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Prodotti del suolo e pesca


    Prodotti del <a href="https://paesi.info/suddivisioni-territoriali/">suolo</a> e pesca

    Caratteri generali dell’economia ligure i prodotti del suolo e la pesca

    Fattori e caratteristiche generali dell’economia ligure

    Il fattore determinante dell’economia ligure è senza dubbio il mare, sia per l’intensità che ha raggiunto il movimento marittimo, sia perchè le maggiori industrie servono il traffico marittimo o si sono sviluppate per la possibilità di ricevere direttamente dal mare la materia prima, sia ancora perchè l’attrattiva che richiama su questo piccolo territorio visitatori di ogni parte del mondo gli viene dalla mitezza del clima marittimo e dalla bellezza incomparabile delle sue coste. Ma al commercio, alla grande industria, al turismo legati al mare, si associano altre attività economiche, se pure su un piano molto più modesto, perciò può dirsi che ogni attività economica abbia in Liguria una qualche espressione.

    Nei secoli più gloriosi della Repubblica di Genova la floridezza economica ebbe vita dal mare e sul mare, lungo la costa marittima. Nei secoli della decadenza, dal XVIII al XIX, languirono i traffici e le industrie, mentre le popolazioni dell’interno cercavano di trarre dal suolo montuoso e spesso ingrato quanto poteva dare e si popolavano e bonificavano le campagne delle zone pianeggianti costiere. Ma la vocazione marittima della Liguria era soltanto sopraffatta da motivi esterni — il Mediterraneo tagliato via dalle grandi arterie del traffico, le dominazioni straniere — e bastò che questi venissero meno per veder riprendere, con un’intensità degna del passato, l’attività marittima e le altre a questa collegate.

    Il fattore determinante dell’economia ligure oggi, come in passato, è il mare; la celebre « Lanterna » del porto di Genova è il simbolo più caratteristico della vita marittima.

    Nella seconda metà del secolo XIX, infatti, una serie di fattori favorevoli concorre a valorizzare quella che è l’effettiva ricchezza della Liguria: la sua posizione sul mare, là dove la costa piegando ad arco più si avvicina al centro della Pianura Padana e le montagne presentano una serie di passi relativamente facili. L’unità italiana, il sorgere delle grandi industrie nella Lombardia e Piemonte, il ravvivarsi delle correnti commerciali nel Mediterraneo dopo l’apertura del Canale di Suez, tutto concorre a dare rapido e forte impulso al traffico marittimo e a far sorgere, collegata direttamente o indirettamente con questo, la grande industria. Frattanto nuove abitudini di vita e nuovi mezzi di valorizzazione del suolo indicano una fonte di ricchezza nel turismo e un’altra nelle coltivazioni ricercate degli ortaggi, della frutta e dei fiori.

    Il rinnovamento economico interessa però quasi esclusivamente la zona costiera, la Liguria marittima in senso stretto, mentre le vallate dell’interno continuano a vivere delle risorse di una magra agricoltura e di un modestissimo allevamento, tanto che col secolo XX si inizia quell’esodo della popolazione che accentuerà sempre più il contrasto con la zona costiera, dove i centri abitati si sviluppano con crescente rapidità e le attività si moltiplicano.

    Il primo aspetto, oggi, dell’economia ligure è dato dalla assoluta prevalenza delle attività industriale, finanziaria e commerciale, a cui attende complessivamente circa il 70% della popolazione attiva. Esse hanno, nel complesso dell’economia italiana, un’importanza di primissimo piano che pone questa regione, la penultima per estensione di territorio, ai primi posti nella vita della nazione: attraverso i porti liguri passa circa il 40% del peso delle merci entrate e uscite dai porti italiani (commercio con l’estero); il 50% circa degli impianti di costruzioni navali si trova in Liguria; vengono prodotti in Liguria oltre il 30% della ghisa e oltre il 20% dell’acciaio italiano; ancora: dei turisti che vengono in Italia, la grande maggioranza sosta in Liguria. E sono soltanto alcuni esempi delle più tipiche attività liguri. Ma vi è di più : il retroterra dei porti liguri, la zona quindi economicamente legata alla Liguria, abbraccia un’area in cui svolgono la loro attività più di 12 milioni di abitanti, circa un quarto della popolazione italiana, e dove si produce oltre metà del reddito totale italiano.

    Un altro aspetto dell’economia ligure, poiché per Liguria dobbiamo intendere l’intera regione amministrativa, è il contrasto fra la regione costiera coi suoi impianti marittimi ed industriali, le attività turistiche e le aree a coltura intensiva, e il retroterra, quasi dovunque povero e arretrato, in via di spopolamento, salvo qualche vallata rinnovata dalla grande industria, o qualche altra dove è penetrata la coltura dei fiori o si è iniziata l’attività turistica.

    Un altro carattere dell’economia ligure è dato dalla posizione dominante di Genova, sia nel settore dei traffici, sia in quello della grande industria e dell’attività finanziaria, posizione di preminenza che risulterebbe senz’altro schiacciante se si guardasse alle sole cifre statistiche. Se però si osserva più attentamente l’attività degli altri centri maggiori e minori e delle zone liguri fuori del Genovesato, si scopre come il senso di indipendenza che attraverso la storia ha caratterizzato i vari centri della Liguria si manifesti, oggi pure, anche nel campo economico con la varietà delle attività e con note di originalità che le distinguono da quelle della « dominante » : così nel settore agricolo, in quello dell’artigianato, in quello della stessa grande industria che pur dipende per tanta parte da Genova.

    Ogni centro, ogni valle o sezione della costa ha qualche cosa di suo anche nel settore economico, qualche cosa per cui può vantare una sua originalità di fronte alla Metropoli. Così Savona, che ha un suo primato industriale nei complessi della Ferrania e delle industrie chimiche delle valli delle Bòrmide, e vanta delle caratteristiche portuali peculiari, come l’ormai vecchio ma sempre efficiente impianto delle funivie per il carbone; così La Spezia con le sue attività militari e i paesi del suo Golfo; così Imperia con i suoi oleifìci; e poi ancora la zona floricola di Sanremo, quella ortofrutticola di Albenga, il Tigullio coi centri del grande turismo e le tradizionali industrie artigiane; per ricordare solo alcune regioni più note e più tipiche.

    Perciò può ben dirsi a ragione che un carattere che contraddistingue l’economia ligure sia la varietà, pur nelle linee fondamentali comuni dovute al mare e sottolineate dal prevalere della città dominante.

    Un’ultima osservazione generale. L’economia ligure ha un giro di attività che va ben oltre i ristretti limiti della regione: i suoi porti ricevono dai più lontani centri di produzione le fonti di energia, carbone e petrolio, e le materie prime necessarie alla zona industriale padana e in piccola misura anche a quella svizzera; i prodotti industriali usciti dalle fabbriche liguri — le navi come l’acciaio, come certi tipici prodotti marinari, e fìnanco i prodotti artigiani — vanno in tutto il mondo; larghissimo è il raggio di esportazione dei prodotti agricoli, quantitativamente pur così modesti; infine i turisti che portano alle coste liguri un flusso continuo di ricchezza, vengono dai più diversi paesi d’Europa e di oltre Oceano. Ma in questa vastità di rapporti è pur l’elemento maggiore di debolezza dell’economia ligure: i traffici, le industrie, dipendono da elementi extraregionali ed extranazionali, dipendono dalle condizioni economiche di altre regioni, dalle grandi correnti nazionali ed internazionali del traffico e del turismo, servono centri di consumo in gran parte lontani e da tutto questo insieme di fattori vengono ad essere condizionati. Perciò periodi di crisi possono sempre pesare sull’economia ligure o su questo o quello dei suoi settori, impegnando a un continuo adattamento ed a uno studio delle condizioni di mercato di cui del resto la Repubblica di Genova ha dato buona prova nella sua storia economica.

    Depositi di petrolio a Vado Ligure.

    L’entroterra ligure coi suoi paesi e la povera agricoltura tradizionale, è in netto contrasto con la regione costiera (veduta di Carro, nella valle della Vara).

    L’agricoltura in relazione all’ambiente naturale e antropico

    All’agricoltura si dedica oggi in Liguria circa il 15% della popolazione attiva, con una diminuzione anche rispetto all’ultimo censimento del 1951: 18% (1901: 42%); il reddito delle attività agricole rappresenta una minima parte del reddito totale della popolazione ligure. Queste cifre sono ben significative per accentuare la modesta posizione dell’agricoltura nel quadro dell’economia ligure; e se ne potrebbe aggiungere un’altra: quella delle grosse partite dei prodotti agricoli di grande consumo alimentare, oltreché voluttuari, che da altre regioni d’Italia e dall’estero affluiscono ai mercati della Liguria per i bisogni della sua popolazione. I cereali in primo luogo vengono quasi completamente di fuori, e poi patate, legumi, ortaggi e frutta oltre, s’intende, i prodotti della zona calda.

    D’altra parte però, alcuni prodotti dell’agricoltura ligure varcano i confini della regione e raggiungono anche i mercati esteri dell’Europa centro-settentrionale e fin delle Americhe e dell’Africa: gli ortaggi di primizia, le pesche, altre frutta e perfino i prodotti del bosco, come le castagne e i funghi.

    La più saliente caratteristica dell’agricoltura ligure è infatti questa: il vivissimo contrasto fra la maggior parte della regione dove essa ha caratteri di decadenza e dà un reddito insignificante, e poche aree dove si esercita intensivamente, lavorando — più che per i mercati locali — per quelli esteri, in armonia con tutta l’economia ligure, così legata agli scambi con altre regioni.

    L’ambiente naturale non favorisce, salvo rare eccezioni, l’agricoltura. Oltre il 65% del territorio è classificato di montagna, il 35% di collina, e questo dice ancora poco. Se si osserva come siano rari i fondovalle pianeggianti, come i pendii delle colline anche più vicine al mare salgano ripidi, come affiorino spesso rocce nude e franose, allora ben si comprende che natura e forme del suolo rendono difficile e molto spesso impossibile il lavoro dell’agricoltore. Le condizioni del rilievo ostacolano inoltre la viabilità, anche e soprattutto per le strade di raccordo, rendendo così difficile lo smercio dei prodotti agricoli.

    Un altro fattore negativo è la scarsità di acqua. Le precipitazioni sono in complesso abbondanti, lo si è visto, soprattutto nella Riviera di Levante, ma chi ha assistito ai violenti rovesci d’acqua che dilavano le montagne liguri, ingrossano i torrenti, trascinano a valle interi terrazzi coltivati, si rende conto come tali precipitazioni costituiscano spesso, non un aiuto, ma un grave ostacolo all’agricoltura, e come la Liguria, pur così irrorata di piogge, sia assetata di acqua.

    In quasi tutta la regione, infatti, le acque di pioggia non si fermano al suolo nè vanno ad alimentare una falda freatica abbondante, sia per la forte pendenza sia per la prevalenza di rocce impermeabili; nè dànno alimento a corsi d’acqua regolari e utilizzabili per grandi impianti di irrigazione. Non si dimentichi inoltre che, ai violenti piovaschi del periodo autunnale, invernale e primaverile, succedono i mesi asciutti dell’estate e in qualche luogo, per esempio nelle zone a olivo della provincia di Imperia, lo strato del terreno superficiale è molto sottile e l’acqua, evaporando rapidamente, viene ben presto a mancare alle colture anche nel periodo di maggiori precipitazioni.

    La situazione idrica è aggravata dai ripetuti disboscamenti per cui le acque, dilavando le nude rocce o scorrendo rapide e selvagge sui pendii dove al bosco si è sostituita soltanto una magra vegetazione, corrono al mare senza dare alcun beneficio alle colture della costa e del piano, anzi danneggiandole gravemente.

    Già al principio del secolo XIX l’abate Giammaria Piccone, appassionato studioso dei problemi agricoli del Genovesato, proponeva la ricostituzione dei boschi come il mezzo più idoneo per migliorare le condizioni del suolo ligure; qualche anno più tardi A. Bianchi, autore di un’opera in cui si qualifica « coltivatore di Diano », denuncia il « distruggimento delle boscaglie di montagna ed in ispecie delle vette » come la causa dei maggiori danni e, egli dice, della stessa incostanza e mutamenti di clima.

    E ben più gravi sono oggi, un secolo e mezzo dopo le parole del Picconi e del Bianchi, le condizioni dei boschi, che hanno subito nuove e gravissime falcidie negli ultimi due periodi bellici, aggravando ancora la già precaria situazione idrica della Liguria.

    Dono prezioso che la natura ha fatto all’agricoltore della Riviera è la mitezza delle temperature invernali, a cui si accompagna la intensa luminosità di cui pure beneficiano le colture. Ma anche la mitezza degli inverni è talvolta frustrata da geli improvvisi, mentre i venti violenti sono spesso un altro grande nemico dell’agricoltura; comunque il beneficio delle miti temperature è limitato alla costa.

    Le condizioni dell’ambiente naturale sono dunque in complesso ostili all’uomo; fanno in parte eccezione i lembi pianeggianti lungo la costa che sono però molto ridotti. Due sole infatti sono, come si è detto, le pianure litoranee un po’ estese: la piana di Albenga e la pianura del basso Magra, o agro Sarzanese, oltre alla minore pianura del Chiavarese e a qualche altro lembo pianeggiante di modestissima estensione. Alle condizioni morfologiche favorevoli si aggiungono, nella piana di Albenga, la presenza di una falda freatica abbastanza ricca, e nel Sarzanese la possibilità di sfruttare per irrigazione le acque della Magra.

    I corsi d’acqua ostacolano col regime torrentizio lo sviluppo dell’agricoltura (Torrente Gòttero, bacino della Vara).

    La tipica sistemazione a terrazze nelle montagne delle Cinque Terre. In mezzo ai vigneti le sedi rurali accessorie.

    Via l’uomo non si è dato per vinto di fronte alle difficoltà opposte dalla natura; oggi sì che l’agricoltore delle montagne liguri abbandona sfiduciato i suoi campi che rendono troppo poco, ma i suoi antenati avevano conquistato palmo a palmo il terreno agricolo anche in collina e in montagna, quasi moltiplicando la ristretta area disponibile. Già in epoca antica, e poi sempre più estesamente nel Medio Evo, si è iniziata la costruzione dei ben noti terrazzi o fasce, detti localmente piane o maxere, con cui è stato rotto il pendio delle montagne.

    Le fasce salgono talora fino alla cima delle colline, si insinuano altre volte tra nude scarpate di roccia, si aprono più ampie ed inclinate dove il pendio è meno ripido; tra l’una fascia e l’altra scendono scarpate erbose dove il terreno è più resistente oppure, dove sono più facili le frane, le sostengono i muri a secco (in tal caso si chiamano maxere) costruiti trasportando a braccia le pietre; dove il vento è più violento o possono arrivare le onde del mare, le completano sul margine siepi di « stipa ». In tutte le vallate e le colline del versante marittimo le fasce formano la nota più caratteristica del paesaggio agricolo ligure e, sia che vi si adagino le colture dei fiori, come nella Riviera di Ponente, o che le risalgano i vigneti — tipici fra tutti quelli delle « Cinque Terre » — o vi crescano gli ulivi mascherandole con le loro chiome frondose, o vi si stendano le colture dei seminativi, dovunque ricordano il lavoro tenace di generazioni e testimoniano la conquista dell’uomo ottenuta a prezzo di fatica e di sacrificio.

    L’attività agricola è antichissima in Liguria, e agricoltori e pastori furono nell’antichità i Liguri; ed è antica soprattutto nelle zone oggi più ingrate e in abban-dono della montagna, mentre le pianure costiere furono popolate e coltivate solo più tardi; ma di difficoltà e di crisi dell’agricoltura ligure si parla ormai da molto tempo.

    E di ottant’anni or sono l’inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola che il governo italiano ordinò per tutto il territorio dello Stato e che per le terre liguri fu diretta dall’onorevole Agostino Bertani.

    Il Bertani, più ancora che sulle difficoltà dell’ambiente naturale, pone l’accento sulle condizioni antropiche e sull’incuria dell’agricoltura perchè, egli dice « la Liguria nonè una regione agricola… ma è tale e tanta l’ubertosità dei suoi prodotti diversi e ricchi, da costituirvi sì una coltura privilegiata e procurarle, se vi si attenda, un largo vantaggio agricolo nell’avvenire… ». Se ciò non è, dice il Bertani, la colpa è soprattutto dei proprietari terrieri che non curano la terra, non vi introducono migliorie, tentano questa o quella coltura a seconda della momentanea convenienza, senza considerare i frutti duraturi, è colpa altresì della scarsezza di capitali impiegati, della deficienza di credito agrario: in tutta questa requisitoria egli si fa eco di quanto aveva già scritto l’abate Picconi. Ma nel 1860 un altro studioso che si è occupato del problema agricolo della Liguria, il Rossi, accusava l’agricoltura di essere per i Liguri fonte di miseria perchè li distoglie dalle più ricche attività marittime e commerciali. Vi è del vero nelle une e nell’altra affermazione; comunque oggi la crisi dell’agricoltura ligure è più grave che mai, anche se dal tempo in cui il Bertani conduceva l’inchiesta governativa sono intervenuti nuovi fatti a favore dell’agricoltura, come l’apertura di nuovi mercati, i mezzi tecnici moderni, l’intensificarsi del consumo di generi prima considerati di lusso. Di fatto l’agricoltura in alcune zone si è rinnovata, ma molti dei mali antichi si sono aggravati e altri se ne sono aggiunti colpendo le colture tradizionali dell’olivo e della vite e minacciando anche le più recenti, degli ortaggi, dei fiori e delle frutta: il diffondersi di nuovi parassiti, un rinnovato disboscamento con le conseguenti alluvioni, la concorrenza dei prodotti di altre regioni d’Italia e d’Europa, una vera e propria « polverizzazione » della proprietà terriera, il richiamo della manodopera da parte dell’industria, e quella sfiducia nella terra, che rende troppo poco, comune alle popolazioni vicine ai centri della grande industria. Il reddito agricolo è divenuto in molte zone così basso che non si riesce più a contenere l’esodo della popolazione rurale.

    Ma le condizioni sono molto diverse da zona a zona, anzi i contrasti che già vi erano nel passato, si sono sempre più accentuati; più che un problema dell’agricoltura ligure, esistono i problemi delle varie zone e colture.

    Il volto agricolo della fascia costiera e delle vallate del versante marittimo

    « Al lembo marittimo, dove il terreno piano lo consente, veggonsi rigogliose ortaglie, agrumeti e giardini; più addentro verso terra, i colli verdeggiano di olivi e di vigneti; più oltre, a compiere lo sfondo del quadro, quasi ad incorniciarlo, le alte vette della catena appenninica, or selvose, or brulle e rocciose ». Questo che delinea il Bertani è ancora sostanzialmente il quadro del paesaggio ligure, anche se alcune note sono alquanto mutate, è cioè sempre attuale la divisione in tre zone agrarie: la fascia costiera con le prime pendici delle colline fino ai 300-350 m.; la media montagna, che comprende le vallate e le colline fino agli 800-900 m. ; al di sopra la zona di montagna. A queste tre zone sono da aggiungere le vallate del versante padano che, per le forme del suolo e per il clima continentale, si distinguono nettamente da quelle del versante marittimo.

    Vedi Anche:  Varietà di passaggi e suddivisioni regionali

    Nella fascia costiera le condizioni naturali sono le più favorevoli: eccezionale la mitezza delle temperature invernali, pur nella varietà che, come si è detto, si riscontra anche in zone molto vicine; maggiori possibilità di irrigare o sfruttare la falda freatica; più facili le comunicazioni perchè corrono lungo il mare le più importanti arterie stradali; presenza, oltre ai centri urbani maggiori, delle località frequentate dal turismo, le quali costituiscono un buon mercato di consumo dei prodotti. Le condizioni diventano ancora migliori dove si affacciano al mare le pianure costiere di Albenga e di Sarzana. Nella prima il terreno alluvionale portato dalla Centa e dai suoi affluenti, assestatosi attraverso i secoli e bonificato nelle aree paludose, costituisce un buon terreno agrario; il clima è favorevole per la protezione della cintura di monti che la chiudono, anche se le temperature inferiori allo zero non sono troppo rare (si sono verificate in quattro inverni su dieci nel periodo 1948-58) e se le raffiche del vento talvolta causano gravi danni. Le piogge non sarebbero sufficienti per una coltivazione intensiva ma l’irrigazione può attingere ad una falda freatica che, nonostante l’intenso sfruttamento, non si è ancora abbassata in modo da destare allarme; anzi, verso la costa è diminuita la salinità dell’acqua, divenuta così utilizzabile, forse perchè discendendo, con la diffusione dei pozzi, la falda acquifera, si è abbassata quella montana che estendendosi nel sottosuolo della pianura ha respinto le infiltrazioni del mare. Nella piana l’acqua di irrigazione proviene pertanto dai pozzi, numerosissimi (se ne contano oltre 4000!) e il sollevamento dell’acqua che si faceva un tempo coi cavalli e coi muli, si ottiene oggi per mezzo di motori elettrici; ai piedi delle colline, verso nordovest, la provvista del prezioso elemento deve essere integrata per mezzo di cisterne che raccolgono l’acqua piovana. Anche qui dove la natura è più favorevole, l’uomo ha guadagnato le zone agricole a prezzo di tenace e intelligente lavoro!

    « Verso terra, i colli verdeggiano di olivi e di vigneti, più oltre… le alte vette della catena appenninica, or selvose or brulle e rocciose » (Golfo Tigullio).

    L’altra pianura alluvionale, quella di Sarzana, beneficia pure di condizioni naturali che hanno reso possibile lo sviluppo dell’agricoltura intensiva: il suolo formato dalle alluvioni della Magra, il clima con temperature invernali miti, anche se un po’ più rigide che nelle Riviere, e soprattutto la presenza del Canale di irrigazione Lunense. Di questo e della bonifica della pianura si parlerà nel capitolo descrittivo dedicato alla zona della bassa Lunigiana.

    Condizioni favorevoli per lo sviluppo agricolo presentano le minori aree pianeggianti costiere, del Chiavarese con la valle dell’Entella, del Sestrese, e altre più piccole ancora.

    E nella fascia costiera che l’agricoltura si è rinnovata, dalla seconda metà del secolo scorso, per l’introduzione della coltura dei fiori nell’estrema Riviera di Ponente, per l’estendersi e l’industrializzarsi delle colture degli ortaggi e delle frutta. Alle colture dei fiori e degli orto-frutticoli si alternano quelle più antiche della vite e dell’olivo; queste ultime però sono, come si dirà più sotto, per varie ragioni in grave crisi.

    La tradizionale coltura « a bosco » degli olivi nella Riviera di Levante.

    Alla fascia costiera segue quella della media montagna litoranea e delle vallate che sboccano nel versante marittimo, che si spinge fino a 700-900 metri. Qui anzitutto l’area coltivata diviene sempre più ridotta e la sostituiscono il bosco, la macchia, la roccia nuda; il clima diviene molto più rigido e molte sono le variazioni locali. Le colture dominanti sono l’olivo e la vite: il primo si spinge nelle vallate della Liguria occidentale anche fino a 800 m., ma è raro nelle vallate longitudinali della Riviera del Levante, a clima più rigido; la vite si trova dovunque, sia sul versante che scende direttamente al mare, sia nelle vallate più interne. Le due piante succedono l’una all’altra su breve spazio, oppure l’una prevale sull’altra, e sono coltivate sia in coltura specializzata, sia associate o alternate ai cereali, alla patata, ai foraggi, ai legumi, coltivati qui solo per il consumo locale; nei pendii più umidi occupa vaste estensioni il castagno; scarsi in generale gli alberi da frutta; in qualche plaga, come nella Fontanabuona, si sono estesi i noccioleti. In questa zona l’agricoltura è molto precaria: la vite e l’olivo sono danneggiati dalla filossera e dalla mosca olearia, dall’incuria, da condizioni di mercato sfavorevoli, come più sotto si dirà; il castagno è in crisi per il diffondersi del cancro della corteccia e per la diminuzione del consumo; la proprietà è quanto mai frazionata; la viabilità inadeguata, l’acqua insufficiente, le abitazioni generalmente decadenti. Perciò il contadino, che non vede speranza di aumentare il troppo scarso reddito agricolo, abbandona volentieri la terra e cerca di lavorare nelle industrie della costa anche a costo di faticosi spostamenti; dove l’economia agricola può venire integrata dai proventi dell’industria e del turismo, l’agricoltura è trascurata a vantaggio di queste occupazioni più redditizie, altrove si abbandona addirittura il paese. Si è già nella Liguria agricola « zona depressa ».

    Ma ancora peggiori sono, salvo qualche eccezione dove sono sorti dei centri di villeggiatura e di turismo invernale, le condizioni delle vallate più interne, delle zone di montagna sopra gli 800-900 m. : qui il clima diviene rigido, con inverni nevosi; non si trovano più la vite e l’olivo, ma solo cereali, patate, legumi, magri prati e pascoli che non permettono di allevare se non uno scarso numero di capi di bestiame, nè i boschi, estesi ma troppo spesso radi e ridotti allo stato di macchie, possono offrire un adeguato compenso alla scarsità delle colture. La mancanza di strade rende difficilissimo lo smercio dei prodotti; i paesi, nonostante i notevoli progressi degli ultimi anni, sono spesso sprovvisti di mezzi igienici, qualche volta anche di scuole: sono le zone dove lo spopolamento è stato più grave e continua tuttora con preoccupante rapidità, perchè le zone delle industrie sono lontane e chi vi lavora deve lasciare definitivamente il paese. Condizioni analoghe presentano le vallate del versante padano anche se vi sono più estese le colture dei foraggi e dei prati accanto ai cereali, alle patate e più in basso alla vite e agli alberi da frutta.

    Coltivazione della vite in una vallata della Liguria occidentale : Pornassio nella valle dell’Arroscia.

    I vigneti nelle Cinque Terre beneficiano dell’aria marina; coltivati in forma di bassissimi pergolati, raggiungono a volte anche la cima delle colline.

    Che cosa attendono la collina e la montagna ligure per migliorare le loro sorti? Certo le forze individuali non possono bastare. Si chiedono, e in parte sono già in atto: costruzione di acquedotti, miglioramento degli edifici di abitazione, dotazione di scuole, di comunicazioni telefoniche, sgravi fiscali, aiuti ai contadini per le migliorie agricole vere e proprie, costruzione di strade e soprattutto la soluzione del problema idrico con il rimboschimento, con la costruzione di bacini montani e opere di irrigazione. La soluzione di quest’ultimo problema interessa del resto tutta la Liguria perchè anche la fascia costiera ha bisogno di acqua più abbondante e meglio distribuita, e soffre delle alluvioni non trattenute dai pendii disboscati: in questo senso montagna e regione costiera sono strettamente collegate. Perciò sono state deliberate o sono in corso di esecuzione alcune « grandi opere di bonifica » che dovrebbero migliorare le sorti di tutta la regione: tra queste l’ampliamento del Canale Lunense; la bonifica e irrigazione della vai di Vara; l’utilizzazione delle acque del bacino montano del Tanaro e di parte dell’alto corso dell’Arroscia, di cui dovrebbero beneficiare i due versanti ligure e piemontese con produzione di energia, vaste opere irrigatorie nell’entroterra e nella regione costiera, sistemazione degli acquedotti di Imperia e della Riviera dei Fiori, dove la falda freatica è ormai così bassa che si deve provvedere a disinquinare le acque. L’irrigazione delle regioni costiere potrebbe portare l’acqua a livelli dove fino ad ora si dipende unicamente dalle acque di pioggia: per esempio, nelle colline che circondano la piana di Albenga, determinando un’eventuale estensione dell’area orto-frutticola. Altre opere ancora: la costruzione di impianti idroelettrici e di irrigazione nella valle dell’Argentina; la sistemazione della Polcèvera, le cui alluvioni provocano danni gravi alle porte stesse di Genova; l’utilizzazione delle acque della Fontanabuona per il rifornimento idrico, la produzione di energia e opere di irrigazione di cui beneficino la valle stessa e la zona costiera.

    Ma si pensa anche ad una radicale trasformazione dell’economia agraria della zona collinosa e montana, il cui primo caposaldo sarà una maggiore estensione delle colture foraggere per incrementare l’allevamento bovino.

    Dell’intera superficie della Liguria il 94,5% appartiene alla superficie agraria e forestale, ma di questa solo il 43% è occupato da colture; quanto alle singole qualità di coltura è da notare l’elevata percentuale delle colture arboree specializzate (24% della superficie agraria, mentre in Italia è appena del 12%); la percentuale dei seminativi (32%) è inferiore alla media nazionale, è invece superiore quella delle foraggere, ma vi sono incluse vaste aree di pascoli magri, pochissimo utilizzati. Per l’estensione dei boschi e castagneti la Liguria, col 54% circa, viene prima fra le regioni italiane superando anche lo stesso Trentino-Alto Adige. Per le cifre delle singole province vedasi la tabella n. 11 in fondo al volume.

    Si è già accennato all’estremo frazionamento della proprietà in Liguria: più del 60% delle proprietà ha un’estensione inferiore a mezzo ettaro! A questo si aggiunga che la proprietà è molte volte suddivisa in appezzamenti staccati e anche lontani fra loro. D’altra parte è ben difficile superare le difficoltà che si oppongono al tentativo di ricomporre le normali unità fondiarie. La maggior parte degli agricoltori sono proprietari, ma molte volte è la proprietà fatta miseria, quando non si tratti di zone orto-frutticole o floreali. Numerose anche le piccole mezzadrie, ben spesso trascurate per lo scarso reddito sia dai proprietari che dai mezzadri.

    Le imprese agrarie industrializzate sono rarissime; anche nella zona orto-frutticola di Albenga prevale la piccola proprietà terriera e vi lavorano i componenti la famiglia, ma qui il reddito è molto elevato e il lavoro che si richiede molto intenso; condizioni poco diverse nell’agro sarzanese dove, se si eccettuano due o tre grandi aziende, le proprietà sono in media inferiori a un ettaro. Invece nella zona floricola sono frequenti vere e proprie imprese industriali e vi sono impiegati dei salariati fissi.

    Per la montuosità del suolo e le condizioni generali di disagio, nella zona collinosa e montana è minimo l’impiego di macchine e di mezzi moderni; il contadino ligure, specialmente in queste zone dell’interno, si serve in scarsa misura anche dei concimi chimici sia perchè non ha i mezzi per procurarseli, sia perchè gli manca la preparazione. Le forze locali non sono neppure sufficienti per una efficace lotta contro i parassiti. Nè è facile diffondere i sistemi cooperativi che urtano contro la mentalità individualista del contadino ligure.

    I prodotti agricoli

    Un rapido esame delle singole colture per completare il quadro dell’agricoltura ligure. Le colture hanno mutato col tempo: il castagno è stato diffuso nell’alto Medio Evo, come pure l’olivo e la vite. L’economia curtense propria del periodo carolingio, per cui ogni Castello dava tutti o quasi i prodotti di consumo, non ebbe sviluppo in Liguria, fatta eccezione per qualche Abbazia. I prodotti più diffusi erano vite e olivo, mentre nel porto di Genova arrivavano tutti gli altri generi di consumo, dal grano di Sicilia ai prodotti rari e di lusso dell’Oriente. Viceversa erano celebrati ed esportati vini e olio. Nei secoli XIX e XX si sono diffuse le colture dei fiori e quella intensiva degli ortaggi e delle frutta. Altre colture sono scomparse o quasi: tra esse ricordiamo la canapa, coltivata in varie località, ma soprattutto nella piana di Albenga dove negli ultimi secoli del Medio Evo e nel principio dell’età moderna la canapa, prodotta nella piana e lavorata in città, veniva venduta a Genova che la usava largamente nelle costruzioni navali. E ricordiamo ancora il gelso, ora rarissimo, fatta eccezione per le vallate del versante padano, che alimentava ancora in tempi recenti l’allevamento del baco.

    Piantagione di carciofi nella piana di Albenga.

    Agricoltura che si è rinnovata: coltivazioni in serra nella pianura di Albenga.

    Nel quadro attuale hanno scarsissima importanza i seminativi, specialmente i cereali. In continua diminuzione la superficie dedicata ad essi, molto scarso il rendimento: per il frumento circa 15.000 ettari, con un rendimento di poco più di 12 quintali per ettaro. La maggiore estensione delle colture cerealicole si ha nelle vallate della montagna (particolarmente nel versante padano), ma anche qui non bastano neppure al consumo locale. Nella zona del vigneto e dell’uliveto il frumento, coltivato in associazione alle colture arboree, dà raccolti molto scarsi e minima estensione ha nella fascia costiera dove è destinato a scomparire del tutto. Coltivato qua e là il granoturco, mentre nei più elevati Comuni montani compaiono la segale e l’orzo. Abbastanza diffusa la patata: vanno però distinte le patate comuni da quelle primaticcie coltivate come ortaggio, per le quali la Liguria è ai primi posti fra le regioni italiane. Nelle vallate delle zone montane sono coltivate anche le piante da foraggio che assumono maggiore estensione nelle vallate del versante padano. In complesso le colture foraggere, sia avvicendate che permanenti, sono poco estese ma la situazione ha già cominciato a migliorare. Scarsa estensione hanno i legumi (fagioli, fave, ecc.) coltivati per usarli secchi. Si può dire che mancano in Liguria le colture industriali, anche se compaiono in provincia della Spezia la barbabietola da zucchero e il tabacco, in quella di Imperia il girasole.

    Scriveva il Bertani, nella sua relazione già citata: «la ricchezza dell’industria agricola ligure, in un futuro che spero prossimo, deve consistere oltreché nella coltura della vigna e dell’olivo, nel frutteto, nell’orto, nel giardinaggio ». Questo auspicio si è veramente avverato. Ortaggi e fiori sono oggi con le frutta i prodotti migliori dell’agricoltura ligure, quelli che le assicurano esportazioni cospicue, che fanno agiata una classe agricola la quale non abbandona la terra e cerca di adeguarsi al proprio compito migliorando le attrezzature tecniche e la preparazione professionale.

    Per gli ortaggi viene prima la zona dell’Albenghese. La coltura orticola vi si sviluppò a partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso e vi contribuirono gli orticoltori emigrati dalle valli del Bisagno e della Polcèvera (« bisagnini » e « polceve-raschi »), ormai incluse nell’area urbana di Genova. Nel 1895 l’orticoltura occupava già 700 ettari e quest’area continuò ad estendersi mentre si perfezionavano i mezzi tecnici; si provvedeva all’irrigazione individualmente e col formarsi di consorzi, si ricostruivano e si moltiplicavano le case coloniche. La densità della popolazione agricola raggiunge oggi nella piana valori molto alti: il prof. Brusa ha calcolato nell’area ortofrutticola di Albenga circa 600 ab. per kmq. e oltre 1000 per quella del vicino Comune di Ceriale mentre la popolazione è molto diminuita nei paesi delle vicine colline e montagne. Col crescere della produzione e delle vendite, si è organizzato il mercato di Albenga, sono nate industrie ausiliarie, sono sorte iniziative di studio dei problemi agrari frequentate anche da orto- e frutticoitori di altre regioni. Caratteristiche dell’agricoltura albenghese sono l’avvicendamento, la consociazione e soprattutto la forzatura, cioè la produzione di ortaggi di primizia, in obbedienza ad un calendario determinato, non dallo sviluppo normale delle colture, ma dalle richieste dei mercati. E sorto così il problema delle colture in serra che oggi sono in numero di oltre 3000 per un’area che supera i 200 ettari; vanno aumentando le serre calde; tipica anche la forzatura con cascami di cotone fatta sia in serra sia in pieno campo. Tra le colture più importanti ricordiamo quella del pomodoro, del carciofo coltivato a carciofeto annuale, triennale e quadriennale, con produzioni di stagione e soprattutto precoci; e ancora l’asparago, le insalate (tra cui la cicoria catalogna), gli spinaci e poi cavoli, fagiolini e piselli, piante aromatiche, specialmente il basilico.

    Prodotti agricoli caratteristici. Il vigneto si trova sparso in ogni parte della Liguria; qui si è indicato solo nelle Cinque Terre perchè è la più ampia zona specializzata con produzione di vino « tipico ».

    Il basilico coltivato in una moderna serra riscaldata e offerto al mercato nei mesi invernali è diventato una delle « specialità » della pianura sarzanese.

    Per la concimazione si ricorre sia allo stallatico, la cui produzione sarebbe favorita se aumentasse nelle vicine colline il numero dei capi di bestiame, sia ai concimi chimici ed anche alle immondizie, utilissime per formare, nelle colture in serra, il cosiddetto « letto caldo ».

    L’area di esportazione degli ortaggi si è allargata raggiungendo non solo i mercati della Liguria, in primo luogo Genova e i centri turistici, ma anche i paesi esteri : questi acquistano particolarmente il pomodoro, le insalate, che vanno ai mercati dell’Europa centro-occidentale e della Gran Bretagna, ed anche, per aereo, attraverso l’aeroporto di Villanova, nell’Europa settentrionale; i pomodori raggiungono fìnanco paesi americani, come il Venezuela, e africani.

    Coltura dei fiori nella zona di Sanremo; si notino i caratteristici serbatoi cilindrici per l’acqua.

    L’area coltivata a orti ha raggiunto oggi circa i 24.000 ettari con una produzione superiore ai 2 milioni di quintali; si sviluppa nella pianura non superando, ordinariamente, l’isoipsa di 50 metri. Il reddito è rapidamente aumentato, ma oggi si avverte qualche sintomo di stanchezza e si profilano le difficoltà dovute alla concorrenza di altri centri produttori mentre è molto elevato il costo di produzione; prima sono stati gli ortaggi del Mezzogiorno d’Italia a far concorrenza sui mercati del Piemonte e della Lombardia, ora sono i pomodori delle Canarie e gli ortaggi del Belgio, Olanda, Francia, paesi mediterranei a fare concorrenza sui mercati esteri e sugli stessi mercati italiani. Le condizioni di privilegio dell’ultimo decennio del secolo scorso e dei primi tre decenni di questo secolo non possono più avverarsi.

    Vedi Anche:  La Spezia

    Più tardi si è sviluppata l’orticoltura nella piana di Sarzana, che comprende le basse valli della Magra e della Vara per un’estensione di circa 4600 ettari, in gran parte inclusi nel comprensorio di bonifica e irrigazione del Canale Lunense: è appunto a questo, oltreché al suolo alluvionale, che si deve il promettente sviluppo di questa zona agraria dove l’ortofrutticola sta sempre più acquistando carattere intensivo.

    L’avvenire sembra promettente, favorito sia dalla vicinanza dei mercati di acquisto della Spezia e dei centri turistici del golfo e zone vicine, sia dalla posizione su importanti vie di comunicazione, poiché di qui partono strade e ferrovie per l’Emilia e la Lombardia. Anzi, sembrerebbe riservata al mercato di Sarzana una funzione di smistamento, non solo per gli ortaggi di produzione locale, ma anche per quelli provenienti dal Mezzogiorno e dalla Sardegna (via mare attraverso il porto della Spezia) verso i mercati del nord italiani ed esteri.

    Le serre calde in genere si sono anche qui moltiplicate in questi ultimi anni: oltre un centinaio dal 1952 al i960; vi si trovano le grandi serre accessibili alle macchine agricole. Il nuovo mercato alla produzione di Sarzana, da poco costruito, è già insufficiente; è in progetto uno scalo merci coperto in raccordo con un nuovo mercato all’ingrosso a La Spezia; si costruiranno impianti frigoriferi.

    Secondo le previsioni, la produzione orticola dovrebbe superare, nel giro di pochi anni, il milione e mezzo di quintali comprese le patate. Sono coltivati tutti gli ortaggi, e accanto a questi le piante aromatiche, specie il basilico, molto richiesto dalla cucina ligure.

    Altra zona dove la coltura orticola ha avuto grande incremento è la pianura chiavarese; qui però sembrerebbe essere giunta alla saturazione e, a parte le zone a orti che vengono distrutte per il rapido estendersi di nuove costruzioni, si fa strada la tendenza a sostituire gli orti con zone a colture floricole e di piante ornamentali.

    Oltre a queste aree maggiori, può dirsi che, fatta eccezione per le zone floricole, tutto dove si stende un lembo pianeggiante, sono coltivati gli ortaggi: così nel Sestrese, nella pianura di Loano, eccetera.

    L’estrema Riviera di Ponente primeggia per la coltura dei fiori. Questa coltura, prevalentemente invernale, si è diffusa dalla seconda metà del secolo scorso a spese dell’oliveto e agrumeto decadenti, è stata favorita dal clima che consente la coltura anche in piena aria, ma ha dovuto e deve lottare contro molteplici difficoltà di ordine naturale e di ordine antropico. Anzitutto si è dovuto risolvere il problema dell’acqua: questa viene captata dai pozzi che attingono alla falda freatica, dagli acquedotti e dai corsi d’acqua, mentre si raccoglie anche l’acqua di pioggia con le cisterne; viene comunque immagazzinata in tipici serbatoi di forma cilindrica dai quali l’acqua è poi portata ai campi per mezzo di sottili tubazioni metalliche. L’acqua viene sollevata anche dalla pianura costiera alle falde delle colline fino a 400 metri. Inoltre, poiché la floricoltura ha guadagnato i pendii delle colline, si sono dovuti costruire o ricostruire i terrazzi difendendoli con muretti a secco dal pericolo delle frane e con siepi dal vento troppo violento: qualche volta è rimasto in primo piano un filare di viti. Si aggiungano le oscillazioni del mercato, molto instabile perchè si tratta di un prodotto di lusso, soggetto per di più ai mutevoli capricci della moda, cosicché anche questa coltura che all’occhio del visitatore parla di ricchezza e di bellezza, è il frutto di continui sacrifici e tenace lavoro. La coltura si fa sia in piena aria sia in serra fredda e calda.

    Nonostante le difficoltà che si sono dovute superare, l’area floricola si è estesa in provincia di Imperia da San Lorenzo al Mare, cioè potrebbe dirsi da Porto Maurizio, al confine, guadagnando inoltre sempre più nuovo spazio nelle colline e valli dei torrenti Nervia, Vallecrosia, San Romolo, Arma, Taggia dove ha raggiunto i territori di Dolceacqua, Perinaldo, Seborga, Ceriana, Taggia, fino a 400 e 500 m. di altezza. Superata la crisi della guerra e dopoguerra, dal 1953 al 1958 l’area floricola si è estesa da 2000 a oltre 3000 ettari, attrezzandosi in modo sempre più moderno anche per la lotta contro i parassiti antichi e nuovi, come la « bega verde » del garofano, la mosca argentina, ecc. Alle colture, per così dire, tradizionali, dei garofani, delle rose, delle violette (per cui va famosa Taggia), si sono aggiunte quelle delle mimose, dei gladioli, dei ranuncoli, delle ginestre. La floricoltura che è in mano, oltreché di piccoli proprietari, di aziende industrializzate con impiego di salariati, ha richiamato la manodopera non solo dalle vicine zone montuose ma da regioni lontane: è caratteristica qui l’immigrazione di Calabresi, già ricordata, che ha spesso provocato non lievi attriti con la popolazione locale.

    La provincia di Imperia dà in complesso l’8o% della produzione nazionale di fiori, ma già si profilano i pericoli di una superproduzione e della concorrenza degli altri produttori europei e mediterranei antichi e in parte nuovi, come la Spagna e lo Stato di Israele; si cercano perciò nuovi mercati e oggi si guarda con molta speranza a quello degli Stati Uniti.

    Minori zone floricole con l’impiego sempre più esteso di serre, compaiono qua e là, vicino ad Alassio, Loano, Pietra Ligure, nella Riviera genovese occidentale a Pegli e orientale fino a Camogli, nel Tigullio, nella Fontanabuona. I mercati maggiori sono a Ventimiglia, a Sanremo, dove sorgerà il nuovo mercato con attrezzatura adeguata alla cresciuta produzione, a Vallecrosia; mercato di raccolta e distribuzione è anche quello di Genova. I fiori, preparati in appositi imballaggi, sono inoltrati sui treni rapidi, sugli automezzi e in sempre più larga misura sugli aerei che partono dall’aeroporto di Villanova d’Albenga e portano la fama della Riviera nelle città italiane del Nord e del Centro e negli Stati di Oltralpe, lottando con la vivace concorrenza di altri produttori. Tra le piante ornamentali e da profumeria, ricordiamo la coltivazione tradizionale delle palme a Bordighera e quella dell’arancio amaro. Al perfezionamento della floricoltura collaborano l’Osservatorio Fitopatologico e la Stazione Sperimentale di floricoltura con sede in Sanremo.

    L’olivo è una delle piante più familiari al paesaggio della Liguria (Castello di Lèrici).

    Coltura antica in Liguria è quella della vite, ma la produzione di uva e vino è molto diminuita. La pianta compare su un’area, ancora vasta, di circa 38.000 ettari, di cui quasi 8000 in coltura specializzata, e la sua diffusione spaziale potrebbe far credere a un’importanza maggiore di quella che ha. Si trova infatti in tutta la Liguria, sia nella fascia costiera sia nelle vallate, dove raggiunge, nella Riviera di Ponente, anche 900 m. di altezza. Sulla costa compare anche in coltura specializzata, come nelle Cinque Terre; nella Riviera centrale e occidentale si alterna agli olivi e segue la zona degli orti verso l’alto; accompagna anche i terrazzi a giardini della Riviera dei Fiori, non manca in pianura, come nella piana di Albenga, in quella di Chiavari, nel Sarzanese; forma la coltura arborea dominante nelle vallate longitudinali della Riviera di Levante, e si associa all’olivo in quelle della Riviera di Ponente, ritorna nelle parti più basse delle vallate del versante padano. Ma questa antica coltura, che dava vini un tempo assai noti — dal « rossese » di Dolceacqua al vino delle Cinque Terre — deve lottare, oltreché con le consuete difficoltà dell’agricoltura ligure, con la filossera che ne ha fatto strage negli ultimi 60 anni. Molti vigneti sono stati ricostituiti, molti sono attualmente colpiti dall’insetto parassita e la ricostituzione è ostacolata dalle cause generali di povertà della zona agricola, oltreché dalle condizioni generalmente arretrate dell’industria enologica; in complesso la produzione sia dell’uva che del vino è molto diminuita e la Liguria è agli ultimi posti fra le regioni italiane, cosicché al fabbisogno dei centri urbani provvedono in gran parte altre regioni. La visione di vigneti in abbandono invasi dalla macchia è divenuta sempre più frequente. Potrebbe essere incrementata la produzione di uva da tavola che ora si produce prevalentemente nel Savonese, in provincia di La Spezia dalle Cinque Terre a Biassa oltre alla famosa uva bianca di Dolceacqua.

    Importanza molto maggiore, nel quadro nazionale della produzione, hanno e soprattutto avevano le olive e l’olio. L’olivo occupa un’area più vasta di quella della vite (circa 50.000 ettari) e a differenza di questa prevale di gran lunga la coltura specializzata ma, mentre in vaste zone manca del tutto, in altre forma ancora la coltura dominante e la nota più caratteristica del paesaggio agricolo: manca, non solo nella zona montana più alta e nelle vallate del versante padano, ma è molto raro anche nelle vallate longitudinali della Liguria orientale, mentre invece è la coltura dominante nella Riviera occidentale a oriente del distretto dei fiori, risale le vallate che ad essa si affacciano, in modo particolare quella dell’Impero, compare in tutta la Riviera centrale, è di nuovo la nota dominante nei colli che chiudono il Golfo Tigullio, nel Levantese e in gran parte nel Golfo della Spezia. Tuttavia questa coltura, che pone ancora la Liguria al quinto posto fra le regioni italiane produttrici di olive e di olio, e che ha dato il primo impulso, nella provincia di Imperia, a una fiorente industria di raffinazione, è in gravissima crisi, sia per le vicende del mercato oleario sia per le condizioni generali dell’agricoltura ligure. Gli agricoltori che ne traggono un rendimento inadeguato abbandonano sempre più a se stessi gli olivi, senza dedicarvi le cure più indispensabili; perciò il rendimento diminuisce sempre più. Intanto si fa sempre più grave la minaccia della mosca olearia: la cosiddetta infestione dacica (dacus oleae è il nome della mosca) riduce la produzione di olio e ne peggiora la qualità: essa colpisce oltre il 60% dei Comuni olivicoli e la percentuale sale quasi all’80% in provincia di Savona.

    Ma la mosca olearia non è il solo nemico dell’olivicoltura. Particolarmente nella zona di Imperia, là dove l’olivo è stato la fonte principale di ricchezza, il rendimento è ostacolato dal fatto che le piogge sono scarse, il terreno agrario molto sottile si secca rapidamente; perciò la maturazione del frutto si prolunga, con lento processo, dall’autunno alla primavera quando già la pianta dovrebbe mettere i fiori del successivo raccolto: è per questo che praticamente il frutto si raccoglie solo ogni due anni. La produzione olearia ebbe tuttavia grande incremento e gli olivi si diffusero quando, al tempo del dominio napoleonico, la Riviera ebbe quasi in monopolio il mercato francese, ma fu un vantaggio di breve durata, e le condizioni del mercato oleario si aggravarono sempre di più dopo che, con l’unificazione italiana, si diffusero sui mercati del Nord gli oli del Mezzogiorno dove le condizioni della coltura sono molto più favorevoli. L’olivicoltura ligure fu sempre più trascurata e diminuì progressivamente la resa in olive e olio. I vantaggi dell’elevato prezzo dell’olio durante le due guerre ebbero solo effetto passeggero; se mai salvarono solo da una radicale distruzione degli alberi, nonostante la forte richiesta di legna. Oggi si è fatta sempre più viva la concorrenza degli oli di semi, mentre l’olivicoltura ha risentito ben duramente del crudo inverno 1956. La resa, e quindi il reddito, di questa coltura, sono diventati bassissimi: si pensi che, in media, un albero di olivo non dà oggi più di mezzo chilogrammo di olio! La produzione complessiva di olio, che nel secolo scorso aveva superato i 300.000 ettolitri, è oggi di appena 130.000. Perciò, vicino ai centri abitati gli oliveti si vendono come area fabbricabile, in molte altre zone sono pressoché abbandonati a se stessi e il loro stato peggiora sempre di più. L’unico mezzo per risollevare alquanto l’olivicoltura ligure, a parte provvidenze di carattere più strettamente economico, sarebbe di diradare gli alberi e curare quelli residui in modo razionale per accrescerne il rendimento. Come già si è detto, sarebbe un grave danno al paesaggio, oltreché all’economia, un ulteriore deperimento con l’abbandono di questa antica coltura.

    Se l’olivicoltura è in così grave crisi, ha invece avuto grande incremento negli ultimi decenni la coltura degli alberi da frutta, nella quale si sono specializzate le zone costiere pianeggianti e le basse vallate, in particolare la piana di Albenga e la Riviera savonese, la piana di Sarzana, il Chiavarese e il Sestrese: la coltura che ha avuto maggiore fortuna è stata quella del pesco, che dà un prodotto molto apprezzato sui mercati italiani e d’Oltralpe.

    Il centro di maggiore produzione delle pesche è nella piana di Albenga dove l’importanza del mercato delle pesche è di poco inferiore a quella degli ortaggi. La coltura vi ha preso piede dalla seconda metà del secolo scorso e si è diffusa dalla piana in tutto l’arco costiero fino a Diano per un’estensione di circa 3000 ettari. Nonostante qualche oscillazione in questi ultimi anni, vi si ricavano circa 400.000 quintali di pesche (nell’intera provincia di Savona il 70% di tutta la Liguria); il frutto si raccoglie da maggio a settembre e tra le varietà più pregiate sui mercati esteri sono la Waddel, l’Aurora, a pasta bianca, e le varietà a pasta gialla Hale e Elberta.

    La coltura dei fiori a Ospedaletti.

    Le coltivazioni intensive del pesco hanno raggiunto anche la Riviera di Levante, nel Chiavarese e nel Sestrese, e sono in sviluppo nel Sarzanese dove la produzione ha già superato i 50.000 quintali. Le pesche prodotte in Liguria alimentano una esportazione che ha quattro direzioni principali: i mercati liguri di grande consumo con in testa Genova; i cosiddetti «mercati turistici» della Riviera; i mercati urbani di Milano, Torino e in genere della Pianura Padana; i mercati esteri, che vanno da quello più importante e solido della Germania, a quelli della Svizzera, Francia, Gran Bretagna, Austria, e anche Belgio, Olanda, Paesi nordici. Sono alcune centinaia i vagoni carichi di pesche che nei mesi estivi partono dalla Liguria53 diretti all’estero, dove però la concorrenza diventa sempre più accesa.

    Per le pesche la Liguria è al quinto posto fra le regioni italiane. E al secondo per le albicocche. Esse si coltivano soprattutto nella zona del Savonese, da Spotorno ad Albisola e nelle vicine vallate e colline di Vezzi e Quiliano. Il mercato più importante è Vado : centinaia di vagoni nella stagione di produzione lasciano la Liguria diretti all’estero. Minore importanza hanno ciliege e susine. In diminuzione, dopo un periodo di grande incremento, sono i caki o loti, tuttavia esportati all’estero e coltivati particolarmente nelle aree di frutticoltura intensiva già ricordate per il pesco. Diffuso in tutta la zona litoranea e nelle più basse vallate il fico, consumato generalmente fresco sul posto o nei più vicini mercati urbani; da ricordare anche il nespolo del Giappone.

    Notevoli oscillazioni hanno caratterizzato, negli ultimi decenni, la produzione delle mele e delle pere: in confronto all’anteguerra sono diminuite le prime, aumentate le seconde. Le pomacee si spingono anche nelle vallate montane sparse fra i seminativi: una cura più razionale potrebbe aumentarne molto il rendimento, contribuendo al miglioramento di queste zone agricole. Va ancora ricordata la produzione delle noci, nelle vallate montane; le nocciole, che hanno sostituito nella Fontanabuona il vigneto e l’oliveto, sono in aumento; pochissimo diffuso il mandorlo.

    Gli agrumi ebbero importanza nel secolo scorso, ma poi lasciarono sempre più il posto alle pesche, ai fiori, agli ortaggi, colpiti dalla concorrenza degli agrumi del Mezzogiorno. Vi è stata qualche ripresa dopo la guerra, ma in complesso la produzione è assai modesta e, se mai, essi hanno una loro funzione per la nota che ancora dànno ai giardini, soprattutto ai tipici, vecchi giardini della costa ligure circondati da muri. Vengono primi gli aranci (nell’Imperiese e nel Genovesato), poi i limoni, per i quali prevale la provincia di Imperia, e quindi i mandarini nella provincia di Imperia e anche in quella di Genova; vi sono poi coltivazioni particolari, come quella del chinotto in provincia di Imperia e nel Savonese, quella del cedro nella provincia di Imperia; compare come pianta esotica anche il pompelmo.

    L’allevamento del bestiame

    L’estensione relativa ai prati e pascoli, se raffrontata, non alla sola superficie agraria (considerando insieme prati, pascoli e colture foraggere), ma all’intera superficie agraria forestale è inferiore alla media italiana; si aggiunge che la resa in fieno è molto scarsa, soprattutto per la siccità estiva e l’affiorare della roccia viva in montagna. Rarissimi nella zona costiera, generalmente poco o pochissimo estesi nelle basse vallate, i prati hanno estensione molto notevole nella parte più alta delle vallate, dove formano una delle maggiori risorse; mentre nelle vallate del versante ligure prevalgono i prati-pascoli, in quelle del versante padano prevalgono i prati. Quanto ai pascoli, si trovano nelle zone più alte delle montagne al disopra dei boschi, ma anche alternati a questi, là dove il bosco è stato tagliato. Prati e pascoli necessiterebbero di ben maggiori cure perchè ne fosse aumentato il rendimento, mentre, come si è detto, sarebbe desiderabile anche una maggiore estensione dei prati artificiali e delle colture foraggere: la Liguria, per produzione complessiva di foraggi, viene ancora agli ultimi posti fra le regioni italiane.

    Scarsissimo è in Liguria il patrimonio zootecnico ed essa è tributaria delle altre regioni e dell’estero per tutti i prodotti dell’allevamento. Mentre in Italia vi è un bovino ogni 6 ab., in Liguria ve n’è uno ogni 19 ab.; ancora più basso è il rapporto per gli ovini e quasi insignificante è il numero dei suini: uno ogni 160 abitanti! Tutte le specie sono in diminuzione nel complesso della regione, negli ultimi cinquantanni; così i bovini (da oltre 100.000 a poco più di 80) e ancora più i suini; gli ovini e caprini vanno scomparendo del tutto dalle zone di media montagna, e della montagna litoranea; ovvia la diminuzione degli equini.

    Vedi Anche:  La Liguria nella storia

    Una zona pascoliva nell’alta val di Vara (sopra i 900 m.).

    Si vuole trasformare l’economia della val di Vara migliorando i pascoli e ricostituendo il patrimonio bovino.

    Allo scarsissimo numero dei capi di bestiame va aggiunto che l’allevamento è fatto in gran parte con mezzi tradizionali e inadeguati, in stalle antigieniche. Ma già si intravedono i segni di un miglioramento; aziende moderne vanno sorgendo qua e là, per esempio, nelle zone di agricoltura intensiva del Sarzanese e bassa vai di Vara, nel Genovesato; sorgono i centri per la fecondazione artificiale, e tutta una serie di provvedimenti sta iniziandosi nelle vallate montane.

    Agricoltura e allevamento in Liguria sono oggi in proporzione inversa: nella zona costiera dove prosperano le colture più ricche degli ortofrutticoli e dei fiori, l’allevamento è quasi assente e scarsa importanza ha generalmente anche nella zona dell’oliveto e del vigneto, almeno dove questi sono in coltura specializzata e più fiorente; importanza maggiore ha invece, tanto per i bovini quanto per gli ovini, nella parte più montana delle vallate dove sono più estesi i prati-pascoli.

    Un aumento del bestiame bovino è quanto mai desiderabile: gioverà sia alle zone più basse come a quelle di collina e di montagna, nè si può dire che non sia realizzabile. Nelle zone di collina e bassa valle l’incremento dell’allevamento dovrà andare di pari passo con l’aumento della produzione foraggera, che si cerca di ottenere con nuove tecniche, come il sostituirsi degli erbai polifiti ai vecchi prati a trifoglio, ma a sua volta è legato all’estendersi delle aree irrigate. Un maggior peso di stalla non solo integrerà i profitti dell’agricoltura in collina, ma potrà fornire letame alle zone della orticoltura e frutticoltura intensiva, costrette a importarlo da altre regioni. Nella media montagna poi, l’allevamento potrà in parte sostituirsi ad un’agricoltura troppo povera e diventare l’attività più importante ed economicamente produttiva a beneficio di questa zona e del mercato provinciale e regionale. Anche qui è necessario dare maggiore impulso alle colture foraggere oltre a curare razionalmente i prati naturali; si ritorna sempre al problema di una migliore sistemazione dell’approvvigionamento idrico oltre che a quello di razionali concimazioni. L’allevamento deve e può infine essere incrementato nella zona montana dove dipende, più che dalle colture foraggere, dai prati naturali e prati-pascoli; qui è più che mai necessaria, come del resto nella media montagna, una serie di provvidenze: da quelle idriche alla costruzione di strade, di stalle, al miglioramento della razza, all’integrazione del reddito agricolo con altre attività, come quella turistica, per rendere conveniente ad una popolazione, sia pur meno numerosa che in passato, di continuarvi a vivere in modo degno dei tempi moderni. Bisognerà rompere il « giro vizioso » che deprime queste zone: lo scarsissimo rendimento dell’agricoltura e dell’allevamento, così come sono oggi, scoraggia i contadini che abbandonano per sempre il paese nativo; questo abbandono fa diminuire sempre più il reddito delle colture e dell’allevamento, dove sono fatti con mezzi arretrati e senza le cure più indispensabili.

    Pascolo alpestre sulle pendici del Saccarello.

    Sono molto rari nelle campagne liguri gli esempi di veri e propri spostamenti stagionali del bestiame sia bovino che ovino. Qualche eccezione nelle vallate occidentali (alta valle della Arroscia, Argentina, ecc.), donde il bestiame viene portato al di là dello spartiacque nella valle del Tanarello, e in qualche alta vallata dove un solo pastore riunisce il bestiame (ovini) di parecchi proprietari per portarlo al pascolo nella stagione estiva. Di solito gli spostamenti sono giornalieri, specialmente per i bovini, e anche se il bestiame viene nell’estate lasciato pernottare all’aperto, ciò avviene sempre in prati-pascoli (dove è stato precedentemente operato il falcio del fieno) o in aree a pascolo non molto lontane dalle sedi fisse.

    Scarsissimo l’impiego dei bovini come animali da lavoro; per la carne e il latte vi è un modesto commercio fra le vallate e i vicini centri urbani, ma questi ricorrono largamente all’importazione da altre regioni e dall’estero. Tuttavia in qualche plaga si è cercato di dare impulso alla produzione di latte, come nel retroterra di Genova, dove sono state adottate vere misure protezionistiche per sostenere la produzione provinciale; sono sorte anche latterie cooperative, come nelle valli della Vara e della Magra, in provincia di La Spezia; in progetto anche ed in esecuzione tentativi per la produzione di bovini da carne. Gli ovini dànno soprattutto formaggio, anche questo inviato, in piccole quantità, sui mercati urbani della costa. La diminuzione degli equini è un fatto generale, tuttavia asini e muli sono ancora utilizzati per il trasporto nelle zone agricole. Un aumento nel numero dei suini potrebbe andare di pari passo col miglioramento dell’agricoltura e con un razionale sfruttamento delle castagne.

    Carattere familiare ha generalmente l’allevamento dei volatili da cortile, quantunque si siano iniziati in più luoghi allevamenti razionali col sistema moderno. Ma per ora sono ancora in gran parte tentativi sporadici che dovrebbero essere molto incrementati, perchè la produzione regionale di pollame e uova provvede solo in modesta parte al fabbisogno dei mercati di consumo della regione.

    Diffuso, ma a carattere familiare e insidiato dalle malattie, l’allevamento dei conigli.

    Si può dire solo più un ricordo del passato il baco da seta: era allevato in provincia di Savona, specialmente nelle vallate del versante piemontese, e anche in qualche altra zona ligure. Ha invece avuto incremento e potrebbe averne ancora molto di più, l’apicoltura.

    Pecore al pascolo in località Casoni di Rocchetta Vara.

    Una vecchia capanna usata dai pastori di ovini in estate: alta val Tanarello (Alpi Liguri).

    La pesca

    La pesca ha in Liguria importanza limitata anche se esercitata fin da epoca remota nei paesi della costa, per alcuni dei quali è stata anzi l’attività più caratteristica. Le reti da pesca stese ad asciugare distese a terra o sollevate dall’alto al basso con delle particolari intelaiature come a Camogli e San Fruttuoso; i pescatori che tirano la rete; le « paranze » che prendono il largo per la pesca; le « lampare » che popolano il mare di luci nelle ore della notte, sono stati e sono ancora in parte spettacoli che ricorrono di frequente nella Riviera e le donano una nota pittoresca cara ai turisti; oggi si aggiungono i numerosissimi dilettanti della pesca subacquea a cui ben si adattano le limpide acque fra gli scogli di tanta parte della costa. Ma la quantità complessiva di pesce catturato presso le coste liguri è modesta, e per l’approvvigionamento dei centri urbani maggiori la Liguria si rifornisce di pesce pescato nella « grande pesca » del Mediterraneo e dell’Atlantico.

    Reti al sole a San Fruttuoso.

    La modesta rilevanza della pesca è una conseguenza delle condizioni naturali : la costa ligure è, in complesso, poco pescosa poiché troppo ristretta vi è la piattaforma litorale e troppo roccioso il fondo; la fauna ittica delle acque del Mar Ligure è molto variata ma, se si fa eccezione per le sardine e le acciughe, molto numerose lungo le coste nel periodo estivo, scarsa è la quantità degli individui di ciascuna specie. Ai pesci si aggiungono però molluschi e crostacei e i primi sono oggetto di allevamento nel Golfo della Spezia.

    L’attrezzatura peschereccia e i metodi di pesca hanno subito la metamorfosi generale di questi ultimi anni: vanno scomparendo le caratteristiche «paranze» a vela e la pesca si fa ormai dovunque con mezzi motorizzati, anche se piccoli. Il numero dei mezzi da pesca è diminuito per l’aumento del tonnellaggio, tuttavia prevalgono ancora in gran parte piccole imbarcazioni perchè la pesca si fa nelle acque vicine al litorale. I due tipi di pesca più comuni sono quello delle « lampare », fatto nella notte da natanti che escono a coppie, e quello con le reti a strascico che vengono « tirate » dalla riva.

    Un’altra trasformazione di questi ultimi anni: la pesca è decaduta o quasi cessata del tutto (rimane talvolta come attività di diporto) in molti dei minori centri costieri, mentre si è concentrata in altri sviluppandosi con mezzi più moderni. Ciò riflette una tendenza generale, ma l’abbandono di questa antica attività è però alcune volte motivato anche dal fatto che la mano d’opera maschile è stata attratta dalle industrie e la pesca trascurata, così come l’agricoltura. Particolare degno di nota: i pescatori molto spesso non sono liguri ma immigrati dal Mezzogiorno.

    La quantità di pesce pescato oscilla dai 40.000 ai 50.000 quintali e non rappresenta nemmeno il 3% del pesce pescato nei litorali italiani; sono soprattutto alici e sarde, le quali danno luogo ad una diffusa industria di conservazione che però ha carattere locale e domestico o lavora per il rifornimento delle navi.

    Reti stese a terra ad asciugare a Santa Margherita.

    « Nasse » usate per la pesca nel tradizionale centro dei pescatori presso Camogli.

    I molluschi invece raggiungono una cifra ragguardevole (circa 50.000 q.) che rappresenta il 14% del totale italiano e provengono nella quasi totalità dagli allevamenti di mitili del Golfo della Spezia. Mentre l’allevamento delle ostriche, un tempo di notevole rilievo, è quasi scomparso per la grande deperibilità di questo mollusco, ha avuto grande incremento quello dei mitili. E esercitato sia sul lato ovest come sul lato est del Golfo ed alimenta una produzione ricercata sui mercati urbani specialmente di Roma e del Mezzogiorno. E in mano a privati imprenditori, alcuni dei quali sono organizzati industrialmente.

    A parte questa particolare attività caratteristica del Golfo della Spezia, i più attivi scali per i natanti da pesca sono: in provincia di Genova, oltre il capoluogo con l’antico borgo di Boccadasse, Camogli, San Fruttuoso, Santa Margherita, Rapallo, Chiavari, Moneglia, Sestri Levante, scelta come sede del Convegno regionale per i problemi della pesca in Liguria tenuto nel 1951; in provincia della Spezia, Lèvanto, Monterosso, Portovènere e La Spezia stessa; in provincia di Savona, Noli e Laigueglia; la provincia di Imperia viene ultima per l’attività peschereccia e il traffico più attivo è quello del porto del capoluogo.

    Il tonnellaggio dei motopescherecci e motobarche è di oltre 6000 tonn. (5,6% del tonnellaggio totale italiano), a cui sono da aggiungere barche e velieri per oltre 2500 tonnellate. Precede la provincia di Genova con più di metà del totale; seguono a distanza La Spezia, Savona e Imperia.

    Per quanto i corsi d’acqua della Liguria siano brevi e di modesta portata, vi si esercita la pesca di acqua dolce come attesta il rapido incremento del numero di licenze concesse in questi ultimi anni. Sono stati fatti anche dei tentativi per ripopolare le acque dei maggiori corsi d’acqua con avanotti di trote (per esempio nel fiume Vara).

    Uno dei caratteristici «palàmiti». Servono per la pesca profonda: gli ami vengono posti al termine di lunghe corde, fissate ad una specie di cesta che sta a galla.

    La mitilicoltura nel Golfo della Spezia dà luogo a una vivace esportazione.

    Il bosco e i suoi prodotti

    La vastissima superficie occupata dal bosco, oltre metà del territorio, con un massimo di oltre il 65% in provincia di Savona e un minimo del 40 o poco più in quella di Imperia, potrebbe far pensare ad una cospicua fonte di ricchezza, ma la realtà è ben diversa, e la sistemazione delle zone forestali è quanto mai necessaria per un miglioramento dell’economia della zona montana e submontana. I boschi sono infatti molto spesso radi e ridotti più che altro a macchie, non solo nella regione litoranea, ma anche sulle pendici montuose. Questo fatto dipende in parte dalla natura del suolo e dal clima, come già si è detto, ma è in parte il risultato dei ripetuti disboscamenti: la macchia è spesso, nell’interno, un vero bosco degradato.

    I boschi delle montagne liguri dovevano infatti essere molto più rigogliosi in età romana, quando i Liguri vi trovavano sicuro rifugio, e ancora nell’alto Medio Evo. Le falcidie cominciarono nel basso Medio Evo quando la Repubblica di Genova e i minori centri marittimi cominciarono a impiegare largamente il legname nella costruzione delle flotte. Da allora può dirsi che l’opera distruttiva non sia mai cessata, anche se ebbe alterne vicende; s’intensificò nel secolo XIX nonostante il levarsi di ripetute voci di allarme, come quella dell’abate Picconi che ammoniva di « tessere una frontiera di alberi robusti sulla cresta delle montagne di secondo ordine, di infoltire di boscaglie il dorso e le valli formate dai loro pendii ripidi e pietrosi, signoreggiati dal vento; di imporre ai torrenti e ai fossati, che fiancheggiano i poderi, il rispetto per questi, mediante argini vivi con file replicate di piante acquatiche». I boschi, nonostante interventi dei governi e tentativi di rimboschimento, continuarono ad essere abbandonati o sfruttati in modo irrazionale per ignoranza o per avidità di un guadagno immediato. Una volta deperito o distrutto, il bosco non si ricostituisce perchè, data la ripidità dei pendii, la sottigliezza dello strato di terreno superficiale, la presenza di rocce franose, l’irregolarità delle piogge, la roccia nuda o appena interrotta da ciuffi di arbusti ne prende il luogo. Solo raramente il bosco ha lasciato il posto alle colture: è questo il caso degli oliveti della Riviera di Ponente. Le condizioni dei boschi, già così precarie all’inizio del secolo, sono ancora molto peggiorate per i disboscamenti operati in ogni dove, durante i due periodi bellici. Si aggiunga l’insufficienza di strade, che rende molte volte antieconomico lo sfruttamento del bosco, e se ne concluderà che anche questa risorsa naturale ha bisogno dell’opera dell’uomo, opera vasta e organizzata, per dare maggiori frutti.

    Castagneti nella Fontanabuona (in basso l’abitato di Cicagna).

    I boschi occupano in Liguria oltre 270.000 ettari, per gran parte in montagna; ma fanno la loro comparsa un po’ dovunque come già si è detto nel capitolo sulla flora. La fittezza del bosco è legata a numerosi fattori, come la natura delle rocce, l’umidità, l’intensità dei disboscamenti. Le macchie e i boschi più folti sono nella Riviera di Levante con le sue vallate, nel retroterra savonese e nelle vallate della provincia di Imperia all’estremo ovest, dove però furono operati nel secolo scorso disboscamenti gravissimi; le montagne più spoglie sono quelle costiere di Ponente e la corona di colline che circonda Genova, dove il disboscamento fu operato anche per ragioni militari.

    Una bella pineta presso Piani d’Invrea.

    Cedui e fustaie si dividono l’area boseata in parti quasi eguali, con alquanto vantaggio dei primi che sono per circa il 40% misti, il resto puri, formati in prevalenza da castagni e per il resto da faggi, quercie ed altre specie. Le fustaie sono formate per circa metà da resinose, e tra queste domina in modo assoluto il pino; per il resto da latifoglie, in grandissima maggioranza castagni.

    Il castagno è dunque la pianta più diffusa nei boschi della Liguria e il suo frutto forma, o meglio formava, una delle basi alimentari per le popolazioni delle vallate nella media e alta montagna; ridotto in farina integrava la deficienza di frumento. L’uso delle castagne e della farina si è ridotto sempre più dopo la guerra, ma oltreché per l’alimentazione umana potrebbe servire per il bestiame, specialmente suino, cosicché è molto temibile la minaccia che colpisce i castagneti col propagarsi del cancro della corteccia, un parassita vegetale diffuso soprattutto in Liguria dove invece sono minimi i danni dell’altro parassita, il mal dell’inchiostro. La più colpita è la provincia di Genova, ma l’infestione si sta estendendo anche nel Savonese. Per la produzione delle castagne la Liguria è al quinto-sesto posto fra le regioni italiane, ma in certe plaghe il rendimento è così scarso che non vengono neppure più raccolte. In alcune zone sembra conveniente trasformare il castagneto in noccioleto e in prati.

    Al castagno segue per estensione il pino, molto frequente sulla costa e nell’interno. Gravi falcidie hanno sofferto le faggete nelle zone montane, un tempo famose, come quelle delle alte valli dell’estrema Riviera di Ponente e del retroterra chiavarese. Si è già accennato nel capitolo sulla flora a queste e alle altre specie arboree più frequenti.

    I boschi liguri forniscono attualmente, oltre al frutto del castagno, legname da lavoro (tondame da sega, paleria, legno per estratti tannici) e da ardere, esportato anche fuori della regione. La Liguria è all’undicesimo posto fra le regioni italiane per il totale legno prodotto, che si aggira sui 375.000 me., di cui circa 125.000 sono di legname da lavoro: di questo il 78% (circa 98.000 me.) è costituito da latifoglie. In diminuzione, come dovunque per ragioni ovvie, il carbone vegetale; vanno ricordate tra i sottoprodotti, resina e trementina; nel secolo scorso la corteccia del pino si usava per tingere reti da pesca e da caccia. Ma tutti i prodotti del bosco potranno essere incrementati e migliorati con l’intensificarsi delle opere già iniziate per renderne razionale lo sfruttamento. Se ne avvantaggerà anche l’industria turistica perchè il bosco costituisce un’attrattiva nei luoghi di villeggiatura collinosa e montana.

    Non solo il bosco potrà essere migliorato e più razionalmente sfruttato, ma anche la macchia è suscettibile di sfruttamento là dove, come in alcune zone del versante marittimo, è ricca di piante odorose; queste, oltre agli usi domestici per le quali sono vendute nei vicini mercati urbani, possono con alcune specie alimentare l’industria dei profumi, come già si fa in provincia di Imperia con la « lavanda Col di Nava ».

    Tra i prodotti del sottobosco vanno ricordati i funghi, raccolti in abbondanza ed acquistati freschi e secchi dai mercati urbani, specialmente da Genova, ed esportati anche fuori della regione ed all’estero, fino nelle Americhe. Si raccolgono in montagna anche i lamponi, inviati pure a Genova e negli altri mercati urbani, e non vanno dimenticati i mirtilli e le fragole.