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Montagne, pianure e fenomeni carsici

    Il rilievo: montagne e pianure

    Tra le regioni dell’Italia peninsulare, l’Umbria è la sola che con il suo territorio non raggiunga il mare. Questa situazione, nella parte mediana della penisola, là dove la catena appenninica, tendendo ad assumere direzione meridiana, si scinde in diversi rami che corrono per lunghi tratti paralleli, separati da valli longitudinali, dà alla nostra regione, in complesso, una certa uniformità negli aspetti generali del paesaggio; uniformità che diffìcilmente si può riscontrare in altre regioni dell’Italia appenninica, nelle quali è sempre presente il contrasto tra una zona montuosa interna ed una più o meno ampia fascia costiera.

    Chi percorre l’Umbria lungo una qualsiasi delle vie che la attraversano, sia in senso longitudinale che trasversale, vedrà alternarsi ampie conche pianeggianti, contornate da colli ondulati, dove il verde dei campi e dei prati si accosta al grigio degli oliveti, e valli strette, profonde, dai fianchi assai ripidi e in qualche punto quasi a picco, coperte da un rado mantello vegetale; e, incombenti sui versanti, o lontane a limitare da ogni parte l’orizzonte, le dorsali montuose che s’innalzano con le loro cime arrotondate e spoglie di vegetazione. Il contrasto fra questi vari elementi può dirsi che costituisca il carattere saliente del paesaggio umbro nel suo insieme, e ben lo individua rispetto a quelli delle regioni circostanti, anche se ad essi si accosta per taluni aspetti particolari, e se il passaggio dall’uno all’altro è sempre graduale e talora quasi insensibile.

    D’altra parte, la monotonia dell’ambiente, quale sembra risultare da una prima superficiale osservazione, si rivela, ad un esame più accurato, soltanto apparente. Vi si ritrova infatti una varietà di forme del rilievo, dovuta alle diverse altitudini e ai differenti terreni; e soprattutto, per la disposizione delle catene montuose che separano le conche e le valli interposte, più che una regione unitaria appare una giustapposizione di ambienti relativamente isolati, che non solo i fattori fisici, ma anche l’opera umana, hanno contribuito a differenziare.

    Zone altimetriche.

    Dalla vai Tiberina al bacino del Trasimeno, alla valle Umbra, alla conca di Terni, all’altopiano di Norcia, è tutto un susseguirsi di paesaggi diversi, quasi di piccole unità territoriali, che hanno ciascuna i propri caratteri ben individuati. E sono sempre le pianure che accentrano intorno a sè quasi tutta la vita dell’Umbria, e non solo le maggiori conche, ma anche i brevi spazi pianeggianti che si aprono qua e là lungo le valli strette e incassate. Si può dire che la nostra è una regione di pianura e di collina, pur se i rilievi montuosi ne occupano oltre la metà del territorio. In effetti, le montagne, per quanto non s’innalzino molto al di là dei iooo m., restano quasi ovunque marginali, di contorno, e non partecipano alla vita della regione, se non all’estremo margine sudorientale, dove l’esistenza di conche e pianori a maggiore altitudine porta forse l’uomo più facilmente a contatto con le pendici montuose circostanti ; ma qui già s’intravvede l’Abruzzo dei grandi massicci appenninici, con rapporti ben più vivi ed intensi tra le piane valli ve e le alte montagne.

    Indubbiamente, alla base di questa sorta di repulsione che sembrano esercitare sugli abitanti gran parte delle montagne umbre, c’è una ragione fisica che si può individuare soprattutto nella soluzione di continuità fra la collina e la montagna, divise per lo più da tratti di versanti ripidi che rendono disagevole il passaggio dai dolci pendìi collinari alle sommità delle dorsali ; mentre queste ultime, pur mostrando dal basso profili regolari ed uniformi, offrono in realtà un terreno roccioso ed accidentato, le cui uniche risorse, se di risorse si può parlare, consistono in una stentata e rada boscaglia o in una povera vegetazione di erbe e di sterpi.

    Le forme del rilievo hanno dunque un peso non indifferente nella caratterizzazione dell’ambiente regionale e dei vari ambienti particolari in cui esso si scinde; e queste forme sono a loro volta strettamente legate alle vicende più antiche della regione, ai tempi in cui l’uomo non era ancora comparso a modificare più o meno profondamente con la sua opera il paesaggio naturale.

    Le montagne

    Quando, durante l’era terziaria, la catena appenninica si sollevava in grandi pieghe innalzantisi dal Tirreno verso l’Adriatico, si andavano costituendo le linee fonda-mentali del rilievo attuale. Gli strati di terreno, prevalentemente calcarei, che lungo tutta l’era mesozoica si erano accumulati sul fondo del mare, a poco a poco incurvandosi emergevano dalle acque e venivano portati a molte centinaia di metri più in alto; li ricoprivano forse completamente altri depositi più recenti, arenarie, marne ed argille del periodo eocenico, che in seguito il dilavamento operato dalle acque correnti doveva in parte asportare. Una serie di anticlinali (almeno sei ne individuano i geologi tra la valle del Tevere ed i confini orientali dell’Umbria) si allineavano, in proseguimento di quelle toscane, con direzione da nordovest a sudest, piegandosi poi fino ad assumere un andamento meridiano nel sud della regione. Una lunga frattura trasversale le divideva dal sistema abruzzese, per cui le anticlinali umbro-marchigiane appaiono nettamente troncate lungo una linea che corre tra Ancona e Tivoli, passando per il monte Vettore e separando i rilievi a pieghe quasi parallele dell’Umbria dal territorio a struttura geologica più tormentata ed a morfologia più complessa che si stende a sudest, nel Lazio e nell’Abruzzo.

    Il Subasio visto dalla valle del Topino.

    Fratture e sprofondamenti, nel pliocene e nel quaternario, hanno variamente modificato l’assetto primitivo dei terreni, e l’erosione fluviale ha contribuito a frazionare il rilievo scavando qua e là profondi solchi trasversali; le originarie direttrici tettoniche si ritrovano tuttavia nell’allineamento delle dorsali montuose, che si affiancano elevandosi da occidente verso oriente e da nord a sud. Il calcare cretaceo, in mezzo al quale affiorano, in lembi più o meno estesi, i terreni del lias e del giura, domina nella parte sudorientale della regione, ad est delle valli del Topino e del Nera, con calcari bianchi e soprattutto con la diffusissima «scaglia rossa»; vi si sovrappone, in alcuni tratti, un calcare marnoso eocenico, la «scaglia cinerea». Al paesaggio calcareo, caratterizzato da incisioni marcate, da profonde gole di erosione, da montagne spoglie e inospitali, da frequenti fenomeni carsici, si sostituisce, verso ponente e verso nord, la formazione prevalentemente marnoso-arenacea dei terreni che vanno dall’eocene al miocene, conservatisi a ricoprire l’ossatura del rilievo, dove questo si fa meno accentuato.

    Dal punto di vista geologico, come rispetto alla morfologia, le montagne umbre si collegano quindi a quelle toscane, sì che riesce arduo fissare un limite che non sia puramente convenzionale fra le due sezioni appenniniche. La Bocca Trabaria o la Bocca Serriola, situata fra l’alto Tevere e la valle del Metauro, o la Sella di Scheggia, presso Gubbio, dove lo spartiacque principale della catena abbandona i terreni eocenici ed entra nell’ambiente del calcare mesozoico ? Sembra conveniente, in mancanza di una netta separazione naturale, riferirsi ai confini amministrativi e porre l’inizio dell’Appennino umbro-marchigiano alla Bocca Trabaria, il valico più vicino al punto d’incontro dei confini dell’Umbria con quelli delle Marche e della Toscana. Del resto, da questo punto si cominciano a ben individuare le varie dorsali in cui si articola il rilievo della nostra regione.

    La quinta montuosa più orientale, detta del monte San Vicino, è ancora tutta compresa nel territorio marchigiano, ma termina a sud con i monti Sibillini, agli estremi confini orientali dell’Umbria. La catena dei Sibillini è la più elevata dell’Appennino umbro-marchigiano, con parecchie cime oltre i 2000 metri e la più alta, il Vettore, a 2478; divide l’alto bacino del Nera dalle acque che scendono al versante adriatico e pertanto tutto il suo fianco tirrenico può considerarsi fisicamente umbro, anche se ne è compreso, nell’area amministrativa, solo il tratto meridionale, dal monte Porche alla Forca Canapine, e ne è esclusa la imponente piramide calcarea del Vettore, ai cui piedi si stende l’ampia conca carsica del Piano Grande di Castelluccio, chiusa da ogni parte da contrafforti montuosi. Qui confluisce anche la seconda dorsale appenninica, che inizia ad est della Bocca Trabaria elevandosi al monte Nerone (m. 1526), ancora in territorio marchigiano; raggiunge il culmine con lo sperone calcareo del monte Catria (m. 1702) e proseguendo verso sud segna lo spartiacque principale appenninico per un lungo tratto, fino al monte Cavallo e al valico d’Appennino, che divide la valle del Chienti da quella del Nera. In territorio umbro, questa catena si mantiene quasi sempre tra 1000 e 1500 m. (Corno di Catria, 1185; monte Cucco, 1567; monte Penna, 1432; monte Pennino, 1570), ma i valichi non sono molto elevati: a 704 m. il colle di Fossato, attraversato dalla strada per Fabriano; a 818 m. la massima altezza della soglia carsica di Colfiorito, percorsa dalla strada Foligno-Tolentino.

    Il Sasso di Pale, sopra Foligno.

    Il monte Patino (m. 1884), visto da Norcia.

    Il monte Acuto sulla destra della valle del Tevere, tra Umbèrtide e Città di Castello.

    A sud del monte Pennino, la dorsale si divide in due rami: uno conserva la direzione meridiana, e forma le alteterre che incombono da oriente sulle valli del Topino e del Maroggia, culminando nel monte Brunette (m. 1425) e nel monte Maggiore (m. 1428); l’altro si sviluppa in direzione sudest fino al monte Cavallo e al monte Fema. 11 profondo solco del Nera taglia, con una gola stretta e incassata tra versanti rocciosi, l’ultima parte dei due rami della dorsale, separandone i rilievi che si ergono sulla sinistra del fiume e si collegano ad oriente con i Sibillini e a sudest con i monti Reatini. Questi rilievi racchiudono la parte più elevata del territorio umbro, con un caratteristico paesaggio alpestre di alte cime dirupate e per lo più spoglie di vegetazione, tra le quali si aprono verdi conche coltivate e costellate di piccoli centri e nuclei abitati; a nord si stende una serie di vette quasi tutte superiori ai 1500 m., dal monte L’Aspro al monte Ventòsola; ad oriente la catena dei Sibillini e poi la dorsale del monte Pizzuto (m. 1914) che segna lo spartiacque verso la valle del Tronto; a ponente la costa montuosa del monte Coscerno (m. 1685) e del monte Aspra (m. 1577) che si dirige verso i Reatini. Pochi valichi, e di notevole altezza, interrompono la cerchia delle montagne, e sono quasi tutti di transito disagevole e naturalmente interrotto nella stagione invernale per lunghi periodi, a causa delle precipitazioni nevose: il più importante è la Forca Canapine, a 1543 m., superata dalla strada che unisce Norcia alla valle del Tronto; il valico della Forchetta, che immette nell’alto bacino del Velino, è a 1279 m. ; gli altri sono tutti oltre i 1000 m., sia verso la conca di Leonessa, sia verso la valle del Nera: la strada che da Norcia scende verso Spoleto è costretta a seguire gli angusti solchi del Sordo e del Corno, attraversando la cosiddetta « stretta di Biselli », una gola fra pareti a strapiombo, in parte naturale, in parte tagliata dalla mano dell’uomo.

    Vedi Anche:  Spoleto, Terni e Todi

    Le montagne ad est della conca di Gubbio, verso il Passo di Scheggia.

    La terza dorsale dell’Appennino umbro inizia poco ad ovest della Bocca Trabaría; meno compatta e di più modesta altitudine rispetto alle precedenti, consta di due anticlinali, separate dalla sinclinale eugubina, ed è tutta compresa nella formazione marnoso-arenacea, che ricopre i calcari mesozoici già sul versante occidentale della catena adiacente. Il rilievo presenta generalmente forme più dolci, dovute alla diversa resistenza di questi terreni all’erosione normale; ed è minutamente intagliato da sistemi di piccole valli, e articolato in vari contrafforti che si spingono verso il fianco sinistro della valle del Tevere. Le montagne appaiono più aspre solo in due zone, dove la roccia calcarea emerge dalla coltre dei terreni più recenti: nei monti di Gubbio, che chiudono con ripidi versanti la conca da nordest, e nel suggestivo monte Subasio, uno dei più caratteristici e forse il più famoso monte dell’Umbria, che sorge quasi isolato, all’estremità meridionale della catena, dominando dai suoi 1290 m. l’ampio paesaggio collinare della valle Umbra.

    Le altre cime non raggiungono quasi mai i 1000 metri, superati solo di poco nel dosso della Serra Maggio (Pian della Serra, m. 1015); i valichi principali sono tra i 700 e gli 800 m. (Bocca Serriola, 730; Colle di Gubbio, 777). Le valli non presentano solchi profondi; sono per lo più strette e con versanti alquanto ripidi quelle che tagliano trasversamente le dorsali, come la media valle del Chiascio e la valle del-l’Assino, tra la conca di Gubbio e il Tevere. Più aperti e talora a fianchi dissimmetrici alcuni tratti di solchi longitudinali, allargantisi talora in piane vallive abbastanza ampie. Tipica la lunga depressione che fiancheggia il lato orientale della catena, e la divide dalla dorsale calcarea del monte Catria: vi si incanalano il primo tratto del corso del Chiascio, quelli di alcuni torrenti minori che in esso confluiscono ed infine le acque del Topino, che la seguono fino al suo sbocco nella piana di Foligno. Facile via naturale verso lo spartiacque appenninico, che raggiunge al basso colle di Scheggia (m. 575), questo solco ha sempre avuto una grande importanza per le comunicazioni fra i due versanti della catena ed è ancor oggi percorso, in tutta la sua lunghezza, dalla via Flaminia.

    Un’altra lunga depressione, orientata secondo l’asse principale della catena, segna ad occidente il limite tra l’Appennino propriamente detto e quei minori rilievi che vengono distinti col termine di Subappennino e che si spingono fino alla vai di Chiana ed alla linea del Chiani, del Paglia e del basso Tevere. In questa zona, le dorsali montuose tendono gradualmente ad abbassarsi ed assumono un andamento discontinuo, dividendosi in gruppi di montagne separate da ampie valli e conche pianeggianti. Nel complesso ne risulta un paesaggio prevalentemente collinare, a grandi gobbe ondulate, interrotto da forme più aspre e dirupate là dove i soliti calcari compatti del cretaceo si affacciano fra i terreni marnoso-arenacei che ricoprono tutto il resto della regione.

    L’ambiente morfologico non si può dire che differisca molto da quello delle catene più orientali, se non per il maggiore sviluppo dei solchi longitudinali e la presenza dei grandi bacini intermontani che danno largo respiro al paesaggio; ma nella sezione meridionale, col prevalere dei rilievi calcarei, sempre più si accosta a quello dell’Appennino, specialmente nei monti che circondano la conca di Terni e nella dorsale che s’innalza tra questa e la bassa valle del Tevere.

    Anche l’allineamento dei dossi montuosi concorda con le direttrici appenniniche, seguendo due lunghe anticlinali quasi rettilinee, orientate da nord-nordovest a sud-sudest. Lungo la prima, che accompagna sulla destra l’alta valle del Tevere, penetra in Umbria la continuazione del Subappennino aretino; la dorsale degrada dal monte Favalto (m. 1052) a Perugia (monte Malbe, m. 652), è interrotta da una larga depressione dove le acque del maggior fiume appenninico si uniscono a quelle del Chiascio, e riprende al di là elevandosi nel massiccio gruppo calcareo del monte Martano (m. 1094) e infine nel monte Torre Maggiore (m. 1121) che incombe con le sue pendici rocciose sull’ampia conca di Terni. La seconda dorsale subappenninica, in proseguimento dei toscani monti del Chianti, entra in Umbria ad occidente del Trasimeno e s’innalza, alle spalle di Città della Pieve, nel Monterale e poi nel gruppo del monte Peglia (m. 837); incisa profondamente dal medio corso del Tevere, ne segue quindi il fianco sinistro con il dosso del monte Melézzole (m. 994), diretto verso Narni e la valle del Nera. Oltre il Nera questi rilievi vanno a collegarsi con la catena dei Sabini, e si elevano rapidamente oltre i 1000 metri nei monti che segnano il confine tra Umbria e Lazio (monte Cosce, 1114; monte Macchia di Mezzo, 1215).

    La gola della Rocchetta e il monte Penna (m. 1432) sopra Gualdo Tadino.

    Aspetti ed origine del tutto diversi rispetto alle altre montagne umbre caratterizzano i rilievi dell’Orvietano, al di là del solco del Paglia. Essi si collegano infatti con le manifestazioni vulcaniche che nel quaternario interessarono la regione tirrenica antistante l’Appennino, e formano il cosiddetto « altopiano dell’Alfina », ai margini nordorientali del gruppo dei Volsini. E una superficie a struttura tabulare, in cui una spessa ed estesa formazione di tufo vulcanico sovrasta a terreni argillosi pliocenici poco resistenti all’erosione e facilmente soggetti a frane. I corsi d’acqua vi hanno scavato profondi solchi, sì che la superficie originaria appare sezionata, specie verso le valli del Paglia e del Tevere, in lunghi e stretti ripiani (su uno di essi è costruita la città di Orvieto), limitati sia lateralmente che frontalmente da fianchi scoscesi, talora quasi verticali.

    Le conche e le valli

    Sul finire dell’era terziaria, quando ormai si era completato, nelle sue grandi linee, il sollevamento della catena appenninica e non erano ancora comparsi gli apparati vulcanici ad occidente, un mare poco profondo ricopriva le terre più basse e giungeva a lambire le falde delle montagne, depositandovi i suoi sedimenti ricchi di fossili. All’interno, nello stesso periodo e forse in gran parte anche più tardi, nell’era quaternaria, si andavano formando, per movimenti del suolo successivi ai grandi ripiegamenti della catena appenninica, le grandi conche allungate che si insinuavano tra le dorsali parallele e nelle quali si adunavano le acque di vasti laghi, situati a differenti quote. Questi laghi, come gli analoghi bacini interni che s’incontrano più a nord, in Toscana, furono in seguito gradatamente riempiti da fanghiglie argillose, da sabbie, da spessi depositi di ghiaie e ciottoli fluviali, da lenti di ligniti; vi si accumularono abbondanti resti fossili della fauna dell’ultimo pliocene e del quaternario antico (del cosiddetto periodo villafranchiano), tra i quali particolarmente notevoli gli avanzi di grossi pachidermi che vi furono ritrovati e si continuano a ritrovare casualmente. Quando il mare cominciò a ritirarsi verso ponente e i laghi defl’interno andarono lentamente prosciugandosi, i terreni marini e lacustri, incisi dall’erosione, formarono estese plaghe collinari ai margini delle valli e delle conche, mentre sul fondo si depositavano i detriti trasportati dai numerosi corsi d’acqua. Nascevano così, tra le quinte montuose dell’Appennino e del Subappennino, quelle oasi pianeggianti, racchiuse da dolci colline ondulate, che dovevano costituire l’ambiente più caratteristico dell’Umbria e verso le quali finì per gravitare tutta la vita della regione.

    Il monte Pennino (m. 1570) sullo spartiacque tra la valle del Topino e quella del Olienti.

    Le piane alluvionali, in cui divagavano le acque dei fiumi, furono a mano a mano bonificate e messe a coltura. Le colline plioceniche, elevate fino a qualche centinaio di metri sul fondo delle conche, offrirono, già nei tempi antichi, ottime posizioni per l’insediamento umano, che rifuggiva dalle zone basse, malsane e soggette a frequenti inondazioni, e preferiva stabilirsi più in alto, anche per ragioni di sicurezza.

    La gola del torrente Corno presso Biselli.

    Gli antichi bacini interni dell’Umbria, facilmente individuabili dall’estensione dei terreni di deposito lacustre, sono: il cosiddetto lago Tiberino, le conche di Gubbio e di Gualdo Tadino, l’altopiano di Norcia; di altri due, quello di Rieti e quello di Leonessa, appartengono alla nostra regione solo alcuni lembi marginali.

    Il lago Tiberino, di gran lunga il più esteso di tutti, doveva misurare circa 120 km. in lunghezza, con una larghezza massima di circa 30. Allungato in dire-

    zione meridiana, seguiva l’attuale corso del Tevere a partire da Sansepolcro fino a Todi, e di qui, piegando a sud-sudest, si insinuava tra la catena di monte Martano e i monti di Amelia, e si espandeva nella conca di Terni, addentrandosi verso ovest fino a Ferentillo, lungo il Nera. Da Perugia, un altro ramo si dirigeva a sudest, dove oggi è la piana percorsa dalle acque del Chiascio, del Topino, del Clitunno e del Maroggia, e giungeva fin sotto Spoleto. Poco a valle di Perugia, un altro ramo, di minore estensione, si allungava verso ponente, per l’attuale corso del Nestore, fin quasi a Città della Pieve. Due erano probabilmente i punti di sbocco al mare dell’ampio bacino lacustre, uno presso Città della Pieve e l’altro presso Amelia, al margine occidentale della conca di Terni.

    Nell’èra quaternaria, di questo grande lago rimanevano una serie di conche minori, colmate in seguito da sedimenti alluvionali più recenti, che corrispondono agli odierni tratti di pianura. All’estremità settentrionale si estende il bacino della vai Tiberina o di Città di Castello, di forma grossolanamente triangolare, col vertice rivolto a sud, il cui fondo è a circa 290 m. sul livello del mare. Una fascia di colline plioceniche lo limita ad occidente, mentre sul margine orientale scende il fianco dell’ultima dorsale appenninica. E percorso dalle acque del Tevere e del Cer-fone, che vi confluisce poco a monte di Città di Castello. A sud di questa città, la valle del Tevere si restringe e, dopo un breve ampliamento nel piccolo bacino di Umbèrtide, mantiene poi una larghezza media, sul fondo, di 1-2 km.; il fiume vi scorre a meandri, incassati nelle alluvioni recenti.

    All’altezza di Perugia, il Tevere piega decisamente il suo corso verso sud, fiancheggiato sui due lati da rilievi collinari, e si addentra nel lungo bacino di Todi, che si allarga fino a 4-5 km. e si espande, sotto Marsciano, in corrispondenza della bassa valle del Nestore. Contornato anch’esso da una larga fascia di colline ondulate, che dai 160 m. circa del fondovalle si innalzano verso i 300-400, è fittamente coltivato e abitato e lungo i suoi margini si snoda una serie ininterrotta di piccoli centri che dalle alture si affacciano sulla piana sottostante.

    Vedi Anche:  popolazione emigrazione economia cultura

    Giunto sotto la collina di Todi, il Tevere abbandona la depressione del lago Tiberino e si dirige a sudovest, incidendo, con la profonda gola del Forello, la dorsale subappenninica monte Peglia-monte Melézzole e passando quindi in un solco longitudinale più esterno. Lungo il percorso dell’antico lago si apre ancora, a sudest di Todi, una stretta conca allungata, il bacino di Massa Martana e di Acquasparta, che il corso del torrente Naia collega al bacino di Todi attraversando i sedimenti villafranchiani, minutamente intagliati da un sistema di piccole vallecole, ed estesi a riempire tutta la parte meridionale del grande bacino lacustre, fino alla conca di Terni.

    Di forma ellittica, lunga circa 15 km. e con la massima larghezza di 5, la conca di Terni è orientata con l’asse maggiore da est a ovest fra Terni e Narni. La chiudono alle due estremità le dorsali calcaree del monte Torre Maggiore, che domina la piana con i suoi ripidi versanti, e dei monti di Narni, attraversati con una angusta gola dal Nera. E la più bassa delle conche umbre, ad una quota media di 100 m., ed è anche la più ricca di acque, sia provenienti dalla base dei massicci calcarei che la contornano, sia convogliate dal Nera, il cui ampio bacino d’impluvio si estende fino alle montagne d’Abruzzo.

    Il monte L’Aspro (m. 1402), sopra Triponzo, nell’alta vai di Nera.

    A sudest di Perugia si congiunge col bacino di Todi la più grande conca dell’Umbria, la pittoresca ampia vallata che si stende fra Torgiano e Spoleto. E la valle Umbra, carica di memorie storiche e di tesori artistici, il cui paesaggio è senza dubbio il più suggestivo di tutta la regione; sul fianco sinistro scendono ripidi i versanti della dorsale calcarea, culminante nel Subasio, mentre a ponente la chiude una larga fascia di dolci colline; nel fondo, una vasta pianura alluvionale in cui si congiungono, per scorrere verso il Tevere, le acque del Maroggia, del Clitunno, del Topino e del Chiascio. Con un livello medio intorno ai 200 m., si sviluppa per una cinquantina di chilometri in lunghezza, su una larghezza di 10 tra Assisi e Bettona e di 8 tra Foligno e Bevagna; si restringe poi piegando verso sud e termina ai piedi della rocca di Spoleto. Ancora in tempi storici la parte settentrionale della conca, più bassa, era coperta dalle acque che costituivano il lago di Assisi (ricordato anche da scrittori romani); questo andò poi prosciugandosi, ma il fondo fu soggetto ancora per lungo tempo a ristagni, e vi si mantennero vaste aree paludose, la cui bonifica fu completata solo nella prima metà del secolo scorso.

    Paesaggio collinare nell’Umbria occidentale: la valle del Chiani e sul fondo il monte Peglia (m. 837)

    A levante della grande depressione dell’antico lago Tiberino, due altri bacini lacustri si estendevano tra le dorsali appenniniche: il bacino di Gubbio e quello di Gualdo Tadino, forse comunicanti fra loro mediante il solco lungo il quale scorre il Chiascio. Ambedue questi bacini hanno forma oblunga, grossolanamente ellittica: il primo coll’asse maggiore, da nordovest a sudest, di circa 24 km. ed il minore di 5 ; il secondo coll’asse maggiore in direzione quasi meridiana, lungo circa 20 km. per una larghezza massima di 4. L’emissario dei due laghi scendeva probabilmente al lago Tiberino lungo il solco percorso attualmente dalla valle dell’Assino, dove si possono ritrovare depositi lacustri, mentre sembra potersi escludere che esistesse una comunicazione per la stretta valle del Topino verso Foligno. La piana alluvionale di Gubbio, che occupa il fondo dell’antico lago, ne è di poco inferiore come ampiezza e presenta una superfìcie convessa, con le quote massime (circa 450 m.) al centro e le più basse ai due estremi (400 m. a nordovest e 370 a sudest); la parte centrale, più elevata, fa pertanto da spartiacque tra il bacino dell’Assino, che si dirige a ponente per raggiungere il Tevere poco sotto Umbèrtide, e quello del torrente Saonda, che va a confluire a sud nel Chiascio. La conca di Gualdo Tadino si estende tra Fossato di Vico e Ponte Parrano, ed ha il fondo assai più ristretto : i terreni pliocenici che la contornano, incisi in poggi e dossi ondulati, si spingono a tratti verso la parte mediana della piana alluvionale recente e la dividono in tre bacini minori: quello di Fossato, che manda le sue acque direttamente al Chiascio ; quello di Gualdo, che scola ad ovest nel torrente Rasina, affluente del Chiascio; e quello di Gaifana, le cui acque vanno a raggiungere a meridione il corso del Topino.

    La conca di Terni e il monte Torre Maggiore (m. 1121).

    Nella parte più montuosa deirUmbria si apre l’altra vasta conca del Piano di Santa Scolastica, presso Norcia. Il lago pliocenico che la occupava, circondato tut-t’attorno da montagne impervie, si estendeva, in direzione quasi meridiana, per circa 10 km., con una larghezza massima di 4. Due speroni calcarei, terminanti nel poggio Valaccone al centro e nel monte Mutaro a sud, che interrompono gli antichi sedimenti lacustri, dovettero costituire due isole emergenti dalle acque del bacino, il cui livello giungeva probabilmente fin verso i 900 m. di altitudine. L’estinzione dell’antico lago si attribuisce alla formazione di una spaccatura, nelle rocce calcaree che lo sbarravano, con l’apertura della gola di Biselli, attraverso la quale scende oggi il torrente Corno. Il fondo dell’attuale conca, circondata da amene colline a dolce pendio sulle quali si estendono le coltivazioni, è un lungo falsopiano degradante da sud (circa 800 m. presso Paganelli) a nord, dove termina con la piana di Norcia, a circa 590 m., ricchissima d’acque e verdeggiante di prati.

    A ponente del bacino di Norcia si osservano i resti di un altro piccolo bacino, quello di Cascia, limitato oggi ad una breve piana sotto l’abitato, sulla destra del Corno, ma che doveva estendersi verso levante fino a Maltignano, con una lunghezza di circa 5 km. per una larghezza massima di 4.

    Due brevi aree pianeggianti, sotto Monteleone di Spoleto e Chiavano, sono quanto rimane all’Umbria attuale della vasta conca di Leonessa che, come la più bassa conca reatina, tra i monti Reatini e i Sabini, sarebbe da attribuire, sia per caratteri fisici che per ragioni storiche, alla nostra regione. Del bacino di Rieti, occupato nel quaternario dal grande lago Velino, le appartiene per intero la sola conca di Piediluco, il cui fondo è ricoperto in gran parte dalle acque del lago omonimo. Ancora in epoca storica il lago Velino doveva estendersi su gran parte della pianura attuale; lo chiudeva a nordovest, verso la valle del Nera, la soglia delle Màrmore, diga naturale di travertino costruita dalle acque stesse, ricche di carbonato di calcio. L’accumularsi delle concrezioni calcaree, fenomeno ben noto agli antichi (Plinio nota che « in exitu Paludis Reatinae saxum crescit »), impedì lo svuotamento del lago e l’abbassamento del suo livello fino a quando, come vuole la tradizione, il console romano M. Curio Dentato, nel 290 a. C., fece tagliare nella diga un canale, la «Cava Curiana», favorendo così il deflusso delle acque nel Nera. Il lago Velino si divise quindi in diversi bacini minori; il lago di Piediluco giungeva allora probabilmente fino alle Màrmore ed aveva il fiume Velino come immissario ed emissario. L’estensione del lago andò ancora soggetta a variazioni, in seguito all’ostruzione naturale della Cava Curiana e alla successiva apertura di altri sbocchi, che potessero eliminare i ristagni di acque nella piana. Dal principio del ’600 infine, con l’apertura della «Cava Clementina», che assicurava un regolare scolo alle acque di piena del Velino, il fiume si rendeva indipendente dal lago di Piediluco, che vedeva ridotto il suo livello ed assumeva sostanzialmente la forma e le dimensioni attuali.

    Norcia e la parte settentrionale della sua conca

    Il lago, indubbiamente uno dei più pittoreschi dell’Appennino, si allunga da nordovest a sudest, insinuandosi con varie diramazioni tra le montagne calcaree che lo  delimitano quasi da ogni lato, scendendo verso le sue rive con versanti talora coperti di folti boschi di querce, talora brulli e dirupati; caratteristica la piramide del monte Luco, coronata dai ruderi di una rocca medioevale, ai cui piedi si stende il piccolo centro dal quale la conca deriva il suo nome.

    A completare la serie delle piane umbre, si aggiungono ad ovest la conca del Trasimeno e i solchi vallivi del Paglia e del Tevere, interposti fra le catene del Subappennino ed i rilievi vulcanici del Lazio e della Toscana meridionale.

    La conca del Trasimeno costituisce la parte terminale di un più vasto bacino pliocenico, comprendente a nord tutta la vai di Chiana. Il lago attuale, che occupa gran parte della conca, non sembra per altro, secondo l’opinione più accreditata, che possa considerarsi un residuo dell’antico lago estintosi già nel quaternario e del quale restano ampi depositi di sabbie argillose, alternate con strati di ciottoli minuti, a ponente e a nord dell’odierna superficie lacustre; esso avrebbe invece origini assai più recenti, connesse con un’azione di sovralluvionamento da parte di alcuni corsi d’acqua, azione che portò ad un incompleto scolo del bacino. Alle variazioni subite in tempi storici dal lago, la cui superficie e profondità vanno continuamente riducendosi, ha contribuito in misura notevole anche l’opera umana, con la deviazione di alcuni immissari e l’apertura di un emissario artificiale. Il bacino del Trasimeno si estende a ponente e a sudovest con un tratto di piana alluvionale fino alle basse colline che lo dividono dalla conca di Chiusi, mentre a nord e ad est lo chiudono i rilievi della dorsale perugina; a nordovest la conca è aperta verso la vai di Chiana, alla quale si collega anche per la fisionomia del paesaggio, che rivela caratteri tipicamente toscani.

    Del resto, analoghi aspetti ambientali si ritrovano anche più a sud, nella piana che il Paglia e il suo affluente Chiani formano sotto Orvieto, prima di unire le loro acque con quelle del Tevere: prevalgono sempre le forme dolci delle colline plioceniche, degradanti verso l’ampio fondo valle alluvionato e verdeggiante di coltivi.

    Sul fianco destro della valle del Paglia cominciano a comparire, con rilievo più aspro, i tufi vulcanici del monti Volsini che, seguiti a sud da quelli dei Cimini, accompagnano la valle del Tevere fino oltre la confluenza del Nera. Tra Baschi e Orte la valle si apre, con un fondo pianeggiante, largo fino a 3 km., in cui il Tevere divaga formando ampi meandri; questa striscia di pianura, fiancheggiata da pendìi terminanti in una serie di ripiani sui quali si allineano piccoli centri abitati, prende il nome di Teverina, ed è divisa tra le province di Terni e Viterbo, il cui confine, come già si è detto, segue approssimativamente il corso del fiume. Le forme di insediamento, il paesaggio stesso nel suo insieme fanno di questa piana, bonificata di recente, una zona di transizione, o meglio di contatto, fra l’ambiente umbro e la regione vulcanica del Lazio settentrionale.

    Vedi Anche:  Agricoltura e allevamento

    I fenomeni carsici. Le frane e i terremoti.

    Nella zona più elevata della montagna calcarea, a levante, si aprono altre due conche caratteristiche per la loro posizione, in prossimità dello spartiacque appenninico, e soprattutto per i fenomeni di erosione carsica con i quali è connessa la loro morfologia. Sono il bacino di Colfiorito, tra il monte Pennino e il monte Cavallo, e quello di Castelluccio, esteso ai piedi del monte Vettore, nei Sibillini.

    Il bacino di Colfiorito è formato di varie depressioni carsiche a fondo piatto, generalmente inclinate da ovest ad est, ad una quota tra i 750 e gli 800 m. ; vi si contano in tutto sette conche (piano di Ricciano, piano di Collecroce, piano di Annifo, piano di Arvello, padule di Colfiorito, piano di Popola e Cese, piano di Colfiorito o di Casone), separate da basse colline e quasi tutte comunicanti fra loro. Le rocce che predominano nei rilievi circostanti sono prevalentemente calcari cretacei, con lembi limitati di lias inferiore e medio; il fondo delle conche è costituito di sedimenti lacustri e palustri, lasciati dalle acque che ricoprivano un tempo tutto il bacino e che oggi ristagnano solo temporaneamente in una parte di esso, il padule di Colfiorito. Gli strati rocciosi mostrano una disposizione a conca, prova evidente che il bacino dovette aver origine da uno sprofondamento dei terreni superficiali, causato dalle grandi cavità sotterranee scavate dalie acque che si infiltravano tra le fessure dei calcari. La natura carsica di queste conche si manifesta del resto anche nei numerosi inghiottitoi che smaltiscono le acque provenienti dalle alture circostanti; il solo piano di Colfiorito non presenta fenomeni di idrologia sotterranea, poiché le sue acque sono convogliate artificialmente verso la valle del Chienti.

    La valle del Tevere presso Todi.

    Al bacino chiuso di Castelluccio si attribuiscono analoghe origini carsiche, per quanto alcuni non escludano che alla sua formazione possano aver contribuito movimenti tettonici precedenti. Esso comprende quattro piani: il piano Grande, il piano Piccolo, il piano Perduto e la regione di San Lorenzo, dei quali solo i primi due sono inclusi nei confini amministrativi della nostra regione. Il piano Grande, con una lunghezza di 7 km. e una larghezza media di 2, è situato a 1270 m. di altitudine, ed è chiuso fra la catena dei Sibillini ad oriente e la dorsale monte Veletta-monte Ven-tòsola ad ovest. A sudest si estende, su una superfìcie di appena 2 kmq., il piano Piccolo, stretta conca allungata, alla quota di circa 1350 metri. Ambedue le conche presentano numerose doline e smaltiscono le acque attraverso inghiottitoi; particolarmente notevole quello che si apre nella parte centromeridionale del piano Grande, formato da una grande cavità imbutiforme con diametro, in superfìcie, di circa 100 m. e profondo una ventina; nella stagione asciutta sono visibili le larghe fratture degli strati di calcare, attraverso le quali l’acqua penetra nel sottosuolo. Il bacino di Castelluccio presenta un tipico paesaggio di alta montagna: coperto d’inverno da uno spesso manto nevoso che si mantiene fino a primavera inoltrata, il fondo della grande conca si trasforma nell’estate in un verdissimo prato, costellato di fiori e popolato da greggi di migliaia di pecore che vi salgono per il pascolo.

    Bacini carsici di Colfiorito: il piano di Collecroce.

    Il padule di Colfiorito.

    Oltre ai due bacini dei quali ora si è detto, il fenomeno carsico si manifesta ampiamente in tutta la montagna calcarea, con forme meno grandiose, ma pur sempre caratteristiche. Doline, inghiottitoi e laghetti carsici si ritrovano numerosi lungo la catena dei Sibillini. Nella catena del monte Martano sono frequenti le doline, di cui la più grande forma il bacino del piccolo laghetto di Firenzuola, e anche le grotte, che si aprono nei fianchi delle montagne; tra queste si possono ricordare: la grotta dei Cani presso Acquasparta, quella dei Banditi e del « Ticchetacche » nella stessa zona e, più famosa di tutte, la splendida grotta d’Eolo, che si apre presso l’abitato di Cesi, sulle pendici del monte Torre Maggiore. Ancora, doline e grotte furono rilevate soprattutto a ponente di Perugia, nel monte Tezio e nel monte Malbe, e presso Assisi, nel Subasio. Ma l’aspetto forse più tipico ed interessante dell’azione carsica in queste montagne è dato dall’abbondanza di sorgenti, alimentate da una intensa circolazione sotterranea, che sgorgano alla base dei massicci calcarei ed hanno una notevole influenza, come si vedrà meglio in seguito, sul regime dei fiumi umbri.

    Il piano Piccolo di Castelluccio.

    Le frane rappresentano un altro fenomeno naturale meritevole di essere ricordato, più che per l’entità, per la frequenza con cui si manifesta, e anche per i suoi effetti sugli abitati e sulla viabilità. I movimenti franosi si collegano infatti principalmente con l’estensione dei terreni pliocenici, formanti le basse colline che circondano le conche interne; essi sono costituiti da ciottoli e sabbie nella parte superiore e da argille nella parte inferiore, e tra gli uni e le altre si interpone uno strato di sabbie argillose che facilmente si impregnano d’acqua, rigonfiandosi e scivolando quindi, specie dove le pendenze si fanno più accentuate, sulle sottostanti argille. Particolarmente notevoli sono le frane delle colline di Perugia e di Todi, che ormai da secoli minacciano parte dell’abitato delle due città; ma piccole frane o semplici smottamenti del terreno si incontrano quasi dovunque nelFUmbria centrale ed occidentale.

    Di origine un po’ diversa sono le frane della zona di Orvieto, dovute in parte allo slittamento del banco di tufo vulcanico sulle argille, in parte al progressivo sfaldamento della parte estrema del ripiano tufaceo, al quale viene a mancare il sostegno dei terreni sottostanti, asportati dall’erosione. Altre frane si notano nelle argille scagliose, il classico terreno franoso dell’Appennino settentrionale, presente qui solo in una limitata porzione della valle del Chiascio; ed infine movimenti dovuti al rotolamento di materiali incoerenti, provenienti dal detrito del falda (« ravari »), sono frequenti in tutta la valle del Corno e del suo affluente Sordo, dove spesso sbarrano le strade e invadono i terreni coltivati del fondovalle.

    Non di rado i movimenti franosi si ricollegano anche all’instabilità sismica che si riscontra in varie parti della regione. L’Umbria infatti, come gran parte dell’Italia centrale, è dotata di elevata sismicità e possiede numerose zone nelle quali lungo il corso dei secoli i terremoti si sono ripetuti con frequenza, causando danni e rovine ai centri abitati.

    Un primo distretto sismico si rileva — secondo il Baratta — nell’Umbria settentrionale, tra Sansepolcro e Città di Castello, dove si ebbero a più riprese numerosi scuotimenti, per quanto gli effetti più gravi siano rimasti in genere limitati ad aree ristrette. Particolarmente rovinoso per Città di Castello fu il terremoto del 1789 che si estese al vicino centro di Lama e per il quale si ebbero a deplorare numerose vittime. Anche a Gubbio si avvertirono alcuni intensi terremoti, sia durante il XV secolo che nel 1700 e nel 1800, in concomitanza con i periodi di attività sismica verificatasi nella vai Tiberina.

    Un’altra zona di rilevante instabilità corrisponde alle valli del Topino e del Chiascio ed alla valle Umbra, lungo le quali si individuano parecchi centri: uno presso Gualdo Tadino, che si ridestò nel 1751 con un disastroso terremoto tra Fossato di Vico e Gaifana; uno a Valfàbbrica, dove furono particolarmente violente le scosse del 1897; uno presso Assisi, colpita in special modo dal terremoto del 1854 (che causò gravi rovine anche a Bastia) e da quelli del 1904 e del 1915. Foligno fu ripetutamente danneggiata da movimenti tellurici i cui epicentri si riconoscono nei dintorni della città, a volta a volta più intensamente colpiti: Trevi, Campello, Monte-falco, Giano, Sellano, Cerreto. Nocera fu al centro del terremoto del 1747, per il quale si ha notizia di gravi danni subiti dai fabbricati della città e di parte del contado; e fu ancora interessata particolarmente dal già ricordato terremoto del 1915, esteso a gran parte della valle Umbra.

    Una zona sismica notevole è ancora quella spoletina, che comprende, oltre alla città (dove fu rovinosa la scossa del 1895), le località vicine fino ad Acquasparta, e si collega con il distretto ternano, anch’esso caratterizzato da diversi centri, da Strettura a Stroncone, a Sangèmini, Narni e Calvi. L’area più attiva del gruppo è quella che si estende attorno al lago di Piediluco, completamente desolata dal terremoto del 1875 insieme a Bonacquisto, Papigno ed altri centri vicini. Terni invece ha risentito sempre con minore intensità le scosse, anche violente, che si sono verificate nel territorio circostante.

    Orvieto fu colpita nel 1276 da un grave terremoto, intorno al quale però non si hanno notizie particolareggiate. Il terremoto del 1901, più forte ad Orvieto che altrove, potrebbe indicare comunque l’esistenza di un centro sismico in corrispondenza della città ed in relazione con la zona di notevole instabilità del gruppo vulcanico dei Volsini.

    Meno accentuata appare l’attività sismica a Perugia e neH’Umbria nordoccidentale, pur se non manca anche per questa zona il ricordo di terremoti che causarono danni e rovine agli abitati: infatti Perugia fu investita da forti scosse nel 1604 e due fortissimi terremoti, nel 1753 e nel 1861, colpirono particolarmente Città della Pieve. Assai più stabile risulterebbe invece l’area del Trasimeno, per la quale non si ha notizia di danni causati da movimenti tellurici.

    La maggiore intensità e frequenza di fenomeni sismici si riscontra nella parte montuosa sudorientale della regione, cioè nell’alto bacino del Nera, con i centri principali di Norcia e Cascia, che formano un caratteristico distretto, le cui maggiori manifestazioni sembrano strettamente connesse con quelle della regione aquilana. Norcia è stata spesso colpita da violenti terremoti: disastroso fu quello del 1859, i cui effetti si risentirono anche a nord della città, fino a Campi; altre forti scosse si verificarono nel 1328, nel 1719, nel 1730 e nel 1903 (con gravi danni sia a Norcia che a Preci). Un altro terremoto, nel 1703, ebbe effetti assai gravi a Norcia e a Cascia, che rimasero allora completamente distrutte. Il disastrosissimo movimento sismico del 1328 colpì anche Cascia, il cui speciale centro ha dato parecchi terremoti violenti — che causarono, come quelli del 1599-60, danni anche a Norcia — ed altri minori che si presentarono quasi sempre sotto forma di lunghi periodi sismici, e i cui effetti ebbero particolare intensità anche nel territorio circostante.