenniniche, e del quale questi residui sono gli ultimi significativi testimoni.

    Su tutto l’Appennino Toscano le cime montane ed i crinali sono ricoperti invece da un tappeto erbaceo più o meno continuo, costituito da erbe perenni e da pochi arbusti prostrati, che pur avendo molte piante comuni ai pascoli alpini ne differisce per la composizione generale e per l’origine. Per questa ragione si usa parlare più spesso di « praterie pseudo-alpine », volendo intendere con questo termine che l’affinità con le praterie alpine è solo apparente; infatti sull’Appennino settentrionale i pascoli si sarebbero formati perchè il faggio, che potenzialmente ha la possibilità di ricoprire le massime vette, ne sarebbe impedito dall’azione del vento e dalla siccità dell’aria. Le praterie che ne derivano sono facilmente riconoscibili perchè, essendo spesso soggette al pascolo, danno luogo ad una copertura erbacea costituita frequentemente da una tipica graminacea dalle foglie resistentissime, il « palèo » (Nardus strida), che sulle vette apuane e sull’Appennino Pistoiese forma estese praterie di color verde-grigio.

    Alti pascoli appenninici sul versante toscano del Libro Aperto.

    Queste praterie ospitano numerose piante comuni ai pascoli alpini (come genziane, sassifraghe, viole, ecc.) e molte altre esclusive delle montagne appenniniche; fra queste merita di essere citato il sisimbrio di Zanon (Sisymbrium zanonii), una piccola erba che a tarda primavera ricopre qua e là in tappeti continui con i suoi fiori bianchi i pascoli dell’Appennino dal Passo del Cerreto fino al Falterona.

    Terminato cosi l’esame della vegetazione in senso altitudinale, accenneremo ora a quei particolari ambienti che, più o meno a tutte le altitudini, ospitano piante caratteristiche: la vegetazione rupestre, palustre, acquatica, arvense (o campestre) e ruderale (degli abitati, muri, ecc.).

    La vegetazione delle rocce

    Una menzione a parte merita il popolamento vegetale delle zone rupestri, il quale, per i suoi aspetti necessariamente legati all’ambiente peculiare che occupa, presenta una fisionomia del tutto particolare. Occorre anzitutto considerare separatamente, per ovvie ragioni, le rocce costiere, situate presso il mare od anche a basse altitudini, dalle stazioni rupestri montane, caratteristiche dei più elevati gruppi montuosi. Parlando della vegetazione costiera, abbiamo più sopra accennato anche alle rupi litoranee: queste sono coperte da scarsa vegetazione, prevalentemente cespugliosa, della quale è caratteristica l’antillide barba di Giove (Anthyllis barba-jovis), arbusto a foglie argentee e fiori giallo-pallidi, abbondante sul litorale di Calafùria e Quercianella ; fra le erbacee, comuni sono le mattiole, la cineraria marina (Senecio cineraria), il finocchio di mare (Crithmum maritimum), ecc.

    Molto più varia e più interessante è la vegetazione rupestre delle nostre montagne. In questo caso la vegetazione è quasi sempre in rapporto col tipo di substrato roccioso e dove questo cambia spesso anche la copertura vegetale si manifesta con aspetti diversi. Così le calcaree pareti delle Alpi Apuane, i ripidi pendii arenacei dell’Appennino, ecc., presentano piante le più disparate e molto spesso esclusive di queste zone. Specialmente le Alpi Apuane, come vedremo più avanti, sono una zona ricca di piante rupestri, delle quali alcune limitate alla sola catena apuana. Fra le più comuni piante rupestri montane citeremo la draba aizoide (Draba aizoicles), le globularie (Globularia cordifolia e Globularia incanescens), alcune sassifraghe, ecc.

    Un altro aspetto della vegetazione rupestre è rappresentato dalle piante delle rocce serpentinose. Queste rocce, che in Toscana sono abbastanza frequenti (nel Livornese, nel Volterrano, a Monte Ferrato sopra Prato, all’Impruneta, ai Monti Rognosi nell’alta vai Tiberina, qua e là nell’Elba, ecc.), ospitano delle piante estremamente caratteristiche che si sono adattate a quel particolare ambiente geologico, con riduzioni o modificazioni nel loro apparato vegetativo assai simili a quelle delle piante di luoghi aridi. Fra queste piante « serpentinicole » citeremo come esempi l’alisso del Bertoloni (Alyssum bertolonii), l’armeria denticolata (Armeria denticulata), il timo delle serpentine (Thymus striatus, var. ophioliticus), ecc.

    Nella foresta di Vallombrosa.

     

    Cave di Ravaccione da Campocècina.

    La vegetazione acquatica (laghi, paludi, fiumi)

    In Toscana le zone lacustri o paludose non sono molto frequenti, dato il carattere essenzialmente accidentato del paesaggio toscano. I maggiori esempi si hanno in alcuni bacini interni (laghi di Chiusi e di Montepulciano, padule di Fucecchio, lago di Sibolla, ecc.) ed in alcune aree lacustri costiere, verosimilmente residuo di una antica fascia paludosa litoranea (come il lago di Massaciùccoli). Nè bisogna trascurare alcuni piccoli laghetti o torbiere di montagna (come il lago Baccioli e il lago del Greppo nell’alto Appennino Pistoiese), che presentano un interesse particolare, oltre che per la vegetazione che ospitano, anche per il modo come si sono formati i depositi vegetali che costituiscono le torbe.

    La vegetazione palustre o lacustre si presenta costituita per la massima parte da alte erbe (carici, giunchi, graminacee, ecc.), fra le quali predomina la cannuccia di palude (Phragmites communis), comune nelle zone più umide, mentre sulle sponde dei laghi si sviluppa la comune canna (Arundo donax), spesso introdotta dall’uomo; nell’acqua galleggiano, con radici ancorate sul fondo, ninfee, nenufari, potamogeti, ranuncoli d’acqua, ecc.

    Un esempio particolarmente interessante di area palustre è rappresentato dal lago di Sibolla presso Altopascio (Lucca): esso ospita una flora di tipo nordico, forse un residuo di tempi antichi, che sta a dimostrare come nelle epoche passate il clima delle nostre regioni dovesse essere più freddo tanto da permettere lo sviluppo di piante che ora si trovano solo nelle regioni più settentrionali o addirittura artiche. Fra queste piante le più caratteristiche sono gli sfagni, primi componenti della torba, alcune piante insettivore come l’erba vescica (Utricularia vulgaris), l’aldrovanda (.Aldrovanda vesiculosa) e le drosere (es. : Drosera rotundifolia), e ancora gli eriofori, le ninfee, il trifoglio fibrino (Menyanthes trijoliata), ecc.

    La vegetazione riparia dei maggiori fiumi non presenta particolari caratteristiche degne di nota. Come in altre regioni d’Italia, salici e pioppi sono gli alberi più frequenti lungo i corsi d’acqua e formano, nelle zone dove l’uomo ha lasciato intatta la vegetazione, una fitta cortina di alberi ed alberetti le cui fronde, come nei salici, si sporgono fin sull’acqua con pittoresco effetto.

    La vegetazione delle zone antropizzate

    Un aspetto del tutto particolare è rappresentato dalle piante che popolano le regioni ormai profondamente alterate per l’azione diretta dell’uomo, come campi, abitati, ecc. I coltivati ospitano un corteggio di piante spontanee caratteristiche (che prendono il nome di piante arvensi), come il papavero, il gladiolo, la damigella (.Nigella damascena), la camomilla, la fumaria o fumosterno, ecc., che sono più o meno comuni alle altre regioni d’Italia e molte delle quali sono addirittura vere e proprie piante infestanti. Si tratta quasi sempre di piante a vita breve (piante annuali) e spesso insignificanti; fra le più graziose sono forse quelle a fioritura più precoce (cioè inverno-primaverile), come il piè di gallo (Eranthis hiemalis), l’anemone dalle grandi corolle violacee o rosse (Anemone coronaria), lo zafferano a due fiori (Crocus biflorus), e, in maggio, narcisi, fiordalisi, tulipani (il bellissimo tulipano dei campi [Tulipa oculus-solis] dal fiore rosso fuoco con macchie nere bordate di giallo, frequentemente naturalizzato nei campi fiorentini), l’ermodattilo o bellavedova, una specie di piccolo giaggiolo dai vellutati fiori color violaceo fosco (Hermodactylus tuberosus), ecc. E così anche le prode delle strade, i vecchi muri, i lastricati, i tetti, ecc., favoriscono lo sviluppo di una vegetazione esclusiva per questi ambienti, ai quali queste piante si adattano con facilità e nei quali si diffondono rapidamente. Così l’erba vetriola (Parietaria officinalis), l’erba dei muri o felce dorata (Ceterach officinarum), la grassella o erba grassa (Sedurti sp. pi.), ecc., sono comunissime dappertutto sui muri o sulle pareti degli abitati.

    I distretti floristici

    Questo rapido sguardo al paesaggio vegetale toscano ci ha condotto ad esaminarne i vari aspetti secondo una successione altitudinale, dal mare fino ai monti più alti. Tuttavia, come già si è accennato nel corso di questa esposizione, anche nello stesso piano di vegetazione la composizione della flora può variare da un settore all’altro, e in zone diverse si possono trovare piante differenti, che hanno quindi una distribuzione geografica particolare.

    Il monte e la foresta della Verna.

    Si possono quindi riconoscere in Toscana differenti regioni o « distretti floristici », nei quali, pur essendo sempre rispettata quella successione di piani di vegetazione che è stata esposta finora, alcune delle piante che li caratterizzano sono distribuite in un solo distretto. Di particolare interesse per questa suddivisione botanica della Toscana sono le piante «endemiche», cioè quelle la cui distribuzione geografica è limitata esclusivamente ad un’area molto ristretta. Questi « distretti floristici» della Toscana sono essenzialmente sei:

    1. Distretto Appenninico Tosco-Emiliano settentrionale: comprende l’Appennino Tosco-Emiliano dal Passo della Cisa alla valle del Reno ed è caratterizzato da una flora che in molti aspetti ricorda quella delle Alpi. In questa zona infatti molte piante alpine raggiungono il loro limite meridionale di diffusione, come la genziana purpurea (Gentiana purpurea), la cariofillata montana (Sieversia montana), il garofano di Seguier (.Dianthus seguieri), ecc. E qui ancora si osservano residue aree isolate di piante che sulle Alpi sono comuni, come il rododendro ferrugineo, il mirtillo delle paludi e, esempio ben più interessante e clamoroso, l’abete rosso o peccio (Picea excelsa), che diffuso comunemente sulle Alpi fra 900 e 1800-1900 metri e nelle pianure dall’Europa centrale fino alla Siberia in estese foreste, si ritrova sporadico a sud delle Alpi solo in due aree dell’Appennino Tosco-Emiliano, presso il Passo del Cerreto e sotto l’Alpe delle Tre Potenze, ultimi lembi della foresta di abete rosso che un tempo doveva occupare il livello superiore della faggeta, come attualmente sulla catena alpina. Poche le specie endemiche, cioè esclusive di questa zona dell’Appennino: la più caratteristica è la primula appennina (Primula apennina), limitata alle alte montagne appenniniche dai Monti del Parmense al Passo delle Radici.
    2. Distretto Appenninico Tosco-Emiliano meridionale: è costituito dall’Appennino fra la valle del Reno e le Marche (Bocca Trabaria) e presenta altitudini inferiori rispetto alla parte più settentrionale. Mancano specie endemiche di questo distretto; tuttavia cominciano qui ad essere presenti piante comuni all’Appennino centrale e meridionale, come il curioso arisaro codato od arisaro a proboscide (Arisarum pro-boscideum), endemico dell’Appennino centro-meridionale.
    3. Distretto Apuano: comprende le Alpi Apuane ed il Monte Pisano. Si tratta di una zona di estremo interesse per l’abbondanza di specie endemiche e per le rarità floristiche. Le Alpi Apuane contano numerose piante che sono esclusive di quel territorio e del vicino Appennino Lucchese, come la globularia canescente (Globularia incanescens), la frangola a foglie glauche (Rhamnus glaucophylla), ecc., ed altre che sono strettamente endemiche delle Apuane, come il cerastio apuano (Cera-stium apuanum), la santolina verde (Santolina pinnata), la poligaia del Caruel (Poly-gala carueliana), la sesleria di Tuzson (Sesleria tuzsonii), ecc. Fra le specie più interessanti e più rare merita di essere citata una caratteristica felce delle valli interne del versante versiliese delle Apuane e delle rocce ombrose del Monte Pisano, l’imenofillo (.Hymenophyllum tunbridgense), specie tropicale ed atlantica presente in Italia soltanto nelle località ora menzionate.
    4. Distretto dell’Antiappennino : è rappresentato praticamente da tutta la Toscana a sud dell’Arno e ad ovest della Valdichiana fino alla costa e comprende quindi la Maremma, le Colline Metallifere, il Chianti, le colline senesi e l’Amiata. In questa regione poche sono le piante endemiche (Crocus etruscus presso Massa Marittima; Jonopsidium savianum al Monte Calvi presso Canapiglia, ecc.); particolarmente interessante è la vegetazione delle crete volterrane e senesi, che si spingono a sud fino a Radicofani e formano un ambiente del tutto caratteristico con alcune specie esclusive, come ¡’Artemisia cretacea.
    5. Distretto delle pianure alluvionali quaternarie: comprende quelli che una volta erano bacini lacustri e che attualmente sono occupati da pianure intensamente coltivate (Valdichiana, Valdarno Superiore e Inferiore, pianure di Arezzo, Firenze, Fucecchio, Bientina, ecc.), talora con laghi o paludi, dove pochi residui di vegetazione spontanea restano quali testimoni delle passate condizioni ambientali. L’esempio più bello di questa vegetazione ci è dato dal già citato lago di Sibolla e dal padule che lo circonda, ove — come abbiamo visto — abbondano piante di clima artico, che sono quindi oggi dei veri e propri relitti.
    6. Distretto Elbano: le isole dell’Arcipelago Toscano ed il promontorio del Monte Argentario rientrano in questo ultimo distretto floristico, forse il più interessante ed il meglio conosciuto per la tipica flora che ospita. Le specie endemiche di questo distretto sono numerose, come Linaria capraria, Romulea insularis, Limo-nium doriae, ecc., e spesso sono addirittura limitate ad una o due sole isole dell’arcipelago. Moltissime sono le piante comuni alla Sardegna e alla Corsica che si ritrovano nelle isole toscane; alcune specie sono addirittura piante africane che si spingono a nord fino a raggiungere l’Arcipelago Toscano. Curiosa è la flora del Monte Argentario, che pur facendo parte geograficamente del continente, rientra dal punto di vista botanico nell’Arcipelago Toscano, presentando maggiori affinità con la flora delle isole che non con quella della terraferma. Fra le specie più rare potremo citare come esempio la palma nana o palma di San Pietro (Chamaerops humilis), distribuita lungo le coste meridionali del Mediterraneo occidentale, che si ritrova qua e là anche all’Argentario e all’Elba, località fra le più settentrionali della sua area di diffusione.

    Questo panorama sintetico delle varie regioni botaniche della Toscana ci ha permesso così di osservare quanto diversi siano gli aspetti del paesaggio vegetale delle differenti zone e d’altra parte ci mostra quanto interesse presenti, appunto per la sua notevole variabilità, il paesaggio vegetale toscano. Le rarità floristiche di alcuni territori meriterebbero addirittura che fossero create delle « aree protette », specie di parchi o territori vigilati dove sia impedita la raccolta indiscriminata di fiori e l’utilizzazione del bosco o del pascolo per soli scopi economici e dove le più belle e interessanti piante toscane possano svilupparsi liberamente. Vere e proprie « aree protette» non esistono in Toscana; tuttavia a dire il vero molti territori, per intervento dell’Azienda per le foreste demaniali o anche di privati, sono da considerarsi quasi delle riserve naturali dove la vegetazione viene mantenuta nelle migliori condizioni di sviluppo. Si pensi, ad esempio, alla splendida pineta di San Rossore presso Pisa, vero rifugio di numerose specie rare e magnifico esempio di foresta litoranea, ora proprietà della Presidenza della Repubblica; alle foreste demaniali montane del-l’Abetone, del Teso (Maresca), di Vallombrosa, di Campigna (alto Casentino), ecc., dove le imponenti maestose abetine (accompagnate talora da faggete e boschi di altro tipo) sono vigilate e curate nel loro armonico sviluppo con un sapiente sfruttamento ed un adeguato rinnovamento; alle foreste demaniali litoranee di Cècina e Follonica; alla pineta privata di Migliarino; alle abetine di Camaldoli e della Verna, da secoli proprietà rispettivamente dei monaci camaldolesi e dei frati francescani, ecc.

    Ma, oltre a queste, molte altre zone meriterebbero di essere protette in modo da assicurarne la conservazione: prime fra tutte, ad esempio, l’interessante oasi artica del lago e del padule di Sibolla, già più volte citato; o anche alcune zone più interessanti e ricche di rarità floristiche delle Alpi Apuane, come il caratteristico Monte Procinto o il Monte Altissimo, custodi di numerosi endemismi.

    La fauna

    Dopo tanti secoli di caccia e di distruzione da parte dell’uomo, la fauna originaria della Toscana, specie nei suoi rappresentanti più cospicui, è ormai ridotta a poca cosa. Il taglio del bosco e la sua riduzione a lembi staccati, frequentati da carbonai, da pastori e, più che mai in tempi moderni, da cacciatori, ha infatti tolto possibilità di sicuro asilo e di vita a molti mammiferi e agli uccelli che un tempo abbondavano certamente nelle foreste appenniniche e maremmane.

    Numerosi toponimi di luoghi montani ricordano la presenza di orsi (per esempio, il Monte Orsaro nel Pontremolese) e alcuni esemplari furono inseguiti e cacciati ancora nel XVIII secolo. I lupi erano frequenti nelle parti interne dell’Appennino, specie verso l’Umbria, fino al secolo scorso e qualcuno pare sia stato avvistato anche in anni vicini a noi, spinto probabilmente dalla fame, durante l’inverno, fuori dai recessi più nevosi.

    La selvaggia boscaglia maremmana ospita tuttora il cinghiale, un tempo molto cacciato per i danni che apportava alle colture e per la prelibata carnagione. Ancora all’inizio di questo secolo Mario Puccioni scriveva: «Per il Maremmano l’unica vera caccia è quella del cinghiale: per essa trascura interessi, affronta la febbre e serba i soli entusiasmi che la sua natura indolente e pacifica può consentirgli.

    «Il cinghiale viene cacciato in due maniere: all’aspetto sull’imbrunire o ai rigidi chiari di luna quando è al pascolo della ghianda, o esce dalla sicura lestra (il covo ove ha riposato durante il giorno nel bosco), oppure nelle vere e proprie braccate che da novembre a tutto gennaio si fanno due o tre volte la settimana. A queste prendono parte, per consuetudine inveterata quasi divenuta un diritto feudale, ed anche per la necessità di avere un gran numero di persone, tutti gli abitanti, grandi e piccoli, dei paesetti vicini ». Oggi ormai i cinghiali, ridotti di numero e celati nel folto della macchia, da cui escono raramente in cerca di cibo, sono vittime di battute sportive organizzate per turisti danarosi.

    La caccia al cinghiale in Maremma in una vecchia stampa.

    Se non fossero intervenute negli ultimi decenni severe limitazioni alla caccia, sarebbe scomparso del tutto il capriolo, che sopravvive ormai quasi soltanto nelle riserve della collina maremmana e in alcune boscose bandite costiere; così è pure del cervo e del daino, importati solo modernamente in Toscana. Un tempo poteva capitare con frequenza di imbattersi in gatti selvatici, specie nelle macchie più fìtte della Maremma: « Il Gatto selvatico, carnivoro eminentemente forestale — scrive il Baldasseroni — arboricolo, vive nel folto dei boschi della Maremma, delle Alpi Marittime, dell’Appennino e della Sicilia: predatore notturno di uccelli, di lepri, di conigli, ma anche di topi e di altri roditori, è in via di diminuzione per il disboscamento e la caccia spietata che gli si dà, ma è sempre più numeroso di quanto comunemente si creda ». Numerosi nella montagna sono tuttora i tassi. Nei boschi di collina verso il mare, a sud dell’Arno, è assai diffuso l’istrice. Un po’ dovunque sono lepri, e soprattutto, conigli selvatici, ed anche volpi, malgrado la caccia spietata cui sono soggetti. Le riserve assicurano la sopravvivenza di altri piccoli mammiferi, come la martora, la donnola, la puzzola, la lontra.

    Nell’isola di Montecristo vive ancora, forse in duecento esemplari, una capra selvatica che un tempo abitava anche il Giglio, la Capraia (come ben dice il nome) e altre parti dell’Arcipelago Toscano e della Sardegna. Nel 1959 l’isola di Montecristo fu dichiarata zona di protezione faunistica volta alla difesa delle capre e degli uccelli rapaci e migratori. Ma purtroppo il provvedimento, che permetteva la caccia ad animali importati, come i fagiani, i conigli, ecc., è rimasto praticamente quasi inoperante.

    Per quanto riguarda la fauna aericola l’animale più diffuso è la starna, « che si trova sparsa in tutta la nostra regione, dal piano al colle ed al monte e che fornisce, diremo così, la materia prima a quasi tutti i nostri cacciatori.

    « Se le bonifiche dei terreni, se l’estendersi della coltura intensiva ha fatto diminuire in qualche località il numero di questo simpaticissimo razzolatore, esso è tuttavia sempre abbondante nelle colline del Volterrano e dell’Empolese e nelle crete di Siena, ove trova ambiente adatto, così per vivere che per nidificare, nei ginestrai e nei palei di cui sono coperte quelle colline ondulate. Le cacciate che si fanno in quelle località, ordinariamente nel periodo di apertura o ai primi di settembre, sono meravigliosamente fortunate, perchè in tre o quattro giorni i cacciatori, che generalmente non oltrepassano la diecina, riescono ad uccidere, mercè l’indispensabile aiuto del cane da fermo, quattrocento e anche cinquecento starne. E sono specialmente rinomate le tenute di Montelopio, di Spedaletto, di Meleto e di Castelfalfi, ove ogni anno si fa una vera strage di starne» (Puccioni, 1908). Rara sui monti è ormai la pernice, mentre nelle bandite abbondante è il fagiano.

    Tra gli uccelli migratori, cacciati con reti fisse simili ai roccoli, sono le beccacce e i colombacci che scendono a svernare nell’autunno nei boschi mediterranei, e le tortore che giungono dal sud in primavera e ritornano in ottobre. Nelle zone acquitrinose, specie costiere, si cacciano le oche selvatiche, le folaghe, i croccoioni e diversi trampolieri; i germani abbondano nei periodi di passaggio anche nelle pianure interne, ove sono numerosi i laghetti a loro riservati.

    Non molto ricca è la fauna fluviale, caratterizzata soprattutto dalla diffusione dei barbi, delle lasche e in qualche torrente di montagna delle trote. Anche in questo campo l’uomo ha distrutto largamente il patrimonio naturale e il pesce abbonda ormai solo nei torrenti protetti e soggetti a periodici ripopolamenti. Nell’Arno e in altri fiumi e canali vicino al mare nel periodo di montata (primavera) e di calata (autunno) sono numerose le piccole anguille chiamate ceche; nel lago di Massa-ciùccoli sono lucci, tinche, cefali e carpe.

    Vedi Anche:  Le strade, il commercio e il turismo